può il cristianesimo essere considerato una religione? quale teologia per il futuro

Quali compiti per la teologia del XXI secolo?

quali compiti per la teologia del XXI secolo?

 da: Adista Documenti n° 22 del 12/06/2021

 

la religione che non c’è

 da: Adista Documenti n° 22 del 12/06/2021

Gesù non ha fondato una religione: «ha proclamato e inaugurato il regno di Dio sulla terra. Il Regno di Dio non è un regno religioso, è un rinnovamento dell’intera umanità, realizzazione che cambia il senso della storia umana». In questa prospettiva, la teologia oggi deve aiutare a conoscere «il vero vangelo», distinguendolo da ciò che è stato aggiunto in un secondo tempo, per arrivare alla vera fede. Lo afferma il teologo belga José Comblin, già docente di teologia in Ecuador, Cile e Brasile, in una relazione tenuta a Santiago (Cile) durante le Giornate teologiche latinoamericane del 2009 – due anni prima della sua morte e pubblicata su Redes Cristianas l’8 maggio scorso.

Il nostro punto di partenza sarà la distinzione tra religione e vangelo. Il cristianesimo non è originariamente una religione e Gesù non ha fondato nessuna religione. Successivamente i cristiani hanno fondato la religione cristiana, che è una creazione umana e non divina. La religione è il prodotto della cultura umana. Esiste una grande varietà di religioni e tutte hanno la stessa struttura, sebbene molto diverse nella loro forma esteriore. Hanno tutti una mitologia, un culto e una classe dedicata al loro esercizio. In questo la religione cristiana non è diversa dalle altre. È anch’essa una creazione umana, prodotto di varie culture. La religione è una realtà fondamentale dell’esistenza umana. Pone il problema del significato della vita su questa terra, il problema dei valori, il posto dell’essere umano nell’universo e il problema della salvezza da tutti i suoi mali di questo mondo.   

La religione è stata ampiamente studiata dall’antropologia religiosa, dalla sociologia religiosa, dalla psicologia religiosa, dalla storia delle religioni. Tutto questo riguarda anche la religione cristiana. Essendo una creazione umana, la religione cristiana è cambiata e potrebbe ancora cambiare in futuro in base ai cambiamenti nella storia.    Questa è anche una delle grandi sfide del tempo presente, perché la religione cristiana è esaurita e non offre alcuna risposta all’orientamento della cultura odierna, tranne resti di passato.     Il vangelo di Gesù non è una religione. Gesù non ha fondato nessuna religione: non ha proclamato una dottrina religiosa o una mitologia, nessun discorso su Dio, non ha fondato nessun culto e non ha fondato nessuna classe clericale. Gesù ha proclamato e inaugurato il regno di Dio sulla terra. Il Regno di Dio non è un regno religioso, è un rinnovamento dell’intera umanità, realizzazione che cambia il senso della storia umana, aprendo una nuova epoca, l’ultima. È un messaggio per tutta l’umanità in tutte le sue culture e religioni. Si potrebbe dire che è un messaggio e una storia meta- politica. Poiché gli esseri umani non possono vivere senza religione, i discepoli di Cristo per 2000 anni hanno costruito una religione che era come il rivestimento del messaggio cristiano, con il pericolo di trasformare il cristianesimo in una religione. Il rivestimento religioso può nascondere il messaggio del vangelo o può guidare questo messaggio secondo l’evoluzione della storia. In molti casi la religione ha occultato il Vangelo. I cristiani hanno enunciato una dottrina usando molti elementi del giudaismo o delle religioni non cristiane né ebraiche, hanno creato un culto di uguale ispirazione e un intero sistema legale che inquadra un’istituzione molto complessa.     Possiamo affermare che la storia del cristianesimo è la storia di una tensione o di un conflitto tra religione e vangelo, tra una tendenza umana verso la religione e le voci o le vite di coloro che volevano vivere secondo il vangelo.   Le religioni sono conservatrici e trasmettono la fede in un mondo permanente in cui tutto riceve una spiegazione religiosa. La religione cambia inconsciamente, ma resiste a qualsiasi richiesta di cambiamento volontario. Molti cristiani e molte strutture cristiane lottano inconsapevolmente contro il Vangelo. C’è del vero in ciò che affermò Charles Maurras, un ateo francese del secolo scorso, quando disse che si congratulava con la religione romana per aver eliminato dal cristianesimo tutto il veleno del Vangelo. È un po’ esagerato, ma certamente suggestivo.      Il vangelo è cambiamento, movimento, libertà. Non può accettare il mondo che esiste, deve cambiarlo. Il vangelo è conflitto tra ricchi e poveri. All’interno della religione, ricchi e poveri fanno parte dell’armonia generale. Sono così perché deve essere così, sebbene i ricchi debbano aiutare i poveri ma senza cambiare la struttura creata da Dio o dai sostituti di Dio. La religione vuole la pace, sebbene in alleanza con i potenti. Il vangelo vuole il conflitto.     Il compito della teologia è mostrare la distinzione, individuare da un lato quello che è vangelo e dall’altro tutto quello che è stato aggiunto e che può o deve cambiare per essere fedele a quel vangelo. È liberare il vangelo dalla religione. La religione è buona se aiuta a cercare il Vangelo e a non dimenticarlo sotto il rivestimento religioso. Essa è una necessità umana, ma deve essere indagata e corretta.     La teologia è al servizio del popolo cristiano o anche non cristiano, affinché conosca il vero vangelo e possa arrivare alla vera fede e non a un sentimento religioso.     Per secoli la teologia è stata al servizio dell’istituzione per difenderla dalle eresie o dai nemici della Chiesa. Così è stato dopo il Concilio di Trento fino al XX secolo e in molte regioni fino al Vaticano II. È stato apologetico, arma intellettuale nella lotta contro le Chiese riformate e tutta la modernità, al servizio della gerarchia. In un certo senso, era un’arma diretta contro i laici perché non fossero sedotti dai nemici della Chiesa.   Fino al Concilio di Trento, la teologia era un commentario alla Bibbia, libera, aperta a tutti, come lavoro intellettuale gratuito. La Riforma è partita da teologi, e allora la teologia passò sotto lo stretto controllo della gerarchia.

