il commento al vangelo della domenica

“in principio non era così”

 

il commento di E. Ronchi al vangelo della ventisettesima domenica del tempo ordinario

Mc 10,2-16

In quel tempo, alcuni farisei domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla». Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; (…) Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto».(…) Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro.

Il sogno di Dio è che i due si cerchino, si trovino, si amino; che diventino e rimangano uno. Questo è il suo nome: ‘Dio congiunge’. Il nome del nemico dell’amore è esattamente l’opposto: colui che separa, il divisore, il diavolo. Allora uno più uno uguale a uno.

Alcuni farisei vanno da Gesù per metterlo alla prova. Quello che gli chiedono è risaputo: “E’ lecito a un marito ripudiare la moglie?”. Chiaro che sì, la tradizione, avallata dalla Parola di Dio, lo permetteva.

Gesù prende subito le distanze e dice: “cosa vi ha ordinato Mosè?” Da buon ebreo, avrebbe invece dovuto dire “che cosa ci ha comandato Mosè?”.

‘Mosè ha permesso l’atto di ripudio’. Ebbene, Gesù prende le distanze anche da Mosè e sottolinea: “per la durezza del vostro cuore egli scrisse questa norma.

Afferma così qualcosa di enorme: La legge che noi diciamo di Dio non sempre riflette la sua volontà. E per questo non ha valore assoluto. Gesù non si ferma a redigere altre norme, non gli interessa regolamentare la vita, ma rinnovarla; custodire il fuoco, non venerare la cenere.

Come bambini che non comprendono, ci prende per mano e ci accompagna nei territori di Dio e del suo sogno iniziale: all’inizio Dio li fece maschio e femmina, per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e i due diventeranno una carne sola.

Il sogno di Dio è che i due si cerchino, si trovino, si amino; che diventino e rimangano uno. Allora uno più uno uguale a uno.

L’uomo non separi quello che Dio ha congiunto. Questo è il suo nome: ‘Dio congiunge’. Il nome biblico del nemico dell’amore è esattamente l’opposto: colui che separa, il divisore, il diavolo.

Allora il problema non è ripudio o non ripudio, separarsi o meno, ma è alla radice: si tratta della manutenzione, tenace, del sogno, perché l’amore è fragile e affamato di cure.

Se non ti impegni a fondo per le tue relazioni, se non dai loro tempo, se non le custodisci con fedeltà, con timore e tremore, le hai già ripudiate nel tuo cuore.

‘Portavano dei bambini a Gesù perché li toccasse. Ma i discepoli li rimproverarono. Al vedere questo, Gesù si indignò’. L’indignazione è un sentimento proprio dei profeti davanti all’ingiustizia o all’idolatria; è la reazione di Gesù per la profanazione del tempio (Gv 2,14).

Qui reagisce allo stesso modo, perché i bambini sono cosa sacra: a chi è come loro appartiene il regno di Dio.

Chi è come loro? I bambini non sono più buoni degli adulti, ma sono maestri nell’arte della fiducia e dello stupore. Loro sì sanno vivere come i gigli del campo e gli uccelli del cielo, sanno giocare tutto il giorno come i delfini, incuriositi da ciò che porterà loro, facili al sorriso e all’abbraccio. Il bambino fino ai 12 anni non ha obblighi verso la Legge, è ai margini, non ha riti da osservare, e Gesù lo addita a modello! Prima la persona e poi la legge!

Nessuno ama la vita più appassionatamente di un bambino che si rialza da terra.

Prendendoli fra le braccia li benediceva: perché nei loro occhi il sogno di Dio brilla non contaminato ancora.

il commento al vangelo della domenica

di fuoco o di cenere?

 il commento di E. Ronchi al vangelo della ventiseiesima domenica del tempo ordinario

In quel tempo, Giovanni disse a Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi. Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa. Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare. Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geènna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geènna. E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue».

Mc 9,38-43.45.47-48

 

La vera distinzione non è tra chi va in chiesa e chi no, ma tra chi si ferma presso l’uomo bastonato e versa olio e vino, e chi invece tira dritto.

Maestro, quello là non è dei nostri!

Quel forestiero che fa miracoli ma che non è nel gruppo, che trasmette vita senza mandato ufficiale, dev’essere bloccato.

“Non ti è lecito guarire gente se non sei dei nostri!

