

Dopo il teologo belga Roger Lenaers, scomparso lo scorso 5 agosto, ci ha lasciato, all’età di 90 anni, anche il vescovo episcopaliano John Shelby Spong, un’altra delle figure più emblematiche del nuovo pensiero teologico legato al paradigma post-religionale e post-teistico. Se ne è andato nel sonno, dopo una vita da lui descritta come felice e piena d’amore e sempre accompagnata dalla speranza, anche dalla speranza della vita eterna.
Proprio a questo tema, del resto, aveva dedicato uno dei suoi libri, dal titolo, appunto, Vita eterna. Una nuova visione (scritto nel 2009 e uscito in italiano nel 2017 per i tipi di Gabrielli Editori), tentando di rispondere in maniera credibile a un interrogativo centrale non solo per la fede cristiana ma anche per la vita di ogni singolo essere umano: «Al di là della religione, al di là del teismo, al di là del cielo e dell’inferno, è ancora plausibile parlare di vita eterna»?
Sganciando definitivamente tale visione dai concetti di premio e castigo, e dunque invitando a condurre la propria esistenza sotto la spinta dell’amore anziché della paura, il teologo statunitense non aveva però rinunciato a credere alla possibilità che «la vita umana autocosciente» condivida «l’eternità di Dio e che – scriveva –, nella misura in cui sono in comunione con quella forza vitale in perpetua espansione, quella potenza d’amore che arricchisce la vita e quell’inesauribile Fondamento dell’essere, io vivrò, amerò e sarò parte di ciò che Dio è, non vincolato dalla mia mortalità ma dall’eternità di Dio». Una svolta dalla divinità sopra di noi a quella dentro di noi che, concludeva Spong, «non significa allontanarsi da Dio, come i paurosi grideranno; significa, e io ora lo credo, camminare in Dio».
Ma il suo impegno a «salvare il cristianesimo come forza per il futuro», rendendone il messaggio nuovamente rilevante e significativo per le donne e gli uomini contemporanei, era iniziato già molto tempo prima, e cioè da quando, attento ai numerosi segnali di declino evidenziati da ogni parte dalla religione cristiana, aveva compreso, «come vescovo e come cristiano impegnato», la necessità di trovare nella Chiesa il coraggio che la rendesse «capace di rinunciare a molti schemi del passato».
Un impegno, il suo, tradottosi, alla vigilia del XXI secolo, in un libro diventato una pietra miliare in questo cammino di riflessione teologica: Why Christianity Must Change or Die (edito in Italia nel 2019 da Il pozzo di Giacobbe, con il titolo Perché il cristianesimo deve cambiare o morire), successivamente ridotto a un manifesto in 12 tesi attaccato, «alla maniera di Lutero», all’ingresso principale della cappella del Mansfield College, all’Università di Oxford, e poi inviato per posta a tutti i leader cristiani del mondo: su Dio, Gesù, il peccato originale, la nascita verginale, i miracoli, la teologia dell’espiazione, la resurrezione, l’ascensione, l’etica, la preghiera, la vita dopo la morte, l’universalismo. Dodici tesi che Spong aveva ripreso, sviluppandole ulteriormente, nel suo ultimo libro, scritto all’età di 87 anni, uscito negli Stati Uniti nel 2018 e pubblicato in Italia grazie alla casa editrice Mimesis nel 2020, con il titolo Incredibile. Perché il credo delle Chiese cristiane non convince più. Era stato, in realtà, il suo quinto “ultimo libro”, ciascuno nascosto “a sua insaputa” «sotto il tappeto» del processo di elaborazione del precedente, ma a questo, il teologo, proprio adducendo ragioni di salute, aveva assicurato che non ne sarebbero seguiti altri.
Preceduto da opere importanti come, oltre a quelle già citate, Un cristianesimo nuovo per un mondo nuovo, Gesù per i non religiosi, Il quarto Vangelo, Letteralismo biblico: eresia dei gentili, I peccati della Bibbia (edite da Massari e sempre curate da Ferdinando Sudati, come tutti i libri di Spong nel nostro Paese), il volume aveva offerto una sintesi conclusiva della sua coraggiosa rilettura post-teista del cristianesimo, in direzione di una nuova espressione religiosa compatibile con le recenti acquisizioni scientifiche: senza dogmi, senza dottrina, senza gerarchie, senza la pretesa di possedere la verità assoluta.
Una visione del cristianesimo «così radicalmente riformulata da poter vivere in questo nuovo audace mondo» – come già scriveva in Un cristianesimo nuovo per un mondo nuovo – ma legata ancora all’esperienza che ha dato origine a questa fede-tradizione più di duemila anni fa. Non a caso l’autore si è sempre professato come un gioioso, appassionato, convinto credente nella realtà di Dio: «Credo che Dio sia reale e che io viva profondamente e significativamente in rapporto con questa divina realtà. Proclamo Gesù mio Signore. Credo che egli abbia mediato Dio in un modo poderoso e unico nella storia dell’umanità e in me». Tuttavia, aggiungeva nello stesso libro, «non definisco Dio come un essere soprannaturale. Non credo in una divinità che può aiutare una nazione a vincere una guerra, intervenire a curare la malattia di una persona cara, permettere a una particolare squadra sportiva di battere la sua avversaria».
Morte del teismo, non di Dio
Secondo Spong, il Dio inteso teisticamente come «un essere con potere soprannaturale» da supplicare, obbedire e compiacere starebbe sul punto di morire, se non è già morto, per quanto le autorità ecclesiastiche preferiscano continuare il gioco del “facciamo finta”. Tuttavia, precisava il teologo, la morte del teismo come descrizione umana di Dio non comporta affatto di per sé la morte di Dio. Non esige, cioè, la rinuncia alla speranza che «ci sia una realtà trascendente presente nel cuore stesso della vita» che sia possibile chiamare Dio e che «la sua presenza sia sperimentata come qualcosa che ci richiama oltre i nostri timorosi e fragili limiti umani». Né intacca la convinzione che questa realtà trascendente si sia rivelata nella vita di Gesù in modo così completo da permettere di vedere in lui il significato di Dio.
Questa speranza in Spong non è mai venuta meno: «Dio è la sorgente ultima della vita. Si venera Dio vivendo pienamente, condividendo profondamente ». E ancora: «Dio è la sorgente ultima dell’amore. Si adora questo Dio amando generosamente, diffondendo con levità amore, donando amore senza fermarsi a valutare il costo». E, infine: «Dio è l’Essere, e veneriamo questo Dio avendo il coraggio di essere tutto quello che possiamo essere», andando oltre «il modo di sopravvivere chiusi in se stessi». E dunque «Dio non è morto. Siamo veramente entrati in Dio. Siamo portatori di Dio, co-creatori, incarnazioni di ciò che Dio è».
Ma nel mondo post-teistico, secondo Spong, continuerà a esserci spazio anche per la Chiesa, anche dopo che il culto non avrà più lo scopo di confessare i nostri peccati a un “paterno giudice”, né di contare sul potere delle preghiere comunitarie per dirigere il corso della storia del mondo. Una Chiesa che si dedicherà all’espansione del Regno di Dio, operando con determinazione non per un programma religioso, ma per il programma della vita, della vita in abbondanza per tutti, non imponendo la propria verità a nessuno ma vivendo solo per accrescere l’amore.
è morto don Mario Riboldi
ha dedicato la sua vita ai rom e sinti
“scelse di vivere il sacerdozio da nomade”
di Zita Dazzi
Ha vissuto a lungo in roulotte in un campo rom di Brugherio e ha condiviso la sua vita con i rom e i sinti italiani di cui è sempre stato amico e referente. Ieri è morto a 96 anni, don Mario Riboldi, il prete di frontiera che più di chiunque altro negli ultimi 50 anni è riuscito a interpretare i bisogni di un popolo che ha vissuto come una minoranza ai margini delle grandi città, Milano in primis.
Lo avevamo intervistato una decina di anni fa proprio a Brugherio, nella sua casa mobile, in mezzo alle altre roulotte e vicino alla “cappella” dove celebrava ogni mattina la messa per i cattolici del suo campo. Era il loro consigliere spirituale e con loro tante iniziative aveva organizzato a favore del dialogo e dell’integrazione sociale. Da quando la sua salute si era deteriorata, viveva in una casa di riposo di Varese, lì dove è mancato ieri.
“È morto don Mario Riboldi, un uomo buono di Dio e uno dei più cari amici dei Rom e Sinti in Italia, Europa e in mezzo mondo – racconta in un post su Facebook Stefano Pasta, uno dei dirigenti di Sant’Egidio di Milano – Ho avuto la fortuna di essergli amico e aver tante occasioni con lui per condividere preghiere, parole, pranzi, sogni, preoccupazioni, pensieri per tanti rom e sinti. Tanti sono i ricordi dei momenti vissuti insieme: ricordo quando – avevo appena finito le superiori – mi raccontò come aveva iniziato la traduzione del Vangelo di Marco in una delle tante lingue romanes che parlava. Ogni incontro era l’occasione per un nuovo aneddoto, vicino e lontano nel tempo”.