anche la chiesa e la sua teologia hanno bisogno di una rifondazione?

CHE NE SARA’ DELLA CHIESA SENZA UNA NUOVA TEOLOGIA?

di Augusto Cavadi

 
è urgente anche, e per certi versi prioritariamente, una rivoluzione mentale. Nessuna riforma ecclesiale sarà incisiva e duratura senza una riforma del pensiero, del modo di concepire Dio e il mondo. Insomma: senza una nuova teologia

Ciò che leggiamo nel Vangelo secondo Luca (2,34- 35) a proposito di Gesù (“segno di contraddizione, perché siano svelati i pensieri di molti cuori”) lo possiamo ripetere per ogni “spada che trafigge l’anima” (ivi) dell’umanità, come la pandemia in corso nel mondo. Nell’ordinarietà del quotidiano possiamo procedere ambiguamente, in una sorta di zona grigia fra incredulità e fede, rimandando a data da destinarsi le domande cruciali sulla vita e sulla morte: ma, quando alcune calamità ci colpiscono più direttamente e più insistentemente, siamo costretti a sbilanciarci. Se non col pensiero, almeno nei fatti: con i gesti, i comportamenti privati e pubblici. Abbiamo assistito così, in questi mesi, alla divaricazione più netta delle correnti compresenti nel vasto mondo della cattolicità. Negli ambienti conservatori, tradizionalisti (le cui opinioni – espresse per esempio negli articoli di “Corrispondenza romana” – riesco a seguire solo per dovere di informazione), è stato un tripudio di suppliche, rosari, novene, processioni più o meno clandestine, benedizioni impartite per via aerea da elicotteri appositamente noleggiati… Gli ambienti più inquieti, più critici, sono stati spiazzati da questa sorta di “rivincita” del sacro che è apparsa come un salto indietro di alcuni secoli nella storia della devozione cattolica. Troppo ovvia la domanda: se Dio può fermare l’epidemia, perché aspetta le nostre preghiere per agire? Ha forse bisogno del sacrificio di migliaia di uomini e donne prima di muoversi a pietà? Nel mezzo, per così dire, Papa Francesco: se la scena di questo vecchio che avanza claudicante, sotto la pioggia sferzante, in una piazza San Pietro deserta, ha senza dubbio impressionato l’immaginario collettivo, non si può negare che per alcuni di noi il suo pellegrinaggio ad un’icona della Madonna per chiedere la fine dell’epidemia è risultato sconcertante. Questo scenario ci suggerisce molte riflessioni di cui posso qui evocarne solo qualcuna. Che ne sarà della Chiesa di papa Bergoglio? Ad ogni enciclica, ad ogni sinodo, ad ogni omelia siamo costretti a constatare che il bicchiere è mezzo pieno e mezzo vuoto: un passo avanti e uno indietro, un passo a sinistra e uno a destra, un saltello in alto e una flessione in basso. Ci siamo ripetuti a vicenda che da solo un papa non può riformare una Chiesa e che c’è bisogno di un movimento dal basso che lo sostenga e lo solleciti. Vero. Ma questo movimento dal basso che strumenti deve mettere in atto? Raccogliere firme, organizzare cortei, promuovere convegni, convocare assemblee, scrivere sui quotidiani, esprimersi sui social network…tutto giusto. Ma anche sufficiente? Non so se per deformazione professionale, ma mi sento obbligato a precisare che è urgente anche, e per certi versi prioritariamente, una rivoluzione mentale. Nessuna riforma ecclesiale sarà incisiva e duratura senza una riforma del pensiero, del modo di concepire Dio e il mondo. Insomma: senza una nuova teologia. E qui casca l’asino. Per quanto ne posso capire, papa Francesco e i suoi sostenitori sono indeboliti da un patrimonio intellettuale appartenente a un ‘paradigma’ (direbbe Küng seguendo Fayerabend) ormai insostenibile. Il Dio della Bibbia e della tradizione teologica occidentale è troppo antropomorfico per reggere l’urto dell’evoluzionismo darwiniano, della fisica quantistica e delle nuove teorie cosmologiche; il Cristo della devozione tradizionale è molto più vicino al pantocratore delle cattedrali normanne della mia Sicilia che al Gesù dei vangeli; la Chiesa cattolica è troppo simile all’impero romano d’occidente che alla famiglia dei discepoli erranti per il mondo, dotati solo di un bastone e di una bisaccia. Con questa visione teologica complessiva, mi pare non si vada molto lontano. In Italia la maggior parte dei teologi sembra non avvertire neppure le colossali dimensioni di questa problematica: tranne poche eccezioni (tra cui Carlo Molari, Cosimo Scordato, Vito Mancuso), sono solo alcuni biblisti (come Ortensio da Spinetoli, Franco Barbero e Alberto Maggi) a ricercare nuove prospettive sul divino. In occasione di questa pandemia, su iniziativa di don Paolo Scquizzato, è uscito un volume (La goccia che fa traboccare il vaso. La preghiera nella grande prova) che – pur nella varietà dei punti di vista – procede in questa direzione. Per fortuna ci sono nel mondo – cattolico e soprattutto protestante – dei ricercatori più coraggiosi come il gesuita Roger Lenaers (autore, tra l’altro, di Cristiani nel XXI secolo? Una rilettura radicale del credo) o il Vescovo episcopaliano John Shelby Spong (autore, tra l’altro, di Perché il cristianesimo deve cambiare o morire) che avanzano critiche radicali a quella impostazione che – non so quanto felicemente – definiscono ‘teismo’. Di questi tentativi non sapremmo nulla se l’agenzia di stampa “Adista” non ce ne parlasse spesso e se studiosi come don Ferdinando Sudati e Claudia Fanti non avessero pubblicato in italiano libri come cavad, Il cosmo come rivelazione, Una spiritualità oltre il mito. Personalmente sono convinto che questi studi sono più convincenti nella pars destruens che nella pars construens : ma se non si fanno ipotesi, se non ci si confronta creativamente e liberamente, si resta muti. La ‘destra’ cattolica ha duemila anni di volumi (dagli apologisti del II secolo a Joseph Ratzinger) cui attingere per riproporre la solita minestra (che l’opinione pubblica istruita tende a rifiutare sempre più diffusamente): gli altri abbiamo troppo poco in mano e dobbiamo darci da fare. Cioè: da pensare, da discutere, da scrivere, da divulgare.

di Augusto Cavadi, 27 Giugno 2020, www.zerozeronews.it

in morte di Hans Kung un teologo libero a servizio del vangelo

E’ MORTO HANS KUNG, UN GRANDE TEOLOGO
LIBERO E IMPERTINENTE. A SERVIZIO DEL VANGELO
un ricordo di Daniele Rocchetti
Ricordo la prima volta che lo incontrai. Ero a Gerusalemme con don Roberto Pennati, A quel tempo si potevano ancora visitare internamente gli edifici sulla Spianata. Don Roberto ed io riconoscemmo Kung dentro la magnifica Cupola della Roccia. Ci salutammo e uscimmo fuori insieme. In un perfetto italiano, ci parlò a lungo del suo sogno di Chiesa e terminò la chiacchierata raccontandoci una barzelletta. Impertinente.
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Anni fa – poco prima che terminasse il pontificato di Giovanni Paolo II – memore di quell’incontro gli chiesi un’intervista che mi accordò subito e che allego qui sotto. Un dialogo che bene racconta la prospettiva con cui il teologo svizzero – otto volte dottore honoris causa, insignito del premio Karl Barth dall’Unione delle Chiese evangeliche di Germania – ha interpretato il suo impegno a servizio della Chiesa.
Una postilla. Nella redazione della rivista dove lavoravo, discutemmo a lungo se pubblicare o meno l’intervista. Alla fine per prudenza decidemmo di soprassedere. Avevamo già avuto “richiami” e non volevamo prestare il fianco ad ulteriori problemi. Era il “clima” che spirava nella Chiesa di allora.
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Hans Küng è , certamente, uno dei teologi cattolici più conosciuti e discussi. Perito conciliare al Vaticano II, uomo di punta della teologia tedesca, autore di una serie di testi che, agli inizi degli anni settanta, avviano, a volte polemicamente, una riflessione all’interno della comunità cristiana. Le sue posizioni sui temi della morale sessuale, il celibato dei preti, il ruolo del papa, hanno fanno molto discutere e lo hanno portato a continui scontri con la gerarchia. Il caso diventa pubblico nel 1979 quando gli viene revocata la possibilità di insegnare come teologo cattolico in una facoltà teologica; nel medesimo anno l’Università di Tübinga procede a nominarlo professore ordinario, indipendente da una facoltà, di teologia ecumenica e a riconfermarlo con lo stesso status accademico alla direzione dell’Istituto per la ricerca ecumenica – a sua volta scorporato dalla Facoltà cattolica di teologia. Questo gli ha permesso di lavorare alacremente sui temi dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso. Finito a non molto tempo fa, nonostante l’età, Küng ha continuato a muoversi da un capo all’altro del mondo per portare il suo messaggio di pace tra le religioni. Il ruolo di promotore di un’”etica mondiale” è quello che oggi più lo caratterizza, senza per questo trascurare altri argomenti scottanti, dall’azione pastorale della Chiesa alla morale sessuale, con prese di posizione che continuano a fare di lui un personaggio controverso.
Sono passati molti anni dalla morte di Papa Giovanni XXIII: che ricordo ne ha? Cosa ha rappresentato per la chiesa e per il mondo?
A mio avviso, Giovanni XXIII è stato il papa più significativo del ventesimo secolo, il solo che il popolo cattolico aveva già da tempo beatificato senza bisogno delle prove dei miracoli. Con lui si è inaugurata una nuova stagione nella storia della chiesa cattolica. E’ Giovanni XXIII, nonostante la forte resistenza della curia romana, ad aprire la chiesa, ancora arroccata nel paradigma medievale controriformistico e anti-moderno, verso la via dell’aggiornamento, verso una proclamazione del Vangelo al passo con i tempi, verso una comprensione con le altre chiese cristiane, con l’ebraismo e con le altre religioni mondiali, verso un contatto con i paesi dell’Est, verso una giustizia sociale internazionale (pensi all’enciclica Mater et Magistra del 1961) e verso l’apertura al mondo moderno e all’affermazioni dei diritti umani (la Pacem in Terris del 1963). Con la sua condotta collegiale, papa Roncalli ha rafforzato il ruolo dei vescovi manifestando una nuova percezione pastorale dell’ufficio papale.
Lei ha partecipato come teologo – perito al Concilio Vaticano II. L’assise conciliare quale via ha aperto alla chiesa? Quali sono gli elementi di novità?
Certamente l’atto più significativo del pontificato di Giovanni XXIII è stato l’annuncio – il 25 gennaio del 1959 – del Concilio Vaticano II. Fu un atto che sorprese la chiesa e il mondo intero. Come ho scritto nel mio libro pubblicato da Rizzoli nel 2001 (La chiesa cattolica. Una breve storia.) è stato un punto di svolta decisivo. Con il Vaticano II, il cattolicesimo – malgrado tutte le difficoltà poste dal medievale sistema romano – ha tentato di ripercorrere i mutamenti di paradigma in una volta sola: ha infatti integrato fondamentali aspetti sia del paradigma riformatore, sia di quello illuministico e moderno.
Cosa ha voluto dire concretamente?
Vuol dire che il Concilio, integrando il paradigma riformatore, ha riconosciuto, per la prima volta, la complicità cattolica nella separazione della chiesa il bisogno sempre costante di riforme. Una volta si diceva “Ecclesia sempre reformanda”: occorreva cioè un costante rinnovamento nella vita e nella dottrina della chiesa secondo il Vangelo. Con il Concilio Vaticano II questo è diventato un principio anche per la chiesa cattolica. Non solo: con l’assise conciliare, le altre confessioni cristiane sono state finalmente riconosciute come chiese. Inoltre, sono state prese in considerazione una serie di centrali istanze evangeliche. Almeno in principio, ma spesso anche in termini pratici: un nuovo rispetto per la Bibbia nella liturgia, nella teologia e nella vita sia della chiesa che dei singoli credenti; l’introduzione della lingua volgare nella liturgia e una riforma della celebrazione eucaristica più legata alla comunità. Pensi anche alla rivalutazione dei laici, attraverso l’ammissione agli studi di teologia e alla formazione dei consigli parrocchiali e diocesani; all’importanza delle chiese locali e delle conferenze episcopali nazionali.
Per quanto riguarda il paradigma moderno?
Anche in questo caso i passi in avanti – almeno sulla carta – sono stati parecchi. Con il Vaticano II si è avuta una chiara affermazione della libertà di religione e di coscienza oltre che dei diritti umani in generale; un positivo cambio d’atteggiamento nei confronti dell’ebraismo e delle altre religioni al punto da riconoscere che la salvezza è possibile anche fuori dal cristianesimo, persino per gli atei e per gli agnostici, se essi agiscono in accordo con le loro coscienze. Inoltre, si è registrato un nuovo e positivo atteggiamento nei confronti del progresso moderno, a lungo condannato, e verso il mondo secolare, soprattutto per la scienza e la democrazia. E’ chiaro che tutto questo ha coinvolto profondamente la percezione della chiesa stessa. Il Concilio ha definitivamente chiuso con quel modello di chiesa intesa come una sorta di impero sovrannaturale che era rimasto intatto dall’XI secolo. In quel modello, il papa era posto al vertice come un sovrano assoluto a cui seguiva poi l’ “aristocrazia” dei vescovi e dei preti e infine – relegato ad una funzione del tutto passiva – il popolo dei credenti. Si voleva superare questa immagine di chiesa clericalizzata e trionfalistica per giungere all’immagine di “popolo di Dio”, comunità di credenti costantemente in cammino nel mondo. In questo modo si sono richiamate verità ignorate per secoli: coloro che ricoprono uffici ecclesiastici non sono sopra del popolo di Dio, bensì al suo interno. Essi non sono governanti ma servi!
Qualcosa però non ha funzionato del tutto.. Quali sono, a suo avviso, i punti di arresto della chiesa contemporanea rispetto alle indicazioni conciliari?
Non dico nulla di nuovo sostenendo che, sin dall’inizio, la macchina della curia fece tutto ciò che poteva per tenere sotto controllo il Concilio, avviando una lotta costante con i padri conciliari, la cui maggioranza – solida del resto – era progressista. La morte di Giovanni XXIII peggiorò alquanto la situazione e nei lavori si giunse spesso a forme di compromesso che impedirono un reale e radicale rinnovamento. Molte questioni furono accantonate: un nuovo ordine per la nomina dei vescovi, la riforma della curia e, soprattutto, del papato stesso. Addirittura, con la fine del Concilio assistemmo tutti ad una vera e propria restaurazione. Nonostante alcune concessioni, il rinnovamento si è fermato, al punto che molti parlano – e giustamente, a mio avviso – di “tradimento” del Concilio. Un tradimento che, in tutto il mondo, ha alienato una massa crescente di cattolici dalla chiesa. In poche battute: al posto delle parole programmatiche conciliari, vi sono le parole di un magistero spesso conservatore e autoritario; al posto dell’ “aggiornamento” nello spirito del Vangelo vi è una nuovamente una “dottrina cattolica” tradizionale e integrale (rigorose encicliche sulla morale, un catechismo tradizionale): al posto di una “collegialità” del papa con i vescovi vi è nuovamente un centralismo romano che, nella nomina dei vescovi e nell’assegnazione delle cattedre teologiche, pone se stesso al di sopra degli interessi delle chiese locali. Non solo: invece del “dialogo” vi è un rafforzamento del sistema inquisitoriale e un rifiuto della libertà di coscienza e di insegnamento all’interno della chiesa; invece dell’ “ecumenismo” si pone l’accento su tutto ciò che è romano-cattolico…
Da tempo, lei sta lavorando attorno al progetto di un’etica mondiale. Cosa vuol dire e cosa rappresenta?
Bisogna precisare, anzitutto, che un’etica mondiale non significa l’unità di tutte le religioni. Sarebbe, naturalmente, illusorio. Non significa neanche una “superstruttura” che comprenda tutte le religioni e nemmeno un sistema etico preciso alla stregua di quelli elaborati da Aristotele, Tommaso d’Aquino o Kant. Significa, semplicemente, che – come dicono le più grandi tradizioni religiose e filosofiche dell’umanità – alcuni standard e valori elementari ed etici dovrebbero oggi essere condivisi da tutte le persone. Penso, ad esempio, alle “regole d’oro”. “Chiunque tu sia, uomo o donna, bianco o nero, ricco o povero, giovane o vecchio, devi essere trattato umanamente, non in modo inumano, bestiale”. O a quella di antica tradizione, che risale fino a Confucio: “Non fare agli altri ciò che non vuoi che gli altri facciano a te”. Il Vangelo va ancora oltre, dicendo: “Fa agli altri ciò che vuoi che gli altri facciano a te”, “Se uno ti costringe a fare un miglio, fanne due”. Da tutti questi, derivano, evidentemente, i più comprensibili imperativi dell’umanità: non assassinare, non mentire, non rubare, non abusare del sesso.
Nonostante l’attuale stagnazione del dialogo ecumenico, i cristiani non potranno fare a meno di ritrovarsi insieme. Lei parla spesso di “diversità riconciliata”. Cosa vuole dire?
Qui non funziona l’idea di una chiesa unitaria o il “rientro” di tutte le altre confessioni cristiane nella chiesa cattolica. Chi la pensa in questo modo, si è opposto duramente al Vaticano II. Vedo però, dal punto di vista ecumenico, un lento crescere assieme. Sia nella base che nei vertici. In fondo, l’eredità del Concilio è stata anche la moltiplicazione di commissioni di lavoro dove si è incominciato a parlarsi e a riconoscere il valore della diversità. Certo, le resistenze sono ancora tante. Però malgrado l’attuale “depressione ecumenica” io nutro la fondata speranza che la cristianità troverà presto la strada verso un paradigma ecumenico. Per le nuove confessioni, il tempo del confessionalismo è finalmente passato. Ho scritto e detto più volte che una cristianità uniforme non è né probabile né desiderabile. Ma dopo l’abolizione di tutte le scomuniche reciproche, verrà un tempo non più caratterizzato da tre confessioni antagoniste (ortodossa, cattolica, evangelica) ma solo da tre attitudini di base complementari.
Cosa ha voluto dire per lei essere fedele alla Chiesa cattolica?
Vorrei dirle, anzitutto, che mi sono sempre sentito un prete e un teologo cattolico. Sia la gente che gli studenti dell’università mi considerano tale, anche se i vescovi, per paura di Roma, non lo ammettono. Sono invitato in tutto il mondo da istituzioni cattoliche, anche se, dal 1979, la Congregazione per la dottrina della fede e il Papa affermarono senza mezzi termini che “non potevo più insegnare teologia e non potevo più venire considerato un teologo cattolico”. Avevo messo in discussione i dogmi relativi al ruolo del Pontefice e alla gerarchia della Chiesa e sognavo (ma questo lo sogno ancora) una chiesa più vicina al Vangelo e più disposta alla riforma…
Lei conosce molto bene l’Islam. Oggi sono in molti a sostenere il pericolo di una deriva fondamentalista di questa religione. Lo ritiene possibile?
In tutte le religioni, anche nel cattolicesimo, esistono tendenze che spingono ad una deriva più radicale della fede. Lo stesso termine fondamentalismo è nato nel mondo evangelico americano agli inizi del secolo scorso. Personalmente, per quanto riguarda l’Islam, spero che vinca la tendenza di un mondo musulmano che dà grande peso alla religione ma, insieme, vuole la democrazia e la tolleranza.. Nel mondo musulmano, anche se non sempre ce ne accorgiamo, si stanno facendo progressi, pure a riguardo della condizione della donna. Ho molti contatti con personalità del mondo islamico e nessuna di queste si è mai espressa a favore dello “scontro di civiltà” e all’uso della religione come strumento di affermazione politica… Il contrario di quanto avviene, ad esempio, in alcune parti del mondo occidentale. Per questo sono stato contentissimo che il Papa si sia pronunciato contro la politica di guerra americana.
Daniele Rocchetti

l’insegnamento di Armido Rizzi

la teologia di Armido Rizzi

una tradizione da pensare “in prima persona”

 

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Che cosa ci ha insegnato, Armido, con la sua presenza così forte e così viva nella cultura cattolica degli ultimi 50 anni? Ora, poiché da ieri pomeriggio la sua parola ci ha lasciato, dobbiamo chiedercelo con urgenza rinnovata e pressante. Molti di noi hanno imparato da lui una dirittura intellettuale e una freschezza di pensiero che sempre sorprendeva. Proviamo a rievocarla brevemente.

Anzitutto Armido Rizzi non era soltanto una delle voci della nascente teologia italiana – che si sviluppava intorno al e dal Concilio Vaticano II – ma era prima di tutto la sua voce. Chi non ha mai ascoltato Armido parlare non lo ritrova pienamente nei suoi libri. I quali mancano, appunto come tutti i libri, della sua voce. Quella voce, in apparenza così esile e quasi fragile, sottile, era in realtà un vulcano di energia, di forza, di acume, di potenza. Quanto stupore nell’ascoltare la sua voce, che prendeva la parola sempre in modo sommesso e circostanziato, per poi infiammarsi, alzarsi, accelerare, vibrare.

A Fiesole, dove fissò la sua attività per molti anni, sono stato alcune volte per partecipare alle riunioni della rivista Filosofia e Teologia, che radunava la sua redazione anche a Pisa, o a Bologna, o a Firenze. Ma anche nei Convegni dell’ATI Armido era presente e attivo. Sempre con la sua vigile commistione di pensiero filosofico e teologico. E in entrambi i campi portava, con una freschezza inimitabile, una istanza che potrei definire così: sulla scorta della grande tradizione ebraica e cristiana, occorreva rinnovare la possibilità di una “obbedienza di fede” che fosse autentica, correlata in radice alla libertà dell’uomo. Per questo, e lo ricordo con una evidenza davvero impressionante, i suoi interventi tanto in campo filosofico quanto in ambito teologico spesso mettevano in crisi un modo di “pensare secondo autorità” che lui riteneva del tutto inadeguato. Assumere le questioni “in prima persona” era la sua strada. Non era sufficiente presentare le diverse posizioni in gioco: occorreva “pensare da sé”. E questo è stato un magistero salutare, per tanti filosofi e teologi che lo hanno potuto incrociare.

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Armido era del 1933. Con tanti altri di quegli anni 30 ha di fatto costruito lo spazio di una cultura teologica italiana. Molti come lui hanno concluso la loro vicenda storica, mentre altri restano attivi ed anche vivaci. Ciò che ha caratterizzato in suo contributo specifico, in questo disegno complessivo, è stato un “lavoro di base” in cui la vocazione inevitabilmente non accademica non aveva nulla di meno fine e di meno curato rispetto a quella: anzi, egli elaborava forme di riflessione originale, collegando più strettamente tradizione classica e cultura contemporanea. Per più di 50 anni Armido ha lavorato sulla “inculturazione” e sulla “ermeneutica” nei campi più diversi, in cristologia come in etica, in teologia fondamentale come in spiritualità. Era un uomo di corpo esile e di mente possente, con una finezza e una precisione davvero rare. Ma se lo trovavi a prendere il caffè, al bar, scoprivi che riempiva la tazzina di un numero quasi sterminato di cucchiaini di zucchero. Se invece la sera, durante un convegno teologico, capitava una partita del Torino, potevi vederlo fare chilometri pur di raggiungere un televisore e seguirla con agitata passione tifosa.

Due generazioni di teologi italiani hanno imparato da Armido il gesto rigoroso e forte della tradizione che deve camminare, deve andare avanti, deve ascoltare i segni dei tempi, deve includere e non escludere. E che può farlo solo se siamo in grado di farla nostra fino in fondo. Per questo una parte non piccola del suo lavoro è stato anche quello di accurato traduttore. Molti libri tedeschi o francesi sono entrati nella cultura italiano parlando l’italiano bello di Armido. Ricordo, per fare solo un esempio, il grande libro “Simbolo e sacramento” di L.- M. Chauvet.

Nel far memoria di questo suo magistero “all’antica”, che poteva spaziare con libertà dalla filosofia alla teologia, dalla competenza biblica a quella sistematica, riconosciamo che Armido ci ha dato le parole, lo stile, la forza e lo slancio per continuare ad alimentare la grande tradizione teologica. Gli siamo grati di tutto cuore. E ne conserviamo con meticolosa precisione la raffinata composizione di due istanze che sembrano incompatibili, e che Armido, in sintesi, formulava così: l’amore può solo essere comandato; ma solo l’amore può essere comandato. Dare parole esigenti e convincenti a questo paradosso dell’amore vincolato e liberante è stato per Armido il suo compito, il suo ministero, il suo cruccio e la sua passione. Se lo seguiremo per questa via impervia ma appassionante, non lo avremo perso, ma lo ritroveremo serio e vivace, nella luce delle sue parole e nella energia della sua voce.

il vangelo letto da una roulotte tra i rom – la teologa Cristina Simonelli

guardare il Vangelo dalle periferie.

la scelta di vivere in roulotte con i Rom

a proposito di Vangelo, di centro e di periferia


Daniele Rocchetti

Per più di dieci anni ci siamo incontrati quasi ogni giovedì mattina per la redazione di Evangelizzare, allora una delle riviste di catechesi più significative. Ci era stata presentata come patrologa, studiosa e conoscitrice dei Padri della Chiesa, ma subito ci siamo accorti che le piacevano le incursioni sui temi di attualità ecclesiale. Ogni volta con uno sguardo acuto e divergente, mai scontato.
Sto parlando di Cristina Simonelli, dal 2013 presidente del Coordinamento delle Teologhe Italiane e docente di Storia della Chiesa e Teologia Patristica in diverse Istituti e Facoltà Teologiche. Con Cristina, dopo la fine della nostra comune avventura editoriale, ci siamo rivisti qualche volta: a Molte Fedi, per una meditatio a Fontanella, e a Bose, in un paio di convegni di spiritualità. Ho letto con piacere il bellissimo articolo che ha scritto sull’ultimo numero di “Donne Chiesa Mondo”, l’inserto dell’Osservatore Romano, dove racconta, da par suo, i suoi trentacinque anni di condivisione profonda con donne e uomini sinti-rom.

Mettere alla prova il Vangelo nelle frontiere

“Sono entrata in un campo rom a 20 anni, un po’ per caso e un po’ per sfida, e ci sono rimasta 35 anni. Volevo mettere alla prova il Vangelo, nelle sue frontiere: perché se funziona lì allora funziona anche al centro, pensai. Quando lo dissi a mio padre, lui mi rispose: «Se Dio non esiste, voi siete perduti»: io perduta non mi sono sentita mai.

E’ il racconto di una vita di una ragazza degli anni Settanta,

“asimmetrica, terzomondista, resistente e di quel femminismo respirato per cui ritenevo di non dover essere autorizzata da nessuno”

Trentacinque anni sono una vita, eppure, scrive,

“ho passato quei 35 anni come un giorno, come un’ora di veglia nella notte, citando il salmo. In un lembo di terra in cui, rifatte le mappe, la vita comune è possibile, promessa di più pacifici universi di vita e di pensiero.
Anche le frontiere della comunità ecclesiale avrei voluto abitare permanentemente, perché la chiesa è in se stessa profondità e frontiera, e studiando la storia delle donne mi resi conto che alcune figure femminili partivano corpo a corpo col Vangelo, come se fossero autorizzate dal Vangelo. Quando mi sono chiesta perché, mi sono risposta che alla donna accade ciò che accade alle minoranze, anche se minoranze non sono: ma è la marginalità imposta che le accomuna e tramuta la quantità (siamo maggioranza) in qualità (siamo ritenute secondarie). A volte sembra che le donne, come i rom, siano oggetti che la chiesa tratta e non soggetti ecclesiali con pieni diritti. Non è così: cambiamo l’idea di centro e di periferia e si vedrà che siamo soggetti a pieno titolo”.

I rom, la mia rosa

Certo, quando è partita erano gli anni del dopo Concilio, dell’entusiasmo di una fede che doveva essere “gridata con la vita”, che aveva i perimetri del mondo. Come è accaduto a tanti in quegli anni, Cristina voleva partire per l’Africa, ai rom non ci pensava ancora.

“Li vedevo per strada e mi colpivano per la loro estraneità e quella loro fierezza, ma niente di più. Ora, a chi mi chiede sempre e soltanto questo, la mia vita con i rom, rispondo, come faceva un’amica, con un brano di Saint Exupery: «Certamente un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola è più importante di tutte voi perché è lei che ho innaffiata. Perché è lei che ho messo sotto la campana di vetro. Perché è lei che ho riparato col paravento. Perché su di lei ho ucciso i bruchi. Perché è lei che ho ascoltato lamentarsi e vantarsi o anche qualche volta tacere. Perché è la mia rosa». Sì, loro sono la mia rosa.”

Il principio della mula. Quella di don Abbondio

E dunque la scelta di andare a vivere nel campo rom, ad abitare in una roulotte. Lì a poco a poco matura la scelta di studiare teologia.

“Anche nella teologia, tradizionale dominio maschile, sto bene ma mi sento pure un po’ fuori posto: è un mondo che mi consente di incrociare linguaggi diversi, persino molto stimolante, tanto da apparirmi una sorta di principio euristico, un modo di stare al mondo, di abitare la città e anche la chiesa, secondo il principio della mula: «La mula (…) pareva che facesse per dispetto a tener sempre dalla parte di fuori e a metter proprio le zampe sull’orlo; e don Abbondio vedeva sotto di sé, quasi a perpendicolo, un salto o, come pensava lui, un precipizio. “Anche tu — diceva tra sé alla bestia – hai quel maledetto vizio d’andare a cercare i pericoli, quando c’è tanto   sentiero”».

L’intolleranza e il razzismo coinvolgono anche le Chiese

“Ho calpestato queste terre, ho abitato questi mondi, per comprenderli. E ho condiviso la vita, le nascite, i matrimoni, le difficoltà, i pregiudizi. Sono loro, i rom ma soprattutto le donne, le romnia , le principali vittime della discriminazione; con loro e per loro attraversi un’altra frontiera che è quella del razzismo perché morte le streghe, morto l’antisemitismo, forse, sono rimaