Category Archives: sinti e rom: un popolo che da tanto vive tra noi ma che non riusciamo ad accogliere
i sinti e i rom sono il ‘luogo’ della mia presenza pastorale ma prima ancora della amicizia e condivisione di vita
come sacerdote che da 35 anni conosce tante famiglie e gruppi di questo popolo sento e sperimento che annunciare il vangelo a loro sia coestensivamente accoglierlo da loro come quella buona notizia che mi dice che prima di me è già presente da sempre lo Spirito del Signore che dissemina la loro realtà dei suoi doni per cui è sufficiente avere uno sguardo di fede per scorgere ed accogliere questi doni che arricchiscono la mia vita e la vita della chiesa e del mondo
A Natale i bambini devono nascere e non morire. E potrà sembrare un’affermazione amara e contundente ma di fatto non riesco a distogliere lo sguardo della mente dai due bambini di 4 e 2 anni morti qualche giorno fa nel campo rom di Stornara (FG). Se ne è parlato giusto lo spazio di un telegiornale o di una colonna su un quotidiano. Bambini senza nome e senza storia. Vite senza chiasso. Avrebbero dovuto sollevare l’indignazione e la richiesta di tutti i passi necessari perché mai più possa ripetersi un dolore così acuto, una vergogna profonda, una sconfitta. Ma come si fa a celebrare la vita quando i bambini muoiono in baracche senza asini e buoi o oltre i fili spinati al freddo e al gelo? E non è solo il fallimento di una politica! È un baratro dentro il quale stiamo precipitando. La direzione opposta a quella del sogno di Dio. Perché a Natale si celebra la vita, la nascita e i vagiti e non il funerale anonimo e silenzioso di chi aveva gli occhi spalancati sul mondo. Ciascuno nasce con un sogno. Ha ragione papa Francesco: “Non sappiamo più piangere”, non ci riusciamo più. Se fossimo raggiunti da una scheggia di quel dolore, ne proveremmo l’amarezza che porta almeno a dire che non è giusto e andremmo decisamente verso tutte le grotte e le capanne alla ricerca di una speranza nuova.
domenica 10 ottobre , la bella marcia della pace Perugia-Assisi in edizione covid19, molto partecipata con l’attenzione ad evitare assembramenti troppo stretti
una ricostruzione di Mario Di Vito in “il manifesto” del 12 ottobre 2021
Il cielo incerto e il primo vero freddo della stagione non fanno troppa paura. In ventimila, da tutta l’Italia, hanno percorso i 24 chilometri che separano Perugia da Assisi per la sessantesima edizione della Marcia per la Pace. In testa lo striscione con scritto «I care», con un occhio alla pandemia e un altro alla volontà esplicita dei partecipanti di prendersi cura del mondo. «C’è bisogno della cultura della responsabilità e della cura reciproca – scandiscono gli organizzatori –, cura delle giovani generazioni, della scuola, dell’educazione, degli altri, del pianeta, dei bene comuni, della comunità e delle città». Un impegno che non riguarda soltanto quest’annata, ma che, nelle intenzioni, dovrà segnare tutto il prossimo decennio: «Cura è il nuovo nome della pace», come da frase di don Lorenzo Milani. Un messaggio ribadito anche dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha inviato un messaggio ai manifestanti: «I valori che ispirano e la partecipazione che continua a suscitare la Marcia sono risorse preziose in questo nostro tempo di cambiamenti, ma anche di responsabilità. Questa edizione si svolge a sessanta anni dalla prima marcia promossa da Aldo Capitini, quell’originaria, esigente aspirazione alla pace e alla non violenza ha messo radici profonde nella coscienza e nella cultura delle nostre comunità. La pace non soltanto è possibile. Ma è un dovere per tutti». Tra i volti, oltre alla presenza istituzionale del sindaco di Perugia Andrea Romizi e
della governatrice umbra Donatella Tesei, da segnalare Mimmo Lucano, l’ex sindaco di Riace condannato la settimana scorsa a tredici anni per aver cercato di offrire ai migranti un futuro migliore e un’accoglienza degna in questo paese. «Sono qui – spiega un Lucano visibilmente provato dagli eventi – perché non ho altri riferimenti per trovare entusiasmo e continuare. Non mi importa, alla fine penso che è quasi naturale pagare gli effetti collaterali di quello che ho fatto, senza dire luoghi comuni o costruire alibi. Quando ho cominciato ad interessarmi alle politiche di accoglienza è stato per una casualità e mai avrei immaginato che la normalità sarebbe diventata un fatto così eclatante. Per me, non ci può essere pace senza diritti umani, senza uguaglianza e senza rispetto della vita. La Marcia della pace significa trovare la pace». Applausi di tutto il corteo per lo striscione della Cgil, in solidarietà per il terrificante assalto subito ieri da parte di un gruppo di militanti fascisti in libera uscita per le strade di Roma durante la manifestazione dei «no green pass». I militanti del sindacato hanno anche apprezzato le non scontate parole di vicinanza espresse dal palco da Romizi e Tesei, esponenti della destra umbra. Il sindaco di Perugia ha anche voluto esprimere «un pensiero affettuoso all’imam Abdel Qader, nostro concittadino e amico, uomo di pace e di dialogo che saliva sempre con noi su questo palco e che oggi non c’è più a causa delle conseguenze del Covid». Tra il folto gruppo di stendardi istituzionali, si fa notare la sindaca di Assisi Stefania Proietti. «Siamo in migliaia a gridare basta alla violenza e all’indifferenza – dice –, oggi più di ieri è urgente non solo invocare la pace ma anche farla con azione concrete. Oggi più di ieri bisogna prendersi cura degli altri e mettere al centro la vita, la persona, la dignità». Nella folla in marcia si vedono padre Alex Zanotelli, don Luigi Ciotti, Cecilia Strada, Aboubakar Soumahoro, la moglie dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio ucciso lo scorso febbraio in Congo Zadia Seddiki, i genitori del reporter Andy Rocchelli Elisa e Rino Signori. Il resto è militanza diffusa, cattolici di base, striscioni, bandiere, migliaia di persone partite da ogni angolo d’Italia per per poter dire di esserci, per affermare di combattere ogni giorno per la pace, l’uguaglianza e la solidarietà. Per cercare di fare del mondo un posto migliore.
nel grandioso quadro della multicolore partecipazione e dei messaggi inneggianti alla ‘convivialità delle differenze’ un bell’angolino rappresentato da alcune ragazzine rom del campo di Coltano (Pisa) orgogliosamente ed entusiasticamente presenti con la loro bandiera e il loro striscione con la ruota rappresentante il senso della vita come viaggio; con loro p. Agostino che da sempre condivide amichevolmente la loro vita nel campo
qui sotto la descrizione del loro viaggio vissuto con entusiasmo
la marcia della pace Perugia-Assisi di Violza- Fatima- Adem- Yasin e il diario del viaggio scritto da due di loro, ‘scritto con semplicità’
Alle 4 del mattino siamo in partenza per Perugia , assonnati e freddolosi, iniziamo il viaggio. Di per sé la marcia noi l’abbiamo iniziata due giorni fa, quando insieme abbiamo deciso di partecipare con entusiasmo e abbiamo voluto preparare un NOSTRO striscione. Ci dispiace per Laura che all’ultimo momento non ha VOLUTO venire, perdendo il suo entusiasmo. Sono le 6:20 e Agostino si è fermato a prendere un caffè, perché dorme ancora, invece noi siamo ancora assonnati. Abbiamo preparato uno striscione a modo nostro, la frase che abbiamo creato è :
NOI ROM VIVIAMO LA PACE CON IL CUORE E CON I PIEDI
è uno striscione bello e colorato perché è fatto con le nostri mani e la nostra fantasia.
