il commento al vangelo della domenica

avvento

tempo di un Dio che si fida


Avvento, tempo di un Dio che si fida
il commento di E. Ronchi al vangelo della prima domenica di Avvento Anno B

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare. Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino. (…)

Se tu squarciassi i cieli e discendessi! (Isaia 63,19). Il profeta apre l’avvento come un maestro dell’attesa: i cieli sono un grembo che sta per partorire vita più grande. Noi siamo argilla nelle tue mani. Tu sei colui che ci dà forma (Isaia 64,7). Siamo argilla che il Vasaio non butta via mai, e se questo vaso riesce male, o qualche volta si rompe, ci prende di nuovo in mano, ci mette ancora su quel suo tornio, che ruota sempre come una mistica danza di creazione.

Illogica e magnifica fiducia in noi, che siamo i vasi rotti di Dio. Fiducia che ho tante volte tradito, ogni volta rinata. Il profeta è testimone ancora una volta che è sempre possibile rinascere, è sempre possibile il passaggio da «terra ferita» a «terra guarita». La voce di Isaia grida il desiderio del cosmo: tutto nell’universo attende, attendono anche le pietre, anche il grano attende un Dio che ha sempre da nascere. Un germe divino attende la sua risurrezione nel cuore umano (Giovanni Vannucci).Avvento è un tempo di incamminati: tutto si fa più vicino, Dio in esodo verso di noi, io che mi accodo a questa carovana di nomadi cercatori di stelle, la terra che si fa prossima e cerca pace. Pace in terra, canteranno gli angeli, affascinando la notte di Betlemme. E sappiamo, sempre più e sempre meglio, che significa far pace con madre terra, depredata, devastata, avvelenata, che però come una madre bella ci prende fra le sue braccia. L’ingresso del Vangelo di Marco,

in questa prima domenica d’avvento, racconta di una notte, e ne stende l’elenco faticoso delle tappe: “non sapete quando arriverà, se alla sera, a mezzanotte, al canto del gallo o al mattino”. Una sola cosa però è certa: arriverà. Ma intanto Isaia lotta, a nome nostro, contro il ritardo di Dio: «ritorna per amore dei tuoi servi!» Il padrone è partito e ha lasciato tutto in mano ai suoi servi, a ciascuno il suo compito. Una costante di molte parabole, in cui Gesù racconta il volto di un Dio che si fida, mette il mondo nelle nostre mani, affida le sue creature all’intelligenza fedele e alla combattiva tenerezza dell’uomo.

Un rischio grande preme su di noi. Un poeta lo esprime così: «io vivere vorrei/ addormentato/ entro il dolce rumore della vita» (Sandro Penna). La tentazione è di non vivere, ma solo di sopravvivere, in un ottundimento dei sensi, una sedazione dei desideri, per troppa sazietà. Il nostro mondo vive una triplice crisi, della fiducia, del futuro e del generare. Ma proprio qui e ora Avvento viene a ricordare che nascerà un figlio, che il futuro è assicurato, che il cielo non è chiuso sopra di noi, ma si apre. Dio prende corpo, affinché la nostra speranza prenda corpo; si fida di questa terra ferita perché diventi terra incinta di Dio.

(Letture: Isaia 63,16-17.19; 64,2-7 Salmo 79 Pirma Corinzi 1,3-9 Marco 13,33-37)

il commento al vangelo della domenica

le bilance del Signore sono tarate solo sul bene

il commento di E. Ronchi al vangelo della trentaquattresima domenica del Tempo ordinario, anno A : Nostro Signore Gesù Cristo re dell’universo

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. (…)

Una scena potente, drammatica, detta del “giudizio universale”, ma che in realtà è la rivelazione della verità ultima sull’uomo e sulla vita, su ciò che rimane quando non rimane più niente: l’amore. Perché il tempo dell’amore è più lungo del tempo della vita. La scena risponde a una domanda antica quanto l’uomo: cosa hai fatto di tuo fratello? La Parola offre in risposta sei opere ordinarie, poi apre una feritoia straordinaria: ciò che avete fatto a uno dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me! Gesù stabilisce un legame così stretto tra sé e gli uomini, da giungere a identificarsi con loro: l’avete fatto a me! Il povero è come Dio, è corpo e carne di Dio. Il cielo che il Padre abita sono i suoi figli. E capisco che a Dio manca qualcosa: all’amore manca di essere amato. È lì nell’ultimo della fila, mendicante di pane e di casa per i suoi amati: li vuole tutti dissetati, saziati, vestiti, guariti, consolati. E finché uno solo sarà sofferente, lo sarà anche lui. Davanti a questo Dio resto incantato, con lui mi sento al sicuro. E così farò anch’io, mi prenderò cura di un fratello, lo terrò al sicuro al riparo del mio cuore. Mi è d’immenso conforto sentire che il tema del giudizio non sarà il male ma il bene; non peccati, debolezze, difetti, ma gesti buoni, briciole gentili. Le bilance di Dio non sono tarate sul male, ma sulla bontà; non pesano tutta la nostra vita, ma solo la parte buona di essa. In principio e nel profondo, non è il male che revoca il bene, è invece il bene che revoca il male delle nostre vite. Sulle bilance del Signore una spiga di buon grano pesa più di tutta la zizzania del campo. Gesù mostra così che il “giudizio” è divinamente truccato, è chiaramente parziale, perché sono ammesse sole le prove a discarico. Alla sera della vita saremo giudicati sull’amore (Giovanni della Croce), non su colpe o pratiche religiose, ma sul laico, umanissimo addossarci il dolore dell’uomo. La via cristiana non si riduce però a compiere delle buone azioni, deve restare scandalosa, più alta, provocatoria, ripetere che il povero è casa di Dio! Un Dio innamorato che canta per ogni figlio il canto esultante di Adamo per la sua donna: “Veramente tu sei carne della mia carne, respiro del mio respiro, corpo del mio corpo”. Poi ci sono anche quelli mandati via. La loro colpa? Hanno scelto la lontananza: lontano da me, voi che siete stati lontani dai fratelli. Non hanno fatto del male ai poveri, non li hanno umiliati o derisi, semplicemente non hanno fatto niente. Omissione di fraternità. Isolamento da paura perché “l’inferno sono gli altri” (J.P. Sartre). Invece no, il vangelo risponde: “mai senza l’altro”. Il Signore non guarderà a me, guarderà attorno a me, a quelli di cui mi son preso cura. Senza, non c’è paradiso.

(Letture: Ezechiele 34,11-12.15-17; Salmo 22; Prima Corinzi 15,20-26.28; Matteo 25,31-46)

il commento al vangelo della domenica

la parabola dei talenti “scossa” al nostro Io


La parabola dei talenti “scossa” al nostro Io

il commento di E. Ronchi al vangelo della trentatreesima domenica del tempo ordinario – anno A

