il futuro della chiesa finita la ‘cristianità’

la rinascita del cristianesimo

di Enzo Bianchi

 

Il cardinal Matteo Zuppi, nella prolusione al Consiglio permanente della Cei, con sguardo realista ma non angosciato ha evocato le parole più volte ripetute da Benedetto XVI che descrivevano la chiesa di oggi come “una realtà più piccola, più povera, quasi catacombale, ma anche più santa.
La rinascita sarà opera di un piccolo resto, apparentemente insignificante eppure indomito, rinato attraverso un processo di purificazione. Contro il male resisterà il piccolo gregge”.
Sì, ormai è riconosciuto da tutti che la cristianità è finita e che la chiesa, almeno in Occidente, è ridotta a minoranza in diaspora. Questo però, ha precisato Zuppi, non significa che non debba essere una chiesa di popolo, anzi è importante rifuggire ogni logica elitaria.
Questa speranza efficace dovrebbe abitare il cuore dei cristiani e fugare ogni timore di fronte a un dato di fatto da accettare: essere diventati una minoranza. Ciò che è decisivo, in realtà, è che la minoranza sia significativa, portatrice di una bella notizia per l’umanità di oggi. Nella storia sovente sono state le minoranze a determinarne il futuro, in quanto capaci di sollecitare un cambiamento urgente per la convivenza. Certo, se guardiamo all’oggi con occhi paralizzati dalla presenza
dell’oscurità, allora finiamo per sentirci gli ultimi cristiani. Nella Bibbia i profeti alzavano la voce per denunciare l’incredulità e l’idolatria dei contemporanei. Gesù stesso chiamò “generazione adultera e malvagia” coloro in mezzo ai quali viveva e predicava.
Sempre nella storia ritroviamo condanne dell’infedeltà e della mancanza di fede, ma anche  espressioni di smarrimento di fronte ai mutamenti, reazioni che ci appaiono oggi più che mai vicine  a quelle che si registrano nel nostro tempo. Anselmo di Havelberg intorno al 1160 scriveva: “Molti
si stupiscono, s’interrogano e s’indignano: perché tante novità nella chiesa? Chi non sarà  scandalizzato e contrariato da questi cambiamenti, queste novità?”. E quattro secoli dopo Teresa d’Avila: “Non ho ancora cinquant’anni e ho visto tanti cambiamenti nella chiesa che non so più
come vivere. Come andrà a finire? Preferisco non pensarci! Cosa diventeranno questi giovani non oso immaginarlo!”.
Nel secolo scorso il cardinal Verdier, alla vigilia della seconda guerra mondiale, osava scrivere: “Il mondo oggi subisce una crisi di cui non si sa esagerare la gravità! Siamo ormai sull’orlo dell’abisso.
Dai giorni del diluvio non c’è stata una crisi spirituale così profonda!”.
Leggere queste testimonianze ci deve mettere in guardia e indurci a ripensare alle nostre previsioni oggi così negative sulla chiesa.
Manchiamo di sapienza e non abbiamo fondamenti per sperare che sempre il cristianesimo non fa che rinascere. Muta la maniera di viverlo, cambiano le chiese che lo professano e a volte lo tradiscono… Ma il Vangelo come brace sotto la cenere è fuoco che rinasce e brucia il cuore di un piccolo resto, che ha una sola forza: il non temere!

i contrasti dentro la chiesa cattolica e l’opposizione a papa Francesco

“la chiesa divisa”
di Enzo Bianch

Questi sono giorni in cui emergono in modo molto più evidente i contrasti, le conflittualità e le “guerre” all’interno della chiesa cattolica. La morte di Benedetto XVI, l’incauta rivelazione postuma di alcune delle sue parole e dei suoi sentimenti da parte del segretario particolare e lo svelamento dell’identità dell’autore del memoriale attribuito al Cardinal Pell – vero grido di allarme sulla situazione della chiesa –, sono fatti che hanno scosso e scuotono i credenti quotidiani, che non sempre comprendono la materia diventata tanto conflittuale, ma soffrono di questa situazione così nuova per “la gente cattolica”, in balìa del chiacchiericcio delle sacrestie e delle denunce fatte dai media.

L’esito – va detto – non sarà il tanto temuto e paventato “scisma” di una porzione di cattolici, perché questo non è più tempo di fondazioni, ma sarà un silenzioso abbandono della chiesa da parte di molti che si sentono frustrati, stanchi e sovente amareggiati da tante liti fraterne che si consumano con schizofrenia ipocrita: da un lato una corsa al dialogo con i non cattolici, con i credenti delle altre religioni, e si realizzano cooperazioni tra chiese mai viste nella storia del cristianesimo; dall’altro lato c’è intolleranza, non sopportazione di chi, pur cattolico, condivide la stessa fede con uno stile diverso nella liturgia o nel modo di collocarsi nel mondo. Qui la lotta, l’antagonismo sono feroci con delegittimazione reciproca e impossibilità di riconoscere la fraternità che pure ha fondamento nell’unico battesimo.

In una vita ecclesiale così attraversata da polarizzazioni c’è però una novità: gli attacchi, il rigetto, l’insulto verso il papa, attualmente Francesco. La critica al papa era già presente nella chiesa degli ultimi tempi, critica aperta almeno dal pontificato di Paolo VI e poi dei suoi successori, ma le accuse o erano morali (e a tanto si giunse con l’integro papa Montini!), o erano critiche per il governo. Con Papa Francesco invece gli attacchi sono diretti alla sua fede, viene attaccato proprio quello che è il suo carisma: confermare nella fede i fratelli, e si arriva fino alla delegittimazione e all’insulto.

