l’Italia si inginocchia poco …

ci sono vite per cui nessuno s’inginocchia

Alberto Negri

Ci sono vite per cui nessuno si inginocchia. I migranti che affogano in mare, i palestinesi uccisi da Israele, i curdi massacrati da Erdogan. Eppure stanno sotto casa nostra. Ma non ci inginocchiamo neppure per Giulio Regeni, anzi vendiamo armi al dittatore egiziano Al Sisi che il nostro governo definisce persino un «alleato».

Una solenne stupidaggine, sottolineava ieri Tommaso Di Francesco su il manifesto, eppure questo premier non dovrebbe rischiare di apparire a cavallo ma con una doppia sella.
Qui parliamo di stragi, di diritti negati, di terra rubata, di vite senza futuro. Iyad Hallaq, giovane autistico palestinese, la scorsa settimana è stato ucciso a bruciapelo a Gerusalemme: per gli arabi è la «normalità», oltre 130, ci informa Nena News, sono stati uccisi così nel 2019. Nessuno dei responsabili è stato mai punito.
Il premier canadese Justin Trudeau, che si era platealmente inginocchiato in tv per George Floyd, ora spalanca gli occhioni stupito davanti a un video del marzo scorso in cui i “suoi” poliziotti riempiono di botte un leader delle proteste dei nativi americani. Ma dove pensa di vivere il bel Trudeau? La lista è lunga, l’ipocrisia dilagante. Non è il momento per parlare di palestinesi, curdi, migranti africani e nemmeno di Regeni: sui media questo va di moda adesso, quindi se apri la tv, improvvisamente, vedi qualcuno, magari un potente, che si inginocchia.
Mai che questi li ho visti dire una parola per i palestinesi o i curdi. Forse un giorno arriverà una fuggevole genuflessione. Abbiamo lo schiavismo davanti a noi e nessuno fa nulla: 53 morti tra donne e bambini nel peschereccio di migranti affondato il 4 giugno nelle acque tunisine. Nessuno che per loro si inginocchi né qui né negli Usa, che da decenni conducono guerre devastanti, mettono sanzioni, stritolano intere popolazioni e provocano milioni di morti e di profughi.
Non è certo un male inginocchiarsi per un’altra causa – tutto il mondo ci riguarda – a patto che non diventi una sorta di moda (quante ne abbiamo viste) o peggio ancora un alibi che ci impedisce di vedere e di fare qualcosa per quanto accade a casa nostra. Oggi vorrebbero vietare alle Ong di salvare la gente in mare: è urgente ma non se ne occupa nessuno.
Per i curdi del Rojava massacrati da Erdogan l’anno scorso ci fu una certa mobilitazione, a parole: proseguiamo a vendere armi alla Turchia, così come all’Egitto del generalei Al Sisi i cui sgherri hanno massacrato Regeni e che dopo quattro anni non ha neppure imbastito un processo. Manco siamo capaci di ottenere giustizia per un nostro studente torturato e ucciso e in tv facciamo pure quelli solidali con la causa afro-americana? Diffiderei della solidarietà di un popolo come il nostro.
Tutto questo mentre il premier israeliano Netanyahu ribadiva l’intenzione di annettere la Valle del Giordano, cioè di prendersi altra terra ai palestinesi. Che verranno ridotti a vivere in bantustan, territori frammentati non collegati tra loro e senza diritto di cittadinanza: si chiama apartheid e nessuno di quelli che si inginocchiano adesso dice mai una parola in proposito.
Per fortuna la coalizione Black Lives Matter se ne è accorta e nella sua piattaforma prende di mira l’aiuto militare Usa a Israele che sta «perpetrando un genocidio e un apartheid» ed esprime sostegno alla campagna Bds, (Boicottaggio, Sanzioni e Disinvestimento) verso lo stato responsabile dell’occupazione illegale della Palestina. Quelli che si inginocchiano in tv lo sanno, oppure hanno avuto notizia della fresca sentenza della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo?
Dice che le campagne a favore del boicottaggio dell’economia israeliana non costituiscono una manifestazione di antisemitismo ma rientrano nel legittimo esercizio della libertà di espressione. In tanti fanno finta di niente. Come ci spiegava due giorni fa Michele Giorgio, la Germania, il paese europeo più potente, che vanta relazioni speciali con Israele e primo luglio assumerà la presidenza mensile del Consiglio di sicurezza Onu e quella semestrale Ue, farà di tutto per scongiurare sanzioni contro lo stato ebraico per l’annessione «a pezzi» della Cisgiordania.
E allora inginocchiamoci tutti contriti e solidali: anche nella lotta al razzismo il doppio standard è salvo.

è bella l’Italia vista con gli occhi R. La Valle al tempo di coronavirus

L’ITALIA È BELLA

È bella l’Italia perché mentre molti dicono che dopo saremo “migliori di prima”, è adesso che ci scopriamo migliori di quanto pensassimo

una bella riflessione di R. La Valle:

L’Italia è bella. Ce ne siamo resi conto al ricevere una lettera da un prete libanese, padre Abdo Raad, che non potendo far ritorno al suo Paese è rimasto bloccato in Italia , ma si dice “fiero” di esserci, e ne tesse le lodi perfino in modo eccessivo, mostrando in che modo si è realizzato il “prima gli Italiani”, nel fatto che contro tutto il pensiero dominante, e perciò evidentemente non “unico”, essi hanno scelto tra tutte le cose la vita, e la vita degli altri, e non per ideologia, come nelle campagne antiabortiste, ma per amore.

Questo infatti è ciò che l’Italia sta insegnando al mondo, non perché sale in cattedra, ma semplicemente con l’esserci.

E allora si vede come l’Italia è bella.

Le sue città non sono mai state così belle. Non solo perché i pesci, come dicono, sono tornati a nuotare nei canali di Venezia. Ma perché quelle piazze vuote, quelle strade deserte, quei monumenti che sembrano bastare a se stessi, anche se non più fruiti dai turisti, non mostrano un vuoto, ma un’attesa struggente di essere di nuovo vissuti, una maestà sconosciuta, un’eloquenza che in tutti i modi e con molti segni dichiara il dolore di tanto silenzio.

È bella l’Italia perché, pur nel cosiddetto “distanziamento sociale” (almeno un metro, un metro e mezzo!), mostra come siano forti i suoi legami sociali, autismo e individualismo non sono vincitori. Uno straordinario darsi degli uni agli altri si sperimenta nelle corsie, nelle sale di rianimazione, nelle “prime linee”, così come nei lavori necessari, nella comunicazione incessante, nel volontariato, nelle mille diaconie e negli incensibili e inopinati ministeri. Ha ricordato il vescovo di Bergamo che ogni cristiano, grazie al battesimo, può essere portatore di benedizione: un padre può benedire i figli, i nonni possono benedire i nipoti; ma allora anche medici e infermieri, fossero pure non credenti, “quando vedono morire gente da sola, ha detto il vescovo, se percepissero un desiderio, potrebbero con le loro mani offrire anche la benedizione di Dio”; e così avviene.