«(…) A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. (…) Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone” (…)».
La parabola dei talenti mette in scena la sfida tra il patrimonio economico e il patrimonio relazionale, il molto denaro di un ricco signore e il suo grande progetto sui servitori: affida loro il suo tesoro e parte. Al momento del ritorno e del rendiconto, la sorpresa raddoppia. Anziché tenere per sé, il padrone rilancia: «bene, servo buono, ti darò potere su molto». E senti l’eco del profeta: così per te gioirà il tuo Dio (Is 62,5). Felice di ciò che vede, non solo dona ai servi l’investimento e il guadagno, ma aggiunge un di più: «entra nella gioia del tuo signore». Signore e servi sono entrati in sintonia di vita, nell’esperienza che «il Regno viene con il fiorire della vita in tutte le sue forme» (Giovanni Vannucci). I primi due hanno capito e osato, il terzo ha avuto paura e ha seppellito la sua vita: so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato, raccogli dove non hai sparso… ho avuto paura. Ecco qui ciò che è tuo. Non l’ha mai considerato suo, quel talento. «Ho avuto paura». La madre di tutte le paure è la paura di Dio. Il terzo servo ha una immagine di Dio triste, predatoria, che sa di morte. Lo sente duro, nemico e ingiusto. E chi non avrebbe paura di un Dio così? Tutta la parabola invece disegna una immagine opposta di Dio, che non è il mietitore severo di quanto ha seminato, ma lascia gioiosamente tutto il buon grano alla tua tavola, anzi lo raddoppia ancora (datelo a chi ha già dieci talenti). Non siamo al mondo per fare i conti con Dio, ma per condividere tesori di bontà, di gioia, di bellezza, di legami. Verso il servo che non è stato capace, la reazione ci sembra sproporzionata. Ma Gesù usa un linguaggio apocalittico, paradossale, per dire che un’immagine sbagliata di Dio può provocare disastri, può farci davvero fallire la vita. Ed è ciò che dobbiamo temere. La Evangelii Gaudium 49 ha una offerta di solare creatività quando ci esorta ad aver più paura di restare immobili e spenti che non di sbagliare. A noi, formati nell’idea che il peggio è sbagliare, dentro lo schema delitto/castigo, questo vangelo ricorda che il peggio che ci può capitare è di rimanere immobili, seppelliti, sterili, dei falliti, se dopo di noi, dietro di noi non lasciamo più vita. Il mondo è una realtà germinante, e lo è ogni creatura, e noi siamo al mondo «per la fioritura dell’essere» (Romano Guardini), per fare avanzare, anche solo di un piccolo passo, il bene, i talenti buoni, la storia della gioia. C’è una vita che preme alle nostre frontiere, non un tribunale. Allora a chi ha sarà dato. Dio regala vita a chi produce amore. Dio è la primavera instancabile del cosmo, il nostro compito è diventarne l’estate profumata di frutti.
(Letture: Proverbi 31,10-13.19-20.30-31; Salmo 127; 1Tessalonicesi
5,1-6; Matteo 25,14-30)

il commento al vangelo della domenica

quella voce nella notte capace di risvegliarci


Quella voce nella notte capace di risvegliarci

il commento di E. Ronchi al vangelo della trentaduesima domenica del tempo ordinario – Anno A

«Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono. A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. (…)

Nessuno dei protagonisti della parabola è esemplare: non lo sposo che esagera nel ritardo, non colui che sbarra la porta, neppure le 5 ragazze sagge ma dure. Eppure è così bella l’immagine d’avvio: dieci piccole luci nella notte, aria di festa, gente che si mette in cammino, esce nel buio e va incontro. Il Regno di Dio è simile a un incontro, è come attendersi un po’ d’amore dalla vita, un po’ di bellezza e un abbraccio in fondo alla notte. Suggestione di una scena notturna: dieci lampade accese, una costellazione in cammino, uno spicchio di cielo rovesciato sulla terra. Dieci cuori “come lucciole nell’alto buio” (Turoldo), che sfidano la notte, sfidano il ritardo del sogno, armati solo di una piccola luce. “E si addormentarono tutte…” Ed ecco lo scatto in alto, l’inatteso del racconto: una voce a mezzanotte, capace di risvegliare alla vita: ecco lo sposo! Il conforto di sapere che in ogni notte, in ogni abbandono e stanchezza, una voce verrà a svegliarci dalla vita sonnolenta. L’abbiamo sentita tutti: è stato un amico, potrei dirvi il nome; o un libro, posso dirvi il titolo; forse un salmo pieno di pathos, di stelle, di grida; un “beati voi”, in piedi, in cammino, voi miti, puri, limpidi, poveri, buoni, riaccendete il cuore. Forse una carezza, ma vera…

Secondo colpo di scena: cinque ragazze hanno finito l’olio. Cosa sia quest’olio misterioso il vangelo non lo
spiega. Ci può aiutare la poesia: “la fede è ciò che arde” (Ch Bobin), “la vita xe fiama” (Biagio Marin), “una multanime fiamma” (Clemente Rebora), Le ragazze ce l’avevano l’olio a casa, ma non l’hanno preso con sé: una risorsa sprecata, energia inutilizzata… Così accade quando non offriamo energie alte alla nostra vita: siamo fatti per incontrare, per una festa, uno sposo, un amore, una pienezza, una bellezza. E allora dà fondo alle risorse che hai, versa un rabbocco nei tuoi piccoli o grandi vasi… Ai giovani, ai vergini della vita, a tutti, la parabola suggerisce: preparati bene, preparati a cose grandi: a diventare padre, madre, amico, sposo, luce ai passi di qualcuno, piccolo samaritano buono. Riempi con intelligenza i piccoli vasi della tua esistenza, vivi con attenzione il tuo capitale di relazioni, così da saper vedere il bello quando arriva e abbracciarlo. Ciò che ti attende è grande: molta vita, molta gente, molta bellezza e creatività, occhi come stelle, dare una mano a Dio che continua a creare. Non lasciar spegnere la fiamma delle cose. Colui che tarda verrà, voce che risveglia, porta che si apre, vaso riempito fino all’orlo, lo splendore di un abbraccio in fondo alla notte… E tu non temere, alla fine sarà Lui, lo Sposo, a varcare la notte.
(Letture: Sapienza 6,12-16; Salmo 62; Prima Tessalonicesi
4,13-18; Matteo 25,1-13) 

il commento al vangelo della domenica

Gesù ricorda: il più grande è colui che serve

il commento di E. Ronchi al vangelo della trentunesima domenica del tempo ordinario – Anno A (…)

Non fatevi chiamare “rabbì”, perché́ uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato».

 La Parola di Dio mi mette con le spalle al muro: sono anch’io, come scriba o fariseo, uno che dice ma non fa? Cristiano di sostanza oppure di facciata? Una “domanda del cuore”, di quelle che fanno vivere: sono uno falso che non è ciò che dice e non dice ciò che è, oppure persona vera, compiuta, in cui annuncio e annunciatore coincidono? Ci sono colpi duri, oggi, nelle parole di Gesù; ma ogni volta che ciò accade lo scopo non è ferire, ma
spezzare la conchiglia affinché appaia la perla. La conchiglia non è la fragilità, ma l’ipocrisia. Nel Vangelo Gesù non sopporta due categorie di persone: gli ipocriti e quelli dal cuore duro, due tipi umani che spesso si identificano. Legano pesi enormi sulle spalle delle persone, ma loro non li toccano con un dito, Ipocrita è il moralista che impone leggi rigide, ma solo agli altri, e più è severo con loro più si sente vicino a Dio! Gesù è rigoroso, ma mai rigido. Paolo oggi nella seconda lettura: «Avrei voluto darvi la mia vita» (1Ts 2,8). L’ipocrita invece dice: «Vi ho dato la legge, sono a posto». Sono funzionari delle regole e analfabeti del cuore. E perfino analfabeti di Dio. Cioè, nel loro intimo, sono strutturalmente atei. Ipocrita è termine greco che significa attore, il teatrante che recita una parte e indossa una maschera: tutte le opere le fanno per essere ammirati dalla gente, si compiacciono dei primi posti, dei saluti sulle piazze, degli applausi… Ma il cuore è assente, il cuore è altrove. Fanno finta: sono personaggi e non più persone. E questa è la peggior sventura che possa capitare, la dissociazione dell’anima, lo sdoppiamento della persona, quando ami ciò che va dalla pelle in fuori (l’apparenza e il superfluo) e non ti curi di ciò che va dalla pelle in dentro (la sostanza e l’essenziale). Sono così rare le persone autentiche, tutte d’un pezzo, quelle che sono se stesse in pubblico come in privato, senza maschere. Quando ne incontriamo una, non lasciamola andare via senza aver tentato di farcela amica. È tra quelli che aprono una fessura sulla verità, una feritoia su Dio. Gesù poi evidenzia un altro errore che sgretola e avvelena dal di dentro la vita: l’amore del potere. Non fatevi chiamare maestro, o dottore, o padre, come se foste superiori agli altri. Voi siete tutti fratelli. Ma noi siamo sempre impreparati ad essere fratelli e sorelle. La fraternità ha fatto naufragio nella storia umana, è trauma e sogno, sempre ferita, sempre minacciata, sempre a rischio. Eppure disegna un mondo buono che si regge su legami d’affetto gioioso, dove il più grande è colui che serve. Perché un mondo fondato sul concetto di potere e di nemico, non è una civiltà, ma una barbarie.

(Letture: Malachia 1,14b-2,2b.8-10; Salmo 130; Prima Tessalonicesi 2,7b-9.13; Matteo 23,1-12)

il commento al vangelo della domenica

è «amore» la parola chiave del vangelo


È «amore» la parola chiave del Vangelo

il commento di E. Ronchi al vangelo della  trentesima domenica del tempo ordinario – Anno A

Gesù rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente». Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: «Amerai il tuo prossimo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».

Maestro, qual è il comandamento grande? Il comandamento-sorgente, la parola-fonte, la legge che unifica e dà senso alle altre, così che possiamo anche noi semplificare la vita, andare diritti all’essenziale? Domanda seria, alla quale Gesù risponde ma, come al suo solito, liberando dagli schemi, proponendo una parola che tra le Dieci Parole non c’è. Comincia con un verbo: amerai, al futuro, a indicare che l’amore è il futuro del mondo, che senza amore non c’è futuro: amatevi, altrimenti vi distruggerete. È tutto qui il Vangelo. Tu amerai, per guarire la vita e farla felice, perché la bilancia su cui si pesa la beatitudine di questa vita è dare e ricevere amore. Non amare è solo un lento morire. Lentamente muore chi non ama, chi non trema per una persona, di quell’amore che ripulisce gli occhi, che “fa vedere le persone come le vede la divinità, che muove il sole e le altre stelle e muove tutto in noi” (M. Gualtieri), che scava pietre per costruire case, cha fa nascere abbracci per ritrovarci interi, che fa sorgere arcobaleni che indicano la via.

Amerai Dio con tutto il cuore. Qualcuno ha proposto un’altra traduzione: amerai Dio con tutti i tuoi cuori. Come a dire: con il tuo cuore di luce e anche con il cuore d’ombra; con il cuore che crede e anche con il cuore che dubita; quando splende il sole e quando si fa buio; a occhi chiusi quando hai un po’ paura, e perfino con le lacrime. Lo amerai come puoi, meglio che puoi, con ciò che hai, magari col fiatone. Ma con tutta la tua anima, cioè con tutta intera la tua vita. Con tutta la tua mente. Amore intelligente dev’essere; quindi conoscilo, leggi, parlane, vai a fondo. Scrivi una preghiera, una canzone, una poesia d’amore al tuo Amore… Amerai con tutto. Se fai entrare una persona nella tua vita, non puoi essere avaro di te, sarai generoso di sentimenti buoni. Ma con questo, cosa ha detto di nuovo Gesù? In fondo sono le parole che ripetono i mistici, i cercatori di Dio di tutte le religioni. La novità di Gesù sta nell’aggiunta di un secondo comandamento, che è simile al primo… Il genio del cristianesimo: “amerai l’uomo” è simile a “amerai Dio”. Il prossimo è simile a Dio. Il prossimo ha volto e voce, ha cuore e bellezza, simili a Dio. La terra risponde al cielo. Vangelo strabico, verrebbe da dire: un occhio in alto, uno in basso, testa nel cielo e piedi per terra. La grandezza della vita ha a che fare con l’amore. Dio ha a che fare con l’amore. E Gesù è venuto a prendersene cura, come guaritore del disamore del mondo. Il disamore è l’unico peccato che rende deserta la terra e impensabile il domani. Venuto per guarire il cuore. E che diventi la culla del futuro e la culla di Dio.

(Letture: Esodo 22,20-26; Salmo 17; Prima Tessalonicesi 1,5c-10;Matteo 22,34-40)

il commento al vangelo della domenica

impariamo a restituire a Dio ciò che è suo

il commento di E. Ronchi al vangelo della ventinovesima domenica del tempo ordinario – anno A

(…) Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova?  Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».

Abbiamo sempre bisogno di appartenere a qualcuno. Siamo tutti come la moneta romana che mostrano a Gesù: «Divo Tiberio» , «sono del divino Tiberio, figlio di Augusto». E io a chi appartengo? Forse alle cose, ai poteri forti, al pensiero dominante, oppure ai miei sogni, ai legami vitali, all’amore che provo e che, mi assicura la Bibbia (cf 1Gv 4,16), è «Dio che ama in me»? I filoimperiali di Erode e gli indipendentisti del sinedrio pongono a Gesù una di quelle domande taglienti che fanno impennare l’audience e dividono gli spettatori: maestro, tu che sei libero e dici le cose come stanno, che relazione hai con Cesare, con il potere? La risposta di Gesù è acuta: come al suo solito, davanti a domande maliziose o capziose, porta gli uditori su di un altro piano, spiazzandoli con un doppio cambio di prospettiva. Primo cambio: sostituisce il verbo «pagare» con «restituire»: rendete, restituite a Cesare ciò che è di Cesare. Un imperativo forte, che coinvolge ben più di qualche moneta, che dà un’anima nuova alle relazioni: restituite il molto ricevuto, date indietro, guardate alla sorgente. Vivere è restituire vita, che viene da prima di noi e va oltre noi.

Viviamo per restituire amore a chi con l’amore ci ha fatto e ci fa vivere. Come il respiro: accogli e restituisci, non lo puoi trattenere, è puro dono. «Ricevimi, donami, donandomi mi otterrai di nuovo», scrive l’antico libro dei Rig Veda. Secondo cambio di prospettiva: Gesù fa entrare in gioco la sua visione e la sua

forza profetica recidendo di netto il legame tra le due parole incise sul denaro: divino Tiberio. Cesare non è Dio, Tiberio non è divino. Rendete a Cesare ciò che è di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio. A questo punto Gesù si ferma, non si sostituisce a noi, non ci esenta dalla responsabilità di usare la nostra intelligenza per valutare, scegliere, decidere cosa sia di Cesare, cosa di Dio. Restituite a Dio quello che è di Dio: di Dio è la terra e quanto essa contiene (Dt 10,14). Anche Cesare appartiene a Dio.

Ogni persona porta incisa l’iscrizione profetica: «io appartengo al mio Signore», «ha scritto sulla mano: del Signore!» (Isaia 44,5). Ognuno una piccola moneta d’oro con, in altorilievo, l’immagine e la somiglianza con Dio, sormontata da una dedica sacra: «sono di Dio». Ognuno un talento inviato al mondo, da far fruttare e poi restituire al bene comune. Ma non in perdita: «donandomi, mi otterrai di nuovo». Entrando così nel circuito del dono che Gesù instaura invece del possesso. Non l’accumulo, ma la restituzione; non le porte blindate sui miei averi, ma la loro circolazione nelle vene del mondo. L’uomo vive di vita donata.

Prima ricevuta e poi restituita.

(Letture: Isaia 45,1.4-6; Salmo 95; 1 Tessalonicesi 1,1-5; Matteo 22,15-21)

il commento al vangelo della domenica

credere è una festa Dobbiamo essere pronti

il commento di E. Ronchi al vangelo della ventottesima domenica del tempo ordinario – anno A

(…) (Il re) mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: Dite agli invitati: “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. (…)

Molti credenti, prigionieri di una religiosità pre evangelica, mettono la chiave di volta del rapporto tra uomo e Dio nel peccato da espiare, e alla base di tutto il peccato originale. Invece il Vangelo a dire e ridire che l’asse portante della fede è il dono, e alla base il dono originale: “Se tu conoscessi il dono di Dio!”.