Perché ci si spinge fino ad affermazioni che lo dicono papa eretico, idolatra della dea pagana Pachamama, un papa che distrugge la chiesa? C’è una sola risposta: perché papa Francesco ha osato e osa essere solo un servo del Signore, un cristiano obbediente unicamente all’Evangelo, un esperto di umanità, un uomo che non ha paura dei potenti di questo mondo! Quanto più Francesco fa apparire il Vangelo nella sua nudità tanto più scatenerà le potenze avverse contro di lui e contro la chiesa della quale è al servizio della quale è pastore e servo della comunione.

Nessuna adulazione! Anche papa Francesco, come ogni uomo, ha i suoi difetti, il suo carattere che può non piacere, il suo modo di parlare che può essere più o meno attraente, il suo modo di governare la chiesa che può essere criticato, ma per i cattolici è il successore di Pietro, è colui per il quale Gesù ha assicurato di pregare, è l’uomo fragile e limitato che va giudicato solo per come annuncia il Vangelo e presiede alla comunione plurale della chiesa. Lo sappiamo dai Vangeli: colui che è la “Pietra”, cioè il fondamento della fede, può diventare un fuscello, ma sappiamo anche che ci sarà un gallo che canterà e lo richiamerà.

a proposito del declino vistoso del cristianesimo nel mondo europeo

il cristianesimo: religione o ‘via’ e ‘sequela’?

di E. Bianchi

E. BIANCHI

Un monaco benedettino, vero fratello e amico, raffinato teologo e letterato riconosciuto per i suoi scritti anche poetici, François Cassingena-Trévedy, nel suo ultimo libro scritto nella condizione di esilio dal suo monastero confessa di “restare in contatto costante con la sua chiesa e la sua epoca” della quale mette in luce un evento importante: “l’affondamento di tutto un paesaggio religioso”. Anch’io come cristiano devo confessare che ciò che mi turba di più nella vicenda della fede è questo affondamento, che si potrebbe chiamare “implosione”, del cattolicesimo, questo declino vistoso del cristianesimo, almeno nel nostro mondo, l’Europa!
Per un cattolico che si è affacciato alla maturità della vita con l’orizzonte di una promettente primavera, annunciata soprattutto dall’avvento di Papa Giovanni e del concilio da lui voluto, non è facile assistere oggi a questo tramonto che non è solo fine della cristianità, ma è anche spoliazione di una chiesa attualmente visibile solo più sotto forma di minoranza e in cammino verso la diaspora.
Non credo che quanti hanno nutrito una grande speranza di riforma della chiesa e del suo stare nella storia, nella compagnia degli umani, volessero una chiesa trionfante e più grande: il desiderio era di vivere in una chiesa capace di ascolto dell’umanità, e talmente convinta del primato del Vangelo da assumerne lo stile, la prassi e lo spirito. Ma non è stato così!
Certamente oggi la chiesa cattolica è umiliata dalla sue contraddizione al Vangelo che emergono come scandali soprattutto finanziari e violazioni della dignità della persona umana: ma proprio a partire da questa umiliazione sarà possibile che diventi umile? Oggi alla chiesa è impedito di essere domina nella storia: ma è davvero capace di accoglierlo come beatitudine? Siamo consapevoli che grazie al cammino sinodale voluto da Papa Francesco emergono dal popolo di Dio in modo inedito domande di riforma: ma la chiesa si mostrerà ancora una volta irriformabile?
Ogni giorno nelle diverse chiese si vivono scandali che causano non solo disaffezione, ma anche abbandono della comunità cristiana e tutti siamo testimoni della crescita esponenziale di chiese chiuse, chiese vuote, assemblee nelle quali appaiono solo più teste bianche… La spoliazione che sta avvenendo è vistosa e fa soffrire, ma siamo ancora lontani dal leggerla nella sua forma evangelica. Non è solo questione di povertà, di rifiuto della ricchezza e di condivisione con i poveri: occorre che la chiesa si faccia povera di potere mondano, si spogli del potere giuridico, sieda alla tavola dei peccatori semplicemente seguendo Gesù e frequentando come lui i sofferenti, i bisognosi, gli scarti della società. La chiesa deve sentirsi una “via”, quale la professavano i primi cristiani, e pensarsi nella forma della “sequela”, non in quella di una religione.
Allora vi sarà la conversione del cattolicesimo alla cattolicità e verrà meno il rischio di un cattolicesimo senza cristianesimo, di una religione teista condannata oggi all’autoreferenzialità, a fallaci tentativi di autoconservazione, occupandosi di sé stessa senza un’attesa messianica che gli dia vigore e scacci ogni paura . Allora il Vangelo – come Buona notizia che la morte non ha l’ultima parola perché Gesù Cristo, che è l’amore vissuto all’estremo per l’umanità, l’ha vinta – non resterà più afono e potrà risuonare limpidamente in comunità minoritarie ma significative.
Crolla il paesaggio religioso, ma sotto la cenere resta la brace della fede e – come diceva Aleksandr Men’, la fede cristiana non fa che rinascere.

il natale è nonostante tutto festa di speranza

 

la speranza del Natale

di Enzo Bianchi

 

Se il Natale ha un significato cristiano è questo: non è solo una festa per Gesù che nasce, ma è una festa per il Messia che viene a reintegrare nella pienezza della vita tutti quelli che ne sono privi. Natale è festa di speranza per tutti quelli che, cristiani o non cristiani, vogliono che il mondo cambi.

