Panebianco e le basi teoriche di uno ‘stato disumanitario’

immigrato

A. Panebianco e la soluzione da lui pensata per il problema delle migrazioni: occorre decidersi tra due modalità di comportamento, l’accoglienza e la convenienza

l’accoglienza è buonista, e siamo a posto!  la convenienza o l’interesse sembra a lui il criterio migliore (ancorché ci faccia un po’ vergognare, ma non più di tanto!) per decidere quali immigrati fare entrare e quali no: solo quelli che fanno al nostro interesse, e al diavolo quelli che vengono perché hanno l’acqua alla gola

gli risponde per le rime R. Robecchi su ‘il Fatto quotidiano’ odierno:

Troppe ipocrisie sugli immigrati

di Angelo Panebianco

in “Corriere della Sera” del 13 gennaio 2014

La richiesta di Matteo Renzi di inserire la riforma della Bossi-Fini fra i temi del contratto di

governo, al di là delle motivazioni del neosegretario del Pd, potrebbe essere una occasione da

cogliere per dare basi più razionali alla nostra politica dell’immigrazione. Dobbiamo solo limitarci a

tamponare e contenere i flussi migratori o abbiamo bisogno di interventi più attivi e, soprattutto, più

selettivi? Una domanda che diventa possibile se ci si lascia alle spalle le ambiguità e le ipocrisie che

hanno fin qui dominato il campo. Le ambiguità dipendono dal fatto che sembriamo incapaci, a

causa di certe sovrastrutture ideologiche, di decidere una volta per tutte a quale criterio appendere la

politica dell’immigrazione: la convenienza oppure l’accoglienza (il dovere di accogliere i meno

fortunati di noi)? Troppo spesso i due criteri vengono mescolati, l’immigrazione viene giustificata

alla luce di entrambi. Se non che, si tratta di criteri fra loro in contraddizione. Ne deriva

l’impossibilità di formulare proposte coerenti.

 

Le ragioni della convenienza sono note: abbiamo bisogno di contrastare l’invecchiamento della

popolazione, abbiamo bisogno – almeno se la ripresa economica, come si spera, prima o poi arriverà

– di forza lavoro aggiuntiva e di nuovi consumatori. Ma a queste ragioni, ispirate alla convenienza,

ne vengono sovente aggiunte altre di diversa natura, di ordine umanitario (le ragioni

dell’accoglienza). I piani si confondono rendendo impossibile fare scelte razionali. L’appello

all’accoglienza ha una chiara origine ideologica, nasce dalla confusione, propria di certi cattolici

(ma non tutti), e anche di un bel po’ di laici, fra la missione della Chiesa e i compiti degli Stati. È la

confusione fra il messaggio evangelico e la politica, fra l’universalismo della Chiesa, che parla a

tutti gli uomini, e l’inevitabile particolarismo dello Stato che risponde a un insieme definito di contribuenti.

L’accoglienza non può essere il criterio ispiratore di una seria politica statale. Perché si scontra con l’ineludibile problema della «scarsità »: quanti se ne possono accogliere? Qual è il tetto massimo?

Quante risorse possiamo mettere a disposizione dell’accoglienza se la vogliamo decente? A chi e a quali altri compiti toglieremo queste risorse?

L’unico criterio su cui è possibile fondare una politica razionale dell’immigrazione, per quanto arido o «meschino» possa apparire a coloro che non apprezzano l’etica della responsabilità, è dunque quello della convenienza , della nostra convenienza . Una volta adottato con franchezza ci consente di porci il problema – che altri Stati si sono già posti – di come selezionare gli immigrati. È evidente che se usiamo il criterio dell’accoglienza non possiamo selezionare. Invece, possiamo, e dobbiamo, farlo alla luce delle convenienze. Di quali immigrati abbiamo bisogno? Con quali

caratteristiche, con quali eventuali competenze? Oggi il problema forse non si pone data l’elevata

disoccupazione intellettuale giovanile (che resta grave, anche facendo la tara alle statistiche ufficiali

che, fraudolentemente, imbarcano fra i disoccupati anche gli studenti).

Però, domani potremmo avere bisogno di importare mano d’opera qualificata, per esempio in

settori tecnici lasciati sguarniti dai nostri giovani. In quel caso, una politica dell’immigrazione

lungimirante cercherebbe di attirare quel tipo di mano d’opera a scapito di altri tipi. Considerando

inoltre che un Paese economicamente avanzato non può permettersi di importare troppa mano

d’opera non qualificata. Oltre una certa soglia, non può assorbirla nei mercati legali, finendo così

per favorire quelli illegali, gestiti dalla criminalità. Un effetto collaterale di una politica ispirata alla

convenienza è che faremmo star bene anche gli immigrati che accogliamo.

E poi ci sono altre considerazioni che dovrebbero entrare nelle valutazioni di chi decide la politica

dell’immigrazione. Per esempio, certi gruppi, provenienti da certi Paesi, dovrebbero essere

privilegiati rispetto ad altri gruppi, provenienti da altri Paesi, se si constata che gli immigrati del

primo tipo possono essere integrati più facilmente di quelli del secondo tipo. È possibile che

convenga favorire l’immigrazione dal mondo cristiano-ortodosso a scapito, al di là di certe soglie, e

tenuto conto del divario nei tassi di natalità, di quella proveniente dal mondo islamico. Quanto

meno, questo dovrebbe essere un legittimo tema di discussione.

Una politica realistica , fondata sulla convenienza, si dovrebbe insomma porre problemi di scelta,

di selezione (da monitorare e rivedere nel tempo, alla luce dell’esperienza). Non si tratta di

inventare nulla. Altri Paesi hanno già imboccato questa strada.

 

La selezione di Panebianco ”Sì agli immigrati, solo se utili”

di Alessandro Robecchi

in “il Fatto Quotidiano” del 15 gennaio 2014

Meno male, gente, tirate un sospiro di sollievo! Ora che Angelo Panebianco dalla tolda del Corriere

della Sera, da cui scruta l’orizzonte in servizio di avvistamento, ci illumina su come gestire il

complesso tema dell’immigrazione, i nostri problemi sono finiti. Finalmente uno sguardo lucido.

Finalmente un ribaltamento delle prospettive . Basta con le pippe umanitarie e l’accoglienza di chi

fugge a guerre e carestie, dittature, fame, tortura. Magari attraversa il deserto, magari se ne sta in

qualche galera libica per mesi e anni, magari carica donne e bambini su barconi malmessi tirando a

sorte con la propria vita. Basta con queste “troppe ipocrisie”, ci dice Pane-bianco.

Il fatto è che siccome abbiamo delle “sovrastrutture ideologiche” (malattia grave, si direbbe), non

sappiamo decidere tra due linee di comportamento, che sarebbero l’accoglienza e la convenienza.

Cioè l’accoglienza sarebbe una specie di malinteso cattolico e/o buonista che confonde messaggio

evangelico e politica. Insomma, ci ammonisce Panebianco con un immaginifico giro di parole, bello

il messaggio evangelico di aiutare gli ultimi, ma i contribuenti? Le tasse? Il nostro amato

tornaconto? Noi cosa ci guadagniamo?

E invece, perbacco, la convenienza sì che è un criterio valido! Perché persino Pane-bianco si rende

conto di alcune cosucce: che siamo vecchi, che l’immigrazione ci serve, che quando finirà la crisi

avremo bisogno di nuova forza lavoro (astenersi vecchi e bambini, quindi) e persino di nuovi

consumatori per il nostro mercato interno. Non ha dubbi, il guardiano delle frontiere Pane-bianco: il

criterio da seguire è quello della convenienza (e dice: “per quanto arido e meschino possa

sembrare”, excusatio non petita e coda di paglia infiammabile). E dunque, via con la selezione. Sì,

proprio: così la selezione dell’immigrato. Sa fare l’idraulico? Prego si accomodi, ci può servire. Lei

invece è stata torturata e violentata dagli sgherri di una dittatura africana? Spiacenti, non c’è posto.

Non fa una grinza, diciamolo. Panebianco pone finalmente, senza se e senza ma, e anche senza

vergogna, le basi teoriche dello Stato “disumanitario”. Davanti all’universo di gente, uomini, donne,

persone che fuggono dai posti in cui non riescono a vivere, vuole fare una selezione. La selezione

della specie, appunto. Sui criteri di selezione, si può aprire il dibattito, certo, e Panebianco dice la

sua. Per esempio lui vorrebbe che immigrasse qui da noi “mano d’opera specializzata”. Ingegneri

spaziali, biologi molecolari, esperti di nanotecnologie. Pure muratori e camerieri non gli vanno più

bene, perché, spiega, “un Paese economicamente avanzato non può permettersi di importare troppa

mano d’opera”.

Insomma, astenersi perditempo. Ma poi, per non irrigidire troppo la selezione, si può procedere a

grandi linee. Per esempio, dice il Panebianco al culmine della sua requisitoria, sarebbe meglio

importare immigrati di cultura cristiana-ortodossa, piuttosto che islamici che poi vogliono un posto

per pregare e incasinano il piano regolatore con le moschee. Ecco sistemato l’antico dubbio su cosa

scegliere tra accoglienza e convenienza: la prima è un lusso per mollaccioni cattolici e laici

stupidamente umanitari, la seconda è un affarone. Sulla convenienza di avere pensatori come

Panebianco, invece, il dibattito è aperto: lo stato disumanitario che gli piace tanto sarà abbastanza

cinico da apprezzarlo.

 

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resoconto caricaturale del dibattito pubblico

Nomadi, tutti d’accordo: “Non c’è aggressione mediatica”. La discussione s’infiamma

Fazzi: “Avrei potuto far di più”

Turri: “Aiutandoli si risparmia”

Colmegna: “Testa sotto la sabbia”

così G. Testa resoconta il ‘dibattito pubblico’ sul progetto di riorganizzare il ‘campo di transito’ dei sinti e rom a Lucca:

    • le mie considerazioni sul rapporto rispettoso e non ‘manageriale’ con loro: ridotte a questione di sentimenti
    • la relazione di S. Bontempelli: neanche menzionata
    • le riflessioni di un non relatore (l’ex sindaco Fazzi) valorizzate in primo piano e più di quelle dei relatori
    • la denuncia da più parti venuta (dal Toschi e da me) di una vera e propria aggressione mediatica negata spudoratamente

… e uno si domanda: ha ancora un po’ di consistenza e valore l’onestà professionale?

LUCCA, 14 gennaio

Recriminazioni, proposte, analisi. Il dibattito sulla questione dei campi nomadi di Lucca si accende. E contemporaneamente si cercano di abbattere paure e preconcetti. Mentre la Caritas locale avanza le sue proposte, torna a parlare l’ex sindaco Pietro Fazzi. Don Luciano, il cappellano che segue rom e sinti, punta alle relazioni e ai sentimenti. Mentre don Virginio Colmegna critica l”atteggiamento diffuso di chi “nasconde la testa sotto la sabbia”. Alla fin fine nessuno se la prende davvero con i giornalisti. Anzi, in molti leggono nell’attenzione mediatica un’opportunità. Un’occasione per discutere, analizzare, dibattere. E magari – perché no? – trovare anche una risposta adeguata.
Di questo si è parlato nel corso del doppio appuntamento in programma oggi a Villa Bottini. Il tema principale non era quello dei nomadi, bensì il concetto di inclusione. Ma il riferimento è inevitabile. E così sul tema è intervenuto anche l’ex sindaco Pietro Fazzi. “Come ex primo cittadino riconosco di non essere stato perfettamente adeguato al mio ruolo”, confessa. “Per il campo nomadi non ho potuto fare tutto quello che avrei voluto”. Il suo mandato si sarebbe concluso prima di qualsiasi passo concreto.
Ma se fosse potuto intervenire, cosa avrebbe fatto Fazzi? Ce lo spiega lui stesso. “Era in corso la ricerca di accordi”, dice. “Volevamo dare a ciascuno una sistemazione. Mi riferisco a chi abitava i campi di via della Scogliera e via delle Tagliate”. L’obiettivo di Fazzi era quindi quello di attuare una delocalizzazione concordata. “Del resto il regolamento urbanistico lo consentiva”, aggiunge. “Eravamo alla ricerca di una collocazione decorosa. Volevamo prima di tutto attenuare il più possibile i problemi igienici. Del resto , se si vuole, questo è un problema che si risolve in poche settimane. Teoricamente è sufficiente un provvedimento ordinario”. Le linee di Fazzi? Si basavano sue due linee di intervento: nessuna demolizione e nessuna deportazione. “Arrivare nel campo con le ruspe non mi sta bene. In nessun caso”, precisa l’ex sindaco. “Una cosa del genera non l’avrei mai fatta. Avrei effettuato spostamenti concordati. E’ invece discutibile il fatto che ci siano idee illuminate da seguire sulle questioni abitative”.
Sulle scelte condotte finora dall’attuale amministrazione, Fazzi si mostra critico soprattutto sul coinvolgimento e la partecipazione del primo cittadino: “Perché non se ne occupa in prima persona? Questo è un tema che ha segnato la storia della città per più di quarant’anni. La gestione non dovrebbe essere rimandata ad altri. Soprattutto quando alla fine si fa affidamento alla Caritas. Su questo non sono per niente d’accordo”.
La replica arriva direttamente da Donatella Turri, direttore di Caritas Lucca e relatrice dell’evento organizzato a Villa Bottini: “Tra la Caritas e il Comune di Lucca c’è la collaborazione su un percorso di supporto alla scolarizzazione che ormai va avanti da quindici anni. Stiamo solo proseguendo un intervento ‘storico’ che si rinnova di anno in anno. Tutte attività che proseguono in continuità con le amministrazioni precedenti. In questo senso il problema proprio non esiste”.
Poi la Turri si sposta sui contenuti. “E’ importante disegnare uno scenario realistico, capace di spostare il dibattito dal piano dell’emotività a quello della discussione aperta e lucida. L’obiettivo? Favorire l’inclusione”. L’attenzione si concentra soprattutto su obiettivi a breve termine. “Prima di tutto occorre risolvere le situazioni di emergenza, come quella sanitaria all’interno del campo e l’inclusione scolastica”, spiega la Turri. “Ci sono già molti interventi che proseguono da anni. La strategia su sinti e rom prevede infatti quattro linee di intervento: scolastica, lavorativa, sanitaria e la politica dell’abitare. Le parole chiave? Accompagnamento e mediazione. Con la cittadinanza è infatti possibile attivare percorsi più razionali sull’accesso ai servizi sanitari”.
Nel tentativo si spiegare l’utilità di queste azioni, per farsi capire il direttore della Caritas punta anche al portafogli: “Dal campo nomadi si rivolgono sempre al pronto soccorso”, dice. “Ma se rispondiamo subito è possibile attuare interventi destinati a un utilizzo più razionale delle risorse. Lasciare le cose così come sono significa pesare sulla collettività. Perché tutto ha un costo. Se provassimo a dare risposte diverse, in modo concertato e partecipativo, sicuramente potremmo risparmiare anche parecchi soldi”.
Su una cosa Fazzi e Turri sono d’accordo: il problema non è dei media. “Sui giornali non c’è aggressione, si parla in maniera civile”, dice l’ex sindaco. “Nel trattare l’argomento, mediaticamente non c’è stato alcun atteggiamento razzista”, spiega il direttore Caritas. “Semmai la città ha molta paura. Quando si fa leva su quella senza agire sulla comprensione, be’, tutto diventa più complicato. Riconosco all’amministrazione Tambellini di aver messo mano con coraggio al tema dell’abitare. Un passaggio necessario per affrontare la questione delle minoranze. Ma per raggiungere una reale inclusione c’è ancora molta strada da fare. Riconosco a questa amministrazione la voglia di lavorare. Mi auguro che la tempesta mediatica non faccia posare definitivamente una pietra sulle possibili azioni, facendo venir meno la voglia di fare qualsiasi cosa”.
Al di là delle questioni locali, don Virginio Colmegna affronta il problema da un’altra prospettiva. Lui offre una fotografia diversa della popolazione rom, una delle più grandi minoranze svantaggiate in Europa. Del resto si parla pur sempre di circa 12 milioni di persone. “Spesso si ragiona con la pancia e non con elementi che ci fanno confrontare serenamente”, dice. “Spesso hanno aspettative di vita più breve, vivono in alloggi svantaggiati. E’ un pezzo di umanità e di storia che ci appartiene. E’ un gruppo fortemente discriminato e molte situazioni sono lasciate degradare”. Ma com’è possibile affrontare i problemi? “Occorre innanzitutto avviare un confronto sul piano degli investimenti, valutando i possibili risultati”, sostiene Colmegna. “Quello che non vogliamo è mettere la testa sotto la sabbia e fare finta di nulla. Non lo possiamo fare per rispetto di tutti i cittadini, perché poi cresce la paura. Sono convinto che lavorare per l’integrazione è un’opportunità. Non dobbiamo abbandonare questa strada…”.

gianluca testa

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il contratto coi sinti per poter … esistere!

Pulizia, bimbi a scuola, cani vaccinati e niente roghi o schiamazzi. Il contratto stipulato tra il Comune e i nomadi

La prima pagina dello 'schema del contratto'

così  Silvia Senette ricostruisce il ‘contratto’ tra il Comune di Lucca e i sinti che da sempre sono a Lucca:

LUCCA, 28 agosto

Nella conversazione avvenuta ieri e riportata nell’articolo sull’inaugurazione dei contatori singoli al campo nomadi di via delle Tagliate, il dirigente del servizio alle politiche sociali del Comune di Lucca, Graziano Angeli, aveva riferito di un precedente importante nei rapporti tra la pubblica amministrazione locale e gli ospiti ormai stanziali su suolo pubblico lucchese.

“Il primo passo”, ci aveva raccontato Angeli, “era stato, lo scorso novembre, l’introduzione di una contribuzione forfettaria mensile di cinque euro a testa per ciascuno degli ospiti residenti, minori inclusi, e la sottoscrizione di un contratto condiviso per il rispetto di poche ma fondamentali norme di comportamento”. Una serie di regole e punti fermi destinati a cambiare gli assetti della permanenza della comunità rom e sinti e a migliorare l’integrazione con i regolari contribuenti.

E il decisivo passaggio alle utenze singole e regolarmente saldate dai consumatori era già incluso nel documento sottoposto ai nomadi dal Comune e sottoscritto dai titolari di ciascuna delle 23 piazzole data in usufrutto per la durata di un anno. Il contratto, datato ottobre 2012, è intitolato “atto di autorizzazione alla permanenza temporanea sull’area di via delle Tagliate e concessione provvisoria di uso della piazzola” e a farsi garante per l’amministrazione civica è lo stesso dirigente del servizio.

Presso la sede comunale di via S.Giustina, Angeli ha incontrato i capofamiglia a cui sono stati illustrati punto per punto i contenuti del contratto, anticipati dalla seguente premessa: “Sull’area di via delle Tagliate, fin dagli anni novanta, sono stati realizzati – anche con specifici contributi della Regione Toscana – manufatti ad uso comune per consentire temporaneamente l’ospitalità di roulotte, camper e case mobili di nuclei familiari formati prevalentemente da rom e sinti, nell’ambito di piazzole appositamente delimitate; i nuclei ospitati sono stati individuati, nel tempo, con ordinanza del sindaco, periodicamente rinnovata sulla base delle indicazioni del servizio sociale”.

Chiarito e sanato il pregresso, il documento entra nel vivo esplicitando che, archiviando quanto è stato, da ora “si rende necessario convenire impegni diretti tra il Comune e ciascuno dei nuclei familiari che si trovino ad essere ospiti dell’area”. Da qui in poi, il contratto enuncia gli otto articoli fondamentali destinati a regolare i rapporti tra le parti. Il primo e l’ultimo, come espressamente citato in calce al documento, racchiudono i fondamenti imprescindibili dell’accoglienza.

“Articolo 1: entro il 30 novembre 2013 il servizio sociale verificherà il permanere delle condizioni che hanno determinato l’autorizzazione iniziale allo scopo di poter valutare la conferma dell’ospitalità sull’area anche per l’anno successivo, tenendo conto – in particolare – dell’impegno profuso dagli adulti e dai minori che abbiano assolto l’obbligo scolastico nella ricerca di un’occupazione o in un percorso di formazione professionale e, comunque, del positivo inserimento nel contesto della città oltre che del rispetto delle condizioni che regolano la permanenza e le corrette modalità di utilizzazione dell’area e della piazzola”.

Vale a dire che, se si vuole sperare in un rinnovo della concessione, c’è tempo un anno (ormai manca un solo trimestre) per dimostrare di essersi dati da fare – i grandi sul fronte occupazionale, i piccoli su quello scolastico – e di aver rispettato l’area assegnata. Il concetto di “rispetto” viene chiarito nei sei punti successivi: “auto e furgoni devono essere parcheggiati al di fuori del campo”, il transito è consentito “solo per carico e scarico, e comunque a velocità inferiore a 30 km orari”, ogni nucleo familiare è responsabile della piazzola e deve “provvedere alla cura, alla pulizia ed alla buona manutenzione della stessa, eseguendo a proprie spese eventuali riparazioni per i danni causati”,  i componenti del nucleo familiare devono “obbligatoriamente comunicare al dirigente del settore politiche sociali eventuali periodi di allontanamento”, si possono ospitare persone estranee al campo, purché “in regola con la vigente legislazione italiana” e per un tempo massimo di 30 giorni, comunicando i nominativi “tempestivamente al dirigente”.

Infine, ciascun firmatario si è impegnato nero su bianco a “garantire la frequenza a scuola dei figli sottoposti all’obbligo scolastico”, “tenere i cani vaccinati e iscritti all’anagrafe canina”, “non accumulare rifiuti negli spazi comuni dell’area”, “non custodire più di due bombole di gas piene per ogni roulotte”, “non accendere fuochi”, “non costruire tettoie o strutture abitative o ricreative”, “non danneggiare le strutture né manomettere gli impianti di servizio” e “non effettuare schiamazzi o rumori molesti, in particolare nella fascia oraria 24-6”.

L’articolo 4 è il più sintetico ma anche il più chiaro ed è il presupposto che ha portato ieri Geal ad attivare i contatori singoli per l’addebito del flusso idrico: “Il nucleo familiare si fa carico dei consumi di acqua ed elettricità”.

A chiudere l’asettico documento, il decisivo articolo 8: “In caso di mancato rispetto delle regole di cui alla presente scrittura, il nucleo familiare verrà formalmente richiamato a ripristinare le condizioni in un termine non superiore ai trenta giorni. In ogni caso, qualora, nei termini del richiamo, non siano ripristinate le condizioni relative agli impegni assunti, la presente scrittura privata sarà immediatamente ed unilateralmente risolta da parte della amministrazione comunale con conseguente decadenza della autorizzazione alla permanenza nell’area e della concessione della piazzola”.

Un contratto chiaro, inequivocabile e ricco di prescrizioni e clausole precise, in grado di contemplare nelle cinque pagine di scrittura ogni possibile infrazione o situazione si possa presentare, anticipando effetti e decisioni in capo a Palazzo Orsetti. Ciò nonostante nessuno dei 23 capofamiglia ha battuto ciglio e, ben consapevole del fatto che la concessione delle piazzole è tutto tranne che atto dovuto, gli ospiti del campo di via delle Tagliate hanno sottoscritto il documento impegnandosi per sé e per i propri familiari al rispetto delle regole di convivenza.

Regole che, a quanto ci risulta, nei nove mesi appena trascorsi non hanno visto deroghe o infrazioni clamorose. Neppure quando, ieri, sono stati installati i contatori singoli per la lettura dei consumi di acqua.

Silvia Senette

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in memoria di don Baroni

Due eventi per ricordare don Franco Baroni, il cappellano dei nomadi e dei giostrai

don Franco Baroni e Papa Wojtyla

traggo dal sito ‘lo Schermo’ questo programma celebrativo di don Baroni a circa trenta anni dalla morte:

 Giovedì 16 gennaio 2014, alle ore 9, a Segromigno in Monte, paese natale di don Franco Baroni, in località Piaggiori di fronte alla scuola primaria, sarà intitolato uno spazio pubblico al sacerdote che fu cappellano nazionale dei nomadi, dei giostrai e dei circensi ai tempi dell’OASNI e fino alla sua morte avvenuta a Lucca, in ospedale, nel maggio 1985. Don Franco Baroni era nato a Piaggiori il 16 gennaio 1934. La targa, realizzata dal Comune di Capannori, sarà scoperta da Piera Baroni, sorella di don Franco. In programma una cerimonia aperta dai saluti del sindaco di Capannori Giorgio Del Ghingaro, del vicario generale della Diocesi Michelangelo Giannotti, del presidente della Provincia Stefano Baccelli, del governatore della Regione Toscana Enrico Rossi, del presidente del Centro Nazionale per il Volontariato onorevole Edoardo Patrianca, del vice presidente vicario del Cesvot regionale, Andrea Bicocchi.
Seguiranno gli interventi del presidente dell’Associazione «Don Franco Baroni» onlus, Paolo Mandoli, che ricorderà don Franco come maestro di «accoglienza, solidarietà e amore» e di monsignor Giancarlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes che parlerà su: «Sinti, Rom, immigrati: 40 anni di storia».
Una seconda parte della giornata di commemorazione è in programma dalle ore 12 a Lucca in piazzale Don Franco Baroni, ovvero nell’area lungo via delle Tagliate che ospita circhi e luna park.
Anche in questo caso ci saranno alcuni saluti introduttivi: del sindaco di Lucca Alessandro Tambellini, del vicario generale della Diocesi Michelangelo Giannotti, del presidente della Provincia Stefano Baccelli, del governatore Enrico Rossi, del vice presidente vicario del Cesvot Andrea Bicocchi. Poi il presidente del Centro nazionale per il volontariato, onorevole Edoardo Patriarca, parlerà del rapporto fra don Franco Baroni e l’onorevole Maria Eletta Martini, mentre la vice sindaco Ilaria Vietina tratterà il tema: «Né stranieri né ospiti ma concittadini».

Infine si svolgerà un pranzo sotto l’etichetta «Siamo tutti fratelli», slogan che riprende il titolo dello spettacolo per bambini che venne organizzato da don Franco Baroni il 5 e 6 settembre 1981 in cortile degli Svizzeri. Tale pranzo, con ingresso a invito, è aperto alla partecipazione di giostrai, circensi e nomadi dei campi lucchesi, e sarà servito dai volontari nella tenda della Protezione civile della Croce Rossa Italiana, con menù personalizzato nel rispetto delle varie culture e tradizioni gastronomiche.
I due appuntamenti hanno il sostegno e il patrocinio del Comune di Capannori, del Comune di Lucca, della Provincia di Lucca, della Regione Toscana, dell’Arcidiocesi di Lucca, della Fondazione Migrantes che è l’organismo pastorale collegato alla Conferenza Episcopale Italiana che è finalizzato alla cura della pastorale delle migrazioni e della mobilità. A promuovere questo doppio incontro è stata l’Associazione «Don Franco Baroni» onlus.

La Redazione @loschermo

vedi anche: celebrazioni di don Baroni

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il contributo dei gay inglesi al sinodo sulla famiglia

due omo

 

IL CONTRIBUTO DEI CATTOLICI LGBT INGLESI AL SINODO

LA CONDIZIONE GAY NON È “DISORDINATA”

 Vita parrocchiale, linguaggio ecclesiale offensivo, necessità di dialogo e riconciliazione, tenacia nel proprio cammino: sono le quattro aree di riflessione proposte dal più influente gruppo di cattolici lgbt inglese, l’lgbt Catholics Westminster Pastoral Council, alla Conferenza episcopale d’Inghilterra e Galles, nel quadro delle risposte al questionario inviato dal Vaticano ai vescovi di tutto il mondo in vista del prossimo Sinodo sulla Famiglia, in programma per il prossimo autunno (v. Adista Notizie nn. 40, 42, 43, 46/13; 1/14). Il rapporto del gruppo – noto un tempo come Soho Masses Pastoral Council per via delle messe inclusive del mondo lgbt che ogni quindici giorni avevano luogo nel quartiere di Soho, mentre ora sono state spostate a Mayfair – è stato inviato appena prima di Natale a Elizabeth Davies, responsabile del Marriage and Family Life Project della Conferenza episcopale. «Nella stragrande maggioranza delle parrocchie cattoliche del Regno Unito – si legge nel rapporto – non c’è una cura pastorale delle persone lgbt», né la percezione delle loro esigenze in quanto gruppo, mentre esiste un’attenzione pastorale «ai vari gruppi linguistici o etnici, alla giustizia e alla pace» e così via: «Tutto lodevole», ma resta il fatto che la realtà dei cattolici omosessuali, bisessuali o trans gender è largamente sconosciuta quando non esclusa, come nel caso di «pronunciamenti distanti e gerarchici che trattano le persone lgbt come se non fossero parte della comunità di fedeli». Ciò è il risultato, si legge nel documento, del «timore di riconoscere in modo visibile e di dedicare ad esse una cura pastorale».

Il secondo punto sottolineato dai cattolici lgbt è quello del linguaggio usato dalla Chiesa nei loro confronti: «Termini come “oggettivamente disordinata” [come il Catechismo definisce la condotta omosessuale], così come la diffusa mancanza di una attenzione pastorale ha fatto sì che molti cattolici lgbt si sentissero rifiutati nella Chiesa cattolica in cui erano stati cresciuti e ha portato in molti casi a situazioni di profondo disagio», causa di «suicidi, depressione e problemi fisici, mentali e emotivi». Si tratta di una «responsabilità molto grave per i vescovi», di fronte alla quale si chiede «un processo pastorale globale per far sì che i cattolici lgbt vengano sostenuti il più possibile nella loro fede e nel loro percorso esistenziale».

Si arriva così al terzo punto messo in luce: la necessità di «un profondo processo di dialogo e di ascolto tra gerarchia e laicato», del quale la consultazione intrapresa dal Vaticano in vista del Sinodo è un esempio lodevole. Tuttavia, esso deve essere «accompagnato da un’esperienza vissuta a livello parrocchiale e diocesano» affinché possa essere il più fecondo possibile, nella prospettiva di «risanare le molte ferite presenti nella Chiesa».

Infine, i cattolici Lgbt mettono l’accento sui molti cristiani di altre confessioni impegnati nell’avvicinamento al cattolicesimo: «Nonostante il vetriolo talvolta lanciato contro le persone lgbt dalla gerarchia cattolica – si legge nel documento – siamo testimoni della volontà di cristiani lgbt che si avvicinano alla nostra Chiesa. Crediamo che questo sia un segno del fatto che Dio chiama tutti a credere e a vivere con lui in comunità»

da Adista, a cura di ludovica eugenio

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preti contro

I preti contro discarica di Poiatica: ‘Cloaca nauseante. Noi preoccupati per la salute’

La lettera è stata indirizzata dai parroci dell’Appennino reggiano ai rappresentanti della politica e alle associazioni: “Non si possono solo seppellire i morti senza farsi domande”. La multiutility Iran ha chiesto l’allargamento dell’area destinata ai rifiuti di altri 500mila metri cubi. La risposta dell’Asl: “Nessun decesso sospetto o dato rilevante di tumori maligni nella zona”

I preti contro discarica di Poiatica: ‘Cloaca nauseante. Noi preoccupati per la salute’

 

Porcheria, cloaca nauseante, buco nero. Le parole non sono tenere e arrivano dai parroci dell’appennino reggiano, che alcuni giorni fa hanno deciso di schierarsi apertamente contro la discarica di Poiatica

Dopo mesi di dibattito e una manifestazione di piazza organizzata dai comitati cittadini, i sacerdoti hanno preso carta e penna per scrivere una lettera aperta alla politica e alle associazioni. “A Poiatica da ormai 20 anni si seppelliscono montagne di rifiuti”, si legge nell’appello dei preti della valle. “Che cosa potrà produrre in negativo e sulla salute umana tanta porcheria?”. E ancora: ”Noi parroci della valle notiamo con sofferenza la nascita di bambini con patologie gravi e soprattutto morti per malattie cancerogene in età giovanile. Far finta di non vedere per malafede o ignoranza è imperdonabile”.

La questione è nota tra i comuni dell’Appennino reggiano e riguarda l’ampliamento della discarica di Poiatica, con la creazione del sesto e ultimo lotto. Il sito si trova in una vallata ricavata da una ex cava di argilla, circondata dal fiume Secchia e all’interno del territorio del comune di Carpineti, in provincia di Reggio Emilia. È classificata come discarica di prima categoria, quindi può smaltire rifiuti solidi urbani e speciali non pericolosi. Gestita dalla multiservizi Iren Ambiente, ha una capacità di 937mila metri cubi e accoglie due milioni di tonnellate.

Oggi si sta riempiendo il quinto lotto, ma in ballo c’è un progetto di Iren, depositato in Provincia, che prevede l’allargamento con altri 500mila metri cubi. Il Comune di Carpineti ha già dato parere favorevole, ma a patto che si limiti al minimo l’impatto ambientale e che tutta la zona sia messa in sicurezza. L’ultima parola però spetta alla Regione, che entro poche settimane dovrebbe esprimersi attraverso il piano regionale di gestione dei rifiuti.

Intanto, il fronte del no alla discarica incassa l’appoggio delle parrocchie di un gruppo di frazioni e comuni disseminati sull’appenino, tra cui Toano, Cavola, Valestra e Bebbio. La lettera è firmata da Raimondo Zanelli, William Neviani, Graziano Gigli. Nel testo i tre sacerdoti non usano il guanto di velluto: “Questa valle sta diventando la valle dei rifiuti”, scrivono. “Abbiamo portato via la terra, il verde, le persone per portare rifiuti e inquinamento. Poiatica è diventata una nauseante cloaca, un buco nero, infinito”.

E ancora: “Chi visita la discarica sente un olezzo insopportabile con miasmi pungenti. Se contassimo i camion che sono entrati e usciti in 20 anni faremmo una fila da circuire il mondo. Chi sa quanto è grande il business di ‘monnezza’ e quali interessi ci stanno dietro? Se per frane o terremoti scoppiasse l’involucro di Poiatica, riversandosi nel fiume Secchia, quale disastro ecologico di avvelenamento ci sarebbe?”.

Le loro voci si uniscono a quelle del comitato di Carpineti ”Fermare la discarica“, che da mesi chiede la chiusura definitiva del sito, la sua gestione post mortem e indagini sulle eventuali ripercussioni sulla salute dei residenti. “C’è un discorso relativo ai rischi sulla salute: vogliamo sapere se ci sono delle correlazioni tra la discarica e l’insorgere di allergie e patologie respiratorie”, spiega Valentina Barozzi, un’esponente del gruppo. “E poi c’è un discorso di leggi e amministrazione: che senso ha allargare una discarica mentre l’Europa ci chiede di eliminarle e mentre in regione aumenta la raccolta differenziata?”.

E mentre il gruppo di maggioranza in comune Insieme per Carpineti assicura che “il completamento del sesto lotto coinciderà con la chiusura definitiva della discarica”, l’Asl di Reggio Emilia nega qualsiasi pericolo per la salute. “L’analisi dell’incidenza dei tumori maligni e della mortalità infantile nei residenti del comune di Toano e del comune di Carpineti e il relativo confronto con i dati della provincia di Reggio Emilia non hanno messo in evidenza nessun eccesso di rischio, tantomeno attribuibile a una eventuale esposizione ambientale”, si legge in un comunicato diffuso dopo la pubblicazione dell’appello dei parroci. “Non si vuole sottovalutare il disagio dovuto ai cattivi odori segnalati dalla popolazione locale, ma si vuole precisare che, per quanto noto a oggi, non esiste una correlazione certa tra le emanazioni prodotte da sostanze organiche trattate meccanicamente e biologicamente e lo sviluppo di malattie organiche”.

Porcheria, cloaca nauseante, buco nero. Le parole non sono tenere e arrivano dai parroci dell’appennino reggiano, che alcuni giorni fa hanno deciso di schierarsi apertamente contro la discarica di Poiatica

questo il resoconto di  ne ‘il Fattoquotidiano’ del 12 gennaio 2014:

Dopo mesi di dibattito e una manifestazione di piazza organizzata dai comitati cittadini, i sacerdoti hanno preso carta e penna per scrivere una lettera aperta alla politica e alle associazioni. “A Poiatica da ormai 20 anni si seppelliscono montagne di rifiuti”, si legge nell’appello dei preti della valle. “Che cosa potrà produrre in negativo e sulla salute umana tanta porcheria?”. E ancora: ”Noi parroci della valle notiamo con sofferenza la nascita di bambini con patologie gravi e soprattutto morti per malattie cancerogene in età giovanile. Far finta di non vedere per malafede o ignoranza è imperdonabile”.

La questione è nota tra i comuni dell’Appennino reggiano e riguarda l’ampliamento della discarica di Poiatica, con la creazione del sesto e ultimo lotto. Il sito si trova in una vallata ricavata da una ex cava di argilla, circondata dal fiume Secchia e all’interno del territorio del comune di Carpineti, in provincia di Reggio Emilia. È classificata come discarica di prima categoria, quindi può smaltire rifiuti solidi urbani e speciali non pericolosi. Gestita dalla multiservizi Iren Ambiente, ha una capacità di 937mila metri cubi e accoglie due milioni di tonnellate.

Oggi si sta riempiendo il quinto lotto, ma in ballo c’è un progetto di Iren, depositato in Provincia, che prevede l’allargamento con altri 500mila metri cubi. Il Comune di Carpineti ha già dato parere favorevole, ma a patto che si limiti al minimo l’impatto ambientale e che tutta la zona sia messa in sicurezza. L’ultima parola però spetta alla Regione, che entro poche settimane dovrebbe esprimersi attraverso il piano regionale di gestione dei rifiuti.

Intanto, il fronte del no alla discarica incassa l’appoggio delle parrocchie di un gruppo di frazioni e comuni disseminati sull’appenino, tra cui Toano, Cavola, Valestra e Bebbio. La lettera è firmata da Raimondo Zanelli, William Neviani, Graziano Gigli. Nel testo i tre sacerdoti non usano il guanto di velluto: “Questa valle sta diventando la valle dei rifiuti”, scrivono. “Abbiamo portato via la terra, il verde, le persone per portare rifiuti e inquinamento. Poiatica è diventata una nauseante cloaca, un buco nero, infinito”.

E ancora: “Chi visita la discarica sente un olezzo insopportabile con miasmi pungenti. Se contassimo i camion che sono entrati e usciti in 20 anni faremmo una fila da circuire il mondo. Chi sa quanto è grande il business di ‘monnezza’ e quali interessi ci stanno dietro? Se per frane o terremoti scoppiasse l’involucro di Poiatica, riversandosi nel fiume Secchia, quale disastro ecologico di avvelenamento ci sarebbe?”.

Le loro voci si uniscono a quelle del comitato di Carpineti ”Fermare la discarica“, che da mesi chiede la chiusura definitiva del sito, la sua gestione post mortem e indagini sulle eventuali ripercussioni sulla salute dei residenti. “C’è un discorso relativo ai rischi sulla salute: vogliamo sapere se ci sono delle correlazioni tra la discarica e l’insorgere di allergie e patologie respiratorie”, spiega Valentina Barozzi, un’esponente del gruppo. “E poi c’è un discorso di leggi e amministrazione: che senso ha allargare una discarica mentre l’Europa ci chiede di eliminarle e mentre in regione aumenta la raccolta differenziata?”.

E mentre il gruppo di maggioranza in comune Insieme per Carpineti assicura che “il completamento del sesto lotto coinciderà con la chiusura definitiva della discarica”, l’Asl di Reggio Emilia nega qualsiasi pericolo per la salute. “L’analisi dell’incidenza dei tumori maligni e della mortalità infantile nei residenti del comune di Toano e del comune di Carpineti e il relativo confronto con i dati della provincia di Reggio Emilia non hanno messo in evidenza nessun eccesso di rischio, tantomeno attribuibile a una eventuale esposizione ambientale”, si legge in un comunicato diffuso dopo la pubblicazione dell’appello dei parroci. “Non si vuole sottovalutare il disagio dovuto ai cattivi odori segnalati dalla popolazione locale, ma si vuole precisare che, per quanto noto a oggi, non esiste una correlazione certa tra le emanazioni prodotte da sostanze organiche trattate meccanicamente e biologicamente e lo sviluppo di malattie organiche”.

 
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in morte di Sharon

La storia di Ariel Sharon

Una lunga carriera militare inscritta nell’escalation di un conflitto sanguinoso


personaggio molto rilevante, indubbiamente, quello di Sharon, per la storia di Israele, esaltatissimo da molti, controverso, però, e ‘pericoloso’ (come è stato anche in ambito israeliano in questi giorni definito) se allarghiamo lo sguardo anche un po’ oltre Israele
mi piace ricordarlo con le parole di un israeliano amante del suo popolo ma anche del popolo che Israele da troppi anni tiene sotto occupazione, il popolo palestinese, Zvi, Shuldiner, col suo articolo odierno su ‘il Manifesto’
è opportuno riflettere, ‘in morte di Sharon’, anche attraverso la prima ‘occhiata’ che uno dei primi giornalisti che si affacciarono sulla scena di ecatombe a Sabra e Shatila , R. Fisk, riproduce in un meraviglioso articolo:

Era stato col­pito da emor­ra­gia cere­brale otto anni fa l’allora primo mini­stro Ariel Sha­ron; finito in coma, in stato vege­ta­tivo, non aveva mai ripreso cono­scenza. Adesso i media sono invasi dall’immagine dolce del nonno grande sta­ti­sta, che sem­bra occul­tare il vero pas­sato di un lea­der arri­vato a com­piere azioni cri­mi­nali. È neces­sa­rio ricor­dare parte della sua sto­ria, anche per capire un po’ meglio una società israe­liana som­mersa e impan­ta­nata in un’enorme onda raz­zi­sta, nazio­na­li­sta, fondamentalista.

Negli anni ’50 del secolo scorso il capi­tano Sha­ron era un aspro com­bat­tente che par­te­ci­pava ad atti di pro­vo­ca­zione, con l’obiettivo di far defla­grare la situa­zione alla fron­tiera gior­dana. Nel 1953, in una delle famose «azioni di rap­pre­sa­glia» di quel periodo, un’unità coman­data da Sha­ron assas­sinò ses­santa abi­tanti del vil­lag­gio di Qui­bia, in Giordania.

In non poche occa­sioni, la lunga car­riera mili­tare di Sha­ron si inscrive nella bru­ta­lità e nell’escalation di un con­flitto fat­tosi ancor più san­gui­noso con la guerra del 1967. Sha­ron, al tempo già gene­rale, coman­dante della zona sud, dà avvio a una bru­tale repres­sione a Gaza negli anni ’70, in seguito diventa il discusso eroe della guerra del 1973 e poco dopo ini­zia una tur­bo­lenta car­riera poli­tica. Con curiosi andi­ri­vieni, a poco a poco arriva a essere uno dei lea­der del Likud. Quando giunge al potere Mena­chem Begin, Sha­ron ini­zia una car­riera che lascerà nella sto­ria segni inde­le­bili, ancora più degli attac­chi cri­mi­nali com­piuti quando coman­dava la fami­ge­rata unità 101, o della repres­sione dei pale­sti­nesi a Gaza.

Sof­fer­mia­moci bre­ve­mente su quat­tro dram­ma­ti­che deci­sioni poli­ti­che di Sha­ron, indi­spen­sa­bili per capire da un lato la stessa realtà odierna di Israele e la pos­si­bi­lità o meno di un trat­tato di pace, dall’altro la peri­co­losa car­riera di un lea­der che nei suoi ultimi anni di vita poli­tica era stato rite­nuto – a torto – un pos­si­bile De Gaulle, che avrebbe fatto riti­rare Israele dai Ter­ri­tori occu­pati. Sha­ron era mini­stro dell’agricoltura nei giorni di Camp David, quando con la media­zione sta­tu­ni­tense si discu­teva di una pos­si­bile pace israelo-egiziana. E all’epoca fu uno dei prin­ci­pali archi­tetti del pro­getto di colo­niz­za­zione dei ter­ri­tori occu­pati, con molte ini­zia­tive e fiumi di denaro. Sha­ron pen­sava che la pace con l’Egitto avrebbe per­messo di inau­gu­rare una serie di trat­ta­tive che pote­vano arri­vare alla discus­sione sul destino della Cisgior­da­nia e della Stri­scia di Gaza, e rite­neva che nuovi inse­dia­menti e un arrivo mas­sic­cio di coloni fos­sero la ricetta migliore per ren­dere impos­si­bile la pace.

L’allora mini­stro della difesa Ezr Wei­tz­man, un noto falco diven­tato ardente colomba durante le trat­ta­tive di pace con l’Egitto, volle cam­biare la posi­zione del primo mini­stro Begin rispetto a pos­si­bili trat­ta­tive di pace con i pale­sti­nesi e dopo aspre discus­sioni con il pre­mier rinun­ciò alla carica, una delle più impor­tanti nella gerar­chia poli­tica israe­liana. Così Sha­ron, da sem­pre fru­strato per non essere arri­vato al grado di coman­dante gene­rale dell’esercito, poté rea­liz­zare il suo sogno, coman­dando l’esercito come mini­stro della difesa. Poco tempo dopo il suo arrivo a que­sta carica chiave, diede ini­zio ai pre­pa­ra­tivi per la guerra del Libano.

È tut­tora ignoto l’autore del ten­ta­tivo di assas­si­nio dell’ambasciatore israe­liano a Lon­dra Shlomo Argov, che fu gra­ve­mente ferito; l’evento rap­pre­sentò comun­que la scusa uffi­ciale che ser­viva per avviare la guerra del Libano, il 5 giu­gno 1982. «Come sem­pre», avrebbe dovuto essere una guerra lampo, di pochi giorni. Per alcuni era la guerra neces­sa­ria per distrug­gere l’Olp (Orga­niz­za­zione per la libe­ra­zione della Pale­stina), liqui­dare Ara­fat e affos­sare i nego­ziati sul futuro della Cisgior­da­nia. Per Sha­ron e altri era molto di più: si trat­tava anche di intro­niz­zare a Bei­rut la fami­glia Gemayel, alla testa delle Falangi cri­stiane del Libano; in casi spe­ci­fici le falangi si erano alleate ai siriani, e ave­vano liqui­dato pale­sti­nesi, come nel caso del mas­sa­cro del campo di Tel Al Zaa­tar, ma esse diven­ta­rono alleate di Israele ed ese­cu­trici dei suoi ordini, arri­vando a essere un baluardo anti-siriano.

Il gio­vane Bashir Gemayel, pre­si­dente eletto con la pro­te­zione delle armi israe­liane, salta in aria poco dopo, forse assas­si­nato dai siriani. La grande ven­detta arriva pochi giorni dopo: le falangi cri­stiane entrano nel campo di rifu­giati pale­sti­nesi a Sabra e Sha­tila con l’avallo delle forze israe­liane – «non sape­vamo – non abbiamo visto – non imma­gi­na­vamo – non abbiamo sen­tito». La mat­tanza com­muove il mondo e la com­mo­zione arriva anche in Israele.

Le pro­te­ste nel paese obbli­gano alla fine il governo a for­mare una com­mis­sione d’inchiesta, la quale fra l’altro arriva a con­clu­dere che Sha­ron deve lasciare la carica di mini­stro della Difesa. La guerra «di pochi giorni» durerà oltre 18 anni; la riti­rata delle forze israe­liane sarà decisa solo nel mag­gio 2000, dal primo mini­stro Ehud Barak. Sha­ron con­ti­nua a fare il mini­stro, dap­prima senza por­ta­fo­glio, poi inca­ri­cato degli alloggi, una carica che gli per­mette di tor­nare a essere il grande archi­tetto della colo­niz­za­zione dei ter­ri­tori occu­pati. Nel set­tem­bre del 2000, Sha­ron fa una mossa che il primo mini­stro Barak avrebbe potuto impe­dire: va alla moschea di Al Aqsa. La sua visita sca­tena la seconda inti­fada, che ha ter­mine anni dopo, quando Sha­ron è già primo mini­stro. Non entriamo qui nel merito della posi­zione di Barak, che allora era appena tor­nato dal fal­li­mento dei nego­ziati con Yas­ser Ara­fat e Bill Clin­ton a Camp David. L’intifada, la bru­tale esca­la­tion repres­siva, il sus­se­guirsi di attac­chi pale­sti­nesi: è in que­sto sce­na­rio che la car­riera poli­tica di Sha­ron arriva al cul­mine, quando tutti pen­sano che il grande gene­rale sia poli­ti­ca­mente morto. In effetti Sha­ron ha ere­di­tato il par­tito dello scon­fitto Neta­nyahu e dopo i tre tri­sti anni di governo di quest’ultimo, Barak sem­bra por­ta­tore delle grandi spe­ranze di rin­no­va­mento. Ma in poco tempo monu­men­tali errori por­tano quest’ultimo a una grande scon­fitta, e così il «morto poli­tico» Sha­ron diventa improv­vi­sa­mente primo ministro.

Il fati­dico 11 set­tem­bre 2001 apre un nuovo capi­tolo di sto­ria. George W. Bush, che tutti con­si­de­ra­vano un fal­li­mento totale, diventa lea­der mon­diale gra­zie alle sue cri­mi­nali guerre in Afgha­ni­stan e Iraq. Il ran­cherosta­tu­ni­tense Bush trova un lin­guag­gio comune con il ran­chero israe­liano Sha­ron. Le pres­sioni di alcuni paesi arabi por­tano Bush e Sha­ron a ripen­sare alcuni ele­menti nel qua­dro medio­rien­tale: si fanno pic­cole aper­ture per scon­giu­rare l’acuirsi del con­flitto, e per evi­tare grandi cam­bia­menti reali. Il ritiro dalla Stri­scia di Gaza nell’agosto 2005 sarebbe il «grande passo» di Sha­ron, il «paci­fi­sta», agli occhi di molti osser­va­tori disat­tenti della poli­tica medio­rien­tale, e di poli­tici euro­pei al traino di Bush e del sor­ri­dente Tony Blair. I nostri let­tori pos­sono ritro­vare sulle pagine del mani­fe­sto di allora le ragioni della nostra oppo­si­zione a que­sto ritiro, che molti stu­pidi con­si­de­ra­rono un vero cambiamento.

Un ritiro dai ter­ri­tori occu­pati ha sem­pre ele­menti posi­tivi, ma nel 2005 la mossa poli­tica era chiara; il ritiro da Gaza, con tutta la sce­neg­giata, con un’enorme coper­tura media­tica da parte di stampa e tivù del mondo intero, con l’apparenza di un passo verso la pace fu in realtà un’iniziativa uni­la­te­rale gra­zie alla quale il governo israe­liano posti­ci­pava di molti anni qua­lun­que nego­ziato sulla Cisgiordania.

La colo­niz­za­zione galop­pante di quest’ultima, in effetti, diventa da allora sem­pre più grave e mas­sic­cia, ma al tempo stesso l’immagine di Israele e del nostro grande lea­der migliora. Sha­ron non cerca nem­meno di par­lare o nego­ziare con Abu Mazen; l’immagine di un pos­si­bile campo pale­sti­nese mode­rato ne esce inde­bo­lita e già agli inizi del 2006 il trionfo di Hamas è l’ideale per il raf­for­za­mento della poli­tica del grande generale.

La mossa di Sha­ron aveva fun­zio­nato; altri scon­tri ave­vano acuito l’odio fra i due popoli e il cosid­detto pro­cesso di pace era caduto in disgra­zia, ago­niz­zante o dor­miente, quando l’improbabile De Gaulle entrò, nel 2006, in uno stato di coma. In que­sti anni, la reto­rica paci­fi­sta israe­liana non ha affatto rimesso in moto il pro­cesso di pace, e altri coloni hanno occu­pato ter­ri­tori. Sha­ron che era stato uno dei prin­ci­pali lea­der della pro­te­sta con­tro gli accordi di Oslo fir­mati nel 1993 da Isaac Rabin, Shi­mon Peres e Yas­ser Ara­fat; Sha­ron che era stato in prima fila nelle mano­vre per far fal­lire il pro­cesso di Oslo dopo l’assassinio di Rabin, muore vent’anni dopo, men­tre la pace si fa sem­pre più lon­tana. Sha­ron, con­si­de­rato da molti un arte­fice del cam­bia­mento, è stato in realtà uno dei prin­ci­pali idea­tori della colo­niz­za­zione dei ter­ri­tori occu­pati nel ’67; e il grande affos­sa­tore di ogni pos­si­bile pro­cesso di pace.

(Tra­du­zione di Mari­nella Cor­reg­gia)

Massacro di Sabra e Shatila: ce lo dissero le mosche…

Nel giorno della morte di Sharon, ricordiamo Sabra e Shatila. Una strage rimasta impunita raccontata da Robert Fisk uno dei primi giornalisti ad entrare dopo il massacro.

di Robert Fisk

“Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. Grosse come mosconi, all’inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti. Se stavamo fermi a scrivere, si insediavano come un esercito – a legioni – sulla superficie bianca dei nostri taccuini, sulle mani, le braccia, le facce, sempre concentrandosi intorno agli occhi e alla bocca, spostandosi da un corpo all’altro, dai molti morti ai pochi vivi, da cadavere a giornalista, con i corpicini verdi, palpitanti di eccitazione quando trovavano carne fresca sulla quale fermarsi a banchettare.
Se non ci muovevamo abbastanza velocemente, ci pungevano. Perlopiù giravano intorno alle nostre teste in una nuvola grigia, in attesa che assumessimo la generosa immobilità dei morti. Erano servizievoli quelle mosche, costituivano il nostro unico legame fisico con le vittime che ci erano intorno, ricordandoci che c’è vita anche nella morte. Qualcuno ne trae profitto. Le mosche sono imparziali. Per loro non aveva nessuna importanza che quei corpi fossero stati vittime di uno sterminio di massa. Le mosche si sarebbero comportate nello stesso modo con un qualsiasi cadavere non sepolto. Senza dubbio, doveva essere stato così anche nei caldi pomeriggi durante la Peste nera.

All’inizio non usammo la parola massacro. Parlammo molto poco perché le mosche si avventavano infallibilmente sulle nostrae bocche. Per questo motivo ci tenevamo sopra un fazzoletto, poi ci coprimmo anche il naso perché le mosche si spostavano su tutta la faccia. Se a Sidone l’odore dei cadaveri era stato nauseante, il fetore di Shatila ci faceva vomitare. Lo sentivamo anche attraverso i fazzoletti più spessi. Dopo qualche minuto, anche noi cominciammo a puzzare di morto.

Erano dappertutto, nelle strade, nei vicoli, nei cortili e nelle stanze distrutte, sotto i mattoni crollati e sui cumuli di spazzatura. Gli assassini – i miliziani cristiani che Israele aveva lasciato entrare nei campi per «spazzare via i terroristi» – se n’erano appena andati. In alcuni casi il sangue a terra era ancora fresco. Dopo aver visto un centinaio di morti, smettemmo di contarli. In ogni vicolo c’erano cadaveri – donne, giovani, nonni e neonati – stesi uno accanto all’altro, in quantità assurda e terribile, dove erano stati accoltellati o uccisi con i mitra. In ogni corridoio tra le macerie trovavamo nuovi cadaveri. I pazienti di un ospedale palestinese erano scomparsi dopo che i miliziani avevano ordinato ai medici di andarsene. Dappertutto, trovavamo i segni di fosse comuni scavate in fretta. Probabilmente erano state massacrate mille persone; e poi forse altre cinquecento.
Mentre eravamo lì, davanti alle prove di quella barbarie, vedevamo gli israeliani che ci osservavano. Dalla cima di un grattacielo a ovest – il secondo palazzo del viale Camille Chamoun – li vedevamo che ci scrutavano con i loro binocoli da campo, spostandoli a destra e a sinistra sulle strade coperte di cadaveri, con le lenti che a volte brillavano al sole, mentre il loro sguardo si muoveva attraverso il campo. Loren Jenkins continuava a imprecare. Pensai che fosse il suo modo di controllare la nausea provocata da quel terribile fetore. Avevamo tutti voglia di vomitare. Stavamo respirando morte, inalando la putredine dei cadaveri ormai gonfi che ci circondavano. Jenkins capì subito che il ministro della Difesa israeliano avrebbe dovuto assumersi una parte della responsabilità di quell’orrore. «Sharon!» gridò. «Quello stronzo di Sharon! Questa è un’altra Deir Yassin.»
Quello che trovammo nel campo palestinese di Shatila alle dieci di mattina del 18 settembre 1982 non era indescrivibile, ma sarebbe stato più facile da raccontare nella fredda prosa scientifica di un esame medico. C’erano già stati massacri in Libano, ma raramente di quelle proporzioni e mai sotto gli occhi di un esercito regolare e presumibilmente disciplinato. Nell’odio e nel panico della battaglia, in quel paese erano state uccise decine di migliaia di persone. Ma quei civili, a centinaia, erano tutti disarmati. Era stato uno sterminio di massa, un’atrocità, un episodio – con quanta facilità usavamo la parola «episodio» in Libano – che andava ben oltre quella che in altre circostanze gli israeliani avrebbero definito una strage terroristica. Era stato un crimine di guerra.
Jenkins, Tveit e io eravamo talmente sopraffatti da ciò che avevamo trovato a Shatila che all’inizio non riuscivamo neanche a renderci conto di quanto fossimo sconvolti. Bill Foley dell’Ap era venuto con noi. Mentre giravamo per le strade, l’unica cosa che riusciva a dire era «Cristo santo!». Avremmo potuto accettare di trovare le tracce di qualche omicidio, una dozzina di persone uccise nel fervore della battaglia; ma nelle case c’erano donne stese con le gonne sollevate fino alla vita e le gambe aperte, bambini con la gola squarciata, file di ragazzi ai quali avevano sparato alle spalle dopo averli allineati lungo un muro. C’erano neonati – tutti anneriti perché erano stati uccisi più di ventiquattro ore prima e i loro corpicini erano già in stato di decomposizione – gettati sui cumuli di rifiuti accanto alle scatolette delle razioni dell’esercito americano, alle attrezzature mediche israeliane e alle bottiglie di whisky vuote.

Dov’erano gli assassini? O per usare il linguaggio degli israeliani, dov’erano i «terroristi»? Mentre andavamo a Shatila avevamo visto gli israeliani in cima ai palazzi del viale Camille Chamoun, ma non avevano cercato di fermarci. In effetti, eravamo andati prima al campo di Burj al-Barajne perché qualcuno ci aveva detto che c’era stato un massacro. Tutto quello che avevamo visto era un soldato libanese che inseguiva un ladro d’auto in una strada. Fu solo mentre stavamo tornando indietro e passavamo davanti all’entrata di Shatila che Jenkins decise di fermare la macchina. «Non mi piace questa storia» disse. «Dove sono finiti tutti? Che cavolo è quest’odore?».

Appena superato l’ingresso sud del campo, c’erano alcune case a un piano circondate da muri di cemento. Avevo fatto tante interviste in quelle casupole alla fine degli anni settanta. Quando varcammo la fangosa entrata di Shatila vedemmo che tutte quelle costruzioni erano state fatte saltare in aria con la dinamite. C’erano bossoli sparsi a terra sulla strada principale. Vidi diversi candelotti di traccianti israeliani, ancora attaccati ai loro minuscoli paracadute. Nugoli di mosche aleggiavano tra le macerie, branchi di predoni che avevano annusato la vittoria.

In fondo a un vicolo sulla nostra destra, a non più di cinquanta metri dall’entrata, trovammo un cumulo di cadaveri. Erano più di una dozzina, giovani con le braccia e le gambe aggrovigliate nell’agonia della morte. A tutti avevano sparato a bruciapelo, alla guancia: la pallottola aveva portato via una striscia di carne fino all’orecchio ed era poi entrata nel cervello. Alcuni avevano cicatrici nere o rosso vivo sul lato sinistro del collo. Uno era stato castrato, i pantaloni erano strappati sul davanti e un esercito di mosche banchettava sul suo intestino dilaniato.

Avevano tutti gli occhi aperti. Il più giovane avrà avuto dodici o tredici anni. Portavano jeans e camicie colorate, assurdamente aderenti ai corpi che avevano cominciato a gonfiarsi per il caldo. Non erano stati derubati. Su un polso annerito, un orologio svizzero segnava l’ora esatta e la lancetta dei minuti girava ancora, consumando inutilmente le ultime energie rimaste sul corpo defunto.

Dall’altro lato della strada principale, risalendo un sentiero coperto di macerie, trovammo i corpi di cinque donne e parecchi bambini. Le donne erano tutte di mezza età ed erano state gettate su un cumulo di rifiuti. Una era distesa sulla schiena, con il vestito strappato e la testa di una bambina che spuntava sotto il suo corpo. La bambina aveva i capelli corti, neri e ricci, dal viso corrucciato i suoi occhi ci fissavano. Era morta.

Un’altra bambina era stesa sulla strada come una bambola gettata via, con il vestitino bianco macchiato di fango e polvere. Non avrà avuto più di tre anni. La parte posteriore della testa era stata portata via dalla pallottola che le avevano sparato al cervello. Una delle donne stringeva a sé un minuscolo neonato. La pallottola attraversandone il petto aveva ucciso anche il bambino. Qualcuno le aveva squarciato la pancia in lungo e in largo, forse per uccidere un altro bambino non ancora nato. Aveva gli occhi spalancati, il volto scuro pietrificato dall’orrore.

Tveit cercò di registrare tutto su una cassetta, parlando lentamente in norvegese e in tono impassibile. «Ho trovato altri corpi, quelli di una donna con il suo bambino. Sono morti. Ci sono altre tre donne. Sono morte.»

Di tanto in tanto, premeva il bottone della pausa e si piegava per vomitare nel fango della strada. Mentre esploravamo un vicolo, Foley, Jenkins e io sentimmo il rumore di un cingolato. «Sono ancora qui» disse Jenkins e mi fissò. Erano ancora lì. Gli assassini erano ancora nel campo. La prima preoccupazione di Foley fu che i miliziani cristiani potessero portargli via il rullino, l’unica prova – per quanto ne sapesse – di quello che era successo. Cominciò a correre lungo il vicolo.

Io e Jenkins avevamo paure più sinistre. Se gli assassini erano ancora nel campo, avrebbero voluto eliminare i testimoni piuttosto che le prove fotografiche. Vedemmo una porta di metallo marrone socchiusa; l’aprimmo e ci precipitammo nel cortile, chiudendola subito dietro di noi. Sentimmo il veicolo che si addentrava nella strada accanto, con i cingoli che sferragliavano sul cemento. Jenkins e io ci guardammo spaventati e poi capimmo che non eravamo soli. Sentimmo la presenza di un altro essere umano. Era lì vicino a noi, una bella ragazza distesa sulla schiena.

Era sdraiata lì come se stesse prendendo il sole, il sangue ancora umido le scendeva lungo la schiena. Gli assassini se n’erano appena andati. E lei era lì, con i piedi uniti, le braccia spalancate, come se avesse visto il suo salvatore. Il viso era sereno, gli occhi chiusi, era una bella donna, e intorno alla sua testa c’era una strana aureola: sopra di lei passava un filo per stendere la biancheria e pantaloni da bambino e calzini erano appesi. Altri indumenti giacevano sparsi a terra. Quando gli assassini avevano fatto irruzione, probabilmente stava ancora stendendo il bucato della sua famiglia. E quando era caduta, le mollette che teneva in mano erano finite a terra formando un piccolo cerchio di legno attorno al suo capo.

Solo il minuscolo foro che aveva sul seno e la macchia che si stava man mano allargando indicavano che fosse morta. Perfino le mosche non l’avevano ancora trovata. Pensai che Jenkins stesse pregando, ma imprecava di nuovo e borbottava «Dio santo», tra una bestemmia e l’altra. Provai tanta pena per quella donna. Forse era più facile provare pietà per una persona giovane, così innocente, una persona il cui corpo non aveva ancora cominciato a marcire. Continuavo a guardare il suo volto, il modo ordinato in cui giaceva sotto il filo da bucato, quasi aspettandomi che aprisse gli occhi da un momento all’altro.
Probabilmente quando aveva sentito sparare nel campo era andata a nascondersi in casa. Doveva essere sfuggita all’attenzione dei miliziani fino a quella mattina. Poi era uscita in giardino, non aveva sentito nessuno sparo, aveva pensato che fosse tutto finito e aveva ripreso le sue attività quotidiane. Non poteva sapere quello che era successo. A un tratto qualcuno aveva aperto la porta, improvvisamente come avevamo fatto noi, e gli assassini erano entrati e l’avevano uccisa. Senza pensarci due volte. Poi se n’erano andati ed eravamo arrivati noi, forse soltanto un minuto o due dopo.

Rimanemmo in quel giardino ancora per un po’. Io e Jenkins eravamo spaventati. Come Tveit, che era momentaneamente scomparso, Jenkins era un sopravvissuto. Mi sentivo al sicuro con lui. I miliziani – gli assassini della ragazza – avevano violentato e accoltellato le donne di Shatila e sparato agli uomini, ma sospettavo che avrebbero esitato a uccidere Jenkins e l’americano avrebbe cercato di dissuaderli. «Andiamocene via di qui» disse, e ce ne andammo. Fece capolino in strada per primo, io lo seguii, chiudendo la porta molto piano perché non volevo disturbare la donna morta, addormentata, con la sua aureola di mollette da bucato.

Foley era tornato sulla strada vicino all’entrata del campo. Il cingolato era scomparso, anche se sentivo che si spostava sulla strada principale esterna, in direzione degli israeliani che ci stavano ancora osservando. Jenkins sentì Tveit urlare da dietro una catasta di cadaveri e lo persi di vista. Continuavamo a perderci di vista dietro i cumuli di cadaveri. Un attimo prima stavo parlando con Jenkins, un attimo dopo mi giravo e scoprivo che mi stavo rivolgendo a un ragazzo, riverso sul pilastro di una casa con le braccia penzoloni dietro la testa.

Sentivo le voci di Jenkins e Tveit a un centinaio di metri di distanza, dall’altra parte di una barricata coperta di terra e sabbia che era stata appena eretta da un bulldozer. Sarà stata alta più di tre metri e mi arrampicai con difficoltà su uno dei lati, con i piedi che scivolavano nel fango. Quando ormai ero arrivato quasi in cima persi l’equilibrio e per non cadere mi aggrappai a una pietra rosso scuro che sbucava dal terreno. Ma non era una pietra. Era viscida e calda e mi rimase appiccicata alla mano. Quando abbassai gli occhi vidi che mi ero attaccato a un gomito che sporgeva dalla terra, un triangolo di carne e ossa.
Lo lasciai subito andare, inorridito, pulendomi i resti di carne morta sui pantaloni, e finii di salire in cima alla barricata barcollando. Ma l’odore era terrificante e ai miei piedi c’era un volto al quale mancava metà bocca, che mi fissava. Una pallottola o un coltello gliel’avevano portata via, quello che restava era un nido di mosche. Cercai di non guardarlo. In lontananza, vedevo Jenkins e Tveit in piedi accanto ad altri cadaveri davanti a un muro, ma non potevo chiedere aiuto perché sapevo che se avessi aperto la bocca per gridare avrei vomitato.

Salii in cima alla barricata cercando disperatamente un punto che mi consentisse di saltare dall’altra parte. Ma non appena facevo un passo, la terra mi franava sotto i piedi. L’intero cumulo di fango si muoveva e tremava sotto il mio peso come se fosse elastico e, quando guardai giù di nuovo, vidi che solo uno strato sottile di sabbia copriva altre membra e altri volti. Mi accorsi che una grossa pietra era in realtà uno stomaco. Vidi la testa di un uomo, il seno nudo di una donna, il piede di un bambino. Stavo camminando su decine di cadaveri che si muovevano sotto i miei piedi.

I corpi erano stati sepolti da qualcuno in preda al panico. Erano stati spostati con un bulldozer al lato della strada. Anzi, quando sollevai lo sguardo vidi il bulldozer – con il posto di guida vuoto – parcheggiato con aria colpevole in fondo alla strada.

Mi sforzavo invano di non camminare sulle facce che erano sotto di me. Provavamo tutti un profondo rispetto per i morti, perfino lì e in quel momento. Continuavo a dirmi che quei cadaveri mostruosi non erano miei nemici, quei morti avrebbero approvato il fatto che fossi lì, avrebbero voluto che io, Jenkins e Tveit vedessimo tutto questo, e quindi non dovevo avere paura di loro. Ma non avevo mai visto tanti cadaveri in tutta la mia vita.

Saltai giù e corsi verso Jenkins e Tveit. Suppongo che stessi piagnucolando come uno scemo perché Jenkins si girò. Sorpreso. Ma appena aprii la bocca per parlare, entrarono le mosche. Le sputai fuori. Tveit vomitava. Stava guardando quelli che sembravano sacchi davanti a un basso muro di pietra. Erano tutti allineati, giovani uomini e ragazzi, stesi a faccia in giù. Gli avevano sparato alla schiena mentre erano appoggiati al muro e giacevano lì dov’erano caduti, una scena patetica e terribile.

Quel muro e il mucchio di cadaveri mi ricordavano qualcosa che avevo già visto. Solo più tardi mi sarei reso conto di quanto assomigliassero alle vecchie fotografie scattate nell’Europa occupata durante la Seconda guerra mondiale. Ci sarà stata una ventina di corpi. Alcuni nascosti da altri. Quando mi inchinai per guardarli più da vicino notai la stessa cicatrice scura sul lato sinistro del collo. Gli assassini dovevano aver marchiato i prigionieri da giustiziare in quel modo. Un taglio sulla gola con il coltello significava che l’uomo era un terrorista da giustiziare immediatamente. Mentre eravamo lì sentimmo un uomo gridare in arabo dall’altra parte delle macerie: «Stanno tornando». Così corremmo spaventati verso la strada. A ripensarci, probabilmente era la rabbia che ci impediva di andarcene, perché ci fermammo all’ingresso del campo per guardare in faccia alcuni responsabili di quello che era successo. Dovevano essere arrivati lì con il permesso degli israeliani. Dovevano essere stati armati da loro. Chiaramente quel lavoro era stato controllato – osservato attentamente – dagli israeliani, dagli stessi soldati che guardavano noi con i binocoli da campo.

Sentimmo un altro mezzo corazzato sferragliare dietro un muro a ovest – forse erano falangisti, forse israeliani – ma non apparve nessuno. Così proseguimmo. Era sempre la stessa scena. Nelle casupole di Shatila, quando i miliziani erano entrati dalla porta, le famiglie si erano rifugiate nelle camere da letto ed erano ancora tutti lì, accasciati sui materassi, spinti sotto le sedie, scaraventati sulle pentole. Molte donne erano state violentate, i loro vestiti giacevano sul pavimento, i corpi nudi gettati su quelli dei loro mariti o fratelli, adesso tutti neri di morte.

C’era un altro vicolo in fondo al campo dove un bulldozer aveva lasciato le sue tracce sul fango. Seguimmo quelle orme fino a quando non arrivammo a un centinaio di metri quadrati di terra appena arata. Sul terreno c’era un tappeto di mosche e anche lì si sentiva il solito, leggero, terribile odore dolciastro. Vedendo quel posto, sospettammo tutti di che cosa si trattasse, una fossa comune scavata in fretta. Notammo che le nostre scarpe cominciavano ad affondare nel terreno, che sembrava liquido, quasi acquoso e tornammo indietro verso il sentiero tracciato dal bulldozer, terrorizzati.

Un diplomatico norvegese – un collega di Ane-Karina Arveson – aveva percorso quella strada qualche ora prima e aveva visto un bulldozer con una decina di corpi nella pala, braccia e gambe che penzolavano fuori dalla cassa. Chi aveva ricoperto quella fossa con tanta solerzia? Chi aveva guidato il bulldozer? Avevamo una sola certezza: gli israeliani lo sapevano, lo avevano visto accadere, i loro alleati – i falangisti o i miliziani di Haddad – erano stati mandati a Shatila a commettere quello sterminio di massa. Era il più grave atto di terrorismo – il più grande per dimensioni e durata, commesso da persone che potevano vedere e toccare gli innocenti che stavano uccidendo – della storia recente del Medio Oriente.

Incredibilmente, c’erano alcuni sopravvissuti. Tre bambini piccoli ci chiamarono da un tetto e ci dissero che durante il massacro erano rimasti nascosti. Alcune donne in lacrime ci gridarono che i loro uomini erano stati uccisi. Tutti dissero che erano stati i miliziani di Haddad e i falangisti, descrissero accuratamente i diversi distintivi con l’albero di cedro delle due milizie.

