il commento al vangelo della domenica

finché c’è compassione il mondo può sperare


Finché c'è compassione il mondo può sperare
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della  XVI domenica del tempo ordinario – Anno B:

In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.

Venite in disparte e riposatevi un po’. I suoi sono ritornati felici da quell’invio a due a due, da quella missione in cui li aveva lanciati, un pellegrinaggio di Parola e di povertà.

I Dodici hanno incontrato tanta gente, l’hanno fatto con l’arte appresa da Gesù: l’arte della prossimità e della carezza, della guarigione dai demoni del vivere. Ora è il tempo dell’incontro con se stessi, di riconnettersi con ciò che accade nel proprio spazio vitale. C’è un tempo per ogni cosa, dice il sapiente d’Israele, un tempo per agire e un tempo per interrogarsi sui motivi dell’agire. Un tempo per andare di casa in casa e un tempo per “fare casa” tra amici e con se stessi. C’è tanto da fare in Israele, malati, lebbrosi, vedove di Nain, lacrime, eppure Gesù, invece di buttare i suoi discepoli dentro il vortice del dolore e della fame, li porta via con sé e insegna loro una sapienza del vivere.

Viviamo oggi in una cultura in cui il reddito che deve crescere e la produttività che deve sempre aumentare ci hanno convinti che sono gli impegni a dare valore alla vita. Gesù ci insegna che la vita vale indipendentemente dai nostri impegni (G. Piccolo).
La gente ha capito, e il flusso inarrestabile delle persone li raggiunge anche in quel luogo appartato. E Gesù anziché dare la priorità al suo programma, la dà alle persone. Il motivo è detto in due parole: prova compassione. Termine di una carica bellissima, infinita, termine che richiama le viscere, e indica un morso, un crampo, uno spasmo dentro. La prima reazione di Gesù: prova dolore per il dolore del mondo. E si mise a insegnare molte cose. Forse, diremmo noi, c’erano problemi più urgenti per la folla: guarire, sfamare, liberare; bisogni più immediati che non mettersi a insegnare. Forse abbiamo dimenticato che c’è una vita profonda in noi che continuiamo a mortificare, ad affamare, a disidratare.

A questa Gesù si rivolge, come una manciata di luce gettata nel cuore di ciascuno, a illuminare la via. Questo Gesù che si mette a disposizione, che non si risparmia, che lascia dettare agli altri l’agenda, generoso di sentimenti, consegna qualcosa di grande alla folla: «Si può dare il pane, è vero, ma chi riceve il pane può non averne bisogno estremo. Invece di un gesto d’affetto ha bisogno ogni cuore stanco. E ogni cuore è stanco» (Sorella Maria di Campello). È il grande insegnamento ai Dodici: imparare uno sguardo che abbia commozione e tenerezza. Le parole nasceranno. E vale per ognuno di noi: quando impari la compassione, quando ritrovi la capacità di commuoverti, il mondo si innesta nella tua anima, e diventiamo un fiume solo. Se ancora c’è chi sa, tra noi, commuoversi per l’uomo, questo mondo può ancora sperare.
(Letture: Geremia 23, 1-6; Salmo 22; Efesini 2,13-18; Marco 6, 30-34)

la forza rivoluzionaria della misrericordia secondo il vescovo Zuppi

io, vescovo di strada, vi spiego la “misericordia rivoluzionaria”

  

il vescovo di Bologna Matteo Zuppi, già assistente spirituale di Sant’Egidio, ha spiegato a Rimini il ruolo della Chiesa in un’epoca di svolte epocali

«Non esiste un bene cattolico, perché il bene comune è di tutti, e dobbiamo cercarlo insieme agli altri, anche ai musulmani. La misericordia è la vera rivoluzione. A patto che non sia declinata al ribasso»

 

Copertina

La misericordia deve essere “rivoluzionaria”, e la Chiesa deve aprirsi per cercare il bene comune, che non è un bene solo cattolico (perché non esiste) ma un bene di tutti. Sono stati questi alcuni dei significativi passaggi dell’intervento al Meetgin di Rimini di monsignor Matteo Maria Zuppi, romano, 60 anni, dal 2012 vescovo ausiliare di Roma ma per molti anni parroco a Trastevere ed esponente della Comunità di Sant’Egidio. Il “prete di strada”, nominato a sorpresa da papa Francesco vescovo di Bologna, che gira per la città con la sua semplice utilitaria ed è stato il primo esponente dell’episcopato a salire sul palco del 1° maggio per salutare i lavoratori, era chiamato a parlare del Convegno ecclesiale di Firenze e delle ricadute sulla Chiesa italiana, ma ha in realtà spaziato toccando molti temi sociali, con un intervento che ha ricevuto numerosi applausi dalla platea.

A partire dall’inizio, quando il prelato ha voluto ricordare la tragedia del terremoto di questa notte, facendo recitare al pubblico un Padre Nostro e un’Ave Maria. Zuppi (che finì sui giornali ai tempi delle polemiche su monsignor Luigi Negri, accusato di aver criticato la sua nomina a vescovo) è poi passato ad analizzare, lodandolo, il tema del Meeting “Tu sei un bene per me”, affermando che «la solitudine è la grande minaccia di questi tempi di individualizzazione, in cui si diffida di tutto e ci si infastidisce della concretezza dell’altro», soprattutto, ha continuato il vescovo di Bologna, «del profugo, del diverso».

Zuppi ha poi proseguito invitando a cercare «un bene non solo soggettivo e individuale, ma un bene che è di e per tutti, insieme agli altri, anche ai musulmani», sottolineando come «non esiste un bene cattolico, perché il bene comune è di tutti, e dobbiamo cercarlo con gli altri con intelligenza, umiltà e visione. Dobbiamo accettare la sfida della ricostruzione, come 70 anni fa», ha aggiunto, riprendendo le parole del presidente Mattarella a Rimini, «perché tanto bene comune è stato distrutto, a iniziare dalla speranza, e la responsabilità di queste macerie sono tante: dissennatezza, ignavia, indifferenza, presunzione e furto, non solo di soldi ma anche di speranza».

Riprendendo i temi del convegno di Firenze, l’arcivescovo ha poi toccato il tema della misericordia, declinandola però secondo l’accezione data dalla poetessa e mistica francese Madeleine Delbrêl, che scrisse di una «misericordia rivoluzionaria»: i cristiani, cioè, non si devono modellare a misericordia al ribasso, riducendosi a essere medici, infermieri o operatori sociali; devono rifiutare la misericordia del giusto mezzo, da burocrati. La chiesa – ha detto – «è come una madre ansiosa alla porta di un ospedale dove degli estranei curano i suoi figli».