La parabola di oggi lo racconta bene: c’è una festa in città, la più importante delle feste, si sposa il figlio del re. La religione respira aria di festa, si fonda sul dono. Il racconto si muove attorno a tre immagini: una stanza vuota; la ricerca per le strade; un abito sbagliato. Comincia bene, ma presto sbanda verso la tristezza. La sala vuota certifica un fallimento, come in certe nostre chiese tristi e semivuote, con il pane e vino che nessuno vuole, nessuno cerca, nessuno gusta; con la nostra afasia circa la Parola. E allora la sorpresa: il rifiuto non revoca il dono. Se i cuori e le case degli invitati si chiudono, l’inatteso Signore apre incontri altrove. Come ha dato la vigna ad altri contadini, nella parabola di domenica scorsa, così darà il banchetto ad altri affamati. I servi sono mandati con un ordine illogico e favoloso: tutti quelli che troverete chiamateli alle nozze. Tutti, senza badare a meriti o a formalità. “Non chiedete niente, voi invitate”. È bello questo Dio che, rifiutato, anziché abbassare le attese, le innalza: chiamate tutti! Apre, allarga, gioca al rilancio, va più lontano, ha tanta gioia da regalare. E dai molti invitati passa a tutti invitati, dai notabili della città passa agli ultimi della fila: fateli entrare tutti, cattivi e buoni. Addirittura prima i cattivi e poi i buoni. E io che pensavo che a fianco di Dio ci fosse posto solo per i buoni, i migliori, i bravi ragazzi: invece “la sala si riempì!” e non solo di gente per bene… Quando il re scende nella calca festosa della sala, io godo l’immagine di un Dio che entra nel cuore della vita. Noi lo pensiamo lontano, separato, assiso sul suo trono di giudice, e invece è dentro questa sala del mondo, dentro la vita, qui con noi, come uno cui sta a cuore la gioia, e se ne prende cura. Ha invitato mendicanti e straccioni e si meraviglia che uno sia vestito male. Ma non per ciò che indossa sulla pelle, per ciò che gli veste l’anima. L’uomo “senza abito di festa” è cacciato fuori non perché peggiore degli altri, ma perché spento dentro, senza festa nel cuore. Ascoltando questa parabola mi prende una fitta allo stomaco: sono ancora così pochi i cristiani che sentono Dio come un vino di gioia, un flauto da oltre. Sono così pochi quelli per i quali credere è una festa, bellezza del vivere, capitale di forza e di sorrisi.

(Letture: Isaia 25,6-10a; Salmo 22; Filippesi 4,12-14.19-20; Matteo 22,1-14) 

il commento al vangelo della domenica

la vigna del Signore a un popolo che dà frutti

la parabola dei contadini della vigna che uccidono i servi del Padrone

il commento di E. Ronchi al vangelo della ventisettesima domenica del tempo ordinario – anno A«Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. (…) Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!” (…)

La parabola è insieme cupa e trasparente: la vigna è Israele, il mondo, sono io. Vigna che produce uva selvatica, in Isaia; una vendemmia di sangue, in Matteo. Io sono vigna e delusione di Dio. La parabola è dura, e corre verso un epilogo sanguinoso, già evidente nelle prime parole dei vignaioli, insensate e brutali: “ Costui è l’erede, uccidiamolo e avremo noi l’eredità!” Ma è anche una fessura sul cuore di Dio: Gesù amava le vigne, come già i profeti, lo si capisce fin dalle prime battute: un uomo, con grande cura, piantò, circondò, scavò, costruì. Gesù osserva l’uomo dei campi, il nostro Dio contadino: lo vede mentre guarda la sua vigna con gli occhi dell’innamorato e la circonda di cure. Poi i due profeti intonano il lamento dell’amore deluso: “il custode si è fatto predatore” ( Laudato si’), ma al tempo stesso raccontano la passione indomita del Dio delle vigne, che non si arrende, che non è mai a corto di meraviglie, che per tre volte, dopo ogni delusione, fa ripartire il suo assedio al cuore, con nuovi profeti, nuovi servitori, addirittura con il proprio figlio. Che cosa potevo fare di più per te che io non abbia fatto? Parole di un Dio appassionato e triste, che continua a fare per me ciò che nessuno farà mai. Fino alla svolta del racconto: alla fine, che cosa farà il signore della vigna? La risposta dei capi è tragica: continuare nella stessa logica, uccidere, eliminare gli omicidi, mettere in campo un di più di violenza. Vendetta, morte, ancora sangue. Ma non succederà così. Questo non è il volto, ma la maschera di Dio. La parabola non si conclude nel disamore o nella vendetta, ma su di una fiducia immotivata, unilaterale, asimmetrica perché tra Dio e l’uomo le sconfitte servono solo a far risaltare di più l’amore. La vigna di Dio sarà dato a un popolo che ne produca i frutti. E allora inizierà da capo la conta, e il rischio, della speranza. Così è il nostro Dio: in Lui il lamento non prevale mai sul futuro. Un popolo c’è, un uomo c’è, di certo sta nascendo, forse è già all’opera, chi sa farla fruttificare. Ci sono, stanno sorgendo, in mille piccole vigne segrete, dei coltivatori bravi che custodiscono la vigna anziché depredarla, che mettono il proprio io a servizio dell’umanità, anziché gli altri a servizio della propria vita. Sono i custodi del nostro futuro. Sanno produrre quei frutti buoni che Isaia elenca: aspettavo giustizia, attendevo rettitudine, non più grida di oppressi, non più sangue. Il profeta sogna una storia che non sia guerra di possessi e battaglia di potere, ma sia vendemmia di giustizia e pace, il volto dei figli di Dio non più umiliato. Il Regno comincia con questi acini di Dio, come piccoli grappoli di Dio fra noi.(Letture: Isaia 5,1-7; Salmo 79; Filippesi 4,6-9; Matteo 21,33-43)