Sono le 7,40 e siamo arrivati a Ponte San Giovanni. Qui aspettiamo l’arrivo della marcia prevista tra un’ora circa, approfittiamo per fare colazione e riposarci, c’è chi dorme, chi mangia patatine e chi va al bagno. Attendiamo con ansia l’arrivo del Corteo della Pace, partito da Perugia. La giornata sembra bella con un po’ di nuvole ma non piove. Mentre attendiamo l’arrivo del Corteo, lì sul posto c’è tanta gente in attesa dell’arrivo del Corteo. Decidiamo di aprire il nostro striscione e di sventolare le due bandiere dei ROM e quella della Pace. Tante persone ci hanno chiesto che bandire fossero, quelle che tenevamo in mano, perché non la conoscevano. Noi abbiamo spiegato il significato della nostra bandiera: i due colori, l’azzurro e il verde e la ruota. Tutti sono rimasti sorpresi della nostra spiegazione è hanno apprezzato molto le nostre parole. Incuriositi molti ci hanno chiesto se eravamo ROM e da dove veniamo. Anche durante la marcia tante persone hanno chiesto la stessa cose. Ovviamente non sono mancati gli apprezzamenti per il nostro striscione e la nostra presenza in questo corteo.
Come ci sono piaciute anche le tantissime fotografie che la gente ci chiedeva, come segno di simpatia e gratitudine. In questa marcia abbiamo conosciuto Gualtiero un amico di vecchia data di Agostino, che ha voluto restare con noi fino alla fine e con la sua presenza ci ha espresso la sua simpatia. Partecipando a questa marcia noi ci siamo divertiti tanto, nonostante la stanchezza, la pesantezza delle nostre gambe, ma è stato bello camminare insieme a così tanta gente per manifestare anche noi la volontà di un mondo più pacifico. Per noi è stata la prima volta fare una iniziativa insieme a così tanta gente che venivano da tanti posti diversi. Durante il viaggio di ritorno, noi ci siamo chiesti come mai la gente non conosceva la nostra bandiera. È vero, purtroppo la maggioranza degli italiani ci conoscono solo per gli aspetti negativi, perché invece a loro manca una conoscenza più VERA DELLA NOSTRA VITA: se non conosco la nostra bandiera, come fanno a conoscere la nostra storia, la nostra vita? Noi siamo contenti di aver partecipato, perché così abbiamo potuto farci conoscere, infatti molta gente si è sorpresa che anche noi rom siamo venuti a manifestare per la Pace.
Dobbiamo dire la verità, ci siamo fermati a Santa Maria degli Angeli, a 5 chilometri da Assisi, eravamo molto stanchi e i nostri piedi non c’è la facevano ad andare avanti. Rimane il desiderio per una prossima marcia di arrivare fino alla città di San Francesco. Dopo esserci riposati verso le ore 15 abbiamo preso il treno per ritornare a Ponte San Giovanni, per prendere il nostro camper, durate il viaggio di ritorno la stanchezza si è fatta sentire e abbiamo approfittato di riposarci. Questa è la storia della nostra marcia Perugia- Assisi. Alle 19,30 siamo arrivati al campo di Coltano, dove le nostre famiglie ci aspettavo con ansia e curiosità.
Passare da un campo rom a un appartamento è possibile. Desiderare un futuro diverso per i propri figli, permettere loro di vivere in modo decoroso in un luogo dove ci sono l’acqua e la corrente elettrica non è un’utopia. Sognare di avere un lavoro non è un’illusione. Lo hanno testimoniato Hanifa e Marijo che ieri sera, 13 settembre, hanno preso la parola durante il convegno “Oltre il campo. Superare i campi rom in Italia: dalle sperimentazioni di ieri alle certezze di oggi”, organizzato da Fondazione Migrantes e Associazione 21 luglio in collaborazione con la diocesi di Roma. Un incontro che non ha messo in luce la vita nei campi «in maniera pietistica ma ha mantenuto lo sguardo sulla dignità delle persone, che va salvaguardata aiutando i rom a non sentirsi schiacciati», ha affermato il vescovo Benoni Ambarus, ausiliare della diocesi di Roma che ha anche la delega alla pastorale dei Rom e Sinti.
Marijo si trasferì con la famiglia in un insediamento abusivo a Tor di Valle quando aveva 4 anni. Hanifa ha abitato in un campo per dieci anni. «Vivere in un campo rom è un disastro – ha detto -. Non hai pace ma solo immondizia ovunque». Entrambi da poco più di un anno si sono trasferiti in appartamenti con le rispettive famiglie. Hanifa sogna di lavorare per i diritti umani, Marijo di aprire un salone di parrucchiere per garantire un futuro ai figli e ad altri rom. Vive a Torre Gaia dove è stato «accolto bene», i figli vanno a scuola e hanno fatto nuove amicizie. Sul concetto di accoglienza si è soffermato monsignor Ambarus che tirando le fila del convegno ha spiegato che «non basta una casa, non c’è bisogno di un approccio puramente economico che porta a chiudere un campo perché si spende meno e il criterio non deve essere solo la sicurezza. È fondamentale la comunità, termine abusato ma che si fatica a vivere. Comunità significa essere consapevoli che tutti sono esseri umani». A tal proposito ha ricordato che come diocesi di Roma l’auspicio è quello di «vivere il superamento di campi rom facilitando la creazione di legami di comunità tra parrocchie, associazionismo, istituzioni e tutte le realtà di un determinato territorio. Una sfida che non si può declinare solo a parole».
Anche don Giovanni De Robertis, direttore generale della Fondazione Migrantes, ha rimarcato che come Chiesa si deve rivendicare «la difesa della dignità di ogni essere umano in un momento in cui purtroppo alcuni, con sfrontatezza, ritengono che ci siano essere umani di serie A ed esseri umani che sono inferiori. Persone a cui spetta tutto, anche il superfluo, e altre per cui non c’è neanche l’indispensabile. La casa non è qualcosa di superfluo ma di essenziale».
Durante il convegno è stata illustrata una ricerca dell’Associazione 21 luglio pubblicata da Fondazione Migrantes che traccia un’analisi comparativa degli interventi messi in atto in dieci città italiane, con esempi virtuosi di comuni come Moncalieri, Palermo e Sesto Fiorentino, dove i campi rom sono stati chiusi favorendo percorsi di inclusione. La ricerca, per Triantafillos Loukarelis, direttore dell’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar) presso la presidenza del Consiglio dei ministri, «indica una possibilità e un nuovo trend da parte delle amministrazioni locali, che hanno compreso finalmente che non si può lasciare nessuno indietro perché ne va della qualità della democrazia. È la dimostrazione che l’esclusione delle persone non ha nessun senso logico se non quella di una visione distorta della società».