La conclusione del suo intervento ha riguardato la necessità che i cristiani diano una scossa al loro agire, senza perdersi in contrapposizioni tra conservatori e progressisti: «La vicenda della Siria e di Aleppo e dei suoi cristiani ci ammoniscono, ci sfidano a essere più svegli, più forti e uniti per avere una misericordia rivoluzionaria che cambia le cose, lascia un’impronta. La misericordia fa entrare nella storia».

« Siamo di fronte a una svolta epocale», ha continuato, «e non possiamo essere mediocri, anche nella Chiesa. La contrapposizione non è tra conservatori e progressisti ma tra la Chiesa prima di pentecoste, chiusa, che non si misura con il mondo, e una Chiesa piena del fuoco dell’amore che la spinge a uscire a parlare tutte le lingue dei cuori degli uomini».

sulla misericordia nei confronto della estrema sofferenza

il diritto di chi soffre

di Luigi Manconi
in “la Repubblica” del 23 settembre 2019

Di chi è la mia vita?

Al di là delle risposte troppo semplici, che risultano fatalmente inadeguate, l’interrogativo evoca quella dimensione in ombra della morte che rivela la nostra fragilità già nel pensarla. E richiama questioni delicatissime che, tuttavia, la politica e il diritto non possono ignorare perché riguardano le aspettative più profonde dei membri della collettività: la possibilità di ridurre al minimo le sofferenze fisiche e psichiche che accompagnano le patologie e il declino del corpo. Finora la politica è stata a dir poco pavida, il diritto più lungimirante. Domani, la Consulta dovrà esprimersi sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d’Assise di Milano, il 14 febbraio 2018 in occasione del processo a carico di Marco Cappato, accusato di aver sostenuto il proposito di togliersi la vita di Fabiano Antoniani e di aver materialmente agevolato il compimento di quell’atto. In discussione è la legittimità costituzionale dell’art. 580 del Codice Penale, laddove viene equiparata la condotta di istigazione e quella di aiuto al suicidio, prevedendo la medesima sanzione (dai 5 ai 12 anni di reclusione). E ciò anche quando l’agevolazione materiale al suicidio non abbia in alcun modo influito sulla volontà dell’interessato. La Corte Costituzionale, un anno fa, decise di posticipare l’udienza di 11 mesi, così da «consentire al Parlamento di intervenire con un’appropriata disciplina». Giustamente, in quanto compito della politica dovrebbe essere quello di comporre opzioni anche radicalmente alternative e di realizzare compromessi che, senza umiliare i valori di alcuno, individuino un terreno comune di principi condivisi e di norme che li tutelino. Una base circoscritta di regole essenziali, che salvaguardino ciò che hanno in comune le molte e differenti culture che costituiscono la società nazionale. Ciò non è stato fatto perché il Parlamento non ha avuto la capacità di raggiungere una minima intesa su un testo. E la ragione consiste nel fatto che la materia richiama il tema cruciale dell’autonomia individuale e mette in gioco le idee più intime di ciascuno a proposito delle “cose ultime”: ovvero la concezione della vita e della morte, della sofferenza e della cura, della relazione col proprio destino e con gli altri. L’abdicazione della politica ha imposto un intervento della Consulta, che si esprimerà nelle prossime ore seguendo, prevedibilmente, la traccia anticipata nell’ordinanza dell’ottobre del 2018: in determinate circostanze e per garantire beni costituzionalmente protetti, quali la dignità della persona e il principio di autodeterminazione, la tutela della vita può incontrare dei limiti. Ne consegue la non equiparazione tra la fattispecie dell’istigazione e quella dell’assistenza al suicidio, una volta accertato che la decisione di morire sia il frutto della volontà dell’individuo. Se questa fosse la sentenza della Consulta, sarebbe un importante passo avanti. Un tale esito, lungi dal chiudere la controversia pubblica, è destinato a renderla più acuta. Una settimana fa il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha detto: «Va negato che esista un diritto a darsi la morte: vivere è un dovere, anche per chi è malato e sofferente. Il suicidio da parte del malato è un atto di egoismo, un sottrarsi a quanto ognuno può ancora dare». L’affermazione del cardinale va considerata con serietà perché pone l’accento sull’idea della vita come relazione. Idea che non è, certo, esclusiva della cultura cattolica, che appartiene a non credenti e credenti e che si ritrova, per esempio, in alcune splendide pagine di Emmanuel Lévinas: «l’esistente acquista significato solo in relazione all’Altro». L’esatto contrario di una concezione nichilista e privatistica del fine vita, troppo spesso rimproverata con superficialità ai laici. Ma, con tutto il rispetto verso l’autorità morale del cardinale Bassetti, il concetto che ne fa derivare – la vita come dovere – mi sembra debole, perché trascura la centralità ineludibile del soggetto, che, in questo caso, è colui che soffre: il più meritevole della massima tutela. Il dovere non può essere inteso solo come obbligazione verso l’altro, fino a ignorare il rispetto di sé. Il paziente affetto da patologie irreversibili ha un dovere verso se stesso: quello di sottrarsi a dolori non lenibili e a
un’ulteriore decadenza del corpo e dello spirito. La sopravvivenza non accompagnata da esperienza, relazione e scambio, può non considerarsi vita. Accettare questo degrado per una sorta di responsabilità altruistica assomiglia troppo a una condanna. E quel dovere appare piuttosto come un atto di ubbidienza verso un’autorità esterna, che vale, ovviamente, solo per coloro che credono che un’autorità esterna di natura escatologica esista e sovradetermini le nostre vite. Qui si torna all’assunto che ispira la dottrina e la morale cattolica in materia: la vita è un dono di Dio e solo Dio può disporre di essa. Ma è stato proprio un autorevole esponente di quella stessa cultura (Vittorio Possenti) a evidenziare come, se così fosse, si tratterebbe della singolare anomalia di un dono che resta proprietà del donatore. D’altra parte, quel che risulta improprio è il ricorso al termine “egoismo”: ciò che sembra chiedersi al paziente è una sorta di eroismo e una vocazione al martirio che presuppongono qualcosa di super-umano. Mentre la misericordia, che è virtù non solo cristiana, di fronte a un corpo umiliato da dolori intollerabili chiede che quei dolori siano fatti cessare e che quel corpo trovi linimento e riposo. Eppure è proprio questo a costituire il grande rimosso della discussione pubblica e perfino della sensibilità quotidiana: la sofferenza del malato, quella che urla senza trovare ristoro. Per dirla, con un verso del filosofo cattolico Eugenio Mazzarella, il dolore sentito «dall’altra parte del muro ogni notte