Non puoi migliorare il mondo se non sei del nostro partito!”

La tessera prima del bene, la tristezza dell’ideologia prima della realtà.

La risposta di Gesù è molto articolata e molto “alla Mosè” della prima lettura: Lascialo fare! Magari fossero tutti profeti del Regno!

Chiunque fa del bene è dei nostri, chiunque regala un sorso di vita è di Dio. Tutti sono dei nostri e noi siamo di tutti.

Questo ci pone tutti serenamente sullo stesso piano con tanti diversamente credenti o anche non credenti, ma che lottano contro i démoni moderni di inquinamento, violenza, fake news, corruzione, economia che uccide.

Si può essere uomini secondo il cuore di Dio senza essere uomini di Chiesa, perché il Regno la scavalca e va oltre, molto oltre tutte le Chiese.

In un contesto come la provincia italiana, dove quasi tutto è ancora cattolico: segni, simboli, linguaggi, cerimonie, il rischio che corriamo è di essere cattolici senza essere cristiani, cioè di essere senza Gesù.

Cattolici non cristiani siamo noi quando obbediamo alle regoline ma non all’amore, quando esigiamo misericordia e poi non perdoniamo, quando andiamo a messa e non spezziamo il pane con i poveri. Non c’è più il fuoco, c’è solo tiepida cenere che si va spegnendo.

La vera distinzione non è tra chi va in chiesa e chi no, ma tra chi si ferma presso l’uomo bastonato e versa olio e vino, e chi invece tira dritto.

Chiunque avrà dato un bicchiere d’acqua.

Tutto il vangelo in un bicchiere d’acqua. Di fronte all’invasione del male, all’eccedenza del male cronaca, Gesù ci conforta: al male contrapponi il tuo bicchiere d’acqua.

Conclude il Vangelo: Se il tuo occhio, la tua mano, il tuo piede ti sono di scandalo, tagliali… Ma la mano non può scandalizzare, è simbolo dell’uomo che opera. Tu operi per la vita o per la morte? Allora taglia ciò che in te opera per la morte.

Il piede: Tu, uomo, per chi stai camminando?

Se il tuo occhio.. L’occhio porta con sé il cuore. E dove ti porta il cuore? Cavalo, gettalo via! Guarda altrimenti, con occhi nuovi, per non fallire la vita.

La geenna di cui parla Gesù era un burrone a sud del tempio, fatto discarica, dove il fuoco ardeva costante innalzando un fumo maleodorante.

Dice Gesù: non fare immondizia della tua vita; guarda che se dai scandalo a un piccolo, sei come la spazzatura del mondo. Non buttarti via come un rifiuto, come uno scarto. Immagini durissime…

Se il tuo occhio, se la tua mano ti scandalizzano, tagliali… metafore inquietanti per riproporre un sogno, quello di mani che sanno solo donare

e di piedi che vanno incontro,

un mondo dove gli occhi sono più luminosi del giorno,

dove tutti sono dei nostri, tutti amici della vita

e quindi tutti profeti, secondo il cuore di Dio.

il commento al vangelo della domenica

IL TEPORE DI UN ABBRACCIO

 Mc 9, 30-37

il commento di E. Ronchi al vangelo della venticinquesima domenica del tempo ordinario

Il vangelo introduce tre nomi di Gesù totalmente sbagliati e impossibili: ultimo, servo, bambino.
E i dodici non capiscono, proprio come noi.
Gesù sta dicendo loro che tra poco sarà assassinato e quelli parlano d’altro, parlano di carriere: chi è più grande tra noi?
Il rabbi li stravolge con quel limpidissimo pensiero: chi vuol essere il primo sia l’ultimo e il servo di tutti.
Di cosa stavate parlando?
Di chi è il più grande.
Questione infinita, che inseguiamo da millenni. Questa fame di potere, questa furia di comandare è da sempre annuncio di distruzione.
Gesù si colloca a una distanza abissale da tutto questo: se uno vuol essere il primo sia il servo.
Ma non basta: Servo di tutti, senza limiti. E non basta ancora: prese un bambino, lo pose in mezzo e lo abbracciò.

Un bambino!

E’ il modo magistrale di Gesù, che s’inventa qualcosa di inedito come un abbraccio all’ultimo della fila, grande schiaffo in faccia ad ogni potere.

Tutto il vangelo in un abbraccio è rivelazione, è altissima teologia sulla verità di Dio.

In quella casa di Cafarnao c’è una parabola in azione: è Dio che si scioglie in un abbraccio al più piccolo perché nessuno sia perduto, non una briciola di pane, non un agnellino in fondo al gregge, non due spiccioli di un tesoro.

Proporre il bambino come modello del credente è l’impensato.
Cosa ne sa lui? Solo la tenerezza degli abbracci, l’emozione delle corse, il vento sul viso. Non sa niente di filosofia, di teologia, di morale, ma conosce come nessuno il senso della fiducia, da cui imparare.

Chi accoglie un bambino accoglie me! Gesù compie un enorme passo avanti, lo indica come sua immagine. Vertigine del pensiero. Il Re dei re, il Creatore, l’Eterno, l’infinito, l’assoluto, l’immenso, sta in un cucciolo d’uomo.
E questo vuol dire che come ogni bambino anche Dio va protetto, accudito, custodito, aiutato, accolto, perché “chi accoglie un bambino accoglie me, accoglie il Padre”.

Accogliere, verbo che plasma il mondo come Dio lo sogna.
Avremo un futuro buono solo quando l’accoglienza sarà il nome nuovo della civiltà; quando accogliere o respingere i disperati, i piccoli, sarà considerato accogliere o respingere Dio stesso. Se vogliamo un mondo che stia in piedi davvero non c’è altra strada che ripartire dal più bisognoso.
Questa è la fede, che poggia sulla giustizia.
Il bambino conosce la speranza perché sa aprire la bocca in un sorriso quando ancora non ha smesso di asciugarsi le lacrime.

I bambini danno ordini al futuro.
Loro sì, sanno vivere come i gigli del campo e gli uccelli del cielo.
Proviamoci anche noi: quando ci sentiamo senza appoggio e speranza, ricordiamo quel bambino abbracciato, e anche noi come lui sentiremo lo stupore tiepido delle braccia di Dio.

il commento al vangelo della domenica

“voi chi dite che io sia?”

Mc 8,27-35

il commento di E. Ronchi al vangelo della ventiquattresima domenica del tempo ordinario


In quel tempo, Gesù interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti». Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». (…) 

 

Il miracolo è che la debolezza, la fatica, l’ambiguità, le notti senza frutto, i rinnegamenti, non sono un’obiezione, ma un’occasione per essere fatti nuovi e per ricominciare, attraverso inizi sempre nuovi: Tu seguimi!

Ambiguità, incoerenza.

Gesù preferisce le storie rotte a quelle perfette,

le vite incamminate a quelle stanziali.

Quando sono vero sono debole. Quando siamo veri siamo tutti feriti. Ma quando sono debole è allora che sono forte,

perché entra in me il vasaio che mi rimette sul tornio e

fa dei miei cocci un canale per altre seti.

E per la strada interrogava.

Gesù non è la risposta alle nostre domande, è lui la domanda; ogni sua parola porta scritto: più in là! La sua dimora è sempre oltre.

Ma la gente, chi dice che io sia? Gesù non vuole un sondaggio per misurare la sua popolarità, vuole capire cosa del suo messaggio ha raggiunto il cuore.

Infatti la risposta della gente rivela un’idea sbagliata di lui: per qualcuno è un moralizzatore di costumi, tipo Giovanni il Battista; per altri è forza che abbatte i falsi profeti, come Elia; altri ancora colgono solo l’eco di vecchi messaggi già ascoltati, lui è “uno dei profeti”.

Ma Gesù non è niente fra le cose di ieri. È novità in cammino.

E il domandare si fa più diretto: ma voi chi dite che io sia?

Innanzitutto mette in discussione se stesso. Sottoporsi alla valutazione altrui costa molta umiltà e libertà, e con questa domanda Gesù si comporta da innamorato: Quanto conto io per te?

Non ha bisogno di sapere se lo ritengono più bravo dei profeti di prima, lui vuole sapere se Pietro è innamorato, se l’ha accolto nel cuore, se gli da tempo e passione.

Tu sei il Cristo, Pietro è irruente, sei il senso di Israele e della mia vita.

A questo punto Gesù cominciò a insegnare che il Cristo doveva soffrire e venire ucciso, per poi risorgere il terzo giorno.

Ma come fa Pietro ad accettare un messia perdente? “Tu sei il messia, l’atteso, che senso ha un messia sconfitto?”

Allora Gesù lo prende in disparte. E qui la tensione si alza, fino a che il dialogo culmina in parole durissime: va dietro di me, satana. Il tuo posto è seguirmi.

Pietro è la voce di ogni ambiguità umana, e la soluzione è quella indicatagli: va dietro di me.

Gesù ha accarezzato le mie ferite e contraddizioni, e mi fa camminare proprio lì, lungo la “linea incerta che addividi la luci dallo scuru” (A. Camilleri).

Il miracolo è che la debolezza, la fatica, l’ambiguità incolpevole, grano e zizzania intrecciati, le notti senza frutto, i rinnegamenti, non sono un’obiezione, ma un’occasione per essere fatti nuovi, per stare bene con il Signore, per rinnovare la nostra passione per lui e per ricominciare, attraverso inizi sempre nuovi: Tu seguimi!

Ti seguirò, Signore. Con le parole più belle che ho per te: tu sei per me quello che è la primavera per i fiori, quello che il vento è per l’aquilone.

Sei venuto con il soffio di un bacio sulla fronte, e hai aperto la mia strada.

il commento al vangelo della domenica

VANGELO DI SENSI IN ASCOLTO
Mc 7,31-37
il commento di E. Ronchi al vangelo della ventitreesima domenica del tempo ordinario
Ancora un miracolo. Uno dei tanti.
Portano da Gesù un uomo prigioniero del silenzio, mentre la parola era murata dentro di lui.
Una vita senza musica e senza voce, un sordomuto come noi che non ci si capisce, che non si sa ascoltare, sordi come lui.
Siamo invasi da social che ci fanno comunicare con tutti, anche quando nessuno ci ascolta; ci piace essere conosciuti da un mucchio di sconosciuti.
Quel sordomuto è fortunato e non per la guarigione, ma perché attorniato da amici che si prendono cura di lui: e lo condussero da Gesù.
La guarigione inizia quando nel volto di qualcuno vediamo spuntare un germoglio di amore compassionevole.
‘E lo pregarono di imporgli la mano’. Ma Gesù fa molto di più: lo prende in disparte, lontano dalla folla: Io e te soli, per questo tempo niente conta più di te.
Non importa se è santo o peccatore. Soffre e basta.
E noi? Quando invece di dire: sei malato, sei nevrotico, si dirà: vieni a cena da me, al riparo della mia amicizia?
Li immagino occhi negli occhi, con Gesù che prende quel volto fra le mani, con poche parole e gesti molto intimi.
Lo tocca, e pone le dita sugli orecchi del sordo. Come lo scultore sulla creta che sta plasmando, come in una carezza. A parlare è la tenerezza dei gesti.
Poi con la saliva toccò la sua lingua. Spirito e parola condensati, in un vangelo di contatti, di odori, di sapori.
Gesù opera la guarigione dei sensi, e per farlo li usa tutti; mani, occhi, orecchi, bocca, per ricondurci all’essenza della vita, perché è attraverso i sensi che percepiamo il mondo.
Guardando verso il cielo, emise un sospiro, e gli disse: Effatà! In aramaico, nel dialetto di casa, nella lingua della madre, ripartendo dalle radici.
Apriti e non “apritevi”, si rivolge così all’uomo intero, e non ai suoi orecchi. Apriti, come si apre una porta all’ospite, come le braccia all’amore.
Apriti agli altri e a Dio, anche con le tue ferite, attraverso le quali vita esce e vita entra.
Una vita guarita è quella che si apre sul mondo: e subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. In realtà non è l’organo fisico dell’orecchio, in realtà è scritto che si aprirono ‘gli ascolti’. Si aprì la comprensione, non gli orecchi.
Se non sai ascoltare, perdi la parola. E sa parlare solo chi sa ascoltare. Dono da chiedere instancabilmente, per il sordomuto che è in noi:
donaci, Signore, un cuore che ascolta (cfr 1Re 3,9).
Allora nasceranno pensieri e parole che ci faranno uscire dall’assurdo di parole non dette e non ascoltate, dall’assurdo che è l’uomo chiuso.
Che l’unica nostra parola sia: ‘apriti’.
Se apri la tua porta, vita viene (Jaki Petrovic).

il commento al vangelo della domenica

LA SORGENTE PULITA
Marco 7,1-8.14-15.21-23
Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano.
Gesù indirizza la nostra attenzione verso il cuore, quegli oceani interiori che ci minacciano e che ci generano; che ci sommergono talvolta di ombre e di sofferenze ma che più spesso ancora producono isole di generosità, di bellezza e di luce.
Gesù veniva dai campi del mondo dove piange e ride la vita, veniva dai villaggi dove il suo andare era un perenne bagno nel dolore.
Dovunque arrivava, gli portavano i malati sulle piazze, sulle porte, li calavano dai tetti. E mendicanti ciechi lo chiamavano, donne piagate di Tiro e da Sidone cercavano di toccargli la frangia del mantello, o almeno che la sua ombra passasse sopra di loro come una carezza.
E ora che cosa trova?
Gente che collega la religione a macchioline, a mani e piatti lavati, a oggetti esteriori, che collocano il male all’esterno e non nell’interiorità.
Gesù, anziché scoraggiarsi, diventa eco del grido antico dei profeti: è dal cuore degli uomini che escono le intenzioni cattive. E inaugura così la religione dell’interiorità, proponendo una radicale “ecologia del cuore”: curare il cuore per guarire la vita.
Il problema centrale è pulire non le mani, ma la sorgente.
Che vuol dire attenzione, premura, terapia intensiva del nostro piccolo Eden interiore, dove nascono i sogni, dove intrecciano le loro radici energie bellissime e generative, piante guaritrici e le spine di vecchie ferite, l’infinito e il quotidiano, attorno all’albero sempre verde della vita.
La nostra sorgente è sana; l’uomo non è cattivo, solo che si sbaglia facilmente. Ma non esiste vicenda umana senza un grammo di luce: perché ogni cosa è “tôv”, bella e buona, illuminata, l’intero creato è un atto d’amore sussurrato.
Che aria di libertà! Apri il vangelo e senti che ti riporta a casa. Senti una boccata d’aria fresca dentro l’afa pesante dei soliti, piccoli discorsi, uno spruzzo d’acqua fresca e buona come l’essenziale.
Qual è la differenza tra superfluo ed essenziale?
Non ho più dimenticato un antico professore che me lo spiegava così: superfluo è tutto ciò che va dalla pelle in fuori; essenziale è tutto ciò che va dalla pelle in dentro. I farisei andavano dalla pelle in fuori: lava, pulisci risciacqua, spolvera. Gesù va dalla pelle in dentro.
Ritorna al tuo cuore: per quasi mille volte nella Bibbia ricorre il termine cuore, che non indica la sede dei sentimenti o delle emozioni, ma il luogo dove nascono le azioni e i sogni, dove si sceglie la vita o la morte, dove si è felici oppure no. Dove ci sono campi di grano e anche erbe cattive.
Gesù vuole evangelizzare il cuore, far scendere vangelo sulle nostre zolle di durezza e sui desideri oscuri.
Tu non concederai loro il diritto di sedere alla tua tavola, non permettere loro di galoppare sulle praterie del tuo cuore, perché tracciano strade di morte.
Evangelizzare significa far scendere sul cuore un messaggio felice, e quello di Gesù ribadisce che la sorgente è pura, ma ha bisogno della tua cura.
Custodisci con ogni cura il tuo cuore,
perché da esso sgorga la vita (Proverbi 4,23)
Bellissimo compito profetico: chiamati tutti a bypassare tanta polvere, tanto fumo, tanta apparenza.
Liberiamo la Parola di Dio dai sequestri anche ecclesiastici, da regoline, da piccolezze polverose che rubano luce al messaggio, e il vangelo ci darà ali per volare su un mondo bello, su un mondo nato buono.