Nel sapiente e poetico testo di Antoine de Saint-Exupéry, la volpe dice al principe: “Ci vogliono i riti, ovvero ciò che rende un giorno diverso da altri giorni, un’ora diversa da altre ore”. Proprio per questo, vicini al Natale, la festa più celebrata nel nostro occidente, nelle notti più lunghe dell’anno noi cerchiamo di rendere luminosi questi giorni con migliaia di luci che dovrebbero creare un’atmosfera “altra”, gioiosa, nelle nostre città e nelle nostre case.
Le luminarie erano già presenti al tempo dei romani, prima che il cristianesimo si impadronisse di questa ricorrenza del “sole invincibile” per farne la memoria della nascita di Gesù, il Salvatore dei
cristiani, confessato come “sole che non tramonta” e “luce del mondo”. Natale è festa della luce che vince le tenebre, simbolo di un evento desiderato da gran parte dell’umanità: accendere molte luci è
affermare che le tenebre non riescono a sopraffare la luce, è invito a fare festa insieme.
Si diceva nei mesi scorsi che quest’anno, a causa della crisi energetica, non ci sarebbero stati i soliti addobbi luminosi nelle città anche come segno di solidarietà con quelli che soffrono il freddo, soprattutto in Ucraina. Ma poi tutto è stato predisposto come gli altri anni forse perché non sappiamo essere conseguenti con le emozioni che proviamo, e forse perché far festa anche nei giorni cattivi ci può aiutare ad aprire l’umile speranza di un orizzonte luminoso.
Questo Natale arriva come un Natale di guerra, nel quale ci sono tutti i segni che la pandemia non è sconfitta, in un’ora di grave crisi politica nel nostro paese per la mancanza di uomini e donne che abbiano senso di responsabilità, siano esperti dell’arte del governare, nutrano una visione sul futuro della nostra società e testimonino un’etica che sia in grado di contrastare ogni forma di corruzione.
In questi giorni non è facile festeggiare, a meno di restare superficiali, non vulnerabili dalle situazioni di sofferenza che sembrano cancellare ogni speranza. Ubriacati dal clima festoso non ci indigniamo più per la guerra in Ucraina, per i migranti che continuano a morire nel Mediterraneo e sulle fredde rotte europee, per l’oppressione delle donne in Iran, per i maltrattamenti subiti dai carcerati nelle nostre prigioni. Come si può celebrare Natale senza essere consapevoli di queste
realtà delle quali in certi casi siamo anche responsabili?
Mi rincuora il fatto che il Natale, per i cristiani, non dovrebbe essere la festa della nascita di Gesù: si festeggia il fatto che lui è il Veniente che viene a portare giustizia, liberazione, pace per tutte le vittime della storia, per tutti quelli che desiderano, invocano, attendono un cambiamento ! Se il Natale ha un significato cristiano è questo: non è solo una festa per Gesù che nasce, ma è una festa per il Messia che viene a reintegrare nella pienezza della vita tutti quelli che ne sono privi. Natale è festa di speranza per tutti quelli che, cristiani o non cristiani, vogliono che il mondo cambi.

il commento al vangelo della domenica

l’attesa come arte

il commento di E. Bianchi al vangelo della prima domenica di Avvento, anno A

Mt 24,37-44
 

³⁷In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: “Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. ³⁸Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, ³⁹e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. ⁴⁰Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. ⁴¹Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata. ⁴²Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. ⁴³Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. ⁴⁴Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo”.

Di fronte a questo vangelo la comunità cristiana prova sentimenti di imbarazzo: esita a essere convinta che il Signore viene nella gloria, non pensa che ci sia veramente una fine del tempo e non ha più nel cuore il desiderio bruciante di vedere il Signore. Eppure basterebbe essere più attenti nel leggere la vita che trascorre, la propria e quella degli altri accanto a noi, per renderci conto come ogni giorno, se non siamo distratti, inesorabilmente siamo ricondotti all’evento che ci attende: l’incontro con il Signore.

Inizia un nuovo anno liturgico nel quale, domenica dopo domenica, ascolteremo il vangelo secondo Matteo. Ma inizio e fine di un anno liturgico possono solo mettere davanti a noi ciò che sta sempre nel nostro futuro: la venuta del Figlio dell’uomo, il nostro incontro con lui. Il nostro Dio è il Signore “che è e che viene” (Ap 4,8), perché è già venuto nella carne fragile e mortale di Gesù, il figlio di Maria morto e risorto, viene in ogni ora nella vita del discepolo per attirarlo a sé, verrà nell’ora dell’esodo di ciascuno di noi da questo mondo, alla fine dei tempi, per introdurci tutti e definitivamente nel suo Regno di pace e di vita piena. Gesù è “il Veniente” (ho erchómenos: Ap 1,4.8; 4,8), e il suo giorno, “il giorno del Signore” (jom ’Adonaj, kyriakè heméra), sarà la parousía, la manifestazione ultima e definitiva.  

Nel brano evangelico odierno ascoltiamo parole di Gesù dette non alle folle ma in disparte, solo ai discepoli (cf. Mt 24,3), al “piccolo gregge” (Lc 12,32), nelle ore che precedono la sua fine, attraverso l’arresto, la condanna e la morte. Sul monte degli Ulivi, a est di Gerusalemme, dove si contempla la città santa e il tempio nel suo splendore, Gesù avverte: “Quanto a quel giorno e a quell’ora, nessuno lo conosce, è un termine fissato alla storia che solo Dio conosce” (cf. Mt 24,36). Per questa ignoranza da parte degli umani, quando ci sarà la parousía, la venuta del Figlio dell’uomo, regneranno l’indifferenza, la distrazione, il non sapere. Gesù dice queste parole con tristezza, ma sa che per l’umanità è sempre come ai tempi di Noè, quando venne la grande inondazione e colse l’umanità impreparata.  

Nel libro della Genesi (cf. Gen 6,5-9,17), il diluvio universale è presentato come castigo di Dio su un’umanità da lui creata ma diventata malvagia, violenta. Decodificando quel testo, possiamo comprendere che, allora come oggi, a volte sembra prevalere su tutto la violenza, l’immoralità, la perdita della dignità umana e della fraternità. In questo caso emerge con evidenza che le scelte di uomini e donne sono mortifere, che il comportamento umano sfigura la terra in un modo devastante, ben rappresentato dalle acque del diluvio o dal deserto che avanza. E di fronte a eventi che fanno prendere coscienza della nostra responsabilità, si manifesta come gli umani siano stati fino all’ultimo distratti, incapaci di capire ciò che stavano preparando con il loro comportamento. 

Gesù non dice che la generazione nella quale avverrà “il giorno del Signore” sarà immorale o particolarmente perversa, ma ne denuncia solo l’indifferenza. Sono uomini e donne che vivono: nascono, crescono, si innamorano, si sposano, mangiano e bevono… Sì, vivono, e su questo loro vivere Gesù non pronuncia condanne, proponendo loro un programma ascetico. Denuncia solo la “non conoscenza” (ouk égnosan), il non essere pronti, l’essere indifferenti a ciò che invece va cercato prima di tutto ed è essenziale a una vita veramente umana, che risponda alla volontà e alla vocazione del Creatore.  

Dunque nessun castigo da parte di Dio, ma semplicemente la manifestazione della situazione in cui si trova l’umanità di fronte alla presenza e alla venuta del Figlio dell’uomo. Purtroppo noi oscilliamo tra febbre apocalittica con predizioni catastrofiche e indifferenza verso questo evento che, tardando così tanto, pensiamo non ci debba tormentare. Ma questo evento non può essere da noi rimandato alla fine della storia, quasi pensando che non ci riguardi, perché in realtà nell’esodo di ciascuno di noi, nel passaggio da questo mondo all’al di là della morte, saremo messi di fronte alla presenza del Figlio dell’uomo veniente nella gloria. Accadrà dunque che tutto si consumerà quando impareremo dagli eventi che la morte arriva per gli uni prima che per gli altri, sicché chi è con noi al lavoro può essere preso e noi lasciati in vita, o viceversa. Non c’è la stessa ora per tutti, non c’è la stessa occasione per tutti, ma per tutti c’è una fine! Anche questo dovrebbe essere di insegnamento, quasi profezia del giudizio di Dio, quando avverrà una separazione tra quelli che entreranno nel Regno, perché esercitati nella comunione con gli altri, e quelli che non potranno entrare, perché non hanno voluto conoscere la comunione con gli altri ma si sono nutriti di philautía, di amore egoistico di sé. Come nelle sette lettere alle chiese dell’Apocalisse (cf. Ap 2-3), il Signore viene e la sua venuta è giudizio in ogni istante!  

Occorre dunque essere a conoscenza del piano di salvezza di Dio, occorre vegliare e tenersi pronti. Come un padrone di casa che sa che il ladro verrà nella notte: che cosa farà? Veglierà, starà sveglio e in attesa, in modo da non lasciare che la sua casa venga scassinata. Ecco la postura del discepolo: sa che il Figlio dell’uomo viene, anche se non conosce l’ora della sua venuta, e forte di questa consapevolezza vive nella vigilanza, nell’attesa. Non si lascia andare, non si distrae, ma pur vivendo umanamente bene, continua a vigilare per aprire prontamente al Signore quando arriverà; verrà sorprendendoci, ma, proprio perché atteso, sarà anche accolto prontamente e con grande gioia.  

In ogni caso, di fronte a questo vangelo – dobbiamo confessarlo – la comunità cristiana prova sentimenti di imbarazzo: esita a essere convinta che il Signore viene nella gloria, non pensa che ci sia veramente una fine del tempo e non ha più nel cuore il desiderio bruciante di vedere il Signore. Come diceva Ignazio Silone: “I cristiani dicono di attendere il Signore, e lo aspettano come si aspetta il tram!”. Eppure basterebbe essere più attenti nel leggere la vita che trascorre, la propria e quella degli altri accanto a noi, per renderci conto come ogni giorno, se non siamo distratti, inesorabilmente siamo ricondotti all’evento che ci attende: l’incontro con il Signore. Siamo ricondotti a comprendere che noi, pur vagabondi e mendicanti sulla terra per un pugno di anni – “settanta, ottanta se ci sono le forze” (Sal 90,10) –, in quel giorno avremo bisogno solo della misericordia del Signore.

il commento al vangelo della domenica

perdonare per essere perdonati
il commento di E. Bianchi al vangelo della venticinquesima domenica del tempo ordinario
Lc 16,1-13
 

¹Diceva anche ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. ²Lo chiamò e gli disse: «Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare». ³L’amministratore disse tra sé: «Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua». Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: «Tu quanto devi al mio padrone?». Quello rispose: «Cento barili d’olio». Gli disse: «Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta». Poi disse a un altro: «Tu quanto devi?». Rispose: «Cento misure di grano». Gli disse: «Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta». Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.  Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne. ¹⁰Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. ¹¹Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? ¹²E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? ¹³Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».  

Ci sono parabole di Gesù ben costruite e con un messaggio evidente, altre invece più contorte, meno lineari, il cui messaggio va cercato con cura e intelligenza. In questo capitolo 16 del vangelo secondo Luca ci troviamo di fronte a due parabole riguardanti gli atteggiamenti verso il denaro e la ricchezza, parabole proclamate una in questa domenica e una nella prossima (Lc 16,19-31).  

Certamente la parabola odierna, quella dell’economo ingiusto, disonesto, che non agisce con rettitudine, può sembrare scandalosa, per il lettore superficiale può addirittura risultare immorale, ma occorre fare attenzione e discernere il vertice teologico presente nel racconto: allora lo si capirà in fedeltà all’intenzione di Gesù. Cerchiamo dunque con umiltà di faticare, di esercitare l’intelligenza per arrivare a comprendere anche questo brano in modo evangelico, cogliendo in esso la “buona notizia”.  

Un uomo ricco ha un economo che ne gestisce gli affari, ma tutt’a un tratto quest’ultimo risulta essere un dissipatore dei suoi beni. Allora il padrone lo chiama e gli chiede: “Che cosa sento dire di te? Rendimi conto della tua amministrazione, perché non potrai più essere mio economo!”. È qualcosa che accade abbastanza spesso, perché la tentazione dell’ingiustizia, del pensare a se stessi e del non essere responsabili di una proprietà altrui è facile e ricorrente. Ma come reagire quando si viene scoperti? Qui l’economo, di fronte alla minaccia del padrone e alla prospettiva di perdere il lavoro, si mette a ragionare, a pensare al suo futuro. Egli medita tra sé: “Che cosa farò? Lavorare la terra? Non so farlo, non ne ho più la forza. Mendicare? Mi vergogno”.  

Ed ecco che nel suo dialogo interiore giunge a una soluzione: farsi amici alcuni debitori del suo padrone, per poter contare su di loro. Ma deve fare tutto prestissimo, per questo convoca subito i debitori. Al primo domanda: “Quanto devi al mio padrone?”. Quello risponde: “Cento barili d’olio”. Ed egli replica dimezzandogli il debito: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. A un altro, che deve cento sacchi di grano, l’economo ne condona venti. Ecco una vera frode, una condonare i debiti senza l’autorizzazione del padrone, una palese ingiustizia! Eppure il padrone, venuto a conoscenza dell’inganno operato ai suoi danni, si congratula con l’economo disonesto, che secondo Gesù è figlio di questo mondo delle tenebre, dunque è un figlio di Satana, colui che combatte i figli della luce che vivono nella giustizia.  

Allora perché l’elogio, le congratulazioni? Per l’azione ingiusta? No, ma per la capacità di farsi degli amici, donando e condividendo proprio quella ricchezza ingiusta. Così quell’economo ingiusto non dissipa più i beni di cui è amministratore, ma li onora, condividendoli con quanti non hanno nulla. Ecco dove sta la buona notizia, il vangelo: ciò che è urgente, l’azione buona, è distribuire il denaro di ingiustizia ai poveri, non conservarlo gelosamente per sé. Proprio queste parole di Gesù vogliono essere buona notizia per i ricchi, perché ora sanno come devono amministrare i beni non loro: distribuendoli a tutti. L’esemplarità di questo economo ingiusto non va dunque individuata nel suo agire disonesto, ma nella sua capacità di discernimento della situazione in cui si trova, di adesione alla sua realtà segnata da molti limiti e di agire conseguentemente con intelligenza.  

Attenzione, in questo racconto e nel successivo commento di Gesù compare per ben cinque volte il termine ingiustizia/ingiusto (adikía/ádikos) per definire l’economo e la ricchezza, Mammona. L’ingiustizia è dunque denunciata e condannata: non c’è altra via di giustizia se non quella di donare la ricchezza condividendola con i poveri, quelli che sono beati e ai quali è promesso il regno di Dio (cf. Lc 6,20). Il denaro resta “Mammona (da ’aman, che significa “credere”!) di ingiustizia”, definizione presente anche negli scritti di Qumran, che ne proclama l’iniquità radicale. Lo sappiamo bene: il denaro cattura la fede, incanta, seduce, dà falsa sicurezza, ruba il cuore, inganna e diventa il tesoro prezioso, l’idolo nel quale si confida (cf. Lc 12,34; 1Tm 6,17). È vero che il denaro è solo uno strumento, ma siccome chiede di avere fede-fiducia in lui, occorre vigilare per non essere da lui dominati e, al contrario, occorre donarlo, distribuirlo, condividerlo. Se infatti lo si accumula e lo si trattiene per sé, finisce per essere alienante: non è più posseduto, ma è lui a possedere chi lo ha nelle proprie mani! 

Proprio per questo nel vangelo secondo Luca c’è una grande rivelazione fatta dal demonio stesso a Gesù al momento delle tentazioni nel deserto: “A me è stata data tutta questa ricchezza” – data da Dio, potremmo dire – “e io la do a chi voglio” (cf. Lc 4,6). Sì, chi accumula ricchezze è un amministratore di Satana, lo sappia o meno; per questo nella nostra parabola l’uomo ricco che dà in gestione all’economo molti beni può essere figura del demonio. L’unico modo per sfuggire alla schiavitù satanica è distribuire, donare il denaro, i beni, condonare i debiti: il denaro accumulato è sempre sporco, per ripulirlo basta condividerlo! 

Il cristiano sa dunque che c’è un Mammona con la maiuscola, un idolo forte e seducente che può diventare un Kýrios, un Signore, rendendo servo e schiavo chi ne è amministratore. Il discepolo di Gesù – come ricorda chiaramente Gesù stesso – non può servire due padroni, ma è posto di fronte a una scelta: 

o amare e servire uno, o amare è servire l’altro;

o ripudiare uno, o ripudiare l’altro,

perché i due padroni sono antitetici, sono concorrenti nel richiedere fede-fiducia. 

Come discepoli di Gesù, possiamo guardare all’orizzonte del Regno, dove ci attende la grande comunione degli amici del Signore nella vita eterna. Ci accoglieranno con amicizia tra loro proprio i poveri, quelli che ci siamo fatti amici qui sulla terra giorno dopo giorno con la danza del dono e l’esercizio della condivisione. Non saremo soli, ma saremo una comunione di amici, se nell’amicizia ci siamo esercitati qui e ora, donando e accettando i doni. 

Ma in questa parabola e nelle parole con cui Gesù la commenta c’è solo un’esemplarità legata alla condivisione dei beni con i poveri? Non c’è forse anche un invito rivolto da Gesù ai discepoli, ai “figli della luce”, affinché siano capaci di esercitare intelligenza, creatività e audacia, come sanno fare purtroppo i “figli di questo mondo”? C’è infatti quasi un rammarico in questa constatazione di Gesù riguardante i suoi seguaci: non sanno essere phrónimoi, capaci di intelligenza, di discernimento e di vigilanza!  Soprattutto oggi, in un mondo indifferente all’annuncio di Dio, perché i cristiani non sanno far comprendere che il Vangelo è una buona notizia? Perché il discorso cristiano continua a essere così ingombrato e offuscato da tante parole e tanti rivestimenti umani e mondani? Perché non sappiamo dire che il cristianesimo è l’incontro con una persona, Gesù Cristo, il Signore vivente, senza affogare l’annuncio in moralismi colpevolizzanti che gli uomini e le donne di oggi non riescono ad accogliere come salvezza? Perché all’indifferenza dominante nella società non sappiamo opporre la “differenza cristiana”, manifestata in vite umane segnate da bontà, bellezza e beatitudine? 

Sì, ancora oggi Gesù continua rammaricarsi di come i figli di questo mondo siano più intelligenti e svegli dei figli della luce!

lo slogan blasfemo: “Dio, Patria, Famiglia”

Enzo Bianchi :

“Dio, patria e famiglia”

ecco perché quello slogan è una bestemmia

in  La Repubblica 

Siamo in un’ora in cui difetta il pensare, il riflettere, e anche il linguaggio ne risente. Non solo si impoverisce ma si fa rozzo, barbaro e ricorre agli slogan. D’altronde lo sappiamo tutti: quando manca il pensiero si alzano i toni e si fanno risuonare parole per provocare emozioni, e questo vale ovunque, fino ai comizi di piazza.

Essendo vecchio non dimentico le scritte sbiadite sui muri rimaste dall’epoca fascista: “Credere, Obbedire, Combattere!”, “Autorità, Ordine, Giustizia!”, “Dio, Patria, Famiglia!”.

Mi pare significativo che siano tornate a risuonare oggi: “Dio, Patria, Famiglia” è uno slogan che mi turba. Perché queste tre parole messe una dopo l’altra, fatte bandiera e labaro tra gente che si pensa forte, per me risuonano non solo come sinistre, ma come una bestemmia. Parole di un tempo e di una cultura che non vorrei vivere.

Come cristiano sono convinto che la parola “Dio” è un termine eminente ma insufficiente, dietro il quale si celano emozioni che sono proiezioni umane. La maggior parte delle immagini che ci forgiamo di Dio sono perverse. Come cristiano sono convinto che solo Gesù ha raccontato e mostrato chi è Dio.

Il Dio di Gesù non ama essere proclamato, né invocato contro qualcuno, ma ama che lo si pensi il “Dio con noi”. Non ha bisogno che lo difendiamo né che lo imponiamo nella società in cui viviamo. Gli si reca offesa se lo si strumentalizza come un elemento identitario, se lo si trascina nell’agone politico.

Quanto alla Patria, per fortuna la mia generazione non ha più servito l’ideologia nazionalista, un idolo in nome del quale, nelle guerre, si sacrificavano tante vite umane. Amiamo la nostra terra, ma anche quelle degli altri, convinti che “ogni terra per il cristiano è straniera e ogni terra straniera per il cristiano è patria”, come si legge in A Diogneto, il testo di un cristiano del II secolo, quando i cristiani potevano vivere come minoranze in dialogo e in pace nella marea pagana dell’impero romano. No, per noi oggi non è più bello morire per la patria.

Quanto alla “Famiglia”, quella che poteva essere invocata non esiste più, è andata in frantumi con il paternalismo, la sottomissione delle donne, l’impossibilità per i giovani di prendere la parola. Nasciamo in una famiglia e da essa siamo accolti, e questa è una grazia grande. Ma quando dobbiamo costruire una vita cerchiamo l’amore al di fuori della famiglia.

Significa che anche la famiglia è insufficiente: non dobbiamo farne un mito o un idolo. È necessario vigilare contro il familismo che forgia una ideologia non a servizio dell’amore umano, ma dei controllori dell’ordine morale.

Ci scandalizziamo se questi slogan sono gridati oggi in Russia dal potere religioso e da quello politico, ma poi permettiamo che siano proposte come programma nella nostra stanca e vecchia, ma sempre valida, democrazia. L’idolo è sempre un falso antropologico, fonte di alienazione. “Dio, Patria, Famiglia!”: tre parole che se gridate sono una bestemmia e dovrebbero rappresentare per tutti lo spettro di una prigione.

non possiamo volere tutto …

un limite al desiderio

di Enzo Bianchi
in “la Repubblica” del 8 agosto 2022

nell’educazione dei giovani sarebbe opportuno non offrire “tutto”, ma insegnare a ordinare il desiderio e a scegliere, tenendo conto del bene comune, nella consapevolezza che bisogna porsi un limite perché facciamo parte di un’unica umanità