Europa malata di indifferenza

 papa Francesco

l’Europa malata di indifferenza e chiusura, serve misericordia

Udienza al Pontificio Comitato per i Congressi Eucaristici internazionale:

oggi nel mondo un «fiume carsico di miseria» provocato da «tante forme di paura, sopraffazione, arroganza, malvagità, odio». I cristiani siano un «balsamo» per l’umanità ferita

salvatore cernuzio

Famiglie in difficoltà, giovani e adulti senza lavoro, malati e anziani soli, migranti: sono tante le situazioni in questa «Europa malata d’indifferenza e attraversata da divisioni e chiusura» nelle quali i cristiani sono chiamati a «versare il balsamo della misericordia con opere spirituali e corporali». Ancora una volta Papa Francesco posa lo sguardo sulle categorie umane più ferite, segnate «da fatiche e violenze e altre povertà», e nel suo discorso ai membri del Pontificio Comitato per i Congressi Eucaristici internazionali, ricevuti in udienza questa mattina in Vaticano, richiama la responsabilità di tutti i credenti a compiere azioni concrete in nome di quella misericordia che, seppur sia una «parola quasi tolta dal dizionario della cultura attuale», dev’essere iniettata nuovamente nelle vene del mondo.  

Occorre riportare «in superficie parole di Vangelo che le nostre città hanno spesso dimenticato»: questa è, secondo il Papa, l’urgenza per il tempo attuale in cui «tutti si lamentano per il fiume carsico di miseria che percorre l’esperienza della nostra società». «Si tratta – evidenzia il Pontefice – di tante forme di paura, sopraffazione, arroganza, malvagità, odio, chiusure, noncuranza dell’ambiente, e così via. E tuttavia i cristiani sperimentano ogni domenica che questo fiume in piena non può nulla contro l’oceano di misericordia che inonda il mondo».

In questo scenario drammatico «i cristiani rinnovano prima di tutto, di domenica in domenica, il gesto semplice e forte della loro fede: si radunano nel nome del Signore riconoscendosi fratelli. E si ripete il miracolo: nell’ascolto della Parola e nel gesto del Pane spezzato anche la più piccola e umile assemblea di credenti diventa corpo del Signore, suo tabernacolo nel mondo». Ogni celebrazione dell’Eucaristia diventa così «incubatrice degli atteggiamenti che generano una cultura eucaristica», una cultura, cioè, che «spinge a trasformare in gesti e atteggiamenti di vita la grazia di Cristo che sì è donato totalmente». Che porta quindi alla comunione, alla fraternità e alla misericordia, tutti valori apprezzabili e percepibili anche al di là dell’appartenenza ecclesiale.

La comunione in particolare, spiega Papa Bergoglio, è una «vera sfida» per la pastorale eucaristica, perché si tratta di aiutare i fedeli a vivere in Cristo e con Cristo «nella carità e nella missione». Da ciò, dalla logica cioè del «corpo donato» e offerto per molti, si entra nella logica del servizio: «I cristiani servono la causa del Vangelo inserendosi nei luoghi della debolezza e della croce per condividere e sanare», afferma il Pontefice. Essi diventano «servitori dei poveri, non in nome di una ideologia ma del Vangelo stesso, che diventa regola di vita dei singoli e delle comunità, come testimonia l’ininterrotta schiera di santi e sante della carità».

In questo modo «la misericordia», dice il Papa, entra «nelle vene del mondo e contribuisce a costruire l’immagine e la struttura del Popolo di Dio adatta al tempo della modernità».

A conclusione, Francesco ricorda il prossimo Congresso Eucaristico Internazionale che si terrà nel 2020 a Budapest, in Ungheria (all’udienza è presente infatti la Delegazione del comitato ungherese guidata dal cardinale Peter Erdő). «Questo evento – rileva il Pontefice – sarà celebrato nello scenario di una grande città europea, dove e comunità cristiane attendono una nuova evangelizzazione capace di confrontarsi con la modernità secolarizzata e con una globalizzazione che rischia di cancellare le peculiarità di una storia ricca e variegata».

Portando avanti «una storia più che centenaria», il prossimo Congresso è chiamato pertanto ad «indicare questo percorso di novità e di conversione, ricordando che al centro della vita ecclesiale c’è l’Eucaristia», mistero «capace di influenzare positivamente non solo i singoli battezzati, ma anche la città terrena in cui si vive e si lavora». Auspicio del Papa è dunque che l’appuntamento eucaristico di Budapest possa «favorire nelle comunità cristiane processi di rinnovamento» che si traducano nel diffondersi di una «cultura eucaristica capace di ispirare gli uomini e le donne di buona volontà nei campi della carità, della solidarietà, della pace, della famiglia, della cura del creato».

l’incontro di papa Francesco con i frati cappuccini

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 il papa ha ricevuto i partecipanti all’85.mo Capitolo generale dei Frati Minori Cappuccini. Nel discorso a braccio li ha esortati a continuare ad essere uomini di riconciliazione e di preghiera

Debora Donnini, Benedetta Capelli – Città del Vaticano

“Siete i frati del popolo”, uomini di riconciliazione e di preghiera: conservate questa vicinanza e l’apostolato del perdono. E’ l’esortazione che il Papa ha rivolto, nel discorso a braccio, ai partecipanti al Capitolo generale dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, ricevuti stamani in udienza in Vaticano. Il Capitolo Generale, riunito dal 27 agosto al 16 settembre a Roma, ha tra l’altro eletto il nuovo Ministro generale, cinquasettenne italiano fra Roberto Genuin da Falcade. Il discorso preparato è stato invece consegnato ai partecipanti. (Ascolta il servizio con la voce del Papa)

Vicinanza al popolo

Caratteristica dei Cappuccini – ricorda il Papa –  è proprio la vicinanza alla gente; una vicinanza che è una sorta di abbraccio ai più indifesi.

La vicinanza alla gente. Essere vicini al popolo di Dio, vicini. Vicinanza a tutti, ma soprattutto ai più piccoli, ai più scartati, ai più disperati. E anche a quelli che si sono più allontanati.

Francesco cita in proposito la figura di fra Cristoforo nei Promessi Sposi di Manzoni, emblema di vicinanza: “una parola – afferma – che vorrei rimanesse in voi come un programma”. Poi ricorda il rispetto che si porta sempre all’abito francescano e quanto diceva l’allora cardinale di Buenos Aires, Antonio Quarracino. “A volte – sottolineava – qualche mangiaprete dice una parolaccia a un prete ma mai un abito francescano è stato insultato”.

“Sei figlio di Dio”

Il Pontefice ricorda, poi, di essersi commosso quando, nel recente viaggio apostolico in Irlanda, ha toccato con mano il lavoro dei Cappuccini. Sottolinea di essere rimasto colpito dalle parole del Superiore di quella Casa: “Noi, qui, non domandiamo da dove vieni, chi sei: sei figlio di Dio”.

Capire bene, a “fiuto”, le persone, senza condizioni. Tu entra, poi vediamo. E’ un vostro carisma, la vicinanza, conservatelo.

Uomini di riconciliazione

Essere “uomini di riconciliazione”, capaci di risolvere i conflitti, di fare la pace nelle coscienze, è un atteggiamento testimoniato anche da quel “qui non si domanda, qui si ascolta”, detto sempre dal quel cappuccino irlandese. Francesco ricorda infatti che a Buenos Aires nella chiesa dei Cappuccini andava tanta gente a confessarsi perché “ti ascoltano, ti sorridono, non ti domandano cose e ti perdonano”.

E questo non è “manica larga”, no, no: questa è saggezza di riconciliazione. Conservate l’apostolato delle confessioni, del perdono: questa è una delle cose più belle che voi avete, riconciliare la gente. Sia nel sacramento, sia nelle famiglie: riconciliare, riconciliare. E ci vuole pazienza per questo, perché non parole, poche parole, ma vicinanza e pazienza.

Semplicità nella preghiera

Infine il Papa chiede loro di conservare la semplicità della preghiera. La Chiesa – conclude – vuole che conserviate questo essere uomini di pace, di riconciliazione, con quella libertà e semplicità propria del “vostro carisma” e quindi di continuare così, “alla cappuccina”.

il valore ‘teologale’ della compassione

la compassione come luogo teologico

 Nella sofferenza dell’altro abita Dio e lì si può frequentare e conoscere. Questa è una delle perle evangeliche(1) che porta a disfarsi di tutti gli inganni del mondo: in primis potere e ricchezze varie. Nella compassione si diffonde il regno di Dio. E dalla compassione si possono riconoscere i suoi testimoni e collaboratori. Infatti chi ha costruito il dio che benedice il successo sociale degli uomini rifugge da questo mistero. Non lo comprende ma soprattutto non lo sopporta. Chi offre incenso con mani che grondano sangue deve rimuovere o giudicare la sofferenza altrui per continuare a non soccorrere l’oppresso, a non rendere giustizia all’orfano, a non difendere la causa della vedova(2). L’uso smodato degli schemi razionali porta a considerare il peccato in termini di violazione e non di ferita che produce e ad identificare tragicamente il peccatore con peccato. La ragione dell’uomo conduce alla inevitabile punizione compensatoria del peccatore, la compassione di Dio a curare il peccatore e a combattere il peccato che umilia chi lo compie. La logica retributiva aggiunge il castigo al dolore e spinge alla disperazione, l’Amore gratuito di Dio rimette in piedi, meraviglia e sposta più in là l’orizzonte dell’uomo. La compassione non è una virtù acquisibile con l’esercizio ma un dono di Dio che solo l’anima può riconoscere. Segno profetico di contraddizione in una società fondata sull’egoismo e sull’indifferenza. Strutturalmente malata, irriformabile, da sovvertire con un radicale cambio di paradigma: il Vangelo al posto del capitale.

(1) Vangelo di Matteo 13, 45-46

(2) Isaia 1,17

testo di Isacco di Ninive:

“Segno luminoso della bellezza della tua anima sarà questo: che tu, esaminando te stesso, ti trovi pieno di misericordia per tutti gli uomini, il tuo cuore è afflitto per la compassione che provi per loro, e brucia come nel fuoco, senza fare distinzione di persone. Attraverso ciò, l’immagine del Padre che è nei cieli si rivelerà in te continuamente”.

Isacco di Ninive, in Sabino Chialà, Dall’ascesi eremitica alla misericordia infinita, Ricerche su Isacco di Ninive e la sua fortuna, Leo S. Olschki, Firenze, p. 259

pubblicato da ‘altranarrazione’

anche per l’islam l’essenza di Dio è perdono e misericordia – un altro modo di guardare all’islam

perché l’essenza di Allah è nel perdono

di Pietro Citati
in “la Repubblica” del 10 luglio 2017

 

In nessuna religione, mai, l’unicità di Dio ha avuto un ruolo così intenso, violento ed esasperato come nell’Islam. “Non vi è divinità all’infuori di Dio”: vale a dire; “non vi è nulla che esiste all’infuori di Dio”. Come dice al-Ghazali (1058-1110), all’inizio del “Rinnovamento delle scienze religiose” (“Scritti scelti”, a cura di Laura Veccia Vaglieri e Roberto Rubinacci, Utet),

“nella sua essenza egli è Uno senza socio, Singolo senza simile, Signore senza oppositore, Solo senza rivali, Eterno senza un prima, Perpetuo senza un principio, Perenne senza un ultimo, Sempiterno senza fine, Sussistente senza cessazione, Continuo senza interruzione”. Allah è “il Primo e l’Ultimo, il Manifesto e l’Occulto”, dice il Corano. Non è un corpo con una forma, né una sostanza con limite e misura. Non è simile a cosa alcuna: misure non lo limitano, né lo contengono spazi. Egli è: non lo circoscrivono lati: non lo racchiudono terre né cieli; è seduto sul Trono senza contatto, assestamento, insediamento, dimora, spostamento. Egli non abita in cosa alcuna, né alcuna cosa abita in lui: è troppo elevato perché lo possano contenere luoghi, troppo puro perché lo possano limitare tempi; anzi Egli era prima di creare tempi e luoghi. Egli è l’Unico che non ha contrari, il Signore che non ha opposti, il Ricco che non ha bisogno, il Potente che fa ciò che vuole, il Sussistente, il Dominatore delle cose inerti, degli animali e delle piante, Colui che ha la grazia, la maestà, lo splendore e la perfezione. Se un uomo è rinchiuso nell’inferno, basta che egli conosca l’unicità di Dio perché lasci l’inferno. Come disse Maometto: “Chiunque dice: ‘non vi è Iddio se non Iddio, entrerà in Paradiso’”.

Nel suo bel libro L’esoterismo islamico (Adelphi), Alberto Ventura esplora Allah, senza cessare di paragonarlo alle figure divine nella Qabbalah, nel Tao, nella cultura indiana e in pseudo-Dionigi l’Areopagita.

Non possiamo che implorare Allah:

“O Dio, dice al-Ghazali, ti chiedo una grazia totale, una protezione continua, una misericordia completa, un’esistenza felice: ti chiedo beneficio perfetto e favore completo, generosità dolcissima, bontà affabile. O Dio sii con noi e non contro di noi. Attua largamente le nostre speranze, congiungi i nostri mattini e le nostre sere, versa in gran copia il tuo perdono sulle nostre colpe, accordaci il favore di correggere i nostri difetti, o Potente, o Perdonatore, o Generoso, o Sapiente, o Onnipotente. O Primo dei primi, o Ultimo degli ultimi, o più Misericordioso della misericordia”.