Illustrando le linee guida per superare i campi rom e costruire percorsi di inclusione, che a Roma riguardano 400 persone, Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 luglio, ha spiegato che tra le azioni da compiere una volta individuati gli interventi e definite le risorse è imperativo che si prendano in carico tutte le famiglie dell’insediamento. «Non si tratta di una sola questione etica – ha detto – è anche e soprattutto un parametro di efficacia. È fondamentale prevedere interventi di inclusione condivisi e negoziati con ogni singola famiglia».
la piccola rom nata in carcere per colpa di una email
di Gad Lerner in “il Fatto Quotidiano” del 14 febbraio 2021
Non ha trovato che minimo spazio una notizia che, in un Paese civile, avrebbe dovuto finire in prima pagina. La notte dello scorso 3 settembre nel carcere di Rebibbia, cioè nella Capitale d’Italia, una bambina è venuta al mondo dietro le sbarre di una cella. Non dico in infermeria. Proprio in cella l’ha partorita sua madre Amra, una rom di 23 anni arrestata per furto a fine luglio scorso. L’unica assistenza le è giunta dalla compagna di detenzione Marinela, a sua volta incinta al quinto mese, che poi ha avvolto la neonata in un asciugamano e, gridando, è finalmente riuscita a richiamare l’attenzione delle guardie. Questo infame luogo di nascita la bimba non se lo troverà inscritto sulla carta d’identità, ma rimane il marchio di un destino segnato: nata in galera, perché nessuno ha risposto a una email della Garante dei detenuti, Gabriella Stramaccioni, che il 17 agosto chiedeva di trasferire la donna nell’apposita casa famiglia protetta, di cui forniva nome, indirizzo e disponibilità. Mi piacerebbe poter sperare che almeno uno dei quattro candidati sindaci di Roma voglia assumersi l’impegno di un risarcimento, affinché la vita futura di questa creatura, e della sua giovane madre che ha già altri tre figli, non si riduca a un entra/esci dalla prigione ma – pur con tutte le difficoltà del caso – segua un percorso di reinserimento sociale. Trattandosi di rom, temo che sia un’illusione. Viene riversata su queste donne l’accusa di farsi mettere incinte apposta per poter continuare a delinquere, il che giustificherebbe la loro detenzione. In realtà si tratta di pochissimi casi. Del resto, fino a cinquant’anni fa, in Svizzera ne era contemplata la sterilizzazione forzata. Quelli del“rinchiudiamoli e buttiamo via la chiave” devono mettere per forza nel conto anche i bambini in carcere. Magari fin dal primo respiro
nascere in carcere nel 2021, in Italia
di Giusi Fasano in “Corriere della Sera” del 13 settembre 2021
«Dove sei nata?», le chiederanno chissà quante volte nella vita. «In carcere», risponderà lei. È venuta al mondo l’altra notte, nella casa circondariale di Rebibbia. Non sappiamo come si chiami ma certo sappiamo quale nome sarebbe di buon augurio, date le circostanze. Libera sarebbe il suo nome perfetto. Sua madre ha più guai che anni e lei, che è la quarta figlia, avrebbe dovuto proteggerla dall’arresto perché lo sanno tutti (o quasi) che una donna incinta non dovrebbe finire in cella. Invece no. La legge stavolta ha scelto la «misura di maggior rigore», come ha scritto la giudice che ha deciso di tenerla in cella temendo che la detenuta potesse tornare a «commettere fatti analoghi», cioè furti. Italiana di origini bosniache, 23 anni, senza lavoro, residente in un campo rom e con il compagno disoccupato, la mamma di Libera non aveva credibilità da offrire in pegno al sistema Giustizia italiano. Ma aveva il pancione, quello sì. E davanti a quella condizione sarebbe toccato al sistema Giustizia garantirle un modo migliore per mettere al mondo la piccola. Dopo le prime contrazioni l’ha aiutata la sua compagna di cella, sono intervenuti medico e infermiera ma non c’è stato il tempo di portarla in ospedale. E sì che il suo legale aveva insistito per la revoca della carcerazione, la ragazza era stata anche ricoverata al Pertini di Roma per una minaccia di aborto pochi giorni prima di partorire. Ma niente: era rientrata in cella. La garante dei detenuti di Roma aveva scritto al tribunale proponendo di trasferirla in una casa rifugio per detenute con figli piccoli. Zero risposte. Così nascere in carcere, per Libera, è diventato di fatto un «danno collaterale» del curriculum penale di sua madre. Stanno bene, mamma e bimba, ma la storia in sé fa una tristezza infinita, come fanno tristezza i 25 bambini da zero a sei anni attualmente «detenuti» assieme alle loro madri nelle carceri italiane o negli Icam, gli istituti di custodia attenuata. Piccoli prigionieri degli errori degli adulti. Qualunque sia il crimine commesso dalle loro madri, i bambini dietro le sbarre sono una sconfitta per tutti. E sarebbe meraviglioso se con l’eco della sua storia la nostra piccola Libera facesse così tanto rumore da farli uscire tutti. Allora sì, nascere in carcere sarebbe almeno servito a qualcosa.
i ragazzi sinti della prima comunione e della cresima di via della Scogliera a cena dal vescovo
una bella serata all’insegna di un buon menu, soprattutto della spontaneità, dell’accoglienza gioiosa, delle riflessioni e chiacchiere a ruota libera, della preghiera e del canto accompagnato con la chitarra suonata dal vescovo stesso … proprio come tra vecchi amici …
l’amicizia e la spontaneità di rapporto erano nati un mese prima in occasione della celebrazione, il 22 maggio, nella chiesa dei frati cappuccini di Monte san Quirico, di undici cresime e due prime comunioni che il vescovo Paolo (ancorché in periodo di covid nel quale aveva dato la possibilità ad ogni sacerdote di celebrare le cresime) ha voluto celebrare personalmente, dopo un anno intero in cui si sono date ben quattro date fissate e differite a motivo delle difficoltà legate al covid stesso
dopo la celebrazione delle cresime il vescovo era voluto venire al Campo di via della Scogliera per condividere coi ragazzi stessi e le loro famiglie un momento di migliore conoscenza e accoglienza reciproca, consumando con loro il pranzo della festa che vedeva accomunato tutto il Campo come in una festa di unica grande famiglia
il momento di condivisione al Campo ha visto aspetti di tale spontaneità e immediatezza di rapporto che al termine del pranzo il vescovo si è tolto la talare che ancora rappresentava l’ultimo residuo di formalità e di inevitabile ‘distanza’ e ‘rispetto’ e ha cominciato a giocare a pallone con tutti questi ragazzi … per qualche istante sembrava non toccasse palla ma all’improvviso si è impossessato di questa con una spettacolare schiacciata da suscitare un boato di approvazione …
la cosa più bella è stata l’aver riconosciuto loro la gentilezza di averlo accolto come loro ospite e la promessa, mantenuta proprio ieri, di voler ricambiare questa gentilezza nell’accoglierli come suoi ospiti graditi a cena nella sua casa in episcopio
Ha vissuto a lungo in roulotte in un campo rom di Brugherio e ha condiviso la sua vita con i rom e i sinti italiani di cui è sempre stato amico e referente. Ieri è morto a 96 anni, don Mario Riboldi, il prete di frontiera che più di chiunque altro negli ultimi 50 anni è riuscito a interpretare i bisogni di un popolo che ha vissuto come una minoranza ai margini delle grandi città, Milano in primis. Lo avevamo intervistato una decina di anni fa proprio a Brugherio, nella sua casa mobile, in mezzo alle altre roulotte e vicino alla “cappella” dove celebrava ogni mattina la messa per i cattolici del suo campo. Era il loro consigliere spirituale e con loro tante iniziative aveva organizzato a favore del dialogo e dell’integrazione sociale. Da quando la sua salute si era deteriorata, viveva in una casa di riposo di Varese, lì dove è mancato ieri.