Ultimamente mi ha sorpreso uno spot pubblicitario che in modo martellante mostra una scena: in un supermercato una bambina in estasi sta davanti a uno scaffale di prodotti dolciari… poi un attimo di silenzio in attesa della voce della mamma che chiede: «E quale vorresti?». E la bambina, in un grido gioioso: «Tutti!». Ho subito percepito l’insensatezza di un messaggio del genere. C’è un desiderio e alla domanda che chiede di scegliere, la risposta è: «Tutti!». Tutto e subito. Lo dice l’istinto, lo fa suo il desiderio e lo esprime. L’istinto è una forza dominante, è un sentimento personale, intimo, che scaturisce dalle profondità animali della persona, e che dunque va assunto, disciplinato, educato. Altrimenti lo si enfatizza, diventa brama di “tutto e subito”, e non conosce limite: l’istinto
diventa così cupidigia, brama, voracità di possesso e amore del denaro. Chi non riesce a dominarlo viene trascinato a possedere, consumare, fare suo ciò che desidera e non ha, e per averlo ricorre anche alla violenza. L’ebrezza del “tutto” fa sognare l’impossibile, esclude ogni possibilità di condivisione, non riconosce la presenza dell’altro con lo stesso desidero verso il medesimo oggetto.
Chi vuole tutto vuole realizzare il suo desiderio senza tener conto degli altri, del prossimo, del limite di ogni azione umana. L’oggetto o la persona desiderati con cupidigia emergono come forze dominanti fino a produrre, in chi desidera, l’alienazione. Comprendiamo allora l’assillante invettiva dei profeti di Israele contro la cupidigia o il desiderio del tutto, perché per loro nella cupidigia sta il non riconoscimento dell’altro e del proprio limite, sta la radice dell’ingiustizia e di ogni violenza.
Tra le dieci parole donate da Dio a Israele sul Sinai, “non desiderare” (chamad, desiderio che si fa azione) ricorre due volte: nei rapporti con le cose materiali e con le persone.
La patologia del desiderio che vuole tutto non riguarda solo la vita personale, ma anche quella nella società. Il premio Nobel per l’economia Stiglitz ha pubblicato un libro sulla crisi economica intitolato, nell’edizione francese, Le triomphe de la cupidité. Certo, la dimensione lucrativa del lavoro umano non può essere eliminata, ma l’eccesso del guadagno e dell’interesse, il non mettere né darsi limiti ha portato a una crisi che ha prodotto sofferenza per popoli interi. La voracità che si è scatenata viene legittimata e la cultura della cupidigia ha fatto scaturire una cultura individualista, incapace di pensare un orizzonte comune. Nell’educazione dei giovani sarebbe opportuno non offrire “tutto”, ma insegnare a ordinare il desiderio e a scegliere, tenendo conto del bene comune, nella consapevolezza che bisogna porsi un limite perché facciamo parte di un’unica umanità. Volere tutto è il contrassegno di una convivenza in cui l’altro è negato e ne va eliminata la presenza. Non possiamo volere «Tutto!», ma possiamo volere solo accettando di rinunciare al tutto 

il commento al vangelo della domenica

condividere il pane significa moltiplicare il pane

   il commento di E, Bianchi al vangelo della domenica del Corpus Domini, anno C
Lc 9,11b-17
 

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli:  ¹²In quel tempo Gesù ¹¹accolse le folle e prese a parlare loro del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure. ¹²Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta». ¹³Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». ¹⁴C’erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». ¹⁵Fecero così e li fecero sedere tutti quanti. ¹⁶Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. ¹⁷Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.

Dopo la festa della Triunità di Dio, celebriamo oggi un’altra festa “dogmatica”, sorta a difesa della dottrina, per ricordare la verità dell’eucaristia voluta da Gesù come memoriale nella vita della chiesa fino alla sua venuta gloriosa. Ogni domenica celebriamo l’eucaristia, ma la chiesa ci chiede anche di confessare e adorare questo mistero inesauribile in un giorno particolare (il giovedì della II settimana dopo Pentecoste per la chiesa universale, la II domenica dopo Pentecoste in Italia). Facciamo dunque obbedienza e commentiamo mediante un’esegesi liturgica il brano evangelico proposto dal Messale italiano. 

Il cosiddetto racconto della “moltiplicazione dei pani” è attestato per ben sei volte nei vangeli (due in Marco e in Matteo, una in Luca e in Giovanni), il che ci dice come quell’evento fosse ritenuto di particolare importanza nella vita di Gesù. Nel vangelo secondo Luca, Gesù invia i suoi discepoli ad annunciare la venuta del regno di Dio e a guarire i malati (cf. Lc 9,2), mostrando che la missione affidatagli da Dio con la discesa su di lui dello Spirito santo (cf. Lc 3,21-22), rivelata nella sinagoga di Nazaret (cf. Lc 4,18-19), era da lui estesa anche alla sua comunità. Compiuta questa missione, i discepoli fanno ritorno da Gesù e gli raccontano la loro esperienza, quanto cioè avevano fatto e detto in obbedienza al suo comando. 

Gesù allora li prende con sé, portandoli in disparte per un ritiro, in un luogo vicino alla città di Betsaida (cf. Lc 9,10). Ma le folle, saputo dove Gesù si era ritirato, lo seguono ostinatamente (cf. Lc 9,11a). Ed ecco che Gesù le accoglie: aveva cercato un luogo di silenzio, solitudine e riposo per i discepoli tornati dalla missione e per sé, ma di fronte a quella gente che lo cerca, che viene a lui e lo segue, Gesù con grande capacità di misericordia la accoglie. È lo stile di Gesù, stile ospitale, stile che non allontana né dichiara estraneo nessuno. 

Queste persone vogliono ascoltarlo, sentono che egli può dare loro fiducia e liberarle, guarirle dai loro mali e dai pesi che gravano sulle loro vite, e Gesù senza risparmiarsi annuncia loro il regno di Dio, le cura e le guarisce. Questa è la sua vita, la vita di un servo di Dio, di un annunciatore di una parola affidatagli da Dio. 