“È con dolore che vi informiamo della morte di Don Mario Riboldi, avvenuta il 9 giugno 2021, all’età di 92 anni. Ordinato sacerdote nel 1953 cominciò ad incontrare i nomadi della periferia Milanese. Iniziò così il suo viaggio con i popoli rom e sinti, vivendoci assieme. Accolto e apprezzato dall’allora Cardinale Montini e quindi futuro papa Paolo VI fu tra i promotori del primo e storico incontro della Chiesa Cattolica con Rom e Sinti a Pomezia il 26 settembre 1965. Ha svolto diversi ruoli in ordine alla evangelizzazione dei rom, sinti e camminanti sia come responsabile diocesano che nazionale, portando agli onori degli altari il 4 maggio 1997, per la prima volta nella storia il gitano Ceferino Jimenez Malla.
così lo ricorda l’Avvenire:
Mario Riboldi era nato il 21 gennaio 1929 a Biassono (Monza e Brianza) ed era stato ordinato sacerdote nel Duomo di Milano il 28 giugno 1953. Dal 1971 al 2018 è stato incaricato per la Pastorale dei nomadi della diocesi di Milano. Ma a farsi prossimo dei sinti e dei rom aveva già iniziato fin dalla fine degli anni ’50. «”Chi porta loro il Vangelo?”: ecco la domanda che don Mario, appena ordinato, al primo incarico a Vittuone, si fece dopo aver incontrato un gruppo di sinti. A quella domanda ha risposto col dono della sua vita. Le opere sociali sono importanti e utili, ma nulla va in profondità come la Parola di Dio. E don Mario non ha costruito cattedrali nel deserto, si è occupato solo di portare la Parola di Dio», testimonia don Marco Frediani, attuale incaricato per la Pastorale dei nomadi a Milano, che ha condiviso con don Riboldi alcuni anni di vita “itinerante”. Gli ultimi: dal 2018, infatti, le peggiorate condizioni di salute avevano costretto l’anziano prete a lasciare la roulotte per la casa di riposo «San Giacomo» di Varese, dove si è spento martedì. Don Riboldi, ricorda inoltre don Frediani, ha avuto un ruolo decisivo nel cammino verso gli altari di Zefirino Giménez Malla, il primo beato gitano, e – con don Bruno Nicolini – nell’organizzazione dello storico incontro di Paolo VI con gli zingari, il 26 settembre 1965 a Pomezia.
A quell’incontro – e al ruolo che vi ebbe don Riboldi – fa riferimento anche l’arcivescovo di Ferrara-Comacchio Gian Carlo Perego, neo presidente della Fondazione Migrantes, per ricordare nel sacerdote ambrosiano «una figura centrale, nel cammino post conciliare, della pastorale dei rom e dei sinti». «Voi nella Chiesa non siete ai margini, siete nel suo cuore», disse papa Montini a Pomezia. Parole che sono diventate, per don Riboldi, «il programma di una vita pastorale che lo ha visto camminare lungo tutte le strade d’Italia e d’Europa per incontrare le famiglie e le comunità rom e sinti». «Ringraziamo il Signore per il dono del suo lungo e fedele ministero sacerdotale speso con lo zelo del buon pastore», si legge nel messaggio di cordoglio dell’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, e del Consiglio episcopale milanese «in comunione con il presbiterio diocesano». Il funerale verrà celebrato domani alle 11 nella natìa Biassono.
quarant’anni di vita condivisa coi rom
Giovedì 5 novembre a La Morra è deceduta suor Rita Viberti (nata Giuseppina), religiosa della congregazione delle Luigine di Alba. Originaria di Monforte, aveva 81 anni e ha svolto il suo servizio a Torino con la comunità di suore che da quarant’anni vive tra i sinti e rom.
I funerali si sono svolti sabato 7 novembre alle 10 nella parrocchiale di La Morra.
La Comunità delle Suore
da quarant’anni vive tra i Sinti e Rom.
Una presenza ecclesiale profetica
Sono passati quasi 40 anni da quando la Comunità delle Suore Luigine di
Alba ha deciso di vivere direttamente tra i Sinti e Rom nelle periferie torinesi.
La loro prima dimora è stata una vecchia carovana.
Era la fine degli anni 80. Poi a seguire altre sistemazioni in roulottes
e baracche. Infine, in questi ultimi anni, una modesta casetta in muratura,
nell’accampamento di Via Germagnano.
Una presenza di Chiesa profetica : accoglienza e rispetto del diverso.
Ogni giorno le suore hanno sperimentato, nell’incontro con i Sinti e Rom, il
desiderio di rappresentatre il Gesù che accoglie, che non allontana, che
ascolta, perdona e non condanna.
Una presenza che non separa i buoni dai cattivi, i giusti da chi sbaglia.
Quarant ‘anni vissuti all’insegna dell’ accoglienza e della concreta attenzione
con chi vive la sofferenza dell’emarginazione, con chi si trova in carcere, con
chi è legato alle dipendenze, con chi vive situazioni di dolore e fatica.
Condivisione della cultura, lingua e tradizione del popolo sinto e rom
Vivendo tra i Sinti e Rom, le suore hanno fatto propria e rispettato la
cultura nomade assumendone in pieno sfacettature, valori e contraddizioni.
” Comunità – ponte ” tra due culture e mentalità.
La loro presenza è stata quella che il ministero missionario richiede:
partecipare pienamente alla vita di un popolo vivendone le medesime
condizioni sociali e culturali per poi rendere sensibili le comunità civili e
cristiane a partire dal loro incontro.
Le suore infatti, oltre a vivere la vita nomade, hanno partecipato attivamente
alla vita ecclesiale torinese. Le loro dimore hanno accolto indistintamente
cattolici, ortodossi, mussulmani, atei.
Le porte delle loro baracche sono state aperte a tutti coloro che si
avvicinavano, dal nomade al sedentario, ricco o povero, dal Sindaco di una
grande città al cittadino comune, dal Vescovo all’ ultimo cristiano.
Chiunque entrava nella loro carovana ne usciva beneficiato. Ciascuna
persona ha sperimentato l’accoglienza, il dialogo, il confronto e la fiducia.
Chi si è seduto alla loro tavola non è uscito senza un caffè, un thè, un pasto
o semplicemente un assaggio del loro cibo o un bicchiere d’acqua. Ma
soprattutto attingendo dalla loro esperienza e arricchendosi della loro
testimonianza.
Quarant ‘ anni all’insegna della sobrietà
Fin dall’inizio suor Carla e suor Rita hanno avvertito l’esigenza di vivere tra
Sinti e Rom con uno stile di vita essenziale, esigente e sobrio.
Hanno sperimentato la povertà come scelta di libertà che riduce il consumo,
le cose e i beni.
Il loro stile di vita silenzioso condannava l’ostentazione della ricchezza, sia
dei Rom sia dei gagè, quando questa si esprimeva in beni di lusso, privilegi
o scelte di potere.
Le diversità possono vivere insieme
La presenza di queste suore nel campo, in questi quarant’anni, lascia a chi le
ha conosciute e a tutta la comunità civile e religiosa un grande
messaggio: l’incontro con il diverso è possibile.
La loro vita è un segno concreto di speranza. Eppure non sono
mancati momenti di tensione che hanno messo in crisi la loro scelta
quando tra i nomadi sono esplosi momenti di rabbia e frustrazione scatenati
da chi ha perso ogni prospettiva nel futuro e si abbandona alla violenza.
Nel campo non sempre le istituzioni sono presenti e la giustizia non è
assicurata.
Ma ogni volta le suore hanno saputo ricominciare, come l’erba che si
piega al vento, anche se a volte il prezzo da pagare è stato alto.
Le vostre idee camminano
Dalle righe di questo giornale vorremmo dire grazie alla Comunità delle Suore
perché le loro idee camminano e vanno oltre l’esperienza, che la loro
presenza ha fatto riflettere i Sinti e Rom perchè si sono sentiti amati, che la
e porte delle loro baracche sono state aperte a tutti coloro che si
avvicinavano, dal nomade al sedentario, ricco o povero, dal Sindaco di una
grande città al cittadino comune, dal Vescovo all’ ultimo cristiano.
Chiunque entrava nella loro carovana ne usciva beneficiato. Ciascuna
persona ha sperimentato l’accoglienza, il dialogo, il confronto e la fiducia.
Chi si è seduto alla loro tavola non è uscito senza un caffè, un thè, un pasto
o semplicemente un assaggio del loro cibo o un bicchiere d’acqua. Ma
soprattutto attingendo dalla loro esperienza e arricchendosi della loro
testimonianza.
Quarant ‘ anni all’insegna della sobrietà
Fin dall’inizio suor Carla e suor Rita hanno avvertito l’esigenza di vivere tra
Sinti e Rom con uno stile di vita essenziale, esigente e sobrio.
Hanno sperimentato la povertà come scelta di libertà che riduce il consumo,
le cose e i beni.
Il loro stile di vita silenzioso condannava l’ostentazione della ricchezza, sia
dei Rom sia dei gagè, quando questa si esprimeva in beni di lusso, privilegi
o scelte di potere.
Le diversità possono vivere insieme
La presenza di queste suore nel campo, in questi quarant’anni, lascia a chi le
ha conosciute e a tutta la comunità civile e religiosa un grande
messaggio: l’incontro con il diverso è possibile.
La loro vita è un segno concreto di speranza. Eppure non sono
mancati momenti di tensione che hanno messo in crisi la loro scelta
quando tra i nomadi sono esplosi momenti di rabbia e frustrazione scatenati
da chi ha perso ogni prospettiva nel futuro e si abbandona alla violenza.
Nel campo non sempre le istituzioni sono presenti e la giustizia non è
assicurata.
Ma ogni volta le suore hanno saputo ricominciare, come l’erba che si
piega al vento, anche se a volte il prezzo da pagare è stato alto.
Le vostre idee camminano
Dalle righe di questo giornale vorremmo dire grazie alla Comunità delle Suore
perché le loro idee camminano e vanno oltre l’esperienza, che la loro
presenza ha fatto riflettere i Sinti e Rom perchè si sono sentiti amati, che la
Le porte delle loro baracche sono state aperte a tutti coloro che si
avvicinavano, dal nomade al sedentario, ricco o povero, dal Sindaco di una
grande città al cittadino comune, dal Vescovo all’ ultimo cristiano.
Chiunque entrava nella loro carovana ne usciva beneficiato. Ciascuna
persona ha sperimentato l’accoglienza, il dialogo, il confronto e la fiducia.
Chi si è seduto alla loro tavola non è uscito senza un caffè, un thè, un pasto
o semplicemente un assaggio del loro cibo o un bicchiere d’acqua. Ma
soprattutto attingendo dalla loro esperienza e arricchendosi della loro
testimonianza.
Quarant ‘ anni all’insegna della sobrietà
Fin dall’inizio suor Carla e suor Rita hanno avvertito l’esigenza di vivere tra
Sinti e Rom con uno stile di vita essenziale, esigente e sobrio.
Hanno sperimentato la povertà come scelta di libertà che riduce il consumo,
le cose e i beni.
Il loro stile di vita silenzioso condannava l’ostentazione della ricchezza, sia
dei Rom sia dei gagè, quando questa si esprimeva in beni di lusso, privilegi
o scelte di potere.
Le diversità possono vivere insieme
La presenza di queste suore nel campo, in questi quarant’anni, lascia a chi le
ha conosciute e a tutta la comunità civile e religiosa un grande
messaggio: l’incontro con il diverso è possibile.
La loro vita è un segno concreto di speranza. Eppure non sono
mancati momenti di tensione che hanno messo in crisi la loro scelta
quando tra i nomadi sono esplosi momenti di rabbia e frustrazione scatenati
da chi ha perso ogni prospettiva nel futuro e si abbandona alla violenza.
Nel campo non sempre le istituzioni sono presenti e la giustizia non è
assicurata.
Ma ogni volta le suore hanno saputo ricominciare, come l’erba che si
piega al vento, anche se a volte il prezzo da pagare è stato alto.
Le vostre idee camminano
Dalle righe di questo giornale vorremmo dire grazie alla Comunità delle Suore
perché le loro idee camminano e vanno oltre l’esperienza, che la loro
presenza ha fatto riflettere i Sinti e Rom perchè si sono sentiti amati, che la
loro scelta ha incoraggiato tanti sedentari a mettersi in gioco e molti cristiani
a verificare la via del confronto e dell’impegno, senza lasciarsi prendere dallo
scoraggiamento.
Suor Rita e Suor Carla ci hanno insegnato che realizzare un “sogno” è
ancora possibile.
Pio Caon
operatore pastorale tra i Sinti e Rom della Diocesi di Torino e amico da 40
anni amico di Suor Rita e Suor Carla.
la sofferta dichiarazione delle due sorelle Rita e Carla nel dover lasciare la vita del ‘campo’
Torino 25/07/2017
“Lasciate il campo, ma non i Rom! Non ci potete più lasciare perché siamo la vostra famiglia”
Queste parole di una amica Rom, esprimono già quanto cerchiamo di dire sulla nostra attuale situazione.
Dopo un lungo tempo di difficile discernimento e di preghiera, considerando l’avanzare degli anni, la precarietà della salute e le difficoltà sempre più pesanti della vita in quell’accampamento di Rom, abbiamo, in accordo con la Madre Jancy, deciso di lasciare l’abitazione al campo, seppure con le lacrime nostre e delle nostre amiche e amici Rom.
Ci è molto costato questa decisione presa nel momento in cui tutti hanno abbandonato a se stesse queste famiglie, già di per sé rifiutate dall’attuale società.
Abbiamo molto creduto nello stile dell’incarnazione, e questo “stare ” con gli ultimi tra gli ultimi, nel corso degli anni, ci ha allenato al silenzio, ad accogliere e a lasciarci accogliere, a farci compagne di viaggio, ad accettare di essere nulla accanto a chi non conta nulla, sperimentando anche noi, indifferenza, rifiuto, giudizi, disprezzo…, cose che per loro, da sempre, sono pane quotidiano.
Nel cammino di questi 38 anni , ci hanno sostenute e incoraggiate i nostri amici Rom e Sinti, le sorelle luigine, il nostro vescovo Cesare Nosilia, l’ufficio migrante, l’ufficio nomadi e tante amici e amiche. Continueremo, come da più parti ci è stato richiesto, ad accompagnare questo popolo con una modalità diversa di frequentazione e di accoglienza.
Abiteremo in un alloggio offertoci calorosamente dall’amico Don. Luigi Ciotti del Gruppo Abele. Grazie alle sorelle che ci hanno sempre sostenute, ascoltate e visitate. Alle sorelle più giovani, in Italia e all’estero, che poco o niente sanno della nostra esperienza di vita nomade, vorremmo umilmente dire una parola: andate verso chi fa più fatica, andate e restate, sedete con loro, ascoltate; la vita è il più importante mezzo di comunicazione. Andate non solo per fare delle cose ma per ”lasciarvi fare “da loro, non per insegnare ma desiderose di imparare, non per dare delle cose ma per ricevere e per dare la vita perché “chi avrà perso la vita la troverà ” e non abbiate paura di sentirvi “ servi inutili ” o di sperimentare dei “ fallimenti “, inevitabili per chi si pone accanto agli “ scartati “. Queste esperienze possono rivelarsi tempi e luoghi di salvezza, senza che li andiamo a “cercare ”
Buon Cammino a tutte e tutti!
Sorelle Luigine Rita e Carla
Fratelli nostri che siete nel Primo Mondo:
affinché il suo nome non sia bestemmiato,
affinché venga a noi il suo Regno;
e si faccia la sua Volontà
non solo in cielo ma anche in terra,
rispettate il nostro pane quotidiano
rinunciando voi al vostro sfruttamento quotidiano.
Non intestarditevi a ricevere da noi
il debito che non abbiamo contratto
e che continuano a pagare i nostri bambini, i nostri affamati, i nostri morti.
Non cadete più nella tentazione del lucro, del razzismo, della guerra;
noi faremo in modo di non cadere
nella tentazione dell’ozio e della sottomissione.
E liberiamoci gli uni gli altri da ogni male.
Solo così potremo recitare insieme la preghiera di famiglia
che il fratello Gesù ci ha insegnato:
Padre nostro – Madre nostra,
che sei in cielo e che sei in terra.
il poeta di Solentiname
“Siamo in un’universo così vuoto circondato ovunque dal mistero”
È morto in pace con la Chiesa grazie a Papa Francesco padre Ernesto Cardenal. I suoi canti e il suo Vangelo di Solentiname ci hanno dato lacrime di indignazione e di speranza.
di Tonio Dell’Olio
È morto ieri in Nicaragua Ernesto Cardenal. Aveva 95 anni distillati nella lotta per la giustizia e per la bellezza. Metà dei suoi anni furono vissuti sotto il tallone degli anfibi della dittatura sanguinaria di Somoza e l’altra metà a dare il proprio contributo alla costruzione di una società liberata. Dopo l’incontro con Tomas Merton e i suoi insegnamenti, questo monaco irregolare si stabilì a Solentiname, un’isola del Gran Lago di Nicaragua, dove fondò una comunità di artisti, scrittori, poeti… che rileggessero il Vangelo nell’arte al servizio dei poveri (cfr. E. Cardenal, Il Vangelo a Solentiname, Cittadella Ed., 1976). Qualche tempo dopo, con quegli artisti abbandonò l’esperienza dell’isola per unirsi alla rivoluzione contro la tirannia. Nel primo governo democratico divenne ministro della cultura e, per questa ragione, fu sospeso dalle sue funzioni sacerdotali.
Tutti ricordiamo (o abbiamo visto) l’immagine di Giovanni Paolo II che lo redarguisce agitando il dito indice contro di lui che gli è inginocchiato davanti al suo arrivo all’aeroporto di Managua. Poi la riabilitazione lo scorso anno e la prima messa celebrata nella sua stanza. Abitava una stanza con un letto, un comodino e un’amaca. Un eremo. Non so dire se il mondo si sia accorto del suo passaggio, ma la terra sì, è stata concimata anche dalla sua poesia e dal suo amore per il vangelo dei poveri. In silenzio qualche albero è cresciuto anche grazie a quella linfa.
Addio a Johann Baptist Metz
“padre” della Teologia politica
Filippo Rizzi
Il pensatore tedesco è morto a 91 anni a Münster. Fu il fautore del dialogo pubblico tra Habermas e Ratzinger a Monaco nel 2004. Il suo maestro di sempre: Karl Rahner
Il teologo tedesco Joahann Baptist Metz (1928-2019) indagò la “questione di Dio” dopo Auschwitz
Un gigante della teologia del Novecento dello stesso rango e levatura del suo “maestro di sempre” Karl Rahner. Un pensatore capace di leggere i “segni dei tempi”. Ma soprattutto un prete e un pastore d’anime. È lo stile che ha sempre accompagnato, cadenzato e contrassegnato la lunga vita di Johann Baptist Metz, morto questo lunedì 2 dicembre a 91 anni a Münster. Nato il 5 agosto 1928 a Velluck, nella Baviera settentrionale, compie i suoi studi di filosofia e teologia dapprima a Innsbruck e poi a Monaco di Baviera; si laurea in filosofia su Heidegger e poi in teologia, sotto la guida di Karl Rahner, su san Tommaso d’Aquino. Viene ordinato sacerdote nel 1954. La maggior parte della sua carriera universitaria lo vede docente di teologia fondamentale a Münster, carica che ha lasciato successivamente, per assumere la cattedra di Christliche Weltanschauung all’università di Vienna.
Metz è ancora ricordato oggi in ambito accademico per essere stato tra i fondatori, dei veri “padri nobili”, nel 1965, della rivista internazionale di teologia “Concilium” assieme a uomini del rango di Karl Rahner, Yves Congar, Edward Schillebeeckx, Hans Küng e Gustavo Gutiérrez. Numerose sono le sue opere tradotte in italiano (spesso edite da Queriniana) come Sulla teologia del mondo (1969), Antropocentrismo cristiano (1969), con J. Moltmann-W. Ölmüller, Una nuova teologia politica (1971), Tempo di religiosi? Mistica e politica della sequela(1978), La fede nella storia e nella società (1978). Come certamente significativo è il suo saggio, edito da Queriniana, che rappresenta in un certo senso la “summa” del suo pensiero: Sul concetto della nuova teologia politica 1967-1997 e anche La provocazione del discorso su Dio.
La sua maturazione teologica conosce varie tappe, segnate dalle tre grandi “crisi” del nostro secolo con cui egli si confronta: la sfida marxista alla teologia; Auschwitz e la negatività della storia (celebri le sue domande su Dio e sulla giustizia a fronte delle vittime innocenti); infine, la provocazione che viene dal Terzo Mondo. Come fu significativa la sua attenzione alla Teologia della liberazione: volle rendersi conto di persona del dolore e della sofferenza di quelle popolazioni e andò a visitare le comunità di base dell’America Latina. Rimase impressionato dal lavoro “dal basso” di amici e colleghi teologi e scrisse un diario visitando le Ande.
Cresciuto alla scuola di Karl Rahner, del quale rielaborò anche alcune opere, di fronte alla marginalità “politica” del cristianesimo Johann Baptist Metz avverte la necessità di superare la teologia trascendentale del maestro per far valere la dimensione pratica della teologia. Diventa così il fondatore di una “nuova teologia politica”, –come hanno spiegato in anni recenti studiosi italiani come Giacomo Coccolini e il “suo” discepolo Francesco Strazzari – nella quale si consideri il mondo come luogo del mostrarsi di Dio e, quindi, luogo nel quale la fede cristiana si presenta anche con la sua valenza politica. Non volendo e non potendo dimenticare le vittime della storia, degli indifesi, Metz sviluppa a partire da queste coordinate la sua “Nuova teologia politica”.
Come pochi altri teologi, Metz non solo ha cercato ma ha anche alimentato il dibattito culturale. Fa parte di ciò il dialogo e il confronto con il marxismo e i rappresentanti della scuola di Francoforte, i filosofi Theodor W. Adorno, Max Horkheimer e Jürgen Habermas con i quali intrattiene un’amicizia autentica. Senza Metz nel 2004, a Monaco, non si sarebbe giunti alla discussione tra Habermas e l’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il cardinale Joseph Ratzinger, il futuro Benedetto XVI.
A ricordarlo ieri con un ampio ritratto è stata la Conferenza episcopale tedesca che ha rievocato lo stile di «teologo ma anche di pastore d’anime» di Metz. Un pensatore dunque, sempre «pieno di sorprese» come lo definiva Jürgen Moltmann perché capace di traghettare la teologia all’interno della storia anche quando questa porta «un nome così orribile come quello di Auschwitz».
«hai fatto bene!»
di Luca Kocci
in “il manifesto” del 29 ottobre 2019
Quando il 19 ottobre 2018 Eugenio Melandri va a Roma ad incontrare il papa per la messa a Santa Marta e gli riassume brevemente la propria vita di missionario, pacifista e comunista, «Francesco – racconta lo stesso Melandri – mi prende una mano, me la stringe forte e mi sorride. Poi mi dice: hai fatto bene!».
Melandri è ancora sospeso a divinis e non può esercitare il ministero sacerdotale. Il provvedimento gli era stato comminato dal Vaticano trent’anni prima quando, dopo essere stato allontanato dalla direzione di Missione Oggi, il mensile dei saveriani che aveva trasformato in un periodico fortemente impegnato sui temi della pace e del disarmo, nel giugno 1989 era stato eletto europarlamentare con Democrazia proletaria, violando il Codice di diritto canonico («è fatto divieto ai chierici di assumere uffici pubblici, che comportano una partecipazione all’esercizio del potere civile»; «non abbiano parte attiva nei partiti politici») e venendo punito con la sospensione a divinis. Quell’«hai fatto bene» di Francesco, però, non poteva restare senza conseguenze. Così poche settimane fa – ma con un ritardo di almeno un paio di decenni –, la Congregazione vaticana per il clero annulla la sospensione: Melandri viene riammesso all’esercizio del ministero sacerdotale e incardinato nella diocesi di Bologna guidata dal cardinal Matteo Zuppi. Una «riabilitazione» che, durante il pontificato di Bergoglio, ha riguardato anche altri preti, in passato giudicati troppo di sinistra: sia viventi, come il nicaraguense sandinista Ernesto Cardenal, sia già morti, come Primo Mazzolari e Lorenzo Milani.
La scorsa settimana, il 20 ottobre, Melandri torna a celebrare l’eucaristia, insieme ai confratelli amici e «compagni» di una vita («compagno è una bellissima parola, significa spezzare e condividere il pane», ha detto durante la messa), quella generazione «post-sessantottina» di preti impegnati per la giustizia e la pace dalla seconda metà degli anni ‘80:
Albino Bizzotto (dei Beati i costruttori di pace, con cui nel 1992 ha partecipato alla marcia per la pace a Sarajevo assediata),
Tonio Dell’Olio (già coordinatore nazionale di Pax Christi, poi responsabile internazionale di Libera, ora alla Pro Civitate Christiana di Assisi),
Renato Sacco (coordinatore nazionale di Pax Christi),
il vescovo Giorgio Biguzzi, animatore della campagna contro i bambini soldato in Sierra Leone.
Giusto una settimana prima di morire, nella mattinata del 27 ottobre, a causa di un tumore, che ha affrontato con forza, condividendo senza reticenze sul suo profilo Facebook tutti i momenti di sofferenza, di speranza e di gioia – come appunto l’incontro con papa Francesco e la riabilitazione canonica – e senza mai rinunciare ad intervenire sull’attualità politica, dalle leggi contro i migranti volute dall’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, alla recente aggressione turca contro i curdi.
Nato a Brisighella (Ra) nel 1948, nel 1974 Melandri entra nei missionari saveriani. Dal 1980 al 1988 dirige Missione Oggi, dalle cui colonne conduce importanti battaglie contro lo scandalo della cooperazione internazionale e per il disarmo, attirando su di sé le ire del governo e della Dc che, con la complicità del Vaticano e dei vertici dei saveriani, riescono a farlo allontanare dalla rivista. Si impegna in politica (europarlamentare di Dp, poi con Rifondazione comunista), nel sociale (con Dino Frisullo fonda Senzaconfine), per la pace e il disarmo.
Questa mattina l’addio ad Eugenio Melandri: i funerali si svolgeranno alle ore 11, presso la casa dei saveriani di San Pietro in Vincoli (Ra), in via monsignor Bertaccini.
Dio è morto … di nuovo
Un padre e la sua bimba di due anni, di origine sudamericana, sono annegati nel Rio Grande mentre cercavano di attraversare il confine tra Messico e Stati Uniti evitando il muro che separa i due paesi. Abbracciati. Per sempre. Con i loro piccoli normalissimi sogni. Un po’ di pace, di umana felicità
L’immagine che li ritrae è emblematica della crudeltà che domina questo nostro tempo.
Il più ricco dei mondi possibili, il nostro mondo, ha concentrato ricchezza e potere nelle mani di pochi. A tutti gli altri ha lasciato briciole e lacrime amare, speranze disperate.
Chi prova a fuggire da guerre e povertà è un nemico, un pericoloso criminale. Viola la vera legge di fatto che governa il mondo e che pretende che i poveri accettino la loro ingiusta povertà a capo chino senza disturbare la tranquillità dei loro carnefici.
In fondo le migrazioni di questi nostri tempi altro non sono che una prima, disperata, ribellione a un ordine violento e crudele.
Il giorno in cui gli oppressi di ogni parallelo e latitudine prenderanno coscienza, si organizzeranno. E non ci sarà muro o barriera che potrà fermarli.
Cambieranno il mondo. Lo faranno nuovo. Bello e giusto. Si salveranno. Ci salveranno.
Che venga presto quel giorno!
silvestro montanaro
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