“È morto don Mario Riboldi, un uomo buono di Dio e uno dei più cari amici dei Rom e Sinti in Italia, Europa e in mezzo mondo – racconta in un post su Facebook Stefano Pasta, uno dei dirigenti di Sant’Egidio di Milano – Ho avuto la fortuna di essergli amico e aver tante occasioni con lui per condividere preghiere, parole, pranzi, sogni, preoccupazioni, pensieri per tanti rom e sinti. Tanti sono i ricordi dei momenti vissuti insieme: ricordo quando – avevo appena finito le superiori – mi raccontò come aveva iniziato la traduzione del Vangelo di Marco in una delle tante lingue romanes che parlava. Ogni incontro era l’occasione per un nuovo aneddoto, vicino e lontano nel tempo”.
così ne da notizia don Marco Frediani:
“È con dolore che vi informiamo della morte di Don Mario Riboldi, avvenuta il 9 giugno 2021, all’età di 92 anni. Ordinato sacerdote nel 1953 cominciò ad incontrare i nomadi della periferia Milanese. Iniziò così il suo viaggio con i popoli rom e sinti, vivendoci assieme. Accolto e apprezzato dall’allora Cardinale Montini e quindi futuro papa Paolo VI fu tra i promotori del primo e storico incontro della Chiesa Cattolica con Rom e Sinti a Pomezia il 26 settembre 1965. Ha svolto diversi ruoli in ordine alla evangelizzazione dei rom, sinti e camminanti sia come responsabile diocesano che nazionale, portando agli onori degli altari il 4 maggio 1997, per la prima volta nella storia il gitano Ceferino Jimenez Malla.
Ha lottato, come lui diceva, con se stesso per cercare di entrare nella cultura del popolo “zingaro” imparandone i diversi idiomi e traducendo Bibbia, testi liturgici e canti nelle varie lingue per annunciare le meraviglie di Dio. “
così lo ricorda l’Avvenire:
Nomade per il Vangelo
addio a don Mario Riboldi, prete degli zingari
di Lorenzo Rosoli
Sacerdote del clero di Milano, è morto a 92 anni dopo una vita tutta dedicata a rom e sinti
La canonica? Una roulotte. La cappella? Un container. Il tabernacolo? Una tenda cucita a mano dalle donne della comunità sinti. È morto martedì sera a Varese don Mario Riboldi, sacerdote del clero di Milano. Una vita condivisa in tutto e fino in fondo con gli zingari. «Mica per fare l’operatore sociale – aveva raccontato anni fa ad Avvenire – ma solo perché sono un prete che si è sentito chiamato a portare il Vangelo fra chi, troppo a lungo, troppo spesso, è stato ignorato dai cattolici, a volte ancora così chiusi nelle loro parrocchie». Lui, la sua parrocchia, l’aveva portata – o, meglio, l’aveva incontrata – sulle strade, nei campi, nella vita dei nomadi. Fin dall’episcopato di Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, aveva iniziato a vivere con loro, a viaggiare con loro. Aveva imparato la loro cultura e le loro lingue. «Non per fare il maestro: ma per essere scolaro, con loro, alla scuola della Parola che salva», insisteva don Riboldi, che aveva tradotto il Vangelo di Marco in cinque lingue zingare. Lo stesso aveva fatto con testi liturgici, preghiere, canti. «E più della predicazione – non si stancava di ripetere – è importante la preghiera. Perché la conversione non è un frutto dei nostri sforzi ma un dono di Dio».
Mario Riboldi era nato il 21 gennaio 1929 a Biassono (Monza e Brianza) ed era stato ordinato sacerdote nel Duomo di Milano il 28 giugno 1953. Dal 1971 al 2018 è stato incaricato per la Pastorale dei nomadi della diocesi di Milano. Ma a farsi prossimo dei sinti e dei rom aveva già iniziato fin dalla fine degli anni ’50. «”Chi porta loro il Vangelo?”: ecco la domanda che don Mario, appena ordinato, al primo incarico a Vittuone, si fece dopo aver incontrato un gruppo di sinti. A quella domanda ha risposto col dono della sua vita. Le opere sociali sono importanti e utili, ma nulla va in profondità come la Parola di Dio. E don Mario non ha costruito cattedrali nel deserto, si è occupato solo di portare la Parola di Dio», testimonia don Marco Frediani, attuale incaricato per la Pastorale dei nomadi a Milano, che ha condiviso con don Riboldi alcuni anni di vita “itinerante”. Gli ultimi: dal 2018, infatti, le peggiorate condizioni di salute avevano costretto l’anziano prete a lasciare la roulotte per la casa di riposo «San Giacomo» di Varese, dove si è spento martedì. Don Riboldi, ricorda inoltre don Frediani, ha avuto un ruolo decisivo nel cammino verso gli altari di Zefirino Giménez Malla, il primo beato gitano, e – con don Bruno Nicolini – nell’organizzazione dello storico incontro di Paolo VI con gli zingari, il 26 settembre 1965 a Pomezia.
A quell’incontro – e al ruolo che vi ebbe don Riboldi – fa riferimento anche l’arcivescovo di Ferrara-Comacchio Gian Carlo Perego, neo presidente della Fondazione Migrantes, per ricordare nel sacerdote ambrosiano «una figura centrale, nel cammino post conciliare, della pastorale dei rom e dei sinti». «Voi nella Chiesa non siete ai margini, siete nel suo cuore», disse papa Montini a Pomezia. Parole che sono diventate, per don Riboldi, «il programma di una vita pastorale che lo ha visto camminare lungo tutte le strade d’Italia e d’Europa per incontrare le famiglie e le comunità rom e sinti». «Ringraziamo il Signore per il dono del suo lungo e fedele ministero sacerdotale speso con lo zelo del buon pastore», si legge nel messaggio di cordoglio dell’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, e del Consiglio episcopale milanese «in comunione con il presbiterio diocesano». Il funerale verrà celebrato domani alle 11 nella natìa Biassono.
l’ultimo saluto a suor Rita Viberti della congregazione delle Luigine
Suor Rita Viberti
Giovedì 5 novembre a La Morra è deceduta suor Rita Viberti (nata Giuseppina), religiosa della congregazione delle Luigine di Alba. Originaria di Monforte, aveva 81 anni e ha svolto il suo servizio a Torino con la comunità di suore che da quarant’anni vive tra i sinti e rom.
I funerali si sono svolti sabato 7 novembre alle 10 nella parrocchiale di La Morra.
La Comunità delle Suore da quarant’anni vive tra i Sinti e Rom. Una presenza ecclesiale profetica Sono passati quasi 40 anni da quando la Comunità delle Suore Luigine di Alba ha deciso di vivere direttamente tra i Sinti e Rom nelle periferie torinesi. La loro prima dimora è stata una vecchia carovana. Era la fine degli anni 80. Poi a seguire altre sistemazioni in roulottes e baracche. Infine, in questi ultimi anni, una modesta casetta in muratura, nell’accampamento di Via Germagnano. Una presenza di Chiesa profetica : accoglienza e rispetto del diverso. Ogni giorno le suore hanno sperimentato, nell’incontro con i Sinti e Rom, il desiderio di rappresentatre il Gesù che accoglie, che non allontana, che ascolta, perdona e non condanna. Una presenza che non separa i buoni dai cattivi, i giusti da chi sbaglia. Quarant ‘anni vissuti all’insegna dell’ accoglienza e della concreta attenzione con chi vive la sofferenza dell’emarginazione, con chi si trova in carcere, con chi è legato alle dipendenze, con chi vive situazioni di dolore e fatica. Condivisione della cultura, lingua e tradizione del popolo sinto e rom Vivendo tra i Sinti e Rom, le suore hanno fatto propria e rispettato la cultura nomade assumendone in pieno sfacettature, valori e contraddizioni. ” Comunità – ponte ” tra due culture e mentalità. La loro presenza è stata quella che il ministero missionario richiede: partecipare pienamente alla vita di un popolo vivendone le medesime condizioni sociali e culturali per poi rendere sensibili le comunità civili e cristiane a partire dal loro incontro. Le suore infatti, oltre a vivere la vita nomade, hanno partecipato attivamente alla vita ecclesiale torinese. Le loro dimore hanno accolto indistintamente cattolici, ortodossi, mussulmani, atei. Le porte delle loro baracche sono state aperte a tutti coloro che si avvicinavano, dal nomade al sedentario, ricco o povero, dal Sindaco di una grande città al cittadino comune, dal Vescovo all’ ultimo cristiano. Chiunque entrava nella loro carovana ne usciva beneficiato. Ciascuna persona ha sperimentato l’accoglienza, il dialogo, il confronto e la fiducia. Chi si è seduto alla loro tavola non è uscito senza un caffè, un thè, un pasto o semplicemente un assaggio del loro cibo o un bicchiere d’acqua. Ma soprattutto attingendo dalla loro esperienza e arricchendosi della loro testimonianza. Quarant ‘ anni all’insegna della sobrietà Fin dall’inizio suor Carla e suor Rita hanno avvertito l’esigenza di vivere tra Sinti e Rom con uno stile di vita essenziale, esigente e sobrio. Hanno sperimentato la povertà come scelta di libertà che riduce il consumo, le cose e i beni. Il loro stile di vita silenzioso condannava l’ostentazione della ricchezza, sia dei Rom sia dei gagè, quando questa si esprimeva in beni di lusso, privilegi o scelte di potere. Le diversità possono vivere insieme La presenza di queste suore nel campo, in questi quarant’anni, lascia a chi le ha conosciute e a tutta la comunità civile e religiosa un grande messaggio: l’incontro con il diverso è possibile. La loro vita è un segno concreto di speranza. Eppure non sono mancati momenti di tensione che hanno messo in crisi la loro scelta quando tra i nomadi sono esplosi momenti di rabbia e frustrazione scatenati da chi ha perso ogni prospettiva nel futuro e si abbandona alla violenza. Nel campo non sempre le istituzioni sono presenti e la giustizia non è assicurata. Ma ogni volta le suore hanno saputo ricominciare, come l’erba che si piega al vento, anche se a volte il prezzo da pagare è stato alto. Le vostre idee camminano Dalle righe di questo giornale vorremmo dire grazie alla Comunità delle Suore perché le loro idee camminano e vanno oltre l’esperienza, che la loro presenza ha fatto riflettere i Sinti e Rom perchè si sono sentiti amati, che la e porte delle loro baracche sono state aperte a tutti coloro che si avvicinavano, dal nomade al sedentario, ricco o povero, dal Sindaco di una grande città al cittadino comune, dal Vescovo all’ ultimo cristiano. Chiunque entrava nella loro carovana ne usciva beneficiato. Ciascuna persona ha sperimentato l’accoglienza, il dialogo, il confronto e la fiducia. Chi si è seduto alla loro tavola non è uscito senza un caffè, un thè, un pasto o semplicemente un assaggio del loro cibo o un bicchiere d’acqua. Ma soprattutto attingendo dalla loro esperienza e arricchendosi della loro testimonianza. Quarant ‘ anni all’insegna della sobrietà Fin dall’inizio suor Carla e suor Rita hanno avvertito l’esigenza di vivere tra Sinti e Rom con uno stile di vita essenziale, esigente e sobrio. Hanno sperimentato la povertà come scelta di libertà che riduce il consumo, le cose e i beni. Il loro stile di vita silenzioso condannava l’ostentazione della ricchezza, sia dei Rom sia dei gagè, quando questa si esprimeva in beni di lusso, privilegi o scelte di potere. Le diversità possono vivere insieme La presenza di queste suore nel campo, in questi quarant’anni, lascia a chi le ha conosciute e a tutta la comunità civile e religiosa un grande messaggio: l’incontro con il diverso è possibile. La loro vita è un segno concreto di speranza. Eppure non sono mancati momenti di tensione che hanno messo in crisi la loro scelta quando tra i nomadi sono esplosi momenti di rabbia e frustrazione scatenati da chi ha perso ogni prospettiva nel futuro e si abbandona alla violenza. Nel campo non sempre le istituzioni sono presenti e la giustizia non è assicurata. Ma ogni volta le suore hanno saputo ricominciare, come l’erba che si piega al vento, anche se a volte il prezzo da pagare è stato alto. Le vostre idee camminano Dalle righe di questo giornale vorremmo dire grazie alla Comunità delle Suore perché le loro idee camminano e vanno oltre l’esperienza, che la loro presenza ha fatto riflettere i Sinti e Rom perchè si sono sentiti amati, che la Le porte delle loro baracche sono state aperte a tutti coloro che si avvicinavano, dal nomade al sedentario, ricco o povero, dal Sindaco di una grande città al cittadino comune, dal Vescovo all’ ultimo cristiano. Chiunque entrava nella loro carovana ne usciva beneficiato. Ciascuna persona ha sperimentato l’accoglienza, il dialogo, il confronto e la fiducia. Chi si è seduto alla loro tavola non è uscito senza un caffè, un thè, un pasto o semplicemente un assaggio del loro cibo o un bicchiere d’acqua. Ma soprattutto attingendo dalla loro esperienza e arricchendosi della loro testimonianza. Quarant ‘ anni all’insegna della sobrietà Fin dall’inizio suor Carla e suor Rita hanno avvertito l’esigenza di vivere tra Sinti e Rom con uno stile di vita essenziale, esigente e sobrio. Hanno sperimentato la povertà come scelta di libertà che riduce il consumo, le cose e i beni. Il loro stile di vita silenzioso condannava l’ostentazione della ricchezza, sia dei Rom sia dei gagè, quando questa si esprimeva in beni di lusso, privilegi o scelte di potere. Le diversità possono vivere insieme La presenza di queste suore nel campo, in questi quarant’anni, lascia a chi le ha conosciute e a tutta la comunità civile e religiosa un grande messaggio: l’incontro con il diverso è possibile. La loro vita è un segno concreto di speranza. Eppure non sono mancati momenti di tensione che hanno messo in crisi la loro scelta quando tra i nomadi sono esplosi momenti di rabbia e frustrazione scatenati da chi ha perso ogni prospettiva nel futuro e si abbandona alla violenza. Nel campo non sempre le istituzioni sono presenti e la giustizia non è assicurata. Ma ogni volta le suore hanno saputo ricominciare, come l’erba che si piega al vento, anche se a volte il prezzo da pagare è stato alto. Le vostre idee camminano Dalle righe di questo giornale vorremmo dire grazie alla Comunità delle Suore perché le loro idee camminano e vanno oltre l’esperienza, che la loro presenza ha fatto riflettere i Sinti e Rom perchè si sono sentiti amati, che la loro scelta ha incoraggiato tanti sedentari a mettersi in gioco e molti cristiani a verificare la via del confronto e dell’impegno, senza lasciarsi prendere dallo scoraggiamento. Suor Rita e Suor Carla ci hanno insegnato che realizzare un “sogno” è ancora possibile. Pio Caon operatore pastorale tra i Sinti e Rom della Diocesi di Torino e amico da 40 anni amico di Suor Rita e Suor Carla.
la sofferta dichiarazione delle due sorelle Rita e Carla nel dover lasciare la vita del ‘campo’
Torino 25/07/2017
“Lasciate il campo, ma non i Rom! Non ci potete più lasciare perché siamo la vostra famiglia”
Queste parole di una amica Rom, esprimono già quanto cerchiamo di dire sulla nostra attuale situazione.
Dopo un lungo tempo di difficile discernimento e di preghiera, considerando l’avanzare degli anni, la precarietà della salute e le difficoltà sempre più pesanti della vita in quell’accampamento di Rom, abbiamo, in accordo con la Madre Jancy, deciso di lasciare l’abitazione al campo, seppure con le lacrime nostre e delle nostre amiche e amici Rom.
Ci è molto costato questa decisione presa nel momento in cui tutti hanno abbandonato a se stesse queste famiglie, già di per sé rifiutate dall’attuale società.
Abbiamo molto creduto nello stile dell’incarnazione, e questo “stare ” con gli ultimi tra gli ultimi, nel corso degli anni, ci ha allenato al silenzio, ad accogliere e a lasciarci accogliere, a farci compagne di viaggio, ad accettare di essere nulla accanto a chi non conta nulla, sperimentando anche noi, indifferenza, rifiuto, giudizi, disprezzo…, cose che per loro, da sempre, sono pane quotidiano.
Nel cammino di questi 38 anni , ci hanno sostenute e incoraggiate i nostri amici Rom e Sinti, le sorelle luigine, il nostro vescovo Cesare Nosilia, l’ufficio migrante, l’ufficio nomadi e tante amici e amiche. Continueremo, come da più parti ci è stato richiesto, ad accompagnare questo popolo con una modalità diversa di frequentazione e di accoglienza.
Abiteremo in un alloggio offertoci calorosamente dall’amico Don. Luigi Ciotti del Gruppo Abele. Grazie alle sorelle che ci hanno sempre sostenute, ascoltate e visitate. Alle sorelle più giovani, in Italia e all’estero, che poco o niente sanno della nostra esperienza di vita nomade, vorremmo umilmente dire una parola: andate verso chi fa più fatica, andate e restate, sedete con loro, ascoltate; la vita è il più importante mezzo di comunicazione. Andate non solo per fare delle cose ma per ”lasciarvi fare “da loro, non per insegnare ma desiderose di imparare, non per dare delle cose ma per ricevere e per dare la vita perché “chi avrà perso la vita la troverà ” e non abbiate paura di sentirvi “ servi inutili ” o di sperimentare dei “ fallimenti “, inevitabili per chi si pone accanto agli “ scartati “. Queste esperienze possono rivelarsi tempi e luoghi di salvezza, senza che li andiamo a “cercare ”
Per più di dieci anni ci siamo incontrati quasi ogni giovedì mattina per la redazione di Evangelizzare, allora una delle riviste di catechesi più significative. Ci era stata presentata come patrologa, studiosa e conoscitrice dei Padri della Chiesa, ma subito ci siamo accorti che le piacevano le incursioni sui temi di attualità ecclesiale. Ogni volta con uno sguardo acuto e divergente, mai scontato. Sto parlando di Cristina Simonelli, dal 2013 presidente del Coordinamento delle Teologhe Italiane e docente di Storia della Chiesa e Teologia Patristica in diverse Istituti e Facoltà Teologiche. Con Cristina, dopo la fine della nostra comune avventura editoriale, ci siamo rivisti qualche volta: a Molte Fedi, per una meditatio a Fontanella, e a Bose, in un paio di convegni di spiritualità. Ho letto con piacere il bellissimo articolo che ha scritto sull’ultimo numero di “Donne Chiesa Mondo”, l’inserto dell’Osservatore Romano, dove racconta, da par suo, i suoi trentacinque anni di condivisione profonda con donne e uomini sinti-rom.
Mettere alla prova il Vangelo nelle frontiere
“Sono entrata in un campo rom a 20 anni, un po’ per caso e un po’ per sfida, e ci sono rimasta 35 anni. Volevo mettere alla prova il Vangelo, nelle sue frontiere: perché se funziona lì allora funziona anche al centro, pensai. Quando lo dissi a mio padre, lui mi rispose: «Se Dio non esiste, voi siete perduti»: io perduta non mi sono sentita mai.”
E’ il racconto di una vita di una ragazza degli anni Settanta,
“asimmetrica, terzomondista, resistente e di quel femminismo respirato per cui ritenevo di non dover essere autorizzata da nessuno”
Trentacinque anni sono una vita, eppure, scrive,
“ho passato quei 35 anni come un giorno, come un’ora di veglia nella notte, citando il salmo. In un lembo di terra in cui, rifatte le mappe, la vita comune è possibile, promessa di più pacifici universi di vita e di pensiero. Anche le frontiere della comunità ecclesiale avrei voluto abitare permanentemente, perché la chiesa è in se stessa profondità e frontiera, e studiando la storia delle donne mi resi conto che alcune figure femminili partivano corpo a corpo col Vangelo, come se fossero autorizzate dal Vangelo. Quando mi sono chiesta perché, mi sono risposta che alla donna accade ciò che accade alle minoranze, anche se minoranze non sono: ma è la marginalità imposta che le accomuna e tramuta la quantità (siamo maggioranza) in qualità (siamo ritenute secondarie). A volte sembra che le donne, come i rom, siano oggetti che la chiesa tratta e non soggetti ecclesiali con pieni diritti. Non è così: cambiamo l’idea di centro e di periferia e si vedrà che siamo soggetti a pieno titolo”.
I rom, la mia rosa
Certo, quando è partita erano gli anni del dopo Concilio, dell’entusiasmo di una fede che doveva essere “gridata con la vita”, che aveva i perimetri del mondo. Come è accaduto a tanti in quegli anni, Cristina voleva partire per l’Africa, ai rom non ci pensava ancora.
“Li vedevo per strada e mi colpivano per la loro estraneità e quella loro fierezza, ma niente di più. Ora, a chi mi chiede sempre e soltanto questo, la mia vita con i rom, rispondo, come faceva un’amica, con un brano di Saint Exupery: «Certamente un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola è più importante di tutte voi perché è lei che ho innaffiata. Perché è lei che ho messo sotto la campana di vetro. Perché è lei che ho riparato col paravento. Perché su di lei ho ucciso i bruchi. Perché è lei che ho ascoltato lamentarsi e vantarsi o anche qualche volta tacere. Perché è la mia rosa». Sì, loro sono la mia rosa.”
Il principio della mula. Quella di don Abbondio
E dunque la scelta di andare a vivere nel campo rom, ad abitare in una roulotte. Lì a poco a poco matura la scelta di studiare teologia.
“Anche nella teologia, tradizionale dominio maschile, sto bene ma mi sento pure un po’ fuori posto: è un mondo che mi consente di incrociare linguaggi diversi, persino molto stimolante, tanto da apparirmi una sorta di principio euristico, un modo di stare al mondo, di abitare la città e anche la chiesa, secondo il principio della mula: «La mula (…) pareva che facesse per dispetto a tener sempre dalla parte di fuori e a metter proprio le zampe sull’orlo; e don Abbondio vedeva sotto di sé, quasi a perpendicolo, un salto o, come pensava lui, un precipizio. “Anche tu — diceva tra sé alla bestia – hai quel maledetto vizio d’andare a cercare i pericoli, quando c’è tanto sentiero”».
L’intolleranza e il razzismo coinvolgono anche le Chiese
“Ho calpestato queste terre, ho abitato questi mondi, per comprenderli. E ho condiviso la vita, le nascite, i matrimoni, le difficoltà, i pregiudizi. Sono loro, i rom ma soprattutto le donne, le romnia , le principali vittime della discriminazione; con loro e per loro attraversi un’altra frontiera che è quella del razzismo perché morte le streghe, morto l’antisemitismo, forse, sono rimaste le zingare rapitrici a nutrire le isterie di cui la società ha bisogno e di cui l’alterità interpretata come minacciosa è stata sempre ottima fornitrice. L’intolleranza e il razzismo non sono scomparsi, e coinvolgono anche le chiese.”
Un’idea diversa di centro e di periferia
Finito di leggere l’articolo, mi è tornata alla mente una battuta che mi fece una volta don Tonino Bello quando gli chiesi se non sentiva un vescovo “anomalo”. Mi rispose di no, soggiungendo subito che “bisogna poi vedere che cosa significa essere anomalo. Introdurre in casa i poveri per farli dormire d’inverno, è anomalo per un vescovo, o non è anomalo il contrario?” Come a dire che il Vangelo ha un concetto, diverso dal nostro, di centro e di periferia. E da dove sei lo leggi e lo comprendi in modo diverso. Ricordiamocelo, noi che solitamente lo leggiamo dal centro e seguendo il buonsenso. Non è l’unico osservatorio e forse neanche il più privilegiato.