Giunge però la sera, il sole tramonta, la luce declina, e i Dodici discepoli entrano in ansia. Dicono dunque a Gesù: “Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta!”. La loro richiesta è all’insegna della saggezza umana, nasce da uno sguardo realistico, eppure Gesù non approva quella possibilità razionale, ma chiede loro: “Voi stessi date loro da mangiare”. Con questo comando li esorta a entrare nella dinamica della fede, che è avere fiducia, mettere in movimento quella fiducia che è presente in ogni cuore e che Gesù sa ravvivare. Ma i discepoli non comprendono e insistono nel porre di fronte a Gesù la loro povertà: hanno solo cinque pani e due pesci, un cibo sufficiente solo per loro! 

Ecco allora che Gesù prende l’iniziativa: ordina di far sedere tutta quella gente ad aiuola, a gruppi di cinquanta, perché non si tratta solo di sfamarsi, ma di vivere un banchetto, una vera e propria cena, nell’ora in cui il sole tramonta. Poi davanti a tutti prende i pani e i pesci, alza gli occhi al cielo, come azione di preghiera al Padre, benedice Dio e spezza i pani, presentandoli ai discepoli perché li servano, come a tavola, a quella gente. È un banchetto, il cibo è abbondante e viene condiviso da tutti. Quelli che conoscevano la profezia di Israele, si accorgono che è accaduto un prodigio che già il profeta Eliseo aveva fatto in tempo di carestia, nutrendo il popolo affamato a partire dalla condivisione di pochi pani d’orzo (cf. 2Re 4,42-44). Lo stesso compie Gesù, e dopo il suo gesto avanza una quantità di cibo ancora maggiore: dodici ceste. Nel cuore dei discepoli e di alcuni dei presenti sorge così la convinzione che Gesù è profeta ben più di Elia e di Eliseo, è profeta anche più di Mosè, che nel deserto aveva dato da mangiare manna al popolo uscito dall’Egitto (cf. Es 16). 

Ma qui viene spontaneo chiedersi: cosa significa questo evento? Normalmente si parla di “moltiplicazione” dei pani, ma nel racconto non c’è questo termine. Dunque? Dovremmo dire che c’è stata condivisione del pane, c’è stato lo spezzare il pane, e questo gesto è fonte di cibo abbondante per tutti. In tal modo comprendiamo come ci sia qui una prefigurazione di ciò che Gesù farà a Gerusalemme la sera dell’ultima cena: “Prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: ‘Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me’” (Lc 22,19). Lo stesso gesto è ripetuto da Gesù risorto sulla strada verso Emmaus, di fronte ai due discepoli. Anche in quel caso, al declinare del giorno, invitato dai due a restare con loro (cf. Lc 24,29), “quando fu a tavola, prese il pane, pronunciò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro” (Lc 24,30). Tre episodi che recano lo stesso messaggio: le folle, la gente, il mondo ha fame del regno di Dio, e Gesù, che ne è il messaggero e lo incarna, sazia questa fame con la condivisione del cibo, con lo spezzare il suo corpo, la sua vita, offerta a tutti. 

Ecco il mistero eucaristico nella sua essenza: non lasciamoci abbagliare da tante e varie dottrine eucaristiche, ma accogliamo il mistero nella sua semplicità. Cristo si dà a noi ed è cibo abbondante per tutti; una volta spezzato (sulla croce), si dà alla chiesa, a noi, a tutti coloro che lo cercano e tentano di seguirlo, a tutti quelli che hanno fame e sete della sua parola e desiderano condividere la sua vita. Se è vero che la dinamica dello spezzare il pane e del condividerlo trova nella celebrazione della cena eucaristica, nella liturgia santissima, un adempimento, essa però è anche paradigma di condivisione del nostro cibo materiale, il pane di ogni giorno. L’eucaristia non è solo banchetto del cielo, tavola del corpo e del sangue del Signore, ma vuole essere magistero per le nostre tavole quotidiane, dove il cibo è abbondante ma non è condiviso con quanti hanno fame e ne sono privi. Per questo, se alla nostra eucaristia non partecipano i poveri, se non c’è condivisione del cibo con chi non ne ha, allora anche la celebrazione eucaristica è vuota, perché le manca l’essenziale. Non è più la cena del Signore, bensì una scena rituale che soddisfa le anime dei devoti, ma in profondità è una grave menomazione del segno voluto da Gesù per la sua chiesa! La tavola del corpo del Signore sempre dev’essere tavola della parola del Signore e, insieme, tavola della condivisione con i bisognosi. 

Con la condivisone dei pani e dei pesci insieme alle folle Gesù inaugura un nuovo spazio relazionale tra gli umani: quello della comunione nella differenza, perché le differenze non sono abolite ma affermate senza che, d’altra parte, ne patisca la relazione segnata da fraternità, solidarietà, condivisione. Sì, dobbiamo confessarlo: nella chiesa si è persa quest’intelligenza eucaristica propria dei primi cristiani e dei padri della chiesa, vi è stato un divorzio tra la messa come rito e la condivisione del pane con i poveri! E se nel mondo esiste la fame, se i poveri sono accanto a noi e l’eucaristia non ha per loro conseguenze concrete, allora la nostra eucaristia appare solo scena religiosa e – come direbbe Paolo – “il nostro non è più un mangiare la cena del Signore” (cf. 1Cor 11,20). 

Proprio davanti all’eucaristia cantiamo l’inno che afferma: “Et antiquum documentum novo cedat ritui” (“l’antico rito ceda il posto alla nuova liturgia”), ma in realtà restiamo ingabbiati nei riti e non riusciamo a celebrare il “rito cristiano”, “il culto secondo la Parola” (loghikè latreía: Rm 12,1), che è offerta in sacrificio dei nostri corpi a Dio attraverso il servizio dei poveri e l’amore fraterno vissuto “fino all’estremo” (Gv 13,1).

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