Al-Ghazali insegue tutti gli aspetti di Dio. Allah è oltre ogni nome e attributo, oltre ogni condizione e relazione, oltre tutte le apparenze e gli occultamenti, oltre ogni palesarsi e nascondersi, oltre ogni congiungimento e separazione, oltre tutte le contemplazioni e le intuizioni, oltre ogni cosa pensata e immaginata. Egli è oltre l’oltre, e poi oltre l’oltre, e poi ancora oltre l’oltre. Egli è il Principio infinito, incondizionato e immortale, che non può venire racchiuso entro i confini della ragione umana. È l’essere e il non-essere, il manifestato e il non manifestato, il suono e il silenzio. La sua immagine più adeguata è una notte tenebrosissima, nella quale non si può scorgere nulla di determinato e preciso. Allah non somiglia a niente: nessuna cosa gli somiglia; la sua mano non somiglia alle altre mani, né la sua penna alle altre penne, né la sua parola alle altre parole, né la sua scrittura alle altre scritture. Eppure somiglia al mondo e all’uomo e il mondo e l’uomo gli assomigliano: “se non ci fossero le somiglianze, l’uomo non potrebbe elevarsi dalla conoscenza di sé stesso alla conoscenza del creatore”. Allah determina tutte le cose. Non avviene, nel mondo inferiore e in quello superiore, batter di ciglio, balenar di pensiero, subitaneo volgere di sguardo, se non per decreto, potere e volontà di Dio. Da lui proviene il male e il bene, l’utilità e il danno, l’Islam e la miscredenza, la conoscenza e la sconoscenza, il successo e la perdita, il vero e il falso, l’obbedienza e la disobbedienza, il politeismo e la fede. Anche il male – insiste al-Ghazali – e gli atti di ribellione umana non accadono per volontà di Satana ma di Dio. A volte egli proibisce ciò che vuole, e ordina ciò che non vuole. Non ha scopi, mentre gli uomini hanno scopi precisi. Desidera ciò che desidera senza alcun timore; e decide e fa quello che vuole, senza timore. Se ti fa perire, egli ha già fatto perire un numero infinito di tuoi simili e non ha smesso di tormentarli. “Sorveglia i tuoi respiri e i tuoi sguardi – dice al-Ghazali – e sta bene attento a non distrarti da Dio un solo istante”. A volte egli ci protegge da ogni tribolazione e malattia: ma egli non ha mai, in nessun momento, obblighi verso di noi o verso il mondo, di cui non ha assolutamente bisogno. Come diceva Ali Bakr, la nostra assoluta incapacità di comprendere Dio è il nostro modo supremo di comprenderlo: sapere che noi siamo esclusi da lui è la nostra vera vicinanza. “Lode a colui che ha stabilito per le creature una via alla sua comprensione attraverso l’incapacità di comprenderlo”. Quando Dio entra nel cuore umano, la luce vi risplende, il petto si allarga, scopriamo il mistero del mondo, la grazia della misericordia cancella il velo dell’errore, e brilla in noi la realtà delle cose divine. Il cuore ripete il nome di Dio, fino a quando la lingua lo pronuncia incessantemente, senza essere comandata. Da principio è un rapido baleno che non permane, poi ritorna, si ritira, passa, ritorna. Tuttavia nemmeno in questo istante esiste in al-Ghazali quella identificazione con Dio, che altri mistici islamici (come al-Hal- laj) esperimentano e di cui parlano inebriati. Al-Ghazali preferisce parlare di annientamento dell’uomo: anzi di annientamento dell’annientamento, “perché il fedele si è annientato rispetto a sé stesso, e si è annientato rispetto al proprio annientamento: in quello stato egli è incosciente di sé stesso e incosciente della propria incoscienza”. Rispetto al Principio supremo, ogni elemento della realtà, se viene considerato in sé e per sé, è quasi insignificante, quasi illusorio, quasi un puro nulla. Ma al tempo stesso esso è significante perché è capace di riflettere l’Assoluto increato. Allora il molteplice manifesta l’essenza, e il passaggio dal molteplice all’uno e dall’uno al molteplice è istantaneo. Così il mare, dice Ibn Arabi, si moltiplica nella forma delle onde, pur rimanendo sé stesso. Dio è altro rispetto alle cose: ma non così altro da escludere ogni somiglianza; dunque è insieme altro e simile. Se qualcuno dicesse: “non conosco che Dio eccelso” direbbe la verità; ma se dicesse “non conosco Dio eccelso”, direbbe ugualmente il vero. Questa – sottolinea Alberto Ventura – è la profonda doppiezza, ambiguità e ricchezza della vita e della cultura islamica. Quando l’intelletto umano è libero dagli inganni della fantasia e dell’immaginazione, esso può vedere le cose come sono. È quella che al-Ghazali chiama la condizione profetica: nella quale rifulgono le tavole dell’invisibile, le leggi dell’Altra vita, le conoscenze su Dio che vanno oltre la portata dello spirito intellettivo. Dio dunque si può vedere. Ci sono persone che vedono le cose tramite lui, e altre che vedono le cose e tramite le cose vedono lui. I primi hanno una visione diretta di Dio: i secondi lo deducono dalle sue opere; i primi appartengono alla categoria dei giusti, i secondi a quella dei sapienti. Talvolta Dio si manifesta così intensamente e in modo così esorbitante, che viene occultato. Come dice il Corano, Dio è nascosto dietro settanta (o settecento o settemila) veli di luce e di tenebra: se egli li rimuovesse, il suo sublime splendore brucerebbe chiunque sia giunto vicino a lui con lo sguardo. Dio si nasconde dietro sé stesso. La sua luce è il suo velo. Secondo una tradizione raccontata dal Al-Ghazali, Dio ha detto: “Se il mio servo commette un peccato grande come la terra, io lo accolgo con un perdono grande come la terra”. Quando l’uomo pecca, l’angelo tiene sollevata la penna per sei ore: se l’uomo si pente e chiede perdono, l’angelo non registra il peccato a suo carico; se continua a peccare, registra il suo peccato soltanto come una cattiva azione. Dio non si stanca di perdonare finché il suo servo non si stanca di chieder perdono. Se il fedele si propone una buona azione, l’angelo la segna prima che egli l’abbia compiuta e, se la compie, gliene vengono registrate dieci. Quindi Dio la moltiplica fino a settecento volte. Allah perdona soprattutto i grandi peccatori. Come dice Maometto: “Io ho la facoltà di intercedere per i grandi peccatori. Credi forse che userei questa facoltà per gli uomini obbedienti e timorati? No, essa riguarda soltanto gli insozzati dalla mente confusa”. Ibrahim, figlio di un emiro della Battriana, racconta: “Mentre una volta giravo intorno alla Ka’ba, in una notte piovigginosa e scura, mi fermai presso la porta e dissi: ‘mio Signore preservami dal peccato, affinché mai io mi ribelli a Te’. Una voce proveniente dalla Ka’ba mi sussurrò: ‘O Ibrahim mi chiedi di preservarti dal peccato e tutti i miei servi mi chiedono questo. Se io preservassi te e loro dal peccato, su cosa riverserei la mia grazia e chi perdonerei?’”.

Il perdono di Dio: sia per gli islamici sia per i cristiani, questa è
l’essenza della rivelazione di Allah.

una chiesa rinnovata e ripulita nei sogni di Vitaliano Della Sala

una chiesa degli esclusi

non dell’esclusione

 

Nel 1999, con la mia Comunità parrocchiale, per prepararci al Grande Giubileo del 2000, riflettemmo su una frase che Giovanni XXXIII aveva pronunciato all’inizio del Vaticano II: “Il Concilio sia più per imparare la medicina della misericordia che quella del rigore”. Raccogliemmo le nostre conclusioni in una lettera che inviammo al Segretario del Giubileo, l’allora monsignor Crescenzio Sepe, in cui esprimevamo i nostri dubbi sull’evento che si stava preparando con sproporzionata enfasi, e gli annunciavamo che non saremmo andati a Roma nel 2000. A quel tempo credevo ancora che a qualcuno, in Vaticano, interessasse il contributo di idee e critiche che venivano dalla base della Chiesa. Il futuro cardinale di Napoli non ci rispose affatto.

Scrivevamo: “Il grande appuntamento sta cominciando a prenderci la mano e, nello stesso tempo, a sfuggirci di mano. Dietro l’imponente macchina messa in moto si intravede, purtroppo, la grande tentazione farisaica dell’esteriorità. Senz’altro non è questo il Giubileo di cui parlano il libro del Levitico dove è descritto come un anno di liberazione e di riscatto. Dobbiamo avere il coraggio di viverlo così. Liberandoci dalla frenesia delle cose inutili che ci fanno perdere di vista quelle davvero necessarie. Un anno di riconciliazione e di incontro con Dio e con il prossimo e di riconciliazione con la terra, che non è oggetto di sfruttamento. La vera porta santa da spalancare non è quella imponente di bronzo della basilica di San Pietro ma la porta nascosta e sgangherata degli “scantinati della storia”. La porta veramente santa delle favelas e di tutte le periferie, delle case di cartone dei barboni, dei campi profughi, dei reparti d’ospedale dove chiudono i loro giorni i malati terminali, delle celle dei prigionieri politici, delle case dei disoccupati e degli sfruttati, di ogni luogo dove è vivo il dolore e troppo debole la speranza. Porte attraverso cui poter entrare, porte attraverso cui qualcuno potrà finalmente uscire. Se, anziché queste porte, permetteremo che si aprano le porte delle banche, degli uffici dei progettisti e delle mega imprese, dei burocrati, dei politicanti e degli affaristi,  se lasceremo che si aprano ancora di più le porte dei ricchi, le porte di Dio resteranno davvero chiuse”.

Il Grande Giubileo del 2000 fu esattamente il contrario di tutto quello che chiedevamo in quella lettera. Perciò ora faccio fatica a criticare l’Anno santo straordinario della misericordia, voluto da papa Francesco, e che si è appena concluso, se non per il fatto che forse non dovremmo proprio aver bisogno di celebrare Giubilei ordinari o straordinari.

Non so se dietro l’elezione di papa Bergoglio ci siano strategie di marketing chiare o opache, come non so se il Giubileo della misericordia sia stato pensato in buona fede dal papa e sfruttato in malafede da chi gli sta attorno. Un fatto è certo: il tema della misericordia, al di là dello strombazzamento ufficiale, è motivo di critiche, più o meno aperte, nei confronti del papa. In realtà le critiche pubbliche sono poche. Ma come purtroppo è costume nella Chiesa, quelle striscianti e sotterranee sono tante e squallide. Accanto alle critiche silenziose e complici di tanti vescovi e sacerdoti, quel che è peggio è che sono troppi i fedeli laici che criticano, non tanto il giubileo, ma il troppo insistere sulla misericordia, come se questa potesse essere slegata dal Vangelo e dall’essere cristiani. Papa Francesco appare sempre più solo e perdente, al di là delle folle plaudenti che non si negano a nessuno. E forse per questo mi sta diventando simpatico!Vitaliano della Sala

Una simpatia che però non mi impedisce di sognare e di impegnarmi, nel mio piccolo, a costruire una Chiesa-altra. Continuo a sognare una Chiesa che assomigli sempre più al Regno di Dio della parabola del granello di senape che diventa un albero frondoso, «e fa rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra». Sogno una Chiesa inclusiva, che non emargina, non usa la pesante scure del giudizio contro altri; una Chiesa degli esclusi e non dell’esclusione, capace di accogliere, di portare tutti gli uomini in seno. Sogno una Chiesa cristiana dove la diversità sia veramente vissuta come ricchezza per ciascuno e l’unità non sia il desiderio di uniformità, una Chiesa che non teme le altre religioni e le diverse culture; una Chiesa che non abbia bisogno del “primato di Pietro”, come lo conosciamo oggi, con il contorno di Vaticano, Santa Sede, Segretari di Stato, Prefetti, Banca vaticana; nella quale i preti possano finalmente sposarsi e il matrimonio tra un maschio e una femmina non sia l’unico modo per condividere la vita, e dove nessuno sia in alcun modo discriminato: sogno una donna che sia responsabile della parrocchia che confina con la mia, e perché no, sogno il mio prossimo vescovo donna e una donna papa. Sogno una Chiesa che non abbia più bisogno dell’inferno per terrorizzare i semplici, né di vecchie e nuove indulgenze; una Chiesa che non abbia più bisogno di padrepii né di madreterese, né di ossa, sangue, reliquie, “pupazzi” da portare in giro per imporre una santità irraggiungibile ai più. E sogno una Chiesa che non abbia più bisogno di sacerdoti ordinati per celebrare i sacramenti, formata da comunità e fedeli laici responsabili e protagonisti nelle decisioni e nelle celebrazioni; una Chiesa senza confini, nazionali o mentali che, anzi, li allarghi sempre più verso quelli sconfinati del Regno di Dio   

Intanto, come scrisse Erasmo di Rotterdam a Martin Lutero “sopporto questa chiesa fin che non ne vedo una migliore, ed essa è costretta a sopportare me fin quando non sarò diventato migliore”.

Vitaliano Della Sala è amministratore parrocchiale a Mercogliano

 

il volto ‘politico’ della misericordia e del giubileo

il giubileo non deve essere fatto di devozioni e di porte sante

la misericordia deve avere una dimensione “politica” e mobilitare il popolo cristiano contro il disordine e l’iniquità diffuse nel mondo

papa Lesbo

 

le riflessioni delle associazioni cattoliche Comunità ecclesiale di S.Angelo, Noi Siamo Chiesa, Il Graal, la Rosa Bianca,  Centro Helder Camara, Coordinamento 9 marzo sui problemi attuali della chiesa e dell’attualità:

tempo di Giubileo : la misericordia deve avere un volto e una pratica politica, deve costruire reti, mobilitare l’opinione pubblica e le Chiese, fare cultura ed educazione 

Nell’incontro del 16 aprile le associazioni firmatarie di questo documento hanno messo a fuoco alcune constatazioni:
– anzitutto, che il Giubileo della misericordia non può che essere un tempo aperto e permanente, non provvisorio nè limitato all’emergenza, ma continuo e puntuale,
– che l’agire con, per e nella misericordia, nel drammatico e minaccioso contesto attuale assume un aspetto deliberato ed esige concordia e fermezza,
– che alla base di ogni comportamento ci deve essere il riconoscerci tutti, provenienti da un’unica famiglia umana,
– e che di fronte ad un essere umano, la cui vita è minacciata, esiste una obbligazione primaria nei confronti della cura dell’altro.

Per questo, più che risposte o ulteriori approfondimenti sulle tematiche, ci sembra utile ed interessante proporre delle domande su cui confrontarci nella concretezza ed anche nella realizzazione delle molteplici iniziative; le domande infatti presuppongono una ricerca, un coinvolgimento, una prospettiva di senso.

papa lesbo 2

Domande che partono da alcune sottolineature forti emerse dall’incontro del 16 aprile:

1) la responsabilità collettiva della misericordia, su cui bisogna insistere, nel proporla e praticarla, superando i sottili steccati dei particolarismi e delle personali empatie verso chi soffre, per giungere ad una denuncia pubblica delle indifferenze e delle riserve, e ad una pubblica, concorde assunzione di responsabilità al fine di snidare le inadempienze, le corruzioni, le ipocrisie, i privilegi che, come dovremmo sapere, contribuiscono a rendere sempre più ricche e prepotenti le classi dominanti e sempre più povere e vessate le parti deboli delle popolazioni.

Ma, proprio per andare oltre il sapere e il parlare, il blaterare improduttivo, le domande sono:

se e che cosa siamo disposti a rinunciare e a mettere in gioco insieme per creare una mentalità comune e un comune cammino di crescita in umanità tale da superare indifferenze, cautele, barriere e recinti?
c’è e qual è una comune visione di futuro, che tenga presente non interessi e privilegi particolari, anche benefici, ma l’accorata globale situazione del mondo, in cui la maggior parte della popolazione è in balia di chi la sfrutta e la massacra costringendola alla fame, ai soprusi e ai forzati esodi di massa, in un contesto di sfruttamento incontrollato delle risorse e di un eco-sistema sbilanciato e pericolante?
ce la sentiamo di iniziare un cammino di responsabilità collettiva, in ogni ambito sociale e comunitario? E di provocarci su questo, come persone, cittadini, credenti?

2) Il volto politico della misericordia: se misericordia è coinvolgimento, lotta, occorre che assuma un deciso risvolto sociale, disturbando i poteri ai vari livelli, individuando e focalizzando alcune situazioni forti di risonanza nazionale e mondiale, come il commercio di esseri umani, la vendita di armamenti, le ondate di profughi, le mafie –tra noi il caporalato-, la violenza sulle donne e i bambini, ecc., senza desistere dal denunciare e intervenire concretamente in situazioni specifiche. Il volto politico della misericordia dovrebbe fondarsi su una comune concezione del bene comune, cioè di quel bene plurale cui può e deve accedere ogni persona, perché comporta la dignità e il rispetto per ogni uomo e ogni donna, come soggetti portatori di diritti umani e capaci di laicità, cioè di autonomia critica, responsabilità e libertà decisionale.

Le domande sono:

ci sentiamo di operare per il bene comune? Che significato vi diamo come prospettiva comune da condividere? Ci rendiamo conto che il bene comune oggi non è più qualcosa da garantire e tutelare a priori, ma è un dato di partenza di ogni ricerca e azione sociale, politica ed economica, su cui verificarci e orientarci in una visione globale concorde?

3) La misericordia e l’opinione pubblica
Occorre sfatare i luoghi comuni della misericordia, quelli che la limitano alla devozione e alla pratica rituale, alla beneficienza e alle campagne martellanti che tranquillizzano le coscienze, per esprimere invece a voce alta le denunce di tutto ciò che sfigura l’umano, ribadendo la necessità di un cambiamento di mentalità e di stili di vita.

Le domande sono:

Dove e con chi parliamo e testimoniamo che la misericordia comporta un capovolgimento di comportamenti e di prospettive?
Ci interessa renderci e rendere conto che non si possono vivere superficialmente o in disparte i problemi e le emergenze che toccano tutti gli umani, di cui facciamo parte anche noi? Che ciò che siamo ed abbiamo appartiene a tutti?
Ce ne prendiamo a cuore insieme?

4) La necessità di costruire reti, non soltanto di comunicazione, ma di solidarietà.
E’ importante e necessario trovare i modi e le sedi per farlo; ad esempio, stabilendo e pubblicizzando contatti, non settorialmente o sporadicamente, ma permanenti, con le diverse iniziative di misericordia, e intrecciando reti visibili di conoscenze e di interventi, di solidarietà e azioni comuni dirette o di sostegno, richiami pubblici e condivisi a nuovi modelli di vita.Ci vuole una nuova lingua, che capiscano tutti, che esprima un nuovo modo di guardare l’altro, la stessa sete e ricerca del bene comune, e parole e gesti che abbiano la sostanza del presente e il respiro del futuro.