Cristina Simonelli la teologa che ha vissuto con i Rom
Ha scelto di studiare proprio grazie all’esperienza nell’accampamento e ci racconta: “Ho capito che le vite di tutti sono appelli di Dio e insieme aiutano a interrogare il Vangelo”. Per questo nei suoi studi continua a prediligere i “temi scomodi”
“Ultimi chi?” La teologa Cristina Simonelli presidente del Coordinamento teologhe italiane, ha vissuto dal 1976 al 2012 in un campo Rom, prima a Lucca, poi a Verona, e di approcci alla “questione Rom” ne ha incontrati di tutti i tipi. Per questo è molto critica sia verso l’atteggiamento di chiusura, “espresso anche da tanti preti e laici che condividevano quel disprezzo rispetto al quale papa Francesco ha chiesto perdono durante il viaggio in Romania lo scorso giugno”, sia verso il “buonismo”, “estremamente dannoso “, perché ancora una volta ha a che vedere con il guardare dall’alto in basso. “Le persone non vogliono la nostra compassione, ma la sua trascrizione nella simpatia e nella stima “, spiega Simonelli. Al campo non abbiamo mai lavorato “per”, ma sempre “con”, sia che si trattasse di dove posizionare le piazzole, che di questioni sanitarie o scolastiche”.
COMUNITA’ IN ROULOTTE
Cristina ha vissuto in comunità con altre laiche e un prete diocesano, costituendo il “Gruppo ecclesiale veronese fra i Sinti e i Rom”, con mandato del vescovo. In quegli anni e fino a poco tempo fa la pastorale dei Rom in Italia era condotta da un gruppo molto affiatato di uomini e donne, laici, religiosi e preti: tutte persone che vivevano in roulotte, con un referente nazionale (si sono succeduti don Mario Riboldi, don Francesco Cipriani, don Piero Gabella, don Federico Schiavon), pure provenienti dal mondo delle carovane. Era qualcosa di nuovo, di comunitario, ma con alle spalle spiritualità “provate”. “Venivamo da esperienze diverse, io dall’ambiente missionario, altri dal francescanesimo o dalla spiritualità di Charles de Foucauld, ma eravamo stati tutti formati dal concilio Vaticano II e dai movimenti terzomondisti e dell’America Latina. Era una stagione di grande fermento culturale, civile, politico, e anche di Chiesa. Credevamo fermamente che un altro mondo era possibile. Ma “l’evangelizzazione doveva partire dai piedi””.
VOCAZIONE PER LO STUDIO: TEOLOGIA E VITA, COSÌ CRISTINA SIMONELLI SE N’È INNAMORATA
Dopo dieci anni di vita al campo, gli amici della comunità propongono a Cristina gli studi di teologia. “All’inizio non ne volevo sapere. I teologi mi sembravano astrusi, sparatori di frasi astratte, lontani dalla vita reale nella quale io ero profondamente immersa. Poi la teologia mi ha conquistata, l’ho trovata un luogo di riflessione critica, di profondità, che andava molto d’accordo con quello che facevamo”. Negli anni Ottanta lo studio teologico San Zeno di Verona incoraggiava la presenza delle donne. Cristina inizia come uditrice, poi studentessa a Verona e Firenze, quindi la laurea e il dottorato a Roma. Dal 1997 insegna Patristica a Verona e Milano. Un percorso insieme formativo, professionale e personale. “Sono credente da cristiana in senso ecumenico e praticante nella Chiesa cattolica. Sono convinta che fede ed esodo (il tema di un documento ecumenico del Gruppo di Dombes) vadano insieme. Dio è un Altro o un’Altra che per brevità chiameremo Dio, come ben si esprime la filosofa Luisa Muraro e ci attende, ci chiama, ci convoca sempre oltre, anche oltre i confini. Una nostra collega americana, Mary Boys, suggerisce che più si va in profondità nella propria appartenenza, alle radici spirituali, più i confini della separazione diventano sottili e trasparenti. La teologia aiuta a porre domande, a non scambiare piccole convinzioni con le grandi questioni del Vangelo. Ma non da sola: la vita, le vite di tutti sono appelli di Dio e insieme aiutano a interrogare il Vangelo, che può dare così gemme che in astratto non si trovano. La preghiera di tutto questo è il respiro, ma fatta corpo, fatta mani, fatta pane, sia nel rito che nella vita”.
DONNE E CHIESA
Sebbene lo spazio delle donne nella Chiesa rimanga una questione dibattuta, qualche passo avanti è stato fatto. “Premetto che, per quanto mi riguarda, la questione dei ruoli non è prioritaria. A me stanno a cuore più la pace, la giustizia, la possibilità di una vita migliore per tutti, anche dal punto di vista evangelico teologico: questa è per me la questione femminile, in primo luogo. Tuttavia, in questi miei quarant’anni di vita adulta, qualche cambiamento è avvenuto. Ne è prova la presenza sempre maggiore di donne teologhe. Dal 2013 presiedo il Coordinamento delle teologhe italiane (iniziato nel 2003 da Marinella Perroni) e anche quest’anno per l’assemblea ho mandato 150 convocazioni. Cominciamo a essere un soggetto riconosciuto nella parola, anche se da qualcuno ancora guardato con sarcasmo. Siamo un gruppo ecumenico e le nostre socie hanno ruoli diversi nelle Chiese di appartenenza, molte sono pastore, mentre nella Chiesa cattolica non è in agenda neanche il diaconato femminile, perché è forte la resistenza di ambienti soprattutto clericali. Io credo che sia importante tenere aperto questo dibattito, focalizzandolo su che cosa impedisce che le donne possano essere ordinate diaconesse. Bisogna stanare i motivi di questa fobia. Papa Francesco sulla questione femminile ha scelto la via del discernimento, che probabilmente è un processo più radicale, ma è lungo. Una riforma istituzionale ormai va fatta: il Diritto canonico sul diaconato permanente degli uomini è cambiato, quindi può cambiare ancora. Lo spazio delle donne nella Chiesa non è un problema solo delle donne, ma di tutta la Chiesa”.
CRISTINA SIMONELLI SU GENDER E OMOFOBIA: NUOVE PAURE
Ma le fobie ai giorni nostri sono in aumento, e Cristina con i “temi scomodi” si sente a proprio agio. “Lavorando sul gender, rispetto al quale è stata montata una campagna totalmente fuorviante, mi sono scontrata con un odio nei confronti delle persone omosessuali, che se prima non era un mio tema, d’ora in poi lo sarà per sempre. La Chiesa prima o poi arriverà a chiedere perdono anche per l’omofobia dilagante. Ancora oggi il parroco che decida di approntare una pastorale Lgbt lo paga molto pesantemente “. Questo clima di odio, riflette, ha avuto un momento significativo nel Congresso di Verona dello scorso marzo che, “con i proclami a difesa della famiglia, mirava a rifare una “verginità cattolica” ad ambienti che si possono definire nazisti, finanziati da lobbies internazionali. Ma la realtà è diversa e migliore, e in molti abbiamo affermato che essere cattolici è un’altra cosa”.