Sulla strada principale c’erano altri corpi. «Quello era il mio vicino, il signor Nuri» mi gridò una donna. «Aveva novant’anni.» E lì sul marciapiede, sopra un cumulo di rifiuti, era disteso un uomo molto anziano con una sottile barba grigia e un piccolo berretto di lana ancora in testa. Un altro vecchio giaceva davanti a una porta in pigiama, assassinato qualche ora prima mentre cercava di scappare. Trovammo anche alcuni cavalli morti, tre grossi stalloni bianchi che erano stati uccisi con una scarica di mitra davanti a una casupola, uno di questi aveva uno zoccolo appoggiato al muro, forse aveva cercato di saltare per mettersi in salvo mentre i miliziani gli sparavano.

C’erano stati scontri nel campo. La strada vicino alla moschea di Sabra era diventata sdrucciolevole per quanto era coperta di bossoli e nastri di munizioni, alcuni dei quali erano di fattura sovietica, come quelli usati dai palestinesi. I pochi uomini che possedevano ancora un’arma avevano cercato di difendere le loro famiglie. Nessuno avrebbe mai conosciuto la loro storia. Quando si erano accorti che stavano massacrando il loro popolo? Come avevano fatto a combattere con così poche armi? In mezzo alla strada, davanti alla moschea, c’era un kalashnikov giocattolo di legno in scala ridotta, con la canna spezzata in due.

Camminammo in lungo e in largo per il campo, trovando ogni volta altri cadaveri, gettati nei fossi, appoggiati ai muri, allineati e uccisi a colpi di mitra. Cominciammo a riconoscere i corpi che avevamo già visto. Laggiù c’era la donna con la bambina in braccio, ecco di nuovo il signor Nuri, disteso sulla spazzatura al lato della strada. A un certo punto, guardai con attenzione la donna con la bambina perché mi sembrava quasi che si fosse mossa, che avesse assunto una posizione diversa. I morti cominciavano a diventare reali ai nostri occhi.

                                                       (da Globalist, 11/01/14)

 

 

 

 

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dibattito pubblico sulle aree occupate dai sinti a Lucca

Nomadi, il Comune promuove dibattito pubblico sull’inclusione ricordando don Franco Baroni: “Proseguiremo il percorso, non intendiamo soprassedere”

 

LUCCA, 12 gennaio 

Un doppio incontro pubblico di riflessione sui progetti riguardanti l’inclusione, in particolare delle comunità di rom e sinti, in occasione dell’anniversario della nascita di don Franco Baroni. Gli appuntamenti si terranno il 14 gennaio a Villa Bottini (alle 17 e alle 21) e vedranno la presenza di ospiti che contribuiranno all’analisi delle politiche sociali. L’iniziativa è organizzata dal Comune di Lucca.
Gli incontri si inseriscono nella riflessione in corso (non senza polemiche) sul futuro degli insediamenti di nomadi in via della Scogliera (coi relativi problemi legati all’uso della golena del fiume) e in via delle Tagliate. L’amministrazione comunale “non intende soprassedere, ma proseguire quel percorso di analisi che poggia le basi sul rispetto della normativa europea e della legge regionale sull’immigrazione al fine di garantire pari dignità sociale a tutti i cittadini, cercando di superare limiti e distanze che impediscono una vera inclusione sociale. E’ attivo inoltre all’interno del Comune un gruppo di lavoro intersettoriale chiamato ad analizzare soluzione e proporre risposte concrete per un progressivo miglioramento abitativo”.
L’appuntamento sarà incentrato su tre interventi principali, nei quali saranno affrontati i contesti europei, regionali e locali: parleranno don Virgilio Colmegna, Sergio Bontempelli e Donatella Turri.
Colmegna, chiamato da Carlo Maria Martini alla direzione della Caritas della Diocesi di Milano, è poi divenuto presidente della Casa della Carità “Angeli Ambriani”, di cui è stato anche fondatore. E’ stato nominato dall’allora sindaco di Milano Letizia Moratti componente dell’Advisory board, il comitato strategico nato per affiancare l’amministrazione nell’affrontare problemi della città. E’ consigliere indipendente del Consiglio di Amministrazione di Etica SGR e membro del comitato di sostenibilità di Eurizon Capital. Nel 2011 la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca gli ha conferito la laurea magistrale honoris causa in Scienze Pedagogiche. Sergio Bontempelli ha alle spalle una lunga attività professionale legata a progetti di inclusione in informativi per migranti, in enti locali e associazioni nei settori legati alla normativa in materia di immigrazione, alla condizione degli stranieri irregolari sul territorio e agli stranieri vittime di tratta. Ha collaborato inoltre alla stesura del “Rapporto Nazionale sulle Buone Pratiche di inclusione sociale e lavorativa dei Rom in Italia”. Infine, l’intervento riguardante la situazione locale sarà tenuto dalla direttrice della Caritas Diocesana di Lucca Donatella Turri.
Gli appuntamenti, il primo moderato da Massimo Toschi, consigliere del Presidente della Regione Toscana per la difesa dei diritti delle persone disabili e il secondo dal redattore de “La Nazione” e presidente dell’Associazione Don Baroni Onlus Paolo Mandoli, anticipano di pochi giorni la ricorrenza della nascita di Don Franco Baroni, sacerdote lucchese scomparso nel 1982  molto attivo sul tema dell’educazione dei circensi e dei nomadi.

La Redazione @loschermo

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ladra di … sua figlia!

L’hanno accusata di aver rubato…sua figlia

Fatima

ma perché se una bimba rom è bionda e chiara di carnagione, deve per forza essere stata rubata? In molti purtroppo la pensano così, ma purtroppo solo quasi nei confronti degli zingari:

 Sabrina Milanovic ci racconta:

Voglio raccontare, brevemente, l’esperienza di una mamma rom che ha vissuto attimi di vera paura e di ansia quando l’hanno accusata di aver rubato Fatima…sua figlia!

Conosco Fatima (2 anni, nella foto) e sua mamma personalmente ed è proprio quest’ultima ad avermi dato l’input per parlare della sua storia e farla conoscere all’esterno.

Il tutto è successo al porto di Olbia sei mesi fa all’incirca. Le autorità portuali si sono allarmate dando della bugiarda alla ragazza riguardo la vera identità della bimba, che secondo loro era stata rubata dalla stessa.

Una volta fatti tutti gli accertamenti del caso si son dovuti ricredere…Ma che paura!

La stessa mamma con la sua bambina, dopo un po’ di tempo, si è ritrovata ad un supermercato. Una signora quasi incredula di vedere questa bimba bionda con una rom si è allarmata, ha chiamato i carabinieri e anche loro hanno dubitato del legame di sangue tra la donna e la piccola.

Fatti gli accertamenti dovuti, si son scusati.

Insomma, a volte le mamme rom hanno paura di uscire con i propri figli o affrontare un viaggio. E questo perché? Perché i loro figli sono semplicemente biondi.

In molti pensano che i rom rubino i bambini. Eppure è un falso mito, privo di ogni fondamento, come dimostrano anche recenti studi scientifici, come la ricerca “La zingara rapitrice“condotta dall’Università di Verona.

È vero: la maggior parte dei rom ha famiglie numerose. Ma è proprio per questo che io dico: ma con tutti i figli che già si hanno mica si va a rubare quelli degli altri!! O no?

Lo dico molto spesso alla gente che me lo chiede di persona. Sperando che un giorno, finalmente, di questi stereotipi non si parlerà davvero più!

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droghe leggere: ancora e sempre proibizionismo o che?

Saviano

 

posizioni a confronto:

    • l’opinione di R. Saviano
    • la posizione di una persona di destra, addirittura sulle posizioni politiche di Giovanardi ma favorevole alla legalizzazione
    • l’idea chiara e inossidabile di ‘Avvenire

 

Ho sempre detestato droghe leggere e pesanti. Sono quasi astemio, un occasionale bevitore di alcolici. Ma sono, invece, profondamente antiproibizionista. Indipendentemente dal mio rapporto con qualunque tipo di sostanza, dal mio stile di vita, dalle mie passioni e dalle mie repulsioni. Si ritiene, sbagliando, che essere antiproibizionisti significhi tifare per le droghe. Sottovalutarne gli effetti, incentivarne il consumo. Niente di più falso. Spesso, in Italia, le discussioni sui temi più delicati sono travolte da un furore ideologico che oscura i fatti e impedisce un dibattito sereno. È successo con l’aborto, con l’eutanasia, succede con le droghe. E non è possibile che una parte dei cittadini, che la parte maggiore delle istituzioni religiose – con il peso che la Chiesa Cattolica ha in Italia – e che la politica tutta, tranne pochissime eccezioni, si rifiutino di affrontare seriamente e con responsabilità questo tema. Non è possibile che la risposta alla tossicodipendenza sia nella maggior parte dei casi il carcere, che tracima di spacciatori e consumatori, ultimi ingranaggi di un meccanismo che irrora di danaro l’intero nostro Paese.

Proprio dalle pagine di Repubblica un grande giornalista scomparso prematuramente, Carlo Rivolta, raccontava di come la prima generazione di tossicodipendenti veri in Italia, quella degli anni Ottanta, fosse stata abbandonata a se stessa da uno Stato patrigno e non padre. Da uno Stato che preferiva considerare quei ragazzi zombie, morti viventi, tossici colpevoli. Ai quali nessuna mano andava tesa, e dei quali si aspettava solo la morte. Erano causa del loro male. Ci si domanda cosa sia cambiato a distanza di trent’anni, se nemmeno nel dibattito pubblico questi temi hanno trovato posto.

So che la legalizzazione delle droghe è un tema complicato, difficile da proporre e da affrontare. So che pone molti problemi soprattutto di carattere morale, ma un Paese come il nostro, che ha le mafie più potenti del mondo, non può eluderlo. Con tutti i problemi che ha il paese dobbiamo pensare alle canne, ai tossici e ai fattoni? Nulla di più superficiale che questo commento.

Bisognerebbe partire da una semplice, elementare constatazione: tre sono le forze proibizioniste più forti, e sono camorra, ‘ndrangheta e Cosa nostra. Del resto Maurizio Prestieri, boss di Secondigliano (rione Monterosa per la precisione) ora collaboratore di giustizia, mi disse una volta durante un’intervista: con tutto il fumo che i ragazzi “alternativi”  napoletani compravano da noi, sostenevamo le campagne elettorali di politici di centrodestra in provincia.

Il proibizionismo (degli alcolici) ha già condotto l’uomo e lo Stato nell’abisso cento anni fa: non ha senso ripetere errori già commessi. La legalizzazione non è un inno al consumo, anzi, è l’unico modo per sottrarre mercato ai narcotrafficanti che, da sempre, sostengono il proibizionismo. D’altronde, è grazie ai divieti che guidano l’azienda più florida al mondo con oltre 400 miliardi di dollari di fatturato annuo. Più della Shell, più della Samsung. Se esiste una merce che non resta invenduta è proprio la droga. L’unica che non conosce crisi, che nonostante sia illegale ha punti vendita ovunque. È la merce più reperibile del mondo disponibile a qualsiasi ora del giorno e della notte.

Nonostante questo, quando in Italia si arriva finalmente a discutere di antiproibizionismo, mancando la consuetudine, mancano finanche le informazioni basilari. I nostri ministri, sul narcotraffico, si limitano a fare encomi quando ci sono sequestri di droga, a elencare latitanti finiti in manette o ancora da arrestare. Eppure l’economia della droga è la prima economia: cemento, trasporti, negozi di ogni genere, grande distribuzione, appalti, camion, banche, compro oro, campagne elettorali – e l’elenco sarebbe interminabile – vengono alimentati dalle arterie del narcotraffico.

Gran parte della politica italiana (con poche eccezioni tra cui i Radicali da decenni impegnati nella lotta al proibizionismo) ritiene la questione legata esclusivamente alla repressione o alle dipendenze. Il dibattito si riduce a un problema di “drogati” o di “mafiosi” e in definitiva – questo è lo sbaglio maggiore – non si vede in che modo possa incidere nella vita quotidiana delle persone. Nulla di più falso.

La verità è che non abbiamo scelta: la situazione attuale impone un’analisi accurata del mercato delle droghe e l’attuazione di un programma che non sarà la soluzione definitiva e immediata, e che forse sarà un male minore, ma necessario. Lasciare il mercato delle droghe nelle mani delle organizzazioni criminali non renderà immacolate le coscienze di quanti ritengono che lo Stato non possa farsi carico di produrre e distribuire sostanze stupefacenti. È proprio questo il punto da affrontare e l’inganno da sfatare. Ad avere occhi per vedere.

Umberto Veronesi da anni si dichiara favorevole alla legalizzazione delle droghe leggere, pur nella consapevolezza di quanto queste possano essere dannose per gli organismi. Ma adduce ragioni di buon senso che condivido. La proibizione di qualsiasi sostanza crea mercato nero, quindi guadagni esponenziali per le mafie. Fa aumentare il costo delle sostanze stupefacenti, quindi chi ha dipendenza ma non i mezzi economici, finisce per rubare, prostituirsi o spacciare a sua volta. In ultimo le sostanze provenienti dal mercato nero non hanno alcun tipo di controllo e le morti spesso sono causate non da dosi eccessive, ma da sostanze letali usate per i tagli. All’altro capo del mondo, il magistrato brasiliano Maria Lucia Karam, membro del Leap (Law enforcement against prohibition), esprime, a favore della legalizzazione, le stesse motivazioni. Del resto, non dimenticherò mai quanto mi disse una assistente sociale del Nucleo Operativo Tossicodipendenze di Napoli riguardo ai danni che anche semplicemente l’assunzione prolungata di hashish e marijuana possono avere su individui sani. Mi disse che non si trattava semplicemente di capire che effetti avessero hashish e marijuana, ma un cocktail di sostanze incredibilmente varie spesso utilizzate per pompare i panetti di fumo o per rendere gli effetti dell’erba più pesanti. Plastica, cera per scarpe, grassi animali, pezzetti di vetro, ammoniaca. Esistono studi sugli effetti che le sostanze stupefacenti – allo stato puro – hanno sugli organismi; non esistono ovviamente studi per capire che effetti hanno sugli organismi la cera per scarpe o l’ammoniaca, se assunte regolarmente seppure in piccole dosi, ma per anni. E la risposta non può essere “che smettano di farsi se non vogliono essere avvelenati, se non vogliono morire”.

Ad aprile del 2012 a Cartagena, in Colombia, si è tenuta la sesta “Cumbre de las Americas” (Vertice delle Americhe) e si è discusso anche di legalizzazione delle droghe. Gli Usa, al tavolo del confronto – come Onu e Ue -, si sono dichiarati contrari alla legalizzazione. Ma hanno però preso atto che le “wars on drugs” sono destinate a fallire. Del resto in alcuni stati federali, la distribuzione di marijuana a scopi terapeutici è stata legalizzata, e a Denver la vendita è stata permessa tout court.

Secondo molti paesi latinoamericani, direttamente interessati dal fenomeno, la strada del proibizionismo non è quella giusta: per comprendere le loro posizioni bisognerebbe studiare a fondo le loro economie e mappare il peso che produzione e distribuzione di sostanze stupefacenti hanno al loro interno.

La Colombia vive una fase di crescita economica inaspettata. Se da un lato ha certamente contato la diminuzione della corruzione delle istituzioni, dall’altro la pressione dei cartelli e della guerriglia è diminuita non per gli interventi del governo americano, ma dei cartelli messicani che oggi sono i padroni delle piantagioni in Colombia distruggendo di fatto i più potenti narcos colombiani. Il presidente uruguayano José Mujica è arrivato alla legalizzazione perché si è reso conto che l’invasione dei cartelli messicani già avvenuta in Colombia, Cile e in Argentina avrebbe compromesso la vita sociale in Uruguay, come sta accadendo al Guatemala, al Belize, all’Honduras, al Salvador, al Perù, dove le fragili democrazie sono totalmente compromesse dal potere dei narcos. La legalizzazione è stato il gesto del governo uruguayano più determinante nel senso della salvaguardia dei propri mercati.

Io credo che la legalizzazione, e non la liberalizzazione, sia l’unica strada. Due termini simili che spesso vengono confusi, ma che indicano due visioni completamente diverse. Legalizzare significa spostare tutto quanto

riguarda la produzione, la distribuzione e la vendita di stupefacenti sotto il controllo dello Stato. Significa creare un tessuto di regole, diritti e doveri. Liberalizzazione è tutt’altro. È privare il commercio e l’uso di ogni significatività giuridica, lasciarlo senza vincoli, disinteressarsi del problema, zona franca. Invece legalizzare è l’unico modo per fermare quel silenzioso, smisurato, violento potere che oggi condiziona tutto il mondo: il narco-capitalismo.Io, cattolico di destra (tendenza Giovanardi), favorevole alla cannabis

‘da destra’ a favore  della legalizzazione delle droghe leggere:

Io sono un conservatore, sono un cattolico praticante, sono un uomo di destra (della destra divina, chiaro), e sono un potenziale elettore di Giovanardi (se collegi e leggi elettorali mi consentiranno di dare una preferenza personale al senatore modenese sicuramente gliela darò). Per ciò, e non a dispetto di ciò, sono moderatamente favorevole alla cannabis libera. L’avverbio è importante e fa l’uomo di destra che, conviene ricordarlo, si caratterizza per realismo e pessimismo: io non credo che legalizzare le canne conduca al paradiso in terra, sono mica un pannelliano. Io penso che legalizzarle sia quel male minore teorizzato da uomini infinitamente più santi e più sapienti di me, di Carlo Giovanardi e di Maurizio Gasparri messi insieme, e parlo di Agostino d’Ippona e Tommaso d’Aquino. Quindi non intendo accapigliarmi: in questa materia l’intreccio fra ragioni e torti è ancora più intricato del solito.

Resta che sono per la cannabis libera. E sono ancor più per rompere il cieco automatismo di un conservatorismo non realistico ma ideologico, contraddittorio in termini, secondo il quale chi dice no all’aborto e all’eutanasia e all’eugenetica deve per forza dire no alla droga: non vedo il nesso. La cosa che conta innanzitutto conservare è la ragione e vorrei che ogni sì e ogni no fosse singolarmente motivato. Secondo me il no pubblico ad alcune droghe non è motivato abbastanza, dietro certe indignazioni ci sento un riflesso pavloviano, qualcosa di canino più che di umano. Noi uomini d’ordine dovremmo invece gioire al pensiero che il problema venga strappato dalle mani degli spacciatori africani per essere affidato a quelle dei farmacisti italiani. E in quanto contribuenti dovremmo guardare con speranza a una legge capace di ridurre del 30 o 40 per cento il numero dei detenuti, sono così tanti quelli dentro per droga, esimendoci dal finanziare l’altrimenti inevitabile costruzione di nuove carceri. E’ molto più adeguatamente motivato il mio no personale: da quando Claudio Risé mi disse che la cannabis non è più quella di una volta, che le nuove varietà sono molto più potenti e pericolose per la psiche, mi impegno, durante le festicciole, a rifiutare svuotini e cannoni. Se ci fosse una droga, anche illegalissima, che fa diventare più intelligenti, la comprerei di corsa, ma una droga che fa diventare più deficienti (più deficienti ancora?) no grazie, nemmeno gratis. E pure questa accresciuta nocività della cannabis clandestina dimostra l’utilità della legalizzazione: per tenere sotto controllo i principi attivi bisogna produrli in modo controllato, non in modo vietato.

Da uomo di destra (della destra divina, ripeto, che di quella profana non so che farmene) mi sovviene soltanto che mentre nessun Padre della chiesa ha mai riprovato il black afghano, molti Padri della Destra, da Baudelaire a Jünger, furono consumatori e financo teorizzatori dei paradisi artificiali. Da cattolico praticante, da assiduo lettore, in privato e in pubblico, della Bibbia, cerco di capire come mai sua eccellenza Mogavero, sua eminenza Schönborn, sua onorevolenza Lupi (devo l’elenco a Mario Palmaro che più di me ha lo stomaco per seguire simili personaggi) sono in vario modo possibilisti sul riconoscimento delle coppie omosessuali, mentre dai medesimi pulpiti mai mi è giunta una parola buona circa la liberalizzazione di hashish e marijuana. L’unica risposta che sono riuscito a darmi si chiama apostasia: aderiscono, loro tre più i noti mangiaostie a tradimento che capeggiano partiti e governi, a una religione fai-da-te la cui morale riproduce tendenze mondane e convenienze politiche.

Liberalizzare la cannabis non metterebbe in discussione una virgola della Sacra Scrittura, viceversa l’approvazione (imminente?) del reato di omofobia metterebbe sotto scacco, a rischio di censura, l’intera Parola di Dio dalla Genesi alle Lettere di San Paolo. C’è tutto un mondo che si impunta su un dettaglio irrilevante pur di non battersi sull’essenziale. Libero di farlo, ma non di definirsi conservatore, o di destra, o cattolico, o cristiano

 

nonostante tutto la posizione di ‘Avvenire’ è decisamente (e ottusamente) contraria ad ogni apertura alla legalizzazione:

Menzogne e diserzioni

di Giuseppe Anzani

in “Avvenire” del 10 gennaio 2014

Lasciatelo dire a quelli che con la droga hanno avuto uno scontro duro e combattivo, una guerra

fatta di rimonte, una passione di estenuata fatica a tirarne fuori per i capelli le vittime ferite,

scontando nell’attività terapeutica la previa sconfitta dell’attività educativa. Fatelo dire a loro cos’è

la dipendenza, la compulsione, la fatica di uscirne, l’emorragia di vita sciupata. Questo periodico

ritorno delle ventate libertarie sullo spinello e sulla cannabis, presentate come sostanze innocue e

persino medicali, o il ritornello che chiama ‘riduzione del danno’ la legalizzazione che ne

regolerebbe l’uso e l’accesso ad una dispensa controllata invece che al mercato criminale, sono

argomenti già vecchi e fiacchi, cento volte confutati. Ma il loro ritorno di fiamma, con un piglio che

sembra ora vincente qua e là nel mondo (Uruguay, Colorado…) segnala qualcosa di nuovo: non che

sono diventati più forti, ma che la resistenza si sta facendo più debole. Per questo vanno presi sul

serio, per la parte di verità che contengono, e per la parte di verità che occultano.

Le chiamano droghe leggere. È vero, non sono così pesanti come l’eroina e la coca. Ma che siano

innocue o quasi, è falso. I danni al cervello, alcuni permanenti e gravi, sono descritti in numerosi

studi internazionali, e illustrati anche in casa nostra sul sito del Dipartimento politiche antidroga

cannabis.dronet.org

Ingannare i nostri figli adolescenti che farsi una canna non è niente, è da

incoscienti. E forse è anche per questa falsità messa in circolo, che uno su cinque la prova: una

statistica impressionante, che segnala un fallimento della funzione educativa del mondo adulto

verso l’adolescenza. Ma l’idea di allentare la dissuasione rinunciando alle regole di condotta intese

a prevenire il danno e a scongiurare rovine, mi sembra peggio di un fallimento, mi sembra una

diserzione.

Non dico che a prevenire i disastri si debba confidare nei castighi (anche qui, però, senza mentire:

da noi nessuno va in galera per il consumo personale di droga). No, non sono i castighi la risorsa: al

contrario, la persuasione ha bisogno di voci amiche, di intelligenza, di empatia; e però anche di

chiarezza, di fermezza, di responsabilità. Dove la droga seduce e incatena alla dipendenza, la

passione educativa forgia il carattere e libera. Ma manca a troppi adulti, fra noi, l’idea che la vita di

ognuno si intreccia a quella degli altri in legame sociale, e che dire ‘è mia’ (la salute, la vita) non

equivale a farne ciò che voglio, rovinandola, ma ciò che è giusto per me e per gli altri. E com’è

difficile far entrare in testa questo concetto solidale di autoprotezione, in un Paese dove per far

allacciare le cinture in auto si devono minacciare i punti della patente.

È questa la differenza dal protezionismo: è la libertà positivamente orientata alla vita; l’opposto

della corsa a imbrancarsi – lo fanno tutti – che è messaggio disfattista, bandiera bianca di una resa

fallimentare.

Chi pensa di risolvere il dramma delle droghe arrendendosi al fatto compiuto, dicendo che se si

cambia la legge non c’è più la trasgressione, cancella il male dal vocabolario, ma non dalla vita. La

droga resta male e resta nella vita. La droga è dannosa non perché illegale, ma è illegale (in tutto il

mondo, tranne ora qualche scucitura) perché è dannosa. Si può modulare in forme diverse la

dissuasione, la prevenzione, la repressione: ma non si può invogliare e facilitare lo scivolo dentro

l’imbuto di una sventura omologata dalla legge

 

 

 

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