Le domande sono:

Siamo convinti che sia importante, anzi necessario, abbattere i canali a senso unico per allargarci ad una rete espansiva e condivisa di misericordia, in tutte le sue manifestazioni di creatività e di azione?
Stiamo valorizzando il patrimonio collettivo e individuale di un bene comune attuato nelle sue molteplici sfaccettature, di competenze, di sapienze, di tempo e risorse disponibili che le diverse reti particolari possono mettere a disposizione?
C’è spazio per far emergere limiti e potenzialità della ricchezza di culture e di vissuti, pur consapevoli della fatica della mediazione culturale, sociale e politica richiesta?

5) La mobilitazione delle Chiese: la comunità dei credenti cristiani, declinata in tutte le sue forme e confessioni storiche, chiamata a vivere più consapevolmente la misericordia, che è il perno dell’evangelo, deve ritrovarsi più unita e manifestarsi più apertamente e visibilmente in questo denominatore comune della misericordia, rivedersi nei suoi rapporti con i poteri e usare più decisamente e ampiamente le sue istituzioni, per essere in prima linea nella lotta per la costruzione di un mondo basato su nuovi rapporti di umanità riconciliata.

Le domande sono:

c’è il coraggio di superare le confessionalità (liberandoci da pregiudizi storici tuttora esistenti) per far diventare solidarietà comune le singole iniziative, che pur ci sono e anche numerose?
C’è la volontà di mettere globalmente (e non lasciate a livello di decisioni laterali) a disposizione dell’accoglianza istituzioni risorse, spazi, organizzazioni, competenze, ecc.?
C’è la consapevolezza di dare delle priorità e delle scelte, senza voler conciliare a tutti i costi aspetti diversi, alla concretezza della misericordia, anche a scapito della ritualità e della pratica devozionale?

6) L’importanza del fattore culturale ed educativo
A nessuno dovrebbe sfuggire quanto sia importante ed impellente creare canali culturali capaci di contrastare l’analfabetismo e la scivolosa mentalità indotta da modelli legati all’economia, al consumismo e al predominio del denaro, per coltivare la dignità e intelligenza umana per tutti, specialmente per coloro a cui viene sistematicamente lesa o tolta.

Le domande sono:

ci sta veramente a cuore lo sviiuppo delle capacità umane e il superamento dell’analfabetismo non solo letterale, ma soprattutto mentale ed interiore?
In un mondo i cui criteri a livello di mentalità comune e di opinione circolante sono prevalentemente quelli del divertimento, del piacere, dell’evasione, di un eventuale successo di immagine ottenuto con ogni mezzo, quanto conta sostenere il valore della scuola e dello studio?


Comunità ecclesiale di S.Angelo, Noi Siamo Chiesa, Il Graal, la Rosa Bianca,
Centro Helder Camara, Coordinamento 9 marzo

Milano, 29 giugno 2016

i ‘preti sposati’ si sentono dimenticati dal Giubileo

preti sposati chiedono Misericordia a Papa Francesco per il Giubileo dei Sacerdoti

“dimenticati dalle Celebrazioni Anno Santo”

all’udienza generale in Piazza San Pietro il Papa ha ricordato il Giubileo dei sacerdoti, in corso da oggi fino al 3 giugno, nel 160° anniversario della Festa del Sacratissimo Cuore di Gesù, introdotta nel 1856 da Pio IX. Ed è proprio a partire dal ricordo di Bergoglio che il movimento dei sacerdoti lavoratori sposati auspica di essere oggetto della Misericodia del Sommo Pontefice che consenta ai preti sposati di ritornare al ministero attivo con le mogli e i figli.

http://sacerdotisposati.altervista.org/?p=25794415

Molte comunità cristiane sono sprovviste di un servizio sacerdotale. La loro reintegrazione potrebbe sopperire a questa necessità, sempre più urgente.

I preti sposati in chiesa che hanno ottenuto la dispensa sono molto numerosi. È stata loro riconosciuta la validità del sacerdozio, però non possono più esercitarlo essendosi creata una famiglia: “sospensione dell’esercizio sacerdotale”, come si legge nella dichiarazione del processo. È noto che il celibato dei sacerdoti diocesani è uno status voluto dalla Chiesa e codificato nel diritto canonico. È una legge umana e non divina. Come tale, la Chiesa se ha la possibilità di sospendere l’esercizio sacerdotale, ha anche la facoltà di annullare la sospensione concessa a tanti sacerdoti.

Molte comunità cristiane sono sprovviste di un servizio sacerdotale. La reintegrazione di sacerdoti sospesi, considerando che lo vogliano, potrebbe sopperire a questa necessità sempre più urgente.

In questo anno duemilasedici, tutti hanno celebrato il loro Giubileo: bambini, famiglie, ammalati, operai, attori, militari, sacerdoti, sportivi, carcerati… Però, si sono volutamente dimenticati i preti sposati.

Preti sposati chiedono Misericordia a Papa Francesco per il Giubileo dei Sacerdoti: dimenticati dalle Celebrazioni Anno Santo

Nei credenti c’è la sensazione che si abbia paura di affrontare, con chiarezza e verità storica, tale problematica. Si preferisce ignorarla, o rimandarla. Così, ancora una volta, si compie una grande ingiustizia nei confronti dei preti sposati.

Il Papa ha chiesto perdono a tutti coloro che sono stati “vittime” della Chiesa: agli ebrei, agli eretici, agli schiavi, ai popoli oppressi in nome di Dio, alle donne misconosciute nella loro dignità e non di rado emarginate e ridotte in schiavitù, ai cristiani separati da Roma. Ma sarebbe stato giusto ricordare anche le sofferenze che sono state inflitte, lungo i secoli, a quei preti che hanno cambiato stato di vita. La Chiesa verso di loro si è mostrata veramente matrigna. Tanti sacerdoti sposati sono stati messi al bando. Spesso, per loro non c’è stato né perdono né comprensione. Qualcuno ha subìto forme di persecuzione. Sono stati buttati fuori dalla Chiesa come se, all’istante, avessero perso ogni dignità umana. Chi poi non è riuscito a ricostruirsi una vita attraverso il lavoro, si è ritrovato nella più squallida povertà, insieme con la sua famiglia. E così morivano nella più completa dimenticanza. È incomprensibile come ci si possa dimenticare, così velocemente, di tutto il bene che hanno compiuto questi sacerdoti, che hanno speso la loro giovane vita per dieci, venti, trent’anni al servizio delle comunità cristiane, aiutandole a crescere nella fede e nell’amore verso Dio e i fratelli. Si fa un gran parlare di diritti umani e di giustizia, ci si riempie tanto la bocca, e poi non abbiamo aiutato questi fratelli a ricostruirsi una vita dignitosa, fornendo loro una casa e un lavoro.

(Parte del testo è tratto da Famiglia Cristiana, articolo del 2000, riadattato alla situazione odierna del 2016 che non è affatto cambiata anche con Papa Francesco).

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