CHI È LA TEOLOGA CRISTINA SIMONELLI
Esperta della Chiesa antica, Cristina Simonelli insegna Patristica, la branca della teologia che studia il pensiero dei padri della Chiesa, i grandi maestri dei primi secoli dell’era cristiana, su cui si fonda buona parte della dottrina. Tra i più importanti si ricordano: sant’Ignazio d’Antiochia, sant’Ambrogio, sant’Agostino e san Girolamo.
di Romina Gobbo https://www.famigliacristiana.it/articolo/cristina-simonelli-la-teologa-che-ha-vissuto-con-i-rom.aspx
dalla paura alla riflessione, dalla lacerazione alla riconciliazione e all’abbraccio i sinti a Lucca e il terrore del coronavirus visto da vicino
Erano giorni durissimi, quei giorni di marzo quando arrivavano su tutti i telegiornali e programmi televisivi notizie e immagini preoccupanti di una epidemia che acquisiva le dimensioni di una pandemia, che poteva coinvolgere tutti, ma proprio tutti, ‘democraticamente’. Ognuno di noi stava spesso con orecchi e occhi spalancati al televisore per cercare indicazioni onde evitare di esserne coinvolti. Anche al Campo Nomadi di Lucca cominciavano ad arrivare le prime notizie di tanti ‘positivi’ e anche morti nella stessa Lucca, i casi si moltiplicavano e possibili focolai venivano indicati in zone vicine e poco frequentate. E’ in questo contesto di ansia, perplessità, speranza, ma più spesso paura (e anche incubi e rincorsa alle spiegazioni più fantasiose o comunicazioni whatsApp tendenti a scaricare l’ansia con video denigratori verso lontani ‘colpevoli’ … ) che scoppiò come un grande fulmine … a cielo molto cupo la notizia che ‘una del campo’ era risultata positiva da un casuale tampone fattole una decina di giorni prima all’ospedale per un ricorso al pronto soccorso per tutt’altri motivi. “Una di noi è positiva”, “i nostri bambini sono in pericolo”. Anzi: “una di noi è l’ ‘untore’, anzi il traditore che non ci aveva detto nulla del tampone …!”. Quando qualche giorno dopo arrivò la notizia della positività al coronavirus anche del marito la tensione raggiunse il culmine, ognuno si chiuse nella propria campina con animo non proprio sereno.
Al telefono e su whatsapp venivo continuamente informato della loro ansia e c’era chi più preoccupato di altri cercava di coinvolgere anche me (“non credere di cavartela facilmente”, o come a dire: “mal comune mezzo gaudio” nel senso che in compagnia si porta meglio anche la croce) nel proprio destino, ricordandomi che nei giorni precedenti ero io stesso in mezzo a un grande gioco di comunità che aveva visto pressoché tutti protagonisti, l’uno vicinissimo all’altro, ad agitarsi e a gridare per il desiderio di vincere ciò che era in palio, e … non era proprio lontano da noi, anzi dava manforte anche colei che ora era indicata come la colpevole ‘untrice’ che volutamente (ma non è vero!) aveva nascosto il suo stato di positività agli altri, peraltro tutti parenti. Tutti noi con evidente e comprensibile ansia contavamo i giorni che lentissimamente trascorrevano (consolati solo dal verificarci tutti asintomatici) … i giorni comunque trascorrevano tra il primo tampone positivo e una quarantena ‘a quella maniera’ e il secondo tampone finalmente negativo … il profondo respiro di sollievo e il grande senso di nuova possibile speranza bilanciò quel fulmine a cielo cupo che aveva tutti fulminato, e da lì in poi è stato più facile per tutti scorciare distanze, dialogare in modo pur sostenuto ma più positivo, esercitare maggiore comprensione e accettare ragioni che in situazione surriscaldata era pressoché impossibile.
Appena ci è stato possibile (magari interpretando in modo un po’ estensivo le norme di convivenza in tempi di coronavirus) un altro gioco di comunità ha visto ancora tutti coinvolti e rappacificati e rassicurati, capaci di superare tranquillamente anche un’altra paura, quella conseguente alla fuga di notizie che su un organo locale di informazione di estrema destra aveva segnalato un focolaio attivo e pericoloso al Campo Nomadi. I primi commenti in internet a tale notizia non lasciavano infatti ben sperare e i sinti esprimevano apertamente la paura che una qualche ‘spedizione’ di gage potesse venire al Campo con intenzioni non proprio costruttive. Alcuni gage infatti su facebook avevano commentato che forse sarebbe stata la volta buona per fare sparire i sinti da Lucca. Nei giorni seguenti una vecchia conoscenza cui non sono proprio simpatico per l’amicizia dei sinti mi incrocia per strada e mugolando tra sé e sé, ma non troppo sottovoce, lascia intendere la sua delusione: “accidenti, è ancora vivo … !”. Se al Campo Nomadi più vicino a me il tempo del coronavirus è stato vissuto in questa atmosfera comprensibilmente drammatica, alimentata anche dalle immagini che venivano dalla televisione (i famosi camion militari pieni di cadaveri … ), tutto sommato però è stato vissuto in modo riflessivo e ragionevole, occasione di vero, ancorché sofferto, dialogo che coniugava paura e speranza, riflessione e fede, domande profonde sul perché di ciò al di là di ricostruzioni mitologiche e un’esigenza di cambiamento di stile di vita rispetto a quello delle manipolazioni e della violenza sulla natura, perché alla fin fine quest’ultima, violentata e repressa, “ci presenta il conto”. In altre presenze di Sinti a Lucca, più orientate in senso ‘spiritualistico’, ‘intimistico’ e miracolistico perché alimentate ad una spiritualità ‘pentecostale’, ‘evangelista’, o addirittura ‘apocalittica’ alla ‘Radio Maria’ non pochi ripetevano continuamente che si trattava chiaramente di una punizione di Dio per i troppi peccati, aperti però anche all’addolcimento della terminologia, nel senso che – coi tempi moderni – apparendo forse troppo forte quella della ‘punizione’, sicuramente debba trattarsi almeno di una ‘ammonizione’ o ‘avvertimento’ o ‘avviso’ dall’Alto. Non ho mai esercitato la confessione per telefono, ma nei mesi scorsi a motivo di un’atmosfera così apocalittica non pochi sinti , anche lontane conoscenze o comunque lontani da Lucca mi hanno chiesto di poter ricevere l’assoluzione al telefono perché “non si sa mai … !”. Questo mi ha fatto più volte riflettere sui contenuti di una ‘evangelizzazione’ che troppo spesso si ammanta di novità perché capace di utilizzare nuovi strumenti ma il più delle volte veicola concezioni punitive e negative di Dio allontanandosi molto dalla rivelazione evangelica. La esperienza più positiva in questo nero periodo di coronavirus credo di averla comunque vissuta col gruppo di sinti che più da vicino mi ha coinvolto, anche nel rischio di contrarre e condividere col loro l’infezione. C’è stata schiettezza umana fatta di paura, ansia, tensione, parolacce, pure, ma anche volontà di capire, di riflettere, di dialogare (quanto hanno viaggiato i vari strumenti di messaggistica compreso whatsapp!) per emergere da tale paura e gestirla ragionevolmente…e devo confessare che segretamente pensavo dentro di me che se proprio avessi dovuto correre qualche rischio a motivo di questo, averlo corso in solidarietà a coloro che sono ormai da tempo diventati compagni di viaggio, condividere cioè il comune destino, non mi avrebbe disturbato poi troppo. Ultimamente, nel benedire le tombe di tre loro defunti che in tutto questo periodo non c’era stato modo di farlo, tra una parola scherzosa e l’altra con cui tutti cercavano di esorcizzare il pericolo scampato e il passato di trepidazione, nell’affermare che loro sono sinti e hanno comunque gli anticorpi per combattere anche i virus peggiori perché abituati a vivere – a diversità dei gage – una vita intera a contatto con la natura lungo un fiume, diversi mi hanno puntualizzato che se io stesso ne sono uscito bene si deve al fatto che … “stai coi sinti”. Chissà che questo non abbia un’anima di verità?
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