il commento al vangelo della domenica

IL SILENZIO UMILE DEL PANE
Gv 6,51-58
il commento di E. Ronchi al vangelo della ventesima domenica del tempo ordinari
Il vangelo continua il racconto del durissimo conflitto di Cafarnao, quando, di fronte alla crisi, il Rabbi alza la posta e scopre le carte, con una pretesa che gli fa dire: solo io so chi è Dio.
Non lo sanno i profeti, non lo sanno i rabbini.
“Io solo, perché io e Dio siamo una cosa sola”.
E ce ne rovescia l’immagine:
Ti avvicini a lui diventando umano, toccando piaghe e dolori e non riempendo la vita di riti, preghiere e pensieri devoti.
Ma facendoti a tua volta pane, un pezzo di pane buono spezzato per la fame e la pace del mondo.
Poi, in otto versetti, ripete altrettante volte: chi mangia la mia carne vivrà in eterno.
L’eternità è qualcosa che interessa sempre meno i credenti di oggi, forse perché vista come durata e non come intensità.
La vita eterna non è quella misurata su una lunghezza indefinita e che può apparire un po’ noiosa, la vita eterna è la vita stessa “dell’Eterno”.
E allora tu capisci che nella vita dell’Eterno ritrovi il pulsare delle stelle, gli abissi dei mari, l’esultanza degli amanti, il grido vittorioso del bambino che nasce, i tamburelli di Miriam mentre il popolo attraversa il mar Rosso.
E c’è il volto stupefatto di tua madre quando ti ha preso in braccio la prima volta, e il sorriso del povero che tu hai soccorso.
Gesù ha scelto il pane come suo simbolo perché se c’è una cosa che sa di vita, è proprio il pane.
E perché allora ci deve supplicare per otto volte: prendete e mangiate?
Perché abbiamo mangiato male prima!
Perché la vita ci ha regalato traumi da togliere il fiato, e sotto sotto pensiamo che nessuno dia niente per niente, che l’amore vada meritato.
Cosa dovrò dare in cambio a Dio?
Che prezzo devo pagare, in fatiche, sacrifici, impegni?
Non c’è nessun prezzo da pagare, niente da dargli in cambio, niente!
Dio non si compra e non si merita, si accoglie.
E’ vederlo mentre sorridente mi viene incontro, felice che io sia lì!
Non mi chiede in cambio nulla, se non un cuore largo e il mio fiorire in pienezza, e magari un piccolo grazie per la danza fatta insieme.
E poi di nutrirmi di lui, di carne e sangue, due termini che racchiudono la sua umanità e le sue mani di carpentiere profumate di legno, le sue lacrime, le sue passioni, gli abbracci dati e ricevuti.
E mi dice: prendete il mio modo di abitare la terra, di entrare nelle case, di chiedere acqua alla samaritana e di far scendere Zaccheo dall’albero, di toccare gli intoccabili, di non mandare mai via nessuno.
Mi ha cercato, mi ha atteso. Si dona. ​
Io posso solo accoglierlo, stupito e confuso, perché prima che io gli dica “ho fame”, sento lui dirmi: prendi! Mangia! Nutriti di me, come un bimbo che nel grembo della madre si nutre del suo sangue.
Egli entra in me come pane, si trasforma in me e mi trasforma in lui, e diventiamo una cosa sola.
Noi ci attendiamo segni grandiosi e Gesù ce ne rovescia l’idea: Dio viene e non si impone, scompare nel silenzio, si dissolve nell’umiltà del pane.
Quel suo pane che sa di vita, perché la nostra vita sappia di pane.
Il nostro compito è non andarcene da questo mondo senza essere prima diventati un pezzo di pane buono, spezzato per la fame di qualcuno, per la pace di tutti.