il commento al vangelo della domenica

la guerra del cuore per renderlo «unificato»

il commento di E. Ronchi al vangelo della ventiseiesima domenica del tempo ordinario – anno A

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». (…)

«Un uomo aveva due figli». E dal seguito della parabola capiamo che «ogni figlio aveva due cuori». Esperienza di tutti: abbiamo in noi un cuore che dice sì e uno che dice no. Non esiste un terzo figlio dal cuore unificato, il figlio ideale che incarna la perfetta coerenza tra il dire e il fare. Siamo persone incompiute, contradditorie: non capisco me stesso, faccio il male che non vorrei, e il bene che vorrei non riesco a farlo (Rm 7,15.19). Ma tutti in cammino verso il cuore unificato. Antonio del deserto diceva che anche nel monaco nascosto nella più sperduta grotta del monte, c’è una guerra che rimane fino alla fine: «la guerra del cuore». Il conflitto di scelte contradditorie, il misurarsi con la forza selvatica del desiderio. La parabola prende avvio da un triangolo di relazioni, padre-figli, non esemplari. La prima azione riportata è un ordine: «Figlio, va’ oggi a lavorare nella vigna». Il racconto che segue è la reazione a un comando percepito da entrambi i figli come una imposizione, un peso da scrollarsi di dosso, o a parole o coi fatti. Se portiamo la parabola sul piano della nostra vita personale, anche noi ci sentiamo spesso esecutori di ordini di un Dio sovrano che si impone come un padre-padrone; viviamo la religione come un insieme di regole e divieti, dove quasi tutto è proibito e il resto obbligatorio.Ma Dio non è un dovere, è uno stupore: in principio alla fede c’è il Vangelo, una bella, gioiosa, lieta notizia. Dio è venuto ed ha fatto risplendere la vita; è venuto ed ha messo sogni e canzoni nuove nel cuore; è venuto, maestro di orizzonti; non ha piantato ulteriori paletti, ma ci ha dato ulteriori ali. Per volare più lontano, più sicuri, per giungere più veloci alla felicità, cioè alla vita buona, bella e beata di Gesù. In principio c’è regno di Dio, ma come un vino di festa, un banchetto di condivisione; non un campo amaro di sudore ma una vigna profumata di grappoli. Nella parabola è in gioco il fondamento del nostro rapporto con Dio. Infatti: il primo figlio si pentì e andò a lavorare. Letteralmente il Vangelo dice: si convertì, cambiò mentalità, trasformò il suo modo di vedere le cose. Il tema grande non è etico, la disubbidienza iniziale diventata ubbidienza, che è poca cosa, ma teologico: il cambio di sguardo su Dio, scoprire con stupore il senso della storia. Il primo figlio ha capito che la vigna di famiglia produce un vino che è simbolo di festa e di gioia per tutta la casa. Non un campo di lavori forzati, ma un luogo dove il mondo diventa più fecondo e più bello. Allora ha fretta di andarvi, anche se nessuno lo vedrà, perché va a rendere meno arida la terra, meno sterile la storia.

(Letture: Ezechiele 18,25-28; Salmo 24; Filippesi 2,1-11; Matteo21,28-32)

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