È bella l’Italia perché nel massimo del dominio della legge, del divieto, dei limiti imposti e accettati, manifesta un massimo di democrazia. Non è vero che la democrazia rappresentativa non può essere “governante”, che ha bisogno di correzioni autoritarie e presidenzialiste, di strette gerarchiche, di poteri usurpati (“i pieni poteri!”). La democrazia funziona, il consenso non è mai stato così alto. Certo l’esperienza di questo “stato d’eccezione” è nuova, nemmeno le Costituzioni l’avevano prevista e normata. Ma proprio in questo si rivela la superiorità di uno Stato costituzionale sui regimi senza Costituzione. Perfino in ciò che ancora non dice, la Costituzione ci tutela, ci fa figli della libertà, ci fa responsabili, solidali. Certo il sistema costituzionale andrà aggiornato, nuove norme dovranno garantirci per il futuro, e ancora di più dovremo batterci per una Costituzione mondiale; ma intanto la democrazia c’è e respira, le opposizioni danno di gomito per farsi vedere, dopo aver sbagliato su tutto, ma in realtà non hanno altro da dire, finché anch’esse non cambieranno.

L’Italia è bella perché al momento della prova si è fatta sorprendere con gli uomini giusti al posto giusto. Ed è come se i ruoli si fossero arricchiti, e addirittura rovesciati. Prendete il vescovo di Roma, il papa. Certo, non è solo per l’Italia; ma intanto è qui che soffre per il mondo. Ed è uno spettacolo straordinario vederlo profeta e guida dei “non messalizzanti”, come i sociologi erano abituati a chiamare i non credenti e non praticanti. Oggi i non messalizzanti sono tutti, o quasi tutti, e allora quella Messa quotidiana del papa dall’inedito eremo di Santa Marta è diventata la Messa sul mondo, e perfino la Televisione italiana la trasmette, compreso il lungo silenzio finale, e ne fornisce il segnale ad altre emittenti. Ma il papa non approfitta di una udienza così allargata per imporre la sua parola; mercoledì, infatti, nel giorno dell’annuncio a Maria, la sua omelia non è stata altro che rileggere una seconda volta quel passo del vangelo di Luca. Vi basti il Vangelo, “sine glossa”, diceva l’altro Francesco. Ma qui una “glossa”, folgorante, da parte del papa, c’è stata: ha detto che Luca di quell’ “annunciazione” non aveva potuto saperlo che dalla Vergine stessa; perciò quel Vangelo non è la cronaca di un evento che non ha avuto testimoni, ma è il racconto di Maria, la sua autobiografia più segreta, è la parola di una donna che rivela un mistero, ciò da cui ha avuto inizio la fede nell’incarnazione e ha preso avvio il cambiamento del mondo. Dunque tutto l’evento decisivo della storia è accaduto tra due testimonianze di donne: Maria, col concepimento, la Maddalena con la resurrezione. “Sulla tua parola…”. E le donne erano inaffidabili!

E prendete il presidente della Repubblica: il suo ruolo è di presiedere ai “cittadini”, ma si preoccupa di tutti. Chi sono più i cittadini dinanzi all’universalismo del virus, e alla comune risposta che bisogna dargli oltre ogni frontiera? Davvero la cittadinanza è l’ultima discriminazione che deve cadere. E Mattarella scrive al presidente tedesco augurandosi che l’esperienza italiana serva alla Germania e agli altri Paesi, perché ne sia alleviata la prova. E noi stessi riceviamo l’aiuto, non dall’Olanda, o dai più ricchi Paesi europei che sono troppo affezionati al denaro e al rigore, ma dalla Cina, da Cuba, dalla Russia, i nostri da noi dichiarati nemici di un tempo.

E guardate Conte: non lo volevano prendere sul serio, lo dileggiavano come un travicello in altre mani. Ma quando le altre mani sono venute meno, sono rimaste e si sono levate le sue, e governa con fermezza nella tempesta, ma anche con tenerezza ed equità; non ha una sua parte a cui badare, ma tutte le attraversa, come il samaritano, senza iattanza, formato com’è alla scuola del cardinale Silvestrini. Per questo i grandi poteri lo vogliono cambiare con Draghi, come se non si fosse già fatta l’esperienza di Monti.

E dei ministri prendete quello della forza più piccola, quel ministro della sanità che sembra essere nato per pensare alla salute di tutti.

È bella l’Italia perché mentre molti dicono che dopo saremo “migliori di prima”, è adesso che ci scopriamo migliori di quanto pensassimo. Sul futuro non ci potremmo giurare, altre volte dopo le tragedie ci sono state regressioni, cecità e odiose restaurazioni. Già adesso del resto si fa forte un mondo che è duro a morire. Basti pensare alla pretesa che mentre tutto chiude, resti attiva la filiera dell’aerospazio e della difesa: una bella caduta di credibilità e sensatezza di un governo altrimenti apprezzabile. È come se non si potesse decidere di smettere la produzione di armi per guerre non metaforiche, come quella del virus, ma guerre reali, presenti e future, al servizio delle quali si spendono oggi nel mondo 5 miliardi di dollari al giorno La verità è che il tempo di cambiare è questo, non quello futuro, e il futuro dipende dalle scelte che oggi facciamo. Non bisogna chiedersi che cosa faremo e come saremo “dopo Coronavirus”, ma che cosa facciamo e siamo “durante Coronavirus”. Il tempo è venuto ed è questo.

È bella l’Italia, perché proprio qui si è potuto vedere attraverso le dolenti statistiche di ogni giorno, che le donne resistono al virus molto più degli uomini, ne sono colpite due donne contro otto uomini. È una scienziata che ne ha fatto una notizia, la virologa Ilaria Capua. Non sanno spiegarsi il perché, e invece forse è chiaro: perché toccherà a loro ridare ricchezza alla vita, ripartire dal profondo, dire di sì al far dono alla terra dei “nati da donna”.

Italia negazionista secondo il Rapporto-Italia dell’Eurispes


Rapporto Eurispes

il 15,6% degli italiani nega la Shoah
nella 32esima edizione del “Rapporto Italia”, l’Istituto registra una frattura tra Sistema e Paese

di Giorgio Catania

“Il 15,6% degli italiani nega la Shoah (nel 2004 era il 2,7%). E il 16,1% (era l′11,1% oltre quindici anni fa) ridimensiona la portata dell’Olocausto, sostenendo che avrebbe determinato un numero di vittime inferiore a quanto documentato dai libri di storia”. Questi i dati raccolti sull’antisemitismo in Italia dall’Eurispes – ente che si occupa di studi politici, economici e sociali – nella 32esima edizione del “Rapporto Italia”.