il commento al vangelo della domenica

PANE D’AZZURRO
Gv. 6,24-35
il commento di E. Ronchi al vangelo della diciassettesima domenica del tempo ordinario
Dopo il segno del pane, il lago si riempie di barche e di domande.
Da dove nascerà un lungo scontro verbale, nella sinagoga di Cafarnao, duro fino ad una soglia di rottura, e non solo con occasionali ascoltatori, ma proprio con i suoi discepoli.
Sarà un dialogo tra sordi, che si articola all’inizio attorno a tre domande:
I. Quando sei venuto qua?
E Gesù capisce che alla gente non interessa sapere il quando e il come, ma il perché. E risponde senza giri di parole: voi mi cercate perché avete mangiato, perché pensate di avere un tornaconto, per la pancia piena. Contesta la loro e la mia fede illusoria, “economica”: io amo Dio o i suoi favori? Amo il Donatore o i suoi doni? C’è il cuore da saziare, che è un abisso insondabile (salmo 64,7), e non il ventre.
II. Cosa dobbiamo fare per essere in sintonia con Dio?
Mettersi in sintonia con Gesù: credere, fidarsi, fondarsi, affidarsi. Al cuore della fede sta la tenace, dolcissima fiducia che l’opera di Dio è Gesù: volto alto e luminoso dell’umano, libero come nessuno, guaritore del disamore del mondo. Volto vero di un Dio che viene non come un dito puntato, ma come un abbraccio, come le due ali aperte di una chioccia che protegge e custodisce i suoi pulcini (Lc 13,34), con tenerezza combattiva.
III. Tu, quale opera fai perché ti crediamo? Gesù risponde con due parole immense: Dio dà.
Un verbo così facile, così chiaro: dare, che racchiude il cuore di Dio. Dio dà vita. Siamo davanti a uno dei vertici del vangelo, a uno dei nomi più belli di Dio: Lui è nella vita, donatore di vita. Dalle sue mani la vita fluisce illimitata e inarrestabile.
L’opera di Dio è dare. Dio non prende, dona. Non esige, offre. Non pretende, colma. Non dà pane in cambio di potere, neppure del potere sulle anime. Offre qualcosa che solo può colmare le profondità della vita: “pane dal cielo”.
E qui scatta come una molla, come una freccia, la pretesa totale, perfino eccessiva di Gesù: io sono il pane, io faccio vivere!
L’uomo nasce affamato, ed è la sua fortuna. Il bambino ha fame della madre, gli amanti hanno fame l’uno dell’altro e poi di un figlio che incarni il loro amore, come un balcone sul futuro. E quando una famiglia è completa, dovrebbe sentirsi appagata. E invece l’uomo sente la felicità sempre minacciata. Ed ha fame ed ha paura, desidera amici e teme tradimenti. Ha fame di corpi e poi di infinito; ha fame di cielo: cerca pane d’azzurro.
Pane non è solo un pugno di farina e acqua, ma indica tutto ciò che ci mantiene in vita. Amore. Pace. Dignità. Energia. Libertà. Sogno. Fioritura piena del nostro essere. Felicità.
Pane ‘dal’ cielo, ma non solo: pane ‘di’ cielo, composto di ciò che compone il cielo, fatto della stessa materia di cui è fatto Dio.

il commento al vangelo della domenica

PRIMA DEL PANE, IL LIEVITO
Gv 6,1-15
il commento di E. Ronchi al vangelo della diciassettesima domenica del tempo ordinario
Domenica del pane che trabocca dalle mani, dalle ceste, che sembra non finire mai.
E mentre lo distribuivano, non veniva a mancare; e mentre passava di mano in mano, restava in ogni mano.
Quello del pane è l’unico segno riferito da tutti e quattro i Vangeli. Marco e Matteo ne riportano addirittura due redazioni. Si tratta, evidentemente, di un evento decisivo per capire la vita e il messaggio di Gesù.
Con il segno del pane, più che davanti ad un eclatante miracolo siamo di fronte ad una fessura di mistero.
Il racconto è pieno di simboli bellissimi: è ormai primavera; c’è molta erba che richiama i pascoli e il Salmo del buon pastore; c’è il monte grande simbolo della casa di Dio; è vicina la Pasqua; ci sono i numeri: cinque pani e due pesci che compongono il sette, simbolo della pienezza; c’è il pane d’orzo, pane di primizia perché l’orzo è il primo dei cereali che matura, primo pane nuovo; e c’è un ragazzo, neppure un uomo adulto, una primizia d’uomo.
Un Vangelo pieno d’inizi e di gemme che fioriscono, per grazia.
Modello del discepolo oggi è un ragazzo senza nome né volto, che dona ciò che ha, senza pensarci, e così innesca la spirale della condivisione, il miracolo del dono.
Il problema del nostro mondo non è la penuria di pane, ma la povertà di quel lievito che incalza e spinge a condividere, a fare di ciò che hai un sacramento di comunione.
“Al mondo, il cristiano non fornisce pane, fornisce lievito” (Miguel de Unamuno).
“Credo sia più facile moltiplicare il pane che non distribuirlo. C’è tanto di quel pane sulla terra che a condividerlo basterebbe per tutti” (D. M. Turoldo).
Prese i pani, ringraziò, diede.
“Ricevimi, donami, donandomi mi otterrai di nuovo” (Rig Veda). L’uomo può solo ricevere, la vita, il creato, le persone che sono il suo pane. Può solo ringraziare, benedire, donare. E basteranno le briciole a riempire dodici ceste.
Noi siamo ricchi solo di ciò che abbiamo donato alla fame d’altri.
Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò sul monte, lui da solo. Rifiuta di essere fatto re, ma non rifiuta l’acclamazione a profeta.
La profezia gli si addice: lui è bocca di Dio e bocca dei poveri. Ma dal potere, da tutto ciò che circonda il nome di re, fugge lontano.
La folla è religiosa solo in apparenza: cerca un Dio fornitore di pane a buon mercato, che plachi le fatiche, i pianti, le paure che popolano il cuore.
Gesù non vuole regnare su nessuno, ma porre vita nelle nostre mani. La sua. E guidarci dalla fame di pane alla fame di Dio.
Noi siamo fatti per la felicità, ma in questa furia di vivere che ci prende tutti, non ci preoccupiamo di moltiplicare dentro di noi le sorgenti che, sole, danno la felicità: saper accogliere, benedire, donare.

