Il boomerang dei migranti
di Luigi Manconi
in “la Repubblica” del 3 febbraio 2025
Vent’anni fa Antonio Martino, economista e politico liberale e liberista, mi diceva: «Gli Stati Uniti
sono diventati grandi grazie al contributo della forza lavoro immigrata.
E, ricorda, si trattava in buona parte di forza lavoro irregolare. Ir-re-go-la-re!»
E se quello che appare oggi come il maggiore punto di forza delle destre di tutto il mondo — la
questione delle migrazioni — si traducesse con il tempo nel motivo di loro più acuta debolezza?
Notizie provenienti dalla Corte di Appello di Roma e dal parlamento tedesco, ma anche dalla stessa
America trumpiana, sembrano confermare una simile ipotesi. Il fenomeno delle migrazioni è
enorme, ed enormemente complesso, e richiede risposte altrettanto complesse, provvedimenti
razionali e strategie intelligenti. Al contrario, i programmi delle destre sono, palesemente, semplici.
E pur se suggestivi e ad alto tasso di manipolazione, si rivelano semplicistici fino alla rozzezza; e
cominciano già a manifestare le prime crepe.
Le foto pubblicate sul sito della Casa Bianca di migranti con i ceppi e incatenati alla vita
costituiscono la sordida icona del cattivismo più conformista, ma sembrano un manifesto ideologico
piuttosto che un credibile programma politico. Questo mentre, qualche giorno fa, il Financial Times
scriveva che il progetto di espulsione di undici milioni di stranieri irregolari richiederebbe dieci anni
di tempo e una spesa complessiva di mille miliardi.
Ma parliamo di noi. Il protocollo Albania sembra ispirarsi a quel meccanismo psichico che le
discipline della mente definiscono rimozione.
Il processo, cioè, che trasferisce altrove — nell’inconscio — pulsioni, angosce e fobie; e che si
realizza attraverso la sottrazione allo sguardo e, dunque, alla consapevolezza di ciò che è fattore di
inquietudine e ansia. Ecco, il nascondimento dei migranti fuori dai confini nazionali e dentro galere
etniche risponde a questa esigenza di occultare il «perturbante» (Freud).
Ma perché possa essere efficace, un simile progetto deve attuarsi all’interno di un sistema
istituzionale tutto all’insegna di quello stesso nascondimento.
Cosa non possibile in uno Stato di diritto quale tuttora, nonostante le insidie subite, è l’Italia. E in
questo Stato di diritto la divisione dei poteri resiste e quello giudiziario — oggi la Corte di Appello
di Roma — continua a fare la sua parte.
In Germania il tentativo di creare una intesa tra il centro conservatore e la destra neo-nazista ha
fatto un pericoloso passo avanti, salvo poi arrestarsi.
Credo che in ciò abbia avuto un ruolo importante il «fattore umano»: un soprassalto emotivo che,
dalle manifestazioni di piazza alle parole della ex cancelliera Angela Merkel, ha attraverso una parte
significativa dell’opinione pubblica.
Una politica migratoria più autoritaria e un accordo parlamentare con chiunque volesse sostenerla
volevano rappresentare, ancora una volta, la risposta semplice a un problema complesso, reso
ancora più arduo dal peso irriducibile della memoria collettiva.
Lì, centri d’accoglienza, centri per il rimpatrio, centri di detenzione evocano ancora fosche
assonanze storiche e richiamano spettri tuttora minacciosi.
Paradossalmente, dunque, il «passato che non passa» può manifestarsi come nuova vitalità di una
coscienza comune scossa, indebolita e lacerata e, tuttavia, resistente.
Ripeto, si tratta di incrinature e di brecce in un impianto ideologico e politico reazionario che
procede, si estende e, soprattutto, allarga i propri consensi: ma quei primi segnali di debolezza
vanno osservati con attenzione e — ecco il compito di una politica non subalterna — valorizzati e
approfonditi.
La funzione demagogico-propagandistica delle iniziative anti-migranti delle destre è sicuramente
potente, efficace nel breve periodo e assai remunerativa sul piano elettorale.
Ma quando il progetto trumpiano di «espellere undici milioni di clandestini» si scontrerà con il
ruvido dato dell’altissima percentuale di irregolari nell’agricoltura statunitense (oltre il 50 per
cento), che cosa accadrà?
E un ragionamento simile può essere fatto, in Italia, per la nostra agricoltura (circa il 25 per cento di
irregolari) e per segmenti importanti del settore manifatturiero e siderurgico, dei servizi, della
ristorazione e della cura della persona (oltre la metà «in nero»).
E quando l’indecente peregrinazione coatta dei richiedenti asilo tra il Nord Africa e Lampedusa e
tra Lampedusa e l’Albania e tra l’Albania e l’Italia avrà rivelato tutta la sua crudele vacuità,
sopravviverà qualcosa del «Piano Mattei» e della guerra agli scafisti «lungo tutto il globo
terracqueo»?
Per non dire di quel fantasmatico blocco navale che tanto priapismo xenofobo ha suscitato negli
angoli più oscuri della società italiana.
Sia chiaro: non c’è nulla per cui essere ottimisti, ma sarebbe un grave errore pensare che tutto sia
perduto. C’è molto, moltissimo, da fare.
Innanzitutto in chiave difensiva: non vanno tollerati alcun sopruso, alcuna forzatura normativa,
alcuna violazione dei diritti fondamentali.
E, poi, va costruita pazientemente una strategia alternativa che non conceda nulla all’ideologia
dell’avversario (per capirci: nessuna riedizione dello sciagurato memorandum con la Libia!) e che
sia capace di elaborare un piano economico sociale per la convivenza tra residenti e nuovi arrivati,
di regolarizzare gli irregolari (sul modello delle «grandi sanatorie» volute da Silvio Berlusconi nel
2002 e nel 2009) e di operare per una società la cui cultura e la cui identità non vengano cancellate,
bensì arricchite dal confronto con altre e nuove culture e identità.
Vent’anni fa Antonio Martino, economista e politico liberale e liberista, mi diceva: «Gli Stati Uniti
sono diventati grandi grazie al contributo della forza lavoro immigrata.
E, ricorda, si trattava in buona parte di forza lavoro irregolare. Ir-re-go-la-re!»