Secondo la maggioranza degli italiani, recenti episodi di antisemitismo sono casi isolati, che non sono indice di un reale problema di antisemitismo nel nostro Paese (61,7%). Al tempo stesso, il 60,6% sostiene che questi episodi siano la conseguenza di un diffuso linguaggio basato su odio e razzismo. Per meno della metà del campione (47,5%) gli atti di antisemitismo avvenuti anche in Italia sono il segnale di una pericolosa recrudescenza del fenomeno. Per il 37,2%, invece, sono bravate messe in atto per provocazione o per scherzo.
I dati raccolti dall’Eurispes sul negazionismo confliggono con un recente sondaggio di Euromedia Research,che ridimensionava notevolmente il fenomeno del negazionismo.
L’antisemitismo è solo uno dei moltissimi capitoli affrontati dall’ Eurispes nel suo Rapporto. Secondo il Presidente dell’Istituto, Gian Maria Fara: “La frattura tra Sistema e Paese che abbiamo segnalato nei precedenti Rapporti stenta a trovare elementi di ricomposizione; anzi, si è allargata nel corso dei mesi e pone nuovi problemi che rendono ancora più complessa ed incerta la prospettiva generale. Una frattura che produce numerosi danni anche sul piano economico e mette in discussione la stessa tenuta sociale del Paese”.

Il rapporto Sistema/Paese 

Secondo il presidente di Eurispes, manca “una cornice di regole riformate e condivise in cui tutti possano riconoscersi” perchè “ciò che ci divide lo conosciamo bene” e “ciò che ci unisce, invece, è latitante” ed è per questo che è necessaria “una nuova Costituente” un modo per dare “un segnale al Paese”. Nell’attesa del “segnale” diminuisce la fiducia nelle istituzioni e il trend positivo si arresta: nel 2020, la quota di chi ha un atteggiamento positivo si ferma al 14,6% (-6,2% rispetto al 2019, anno in cui si era registrato il miglior risultato dal 2014).
Il presidente Mattarella, resiste come punto di riferimento e ottiene un tasso di consensi pari al 54,9% (era al 55,1% nel 2019). Poco più di un quarto degli italiani (26,3%) ripone fiducia nell’attuale Governo, oltre dieci punti in meno rispetto al 2019 (36,7%). Il Parlamento registra un decremento di cinque punti con solo uno su quattro che si fida (25,4%; erano il 30,8% nel 2019). La fiducia nei confronti della Magistratura continua a crescere: 49,3%, +2,8% rispetto al 2019.

Mezzi di informazione 

Secondo il “Rapporto Italia” dell’Eurispes, la larga maggioranza degli italiani (64,6%) considera ancora la televisione il mezzo più attendibile; a seguire giornali radio (59,8%), quotidiani (55,3%), quotidiani online (51,1%), talk televisivi (42,4%), forum/blog (41,1%) e social network (35,4%).
Per i social, è però decisamente superiore (65%) la percentuale di chi li giudica “non affidabili”.

Immigrazione 

Un quarto degli italiani ha un rapporto negativo con gli immigrati e da uno su tre, vengono visti come una minaccia all’identità nazionale. Cresce anche la convinzione che gli stranieri tolgano lavoro agli italiani e per contrastare l’immigrazione clandestina l’ipotesi prevalente è “aiutiamoli a casa loro”. Rispetto al 2010, sono diminuiti di oltre dieci punti gli italiani favorevoli allo ius soli (dal 60,3% al 50%) e sono aumentati notevolmente i sostenitori più rigidi dello ius sanguinis (dal 10,7% al 33,5%, quasi 23 punti in più).
In calo coloro che auspicano la cittadinanza per chi è nato in italia, purchè educato in scuole italiane (dal 21,3% al 16,5%).
Per contrastare il fenomeno dell’immigrazione clandestina, oltre un quarto (il 26,2%, +7,7% rispetto a dieci anni fa) ritiene che il governo dovrebbe erogare aiuti ai Paesi di provenienza e un altro quarto (24%, a fronte del 33,6% del 2010) che dovrebbe inasprire i controlli alle frontiere e lungo le coste; per il 16% la priorità è agevolare la regolarizzazione dei clandestini (nel 2010 era il 25,5%), per il 15,3% ridurre i visti di ingresso dai Paesi dai quali provengono i flussi più consistenti.

Fisco 

Il carico fiscale sostenuto dalla propria famiglia, nel corso del 2019, ”è aumentato secondo l’opinione del 42,2% degli italiani”. Rispetto al 2013, secondo il dossier Eurispes, si registra un calo del 27%, quando “a lamentare una maggiore tassazione era il 69,2%”.
Meno tasse, secondo gli intervistati, rilancerebbero soprattutto i consumi mettendo più soldi in tasca ai cittadini (37,5%) e darebbero slancio all’economia e alle imprese (22,6%), mentre inciderebbero negativamente sulla disponibilità e qualità dei servizi per un altro 22,6% e farebbero aumentare il peso del debito pubblico per il 17,3%. Spicca il dato sul 47% degli italiani, che vorrebbe l’introduzione della tassa patrimoniale; il 53,3% caldeggia l’aumento della pressione fiscale sul sistema bancario (53,3%); il 60% vorrebbe il condono fiscale per favorire il rientro dei capitali dall’estero.

Evasione

Il 46,3% degli italiani considera l’evasione fiscale grave, ma per il 25,1% non lo è se compiuta da chi fa fatica a sostenere il peso del fisco e il 9% non la reputa grave perchè la pressione fiscale italiana è troppo alta. Il 17,3% ritiene che il carcere sia la sanzione giusta per chi evade.

Reddito di Cittadinanza, Flat Tax, Quota 100 

Tra le misure attuate o proposte dal Governo le più criticate sono il reddito di cittadinanza con il 67,1% e la Flat Tax, che incontra la disapprovazione del 62,6% degli italiani. Quota 100 è invece apprezzata da sei cittadini su dieci (59,2%).

Clima 

Secondo la rilevazione Eurispes 2020, più di un quarto degli italiani (26,6%) considera il riscaldamento globale il problema più urgente relativo all’ambiente. Seguono: la gestione dei rifiuti (20,7%), l’inquinamento atmosferico (16,4%), il dissesto idrogeologico (11,3%) e il problema energetico (11,2%), mentre solo una minima parte considera non gravi i problemi ambientali (5,4%). A giudicare più urgente una soluzione per il riscaldamento globale sono i giovani tra i 18 e i 24 anni (34,3%), più del doppio rispetto agli over 65 (16,1%).

Sicurezza 

Il 53,2% degli italiani ritiene di vivere in una città abbastanza (44,1%) e molto (9,1%) sicura; sul versante opposto, il 30,4% giudica la propria città come poco (26,3%) e per niente sicura (4,1%). Sono soprattutto i giovanissimi (dai 18 ai 24 anni) a segnalare un livello basso di sicurezza nella città in cui vivono (complessivamente poco o per niente sicura per il 33,3%). Le Regioni del Centro (34,6%) e del Sud Italia (35%) raccolgono il numero più elevato di cittadini che ritengono di vivere in città non sicure.
Nel 2020 si evidenzia un calo di quanti hanno visto aumentare la propria paura (dal 30% al 24,5%), in favore di coloro i quali ritengono che sia rimasta invariata (+9,4% rispetto al 2019). Resta, comunque, considerevole la percentuale di italiani che mostrano la convinzione del rischio di subire reati, dato che solo il 7% afferma che la paura sia diminuita, in calo rispetto al 10,9% riscontrato nel 2019.

Sud Italia 

Il centro nord dell’Italia ha sottratto al sud una fetta di spesa pubblica, a cui avrebbe avuto diritto in percentuale alle popolazione, di circa 840 miliardi di euro, pari a 46,7 miliardi di euro l’anno. Nel 2016 lo Stato italiano ha speso 15.062 euro pro capite al Centro-Nord e 12.040 euro pro capite al Meridione. In altre parole, ciascun cittadino meridionale ha ricevuto in media 3.022 euro in meno rispetto a un suo connazionale residente al Centro-Nord. Nel 2017, si rileva un’ulteriore diminuzione della spesa pubblica al Mezzogiorno, che arriva a 11.939 (-0,8%), mentre al Centro-Nord si riscontra un aumento dell′1,6% (da 15.062 a 15.297 euro).
Secondo l’Eurispes “emerge una realtà dei fatti ben diversa rispetto a quanto diffuso nell’immaginario collettivo che vorrebbe un Sud ‘inondato’ di una quantità immane di risorse finanziarie pubbliche, sottratte per contro al Centro-Nord”. Dal 2000 al 2007, secondo l’istituto di ricerca, le otto regioni meridionali occupano i posti più bassi della classifica per distribuzione della spesa pubblica. Per contro, tutte le regioni del Nord Italia si vedono irrorate dallo Stato di un quantitativo di spesa annua nettamente superiore alla media nazionale.

Sanità

Stando al rapporto Italia, per contenere le spese, nell’ultimo anno, il 32,5% degli italiani ha rinunciato a effettuare controlli medici e prevenzione e il 27,3% ha tagliato le spese dentistiche. Il 24,8%, infine, ha fatto a meno di trattamenti e interventi estetici. In misura minore, un italiano su cinque (20%) ha rinunciato a terapie e interventi medici o a sottoporsi a visite specialistiche per la cura di patologie specifiche (20%). Il numero di residenti in Sicilia e Sardegna che hanno dovuto rinunciare a visite specialistiche per disturbi o patologie specifiche, è quasi il doppio della media rilevata nelle altre regioni (40%, contro un dato nazionale del 20%)

cinque milioni di poveri assoluti in Italia

il dramma del rapporto Caritas

in Italia 5 milioni di poveri assoluti

La povertà in Italia, nonostante quanto strillato da Di Maio nel settembre 2018, quando l’allora vice premier disse di averla “abolita”, attanaglia un milione e 800mila famiglie (il 7% dei nuclei familiari) per un totale di oltre 5 milioni di individui (l’8,4% della popolazione). I dati emergono dal report 2019 della Caritas Povertà ed esclusione sociale reso noto in occasione della Giornata Mondiale dei Poveri.

L’INCIDENZA DELLA POVERTA’ AL SUD 

Rispetto al 2017 i dati sono praticamente stabili: all’epoca infatti l’incidenza si attestava al 6,9% per le famiglie e all’8,4% per gli individui. Considerando invece il trend dal 2007 ad oggi, il numero dei poveri ha registrato un incremento del 181% (+121% sulle famiglie). Il dato peggiore arriva dal Mezzogiorno: nel Sud e nelle Isole l’incidenza della povertà assoluta sugli individui raggiunge rispettivamente l’11,1% e il 12,0% a fronte di valori molto più contenuti registrati nel Centro (6,6%) e nel Nord (6,8%).

I WORKING POOR 

A preoccupare sono i numeri dei cosiddetti “working poor”, aumentati nel corso del 2018. Cresce infatti la situazione di criticità delle famiglie il cui capofamiglia è impiegato come operaio o assimilato: tra queste risulta povero in termini assoluti il 12,3% del totale. Altro allarme arriva dal confronto tra le famiglie di operai di oggi e quelle antecedenti al 2008, in dieci anni infatti l’incidenza della povertà assoluta è aumentata del 624%, passando dall’1,7% del 2007 al 12,3% di oggi.

I DISOCCUPATI 

Come pronosticatile tra i disoccupati la povertà assoluta arriva oggi al 27,6%. Ad incidere sulla situazione dei disoccupati sono il livello di istruzione, l’ampiezza del nucleo familiare e l’eventuale presenza di figli minori, lo stato di disoccupazione e, in caso di occupazione, il tipo di lavoro svolto.

L’ITALIA IN EUROPA 

Il Belpaese è la sesta nazione a maggior rischio di povertà d’Europa (27,3%), dopo Bulgaria (32,8%), Romania (32,5%), Grecia (31,8%), Lettonia (28,4%) e Lituania (28,3%). Dietro di noi c’è la Spagna (26,1%) 

crimini contro l’umanità – un’altra denuncia all’Italia e all’UE

nuovo esposto all’Aja contro l’Italia e l’Ue

«i politici responsabili di crimini contro l’umanità»

la denuncia di un esperto di diritto internazionale e di un giornalista

«I Paesi europei tentano di aggirare il diritto affidando i respingimenti ai libici». Un testimone: «Così la guardia costiera libica è collusa coi trafficanti»

Nuovo esposto all'Aja contro l'Italia e l'Ue. «I politici responsabili di crimini contro l'umanità»

Il periodo preso in esame è dal 2014 ad oggi mentre le accuse riguardano, le morti in mare, i respingimenti e «crimini di deportazione, omicidio, carcere, riduzione in schiavitù, tortura, stupro, persecuzione e altri atti disumani». Secondo l’analisi, dopo la caduta di Gheddafi nel 2011 l’Unione europea ha cambiato linea politica lasciando i migranti in difficoltà in mare, «al fine di dissuadere altri in simili situazione dalla ricerca di un rifugio sicuro in Europa». Questa scelta ha trasformato «il Mediterraneo centrale nella rotta migratoria più letale del mondo, dove tra il 1 ° gennaio 2014 e la fine di luglio 2017, sono morte oltre 14.500 persone». La denuncia si basa in parte su documenti interni di Frontex, l’organizzazione dell’Ue incaricata di proteggere le frontiere esterne e che, secondo gli avvocati, avrebbe avvertito che abbandonare la missione di salvataggio italiana Mare Nostrum avrebbe portato a un «più alto numero di vittime». I legali non individuano nel loro documento responsabilità specifiche di singoli politici o funzionari ma citano messaggi diplomatici e commenti di leader nazionali, tra cui Angela Merkel e Emmanuel Macron.