il commento al vangelo della domenica

SULLA SPALLA DI DIO
Marco 6,30-34
il commento di E. Ronchi al vangelo della sedicesima domenica del tempo ordinario
Da quel pellegrinaggio fatto a due a due, i dodici sono tornati.
E il successo è evidente: così tanta gente che non avevano neppure il tempo di mangiare.
E Gesù li vede stanchi.
Annunciare stanca. Farlo con cuore e senza mezzi stanca anche di più.
Abbiamo una malattia tutta cattolica che è quella di essere eroici, di non mostrare mai cedimenti, mai crepe, di essere sempre sul pezzo.
Il vangelo di oggi dice altro: c’è tanto da fare in Israele, malati, lebbrosi, vedove, ciechi, eppure Gesù, invece di buttare i discepoli dentro il vortice del dolore, cosa fa? Li porta via con sè, per insegnar loro qualcosa.
Questo meraviglioso vangelo rivela la prima delle tre cose che Dio vuole per noi: lui vuole persone felici, non cerca eroi!
Andiamo a riposarci un po’.
Non dice ai dodici: andiamo a pregare o a ripassare la lezione. No, andiamo in vacanza! Andiamo a fare semplicemente le creature, senza uno scopo, e la vita si prenderà cura di noi.
Sbarcano e subito sono circondati da più gente di prima. Addio silenzio, finita la pace, tutti i programmi saltati.
Il progetto era sacrosanto. Andiamo a tirare il fiato, e Dio non glielo lascia fare. C’è di che innervosirsi.
Ed ecco che Gesù anziché dare la priorità al programma dà la priorità alle persone: sappi che tu vali più dei programmi, perfino di quelli di Dio.
Il motivo è detto in queste due parole: Gesù prova compassione.
Il termine indica un morso, un crampo, uno spasmo dentro, un male allo stomaco.
La prima sua reazione è provare dolore per il dolore del mondo, e tutto quello che segue deriva da questo.
Gesù chiama i dodici e affida loro questo suo sentimento che dovranno preservare, custodire, salvare.
Devono imparare le viscere di Dio, ed è la seconda cosa che Lui vuole per noi. Se c’è, fra noi, gente che sa ancora provare compassione davanti al dolore dell’uomo e della donna, allora c’è ancora speranza per il mondo.
Terzo atto della sinfonia della vita. Gesù vede, prova compassione e parla: si mise a insegnare molte cose.
​Forse abbiamo dimenticato che c’è una vita profonda in noi, e
Gesù la raggiunge, e allora è come una manciata di luce gettata nel cuore di ciascuno, a illuminare la via.
La risposta di Gesù alla folla dolente che lo assedia non sono miracoli o guarigioni, ma sono gli apostoli, inviati a prendersi cura; sono io, siamo noi, se abbiamo imparato il cuore di Dio.
Dio vide ciò che aveva fatto: bello! Lo amò, e poté riposarsi.
Amare riposa!
Andiamo in vacanza con Dio! Proviamo a riposare con lui: una preghiera al mattino, un piccolo brano, un silenzio breve ma intensamente cercato.
Cerchiamo un luogo in cui posare la testa sulla spalla di Dio.
È il grande insegnamento di quel giorno: impariamo uno sguardo che abbia commozione e tenerezza, e poi le parole di cura nasceranno.
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