Sempre in modo consapevole, l’Ue avrebbe deciso di espellere le Ong dal Mediterraneo decidendo di collaborare con la guardia costiera libica, «diventato un attore chiave nell’intercettazione e nel respingimento illegale dei migranti». Il meccanismo si aggrava proprio a causa di quest’ultimo provvedimento. «Attraverso un complesso mix di atti legislativi, decisioni amministrative e formali accordi, l’UE e i suoi Stati membri hanno fornito alla guardia costiera libica sostegno materiale e strategico, incluso ma non limitato a navi, addestramento e capacità di comando e controllo». Una decisione che avrebbe permesso agli Stati membri di aggirare il diritto marittimo e internazionale.

Se il riferimento è alla creazione di una Sar Zone libica, confermata dall’Imo (organizzazione marittima internazionale) il giugno scorso, a dimostrazione dell’impianto accusatorio, viene allegata la testimonianza di un migrante, proveniente dal Darfur settentrionale che proverebbe la collusione della Guardia costiera libica con i trafficanti. «Eravamo 86 migranti, tutti sudanesi. La barca era troppo pesante. Abdelbasit (uno dei trafficanti, ndr) si è messo alla guida del barcone mentre un piccolo scafo guidato da Fakri (l’altro trafficante, ndr) faceva ricognizione», racconta. Una volta che i trafficanti se vanno, il barcone viene avvicinato da un’altra imbarcazione. «C’erano otto uomini in uniforme, con un mitragliatrice, che hanno speronato la nostra barca», spiega ancora l’uomo. Secondo il testimone, i militari dopo essersi fatti dare il numero di telefono dai migranti avrebbero telefonato uno dei trafficanti, Abdelbasit. «”Are you Ammo?”, hanno detto. Ma poi lui ha spento il telefono». A quel punto il barcone viene riportato indietro verso la Libia. «Sulla via del ritorno, hanno intercettato altre 4 barche. Al mattino presto, quando abbiamo raggiunto Zawiya, ne erano rimaste solo tre. Le altre due barche erano state rilasciate perché avevano raggiunto un accordo con la guardia costiera libica». Una volta riportati a terra, i migranti vengono trasferiti in una prigione. «Le guardie ci hanno detto: “Ognuno di voi deve pagare 2000 dinari, e noi poi vi riporteremo al punto in cui sarete salvati. Paga o se non hai soldi telefona, chiama la tua famiglia in modo che ci mandino dei soldi. Un agente può riscuotere denaro a Tripoli. Chiunque non riesca a pagare, lo trasferiremo nella prigione di Osama (noto anche come Al-Nasr detention center, ndr)”».

Il racconto del migrante prosegue. «Siamo stati detenuti per 15 giorni, io e mia moglie eravamo separati. Non voglio parlare di cosa è successo a lei. Alla fine, mia moglie è riuscita a chiamare i suoi fratelli che hanno mandato i soldi per tirarci fuori. Sono stati giorni molto difficili. Abbiamo bevuto una tazza d’acqua al giorno. Anche il cibo era disgustoso». Dopo 15 giorni «ci hanno rimesso in mare, siamo stati mandati sulla stessa barca di legno, con altri due gommoni. La barca che ci ha scortato era la stessa barca della guardia costiera libica che ci ha intercettato la prima volta. Gli uomini armati che erano sulla barca delle Guardie costiere libiche erano gli stessi uomini armati che erano sulla barca quando siamo stati intercettati la prima volta. Ci hanno scortato per due o tre ore, finché la luce della città non è diventata sbiadita». Superata la piattaforma petrolifera di fronte Sabratha gli uomini se ne vanno. «Le onde erano così alte e la gente ha iniziato a farsi prendere dal panico. Eravamo 87 sulla nostra barca – gli stessi passeggeri che erano con noi quando siamo stati intercettati per la prima volta, tranne quattro persone che non potevano pagare. Al mattino abbiamo scoperto che erano stati sostituiti da cinque libici che erano sulla barca. Poi siamo stati avvistati e salvati da una barca che ci ha portato a Trapani».

L’ufficio della procura dell’Aja dovrà decidere ora se acquisire la denuncia, un passaggio che non garantisce automaticamente l’avvio di un’inchiesta, ma è comunque evidentemente il primo passo che può portare ad essa. A gennaio è stata acquisita le denuncia di razzismo fatta contro il governo italiano dal “Centro di ricerca per la pace e i diritti umani” di Viterbo.

per la chiesa l’Italia è in pericolo per la politica di governo

Francesco Peloso

La Chiesa lancia l'allrme sulla manovra e sul rapporto tra Europa e governo. Preoccupazioni del Vaticano anche sul clima.

la chiesa lancia l’allarme sulla manovra e sul rapporto tra Europa e governo
preoccupazioni del Vaticano anche sul clima

Un governo in conflitto con l’Europa, contro le Nazioni Unite in materia di migrazioni, tutto sommato assente nei negoziati per fermare il cambiamento climatico in corso a Katowice, in Polonia: su tre fronti decisivi il neo-isolazionismo promosso dall’esecutivo Lega-M5s incontra le critiche più o meno esplicite della Chiesa italiana e della Santa Sede. Risultato: ora non solo Bruxelles è sempre più lontana, ma anche le due sponde del Tevere sembrano essersi allargate come raramente era avvenuto negli ultimi decenni.

Il Vaticano dunque guarda con crescente preoccupazione la deriva autarchica del governo Conte a cominciare dai rapporti con l’Europa; il Vecchio continente del resto, secondo i vescovi, non è unito solo sotto il profilo politico o economico, le sue radici comuni si ritrovano, anzi, pure nel tessuto originario cristiano, in un nucleo di valori condivisi, nel rispetto dei diritti umani, nel mantenimento della pace; e se certo il processo di integrazione europeo può essere rinnovato e modificato, altra cosa è rinchiudersi nel nazionalismo e nella xenofobia. Così almeno si è espresso nei giorni scorsi li presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, intervenendo a un’iniziativa organizzata da un gruppo di associazioni cattoliche (Azione Cattolica, Acli, Comunità di Sant’Egidio, Cisl, Confcooperative, Fuci e Istituto Sturzo) dal titolo non casuale: La nostra Europa, con tanto di appello europeista pubblicato dal quotidiano dei vescovi Avvenire. Tema tanto più delicato nel momento in cui il governo italiano si trova al centro di una delicatissima trattativa sulla manovra economica con le istituzioni europee.

L’AFFONDO DEL PRESIDENTE CEI CONTRO LA LINEA DEL GOVERNO

Il cardinal Bassetti, scartando gli eufemismi curiali, ha affermato: «L’Italia ha un bisogno forte dell’Europa e l’Europa ha una necessità vitale dell’Italia. Non credo che nessuno ci guadagnerebbe da un ipotetico distacco. Un distacco che, tra l’altro, da un punto di vista storico, geografico, spirituale e culturale non ha alcuna ragion d’essere, dopo di che», ha rilevato il presidente della Cei, «si possono discutere le modalità dell’unione politica, ma senza perdere di vista un fatto: rilanciare significa anche rivedere, migliorare, riformare, non distruggere». Dunque nel pieno della crisi fra Roma e Bruxelles, dal vertice della Chiesa non ci si nasconde quale sia li vero rischio (o obiettivo politico non dichiarato): la rottura fra l’Italia e l’Ue. D’altronde Bassetti indica una strada ben precisa per ridare slancio a un’unione intesa come «comunità di popoli in pace che supera gli egoismi e i rancori nazionali», ovvero quella di dare vita a «un’Europa unita, pacificata e solidale, che non speculi sui conflitti sociali e sulle divisioni politiche, che non pratichi l’incultura della paura e della xenofobia, ma che costruisca, con animo puro, la cultura della solidarietà per un nuovo sviluppo della promozione umana». Nel discorso del cardinale non è mancata una citazione di Alcide De Gasperi, storico leader democristiano, fra i fondatori, insieme ad altri esponenti europei di ispirazione cristiana, del primo nucleo della comunità europea nel secondo Dopoguerra.

IL GLOBAL COMPACT E IL RUOLO DEL VATICANO

In effetti, la preoccupazione odierna, Oltretevere, è che nel disfarsi dell’unione politica, nel dispiegarsi «degli egoismi nazionali», vada in frantumi un percorso di solidarietà e civiltà innervato anche sulle varie tradizioni cristiane del continente che, pur tra diverse crisi e problemi, ha permesso all’Europa di progredire in pace come mai era avvenuto nella storia. Un approccio che urta soprattutto con l’ideologia della nuova Lega – non più solo del Nord ma nazionale – di Matteo Salvini. E in effetti è stato proprio il leader leghista a far ingranare la retromarcia al governo anche sul Global compact for migration, un accordo non vincolante promosso dalle Nazioni Unite, per gestire in modo il più possibile condiviso il fenomeno migratorio, combattendo i trafficanti, costruendo vie legali di accesso, creando alleanze fra i diversi Paesi coinvolti. Un accordo al cui raggiungimento ha collaborato in modo particolarmente attivo la diplomazia vaticana, anche per dare una risposta a quegli Stati, fra i quali appunto l’Italia, i quali, per geografia e storia, sono diventati terra d’approdo privilegiata. Per tale ragione il fatto che il governo abbia ritirato improvvisamente il proprio consenso all’intesa, viene giudicata in Vaticano una scelta strumentale dettata più dalla propaganda che dal realismo.

Vaticano Dicastero Economia Finanze

Infine l’ambiente: in Polonia a Katowice in questi giorni sono iniziati i negoziati per attuare l’intesa mondiale sullo stop al cambiamento climatico sottoscritta a Parigi nel dicembre 2015. Per papa Francesco la «cura della casa comune» è un punto fondamentale del suo magistero, da qui passa quell’idea di ecologia integrale in forza della quale ambiente, popoli, sviluppo dovrebbero far parte di un unico modello non più dominato dalla volontà di dominio e dallo sfruttamento illimitato delle risorse. Temi immensi, come si può intuire, sui quali la voce dell’Italia, per ora, è molto flebile fino a perdersi del tutto nelle polemiche di giornata.

una povertà che uccide

morire di povertà

Secondo un rapporto Istat (pubblicato il 26 Giugno 2018) con riferimento all’anno 2017, in Italia, la povertà assoluta è aumentata rispetto al 2016 sia in termini di famiglie che in termini di individui.

Secondo la definizione:

“la povertà assoluta è calcolata su una base di una soglia corrispondente alla spesa mensile minima necessaria per acquisire un paniere di beni e servizi che, nel contesto italiano e per una determinata famiglia, è considerato essenziale a uno standard di vita minimamente accettabile”.

In altre parole, ci sono famiglie e individui che non possono letteralmente comprare i beni necessari (e tra i beni sono compresi cibo e medicinali) e che quindi non hanno un livello di vita umanamente accettabile. In particolare, la soglia di povertà è peggiorata per i minori e ed è aumenta rispetto al 2016 nelle famiglie con uno o più minori a carico.

Dunque, l’aumento della povertà è un triste dato di fatto. Come questo influisca non solo sulla qualità della vita ma sulla vita stessa e una correlazione che espliciterò tra un attimo. Esiste una vasta letteratura in merito al legame tra povertà e condizioni di salute generale. Nella mia carriera ho dedicato larga parte allo studio di quelle che vengono definite le determinanti socio-economiche che influiscono sul livello di Salute delle donne e dei bambini e purtroppo sono giunta a terribili conclusioni.

Al pari dell’alcool, dell’inquinamento e del fumo, la povertà è un killer silenzioso che aumenta la sua azione in tempi di crisi. Come questo avvenga è dimostrabile e determinabile. Prendiamo in considerazione, per esempio, il dato sulla mortalità infantile e la malnutrizione. Questi fenomeni registrano un calo generale, tuttavia le disuguaglianze tra poveri e ricchi all’interno della stessa nazione e tra nazioni persistono e, anzi, sembrano essere in aumento.

Inoltre, le disparità tra paesi industrializzati e in via di sviluppo è considerevole: rispettivamente un tasso di mortalità per bambini sotto i cinque anni nel primo caso di 6/1000 e nel secondo di 91/1000. La stessa dinamica si ripete all’interno dei paesi stessi. Per esempio, in Brasile, tra il 1987-1992 il tasso di mortalità per i bambini più poveri era circa sei volte quello dei bambini più ricchi. Ciò impone di pensare strategie per la riduzione della mortalità infantile. Dapprima analizzando il materiale a disposizione sulle cause socio-economiche delle diseguaglianze.

Le maggiori cause di morte per i bambini sotto i cinque anni sono: polmonite, diarrea, malaria, morbillo, HIV/AIDS. Cosa determina la distribuzione di queste cause specifiche di morte? Risposta: le determinanti che influiscono sulla salute della madre e del bambino. Vi sono determinati dirette e indirette. Tra le prime si annoverano: la nutrizione (appunto), l’attività di prevenzione e le cure durante la maternità e i primi mesi di vita.

Per quanto riguarda il primo punto, è importante ricordare che la malnutrizione è causa del 60% delle morti dei bambini sotto i cinque anni. Dunque, riproponendo il dato citato prima sull’impossibilità di comprare cibo, possiamo affermare che è probabile causa di morte. Tra le cause indirette vi sono: il livello di educazione della madre, il reddito e la possibilità di accedere alle cure. Tali cause indirette potremmo definirle le già citate determinanti socio-economiche.

Educazione, reddito e accesso alle cure sono dipendenti dall’ambiente in cui il soggetto vive, ovvero il contesto economico e sociale. Ecco che allora la povertà emerge come principale fattore nel determinare lo stato di Salute ed è una vera e propria causa di morte. Dobbiamo iniziare a ripensare la povertà non solo in termini di una maggior giustizia sociale ed equità, ma di una vera e propria “emergenza sanitaria”.

È importante ricordarlo, soprattutto in questo contesto di crisi economica, dove un taglio alle spese potrebbe avere ricadute pesanti sullo stato di salute generale del paese, in particolare quello delle categorie più vulnerabili: bambini, donne e anziani. Categorie, che per definizione, hanno meno possibilità di uscire da uno stato di povertà, poiché si vedono impedite nell’accesso al lavoro, che è il mezzo primario per produrre ricchezza. Se non si tiene a mente questo importante fattore si rischia letteralmente di “tornare indietro”.

Un caso simile è già accaduto nella storia. Ho lavorato in Argentina proprio negli anni della crisi economica tra la fine degli anni ’90 e i primi 2000 e ho avuto (purtroppo) modo di verificarne personalmente i pesanti effetti. Questo paese, che aveva raggiunto un buon livello di Salute pubblica in tempi pre-crisi, è velocemente ripiombato nel baratro, danneggiando soprattutto donne e bambini.

E insieme alle conseguenze monetarie del default argentino, ricomparirono nello spazio di sei mesi casi di Kwashiorkor, severa malnutrizione nei bambini, che determina rigonfiamento dell’addome e rallenta irreversibilmente lo sviluppo cognitivo dei bambini. Raggiungere un buon livello di Salute per un Paese richiede immani sforzi e moltissimo tempo.

Perdere quanto ottenuto può essere invece molto rapido, se non si presta la giusta attenzione. Rivolgo quindi un appello urgente a questo governo. È necessario difendere ora in ogni modo il sacro principio sancito dalla Costituzione all’articolo 32: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”.

E con questo si intendono tutti indigenti, anche coloro che non vengono definiti propriamente italiani. È un dovere costituzionale, oltre che etico. Perché di povertà si muore, purtroppo. Anche nel 2018. Anche in Italia.

in Italia triplicati i poveri parola di Caritas

la povertà è triplicata in Italia

l’allarme della Caritas: un povero su due ha meno di 34 anni

In Italia, dagli anni pre-crisi ad oggi, c’è stato un aumento del 182 per cento dei poveri assoluti. Pesa la mancanza di istruzione e non solo tra i giovani

La povertà è triplicata in Italia. L'allarme della Caritas: un povero su due ha meno di 34 anni

globalist 17 ottobre 2018www.redattoresociale.it

La povertà assoluta in Italia è quasi triplicata dagli anni pre-crisi ad oggi: negli ultimi dieci anni è aumentata del 182 per cento, “un dato che dà il senso dello stravolgimento avvenuto per effetto della recessione economica”. È il nuovo rapporto 2018 di Caritas Italiana sulla povertà e sulle politiche di contrasto presentato oggi a Roma a dare le dimensioni di un fenomeno che anno dopo anno, nonostante le misure introdotte ad oggi, non fa che crescere. “In Italia il numero dei poveri assoluti continua ad aumentare – spiega la Caritas -, passando da 4 milioni e 700 mila del 2016 a 5 milioni e 58 mila del 2017, nonostante i timidi segnali di ripresa sul fronte economico e occupazionale”.

Sempre più poveri tra minori e giovani. Sono soprattutto i giovani a soffrirne negli anni successivi alla crisi economia e finanziaria che ha colpito l’intero occidente negli anni scorsi. “Da circa un lustro la povertà tende ad aumentare al diminuire dell’età – spiega la Caritas -, decretando i minori e i giovani come le categorie più svantaggiate (nel 2007 il trend era esattamente l’opposto). Tra gli individui in povertà assoluta i minorenni sono 1 milione e 208 mila (il 12,1 per cento del totale) e i giovani nella fascia 18-34 anni 1 milione e 112 mila (il 10,4 per cento): oggi quasi un povero su due è minore o giovane”. Per quanto riguarda la cittadinanza, aggiunge il rapporto, la povertà assoluta si mantiene al di sotto della media tra le famiglie di soli italiani (5,1 per cento), “sebbene in leggero aumento rispetto allo scorso anno”, precisa la Caritas. Livelli molto elevati di povertà, invece, si riscontrano tra i nuclei con soli componenti stranieri (29,2 per cento). “Lo svantaggio degli immigrati non costituisce un elemento di novità e nel 2017 sembra rafforzarsi ulteriormente – spiega la Caritas -. Volendo semplificare, tra i nostri connazionali risulta povera una famiglia su venti, tra gli stranieri quasi una su tre”.

L’istruzione continua ad essere tra i fattori che più influiscono (oggi più di ieri) sulla condizione di povertà, spiega la Caritas. I dati nazionali dei centri di ascolto, infatti, dimostrano anche una associazione tra livelli di istruzione e cronicità della povertà. “Esiste uno zoccolo duro di disagio che assume connotati molto simili a quelli esistenti prima della recessione – spiega Francesco Soddu, direttore di Caritas Italiana -, con la sola differenza che oggi il fenomeno è sicuramente esteso a più soggetti. Si tratta, dunque, di un esercito di poveri in attesa, che non sembra trovare risposte e le cui storie si connotano per una cronicizzazione e multidimensionalità dei bisogni davvero pericolose”. Secondo il rapporto, infatti, dal 2016 al 2017 si aggravano le condizioni delle famiglie in cui la persona di riferimento ha conseguito al massimo la licenza elementare (passando dal 8,2 per cento al 10,7 per cento). Al contrario i nuclei dove il “capofamiglia” ha almeno un titolo di scuola superiore registrano valori di incidenza della povertà molto più contenuti (3,6 per cento). Particolarmente accentuato, nel nostro paese, anche il legame tra povertà educativa minorile e povertà. Per Soddu, si tratta di un “fenomeno principalmente ereditario  – spiega -, che a sua volta favorisce la trasmissione intergenerazionale della povertà economica”. Il dossier della Caritas, infatti, evidenzia situazioni di maggior svantaggio “proprio nelle regioni del Mezzogiorno che registrano i più alti livelli di povertà assoluta – si legge nel rapporto -. Al Sud e nelle Isole c’è una minore copertura di asili nido, di scuole primarie e secondarie con tempo pieno, una percentuale più bassa di bambini che fruiscono di offerte culturali e/o sportive e al contempo una maggiore incidenza dell’abbandono scolastico”.

La povertà educativa colpisce anche gli adulti. Ad approfondire il tema, un’indagine sperimentale condotta sull’utenza Caritas in Germania, Grecia, Italia e Portogallo. “Limitando l’analisi ai tre Paesi che condividono una comune classificazione dei livelli scolastici (Grecia, Italia e Portogallo) si conferma una situazione di forte debolezza scolastica degli utenti Caritas – continua il rapporto -: in media, l’11,4 per cento è analfabeta o non possiede nessun titolo scolastico. Solo una esigua minoranza del campione (10,2 per cento) è in possesso di un titolo di scuola media superiore. Il titolo di studi più diffuso in tutti i Paesi esaminati tuttavia è la licenza media inferiore (38,1 per cento)”. L’analisi mostra una forte correlazione tra l’assenza di titoli di studio e situazione reddituale della famiglia. “Se nel campione complessivo quasi la metà delle persone risulta privo di una fonte stabile di entrate economiche, l’assenza totale di reddito appare più preoccupante nel caso delle persone che hanno un capitale formativo molto basso: si giunge infatti a sfiorare l’ottanta percento delle persone senza titoli di studio che, allo stesso tempo, non possono godere di nessun tipo di entrata economica”. Secondo la Caritas, si tratta di una popolazione di elevata marginalità sociale, in quanto all’assenza di lavoro si somma la quasi totale insufficienza del capitale formativo. “In termini assoluti, questo tipo di utenti, in evidente situazione di esclusione sociale, è pari al 4 per cento dell’intero campione – spiega il rapporto -. Si tratta quindi di un piccolo gruppo di persone per le quali è tuttavia necessario un duplice intervento, per favorire la ricerca di un lavoro e al tempo stesso il raggiungimento di un livello formativo idoneo”.

l’Italia, democrazia o oligarchia?

la Costituzione secondo il Sistema

da Altranarrazione

L’Italia è un’Oligarchia fondata sugli affari. La sovranità appartiene al capo partito che la esercita per conto di banche, petrolieri e “grandi” aziende. (nuovo art. 1)

L’Oligarchia riconosce e garantisce l’asservimento dei singoli alla globalizzazione e alla speculazione finanziaria. (nuovo art. 2)

L’Oligarchia promuove la fuga dei cervelli e lo sviluppo della cultura e della ricerca nei paesi esteri. (nuovo art. 9)

L’Oligarchia promuove la pace con le armi e le azioni militari. (nuovo art.11)

Tutti hanno diritto, perdendo il posto di lavoro, di manifestare liberamente il proprio pensiero. (nuovo art. 21)

La scuola è aperta a tutti. Chi sceglie quella pubblica deve munirsi di: banco, sedia, e lavagna. (nuovo art. 34)

Con il consenso del capo azienda (e sentito il parere dei capireparto) al lavoratore può essere erogata una retribuzione per la sua attività. La retribuzione non dovrà in ogni caso essere sufficiente ad assicurare a sé (e tanto meno alla famiglia) un’esistenza libera e dignitosa. (nuovo art. 36)

La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Non potrà comunque superare le 24 ore. (nuovo art. 36)

La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore, se rinuncia ad avere figli e se diventa uomo. (nuovo art. 37)

Il diritto di sciopero è regolato da specifiche leggi e si esercita fuori dagli orari di lavoro.(nuovo art. 40)

e dicono che il razzismo in Italia non è un problema serio …

quegli otto spari sui migranti in tutta Italia

di Fiorenza Sarzanini
in “Corriere della sera” del 28 luglio 2018

In un mese e mezzo ci sono stati otto casi. E a questo punto sembra davvero difficile parlare di coincidenze. Perché è vero che gli episodi sono accaduti in città diverse — anche se a Caserta e Forlì è già accaduto per due volte — e differenti sono le modalità. Ma gli spari contro gli stranieri, con armi a pallini o ad aria compressa, sono sempre più frequenti e tanto basta per far scattare l’allerta negli apparati di sicurezza. I controlli sui social L’ipotesi valutata al momento è quella dell’emulazione, ma senza escludere che dietro alcuni «attacchi» possa esserci una matrice di odio razziale. Ecco perché carabinieri e polizia stanno cercando di ricostruire nei dettagli ogni vicenda, concentrandosi sulla possibilità che qualcuno possa essere stato fomentato attraverso la «rete» dei social. Un lavoro affidato alla Postale che sta monitorando «profili» e siti proprio per trovare tracce utili. Verifiche che si affiancano a quelle svolte da commissariati e stazioni dell’Arma per scoprire se dietro alcuni fatti possa esserci un’unica regia.

Senza dimenticare quanto accaduto a Macerata nel febbraio scorso quando Luca Traini sparò e ferì sei stranieri «per vendicare l’omicidio di Pamela Mastropietro», la giovane che era stata adescata da un gruppo di nigeriani. Gli spari in Campania L’11 giugno scorso c’è la prima denuncia. Due ragazzi maliani — ospiti di una struttura per migranti — si presentano alla questura di Caserta e raccontano di essere stati colpiti da una raffica di colpi di pistola ad aria compressa sparati da una Panda nera in corsa. Uno ha una ferita all’addome. Parlano di tre aggressori, raccontano che inneggiavano a Matteo Salvini. Scattano le verifiche, intanto nove giorni dopo un altro giovane maliano viene colpito a Napoli da due ragazzi armati di un fucile a piombini mentre sono a bordo di un’auto per le vie del centro. L’ultimo caso ancora a Caserta è di ieri, con il ragazzo della Guinea, ospite in un centro di accoglienza, che racconta di essere stato colpito al volto con la pistola ad aria compressa. A Forlì sono due gli assalti contro gli stranieri. Il primo viene denunciato il 2 luglio da una donna nigeriana ferita a un piede. In realtà quando si presenta spiega che l’episodio è accaduto qualche giorno prima, ma spiega di aver avuto paura. Appena tre giorni dopo c’è un nuovo caso. Questa volta ad essere colpito all’addome è un ivoriano di 33 anni. Il suo racconto è preciso: mentre stava in bicicletta è stato affiancato da un’auto e qualcuno si è sporto dal finestrino sparando con una pistola modello softair. È lo stesso tipo di arma usato dai tre ragazzi denunciati mentre vengono sorpresi a fare fuoco contro le macchine in corsa. E gli investigatori non escludono che siano proprio loro, o comunque qualcuno a loro collegato, ad aver agito.

Il Lazio e i rom L’11 luglio vengono presi di mira due nigeriani mentre aspettano l’autobus a Latina Scalo da sconosciuti a bordo di una vettura scura. Il sindaco Damiano Coletta non crede alla causalità, parla subito di «matrice discriminatoria». Più cauti sono i magistrati di Roma che indagano sul ferimento della bimba rom di 15 mesi colpita il 17 luglio in una strada trafficata mentre è in braccio alla mamma. Perché, spiegano, l’ex dipendente del Senato che ha sparato dal balcone del suo appartamento non mostra di avere alcuna tendenza razzista. Resta però da capire come mai non si sia presentato ai carabinieri pur avendo saputo di aver ferito la piccola e soprattutto perché avesse modificato l’arma per potenziarla. Non ha avuto il coraggio di dire che «volevo sparare a un piccione» come ha sostenuto l’uomo che in Veneto due giorni fa ha colpito alla schiena un operaio di Capoverde. Ma anche la giustificazione del «colpo partito per sbaglio» appare poco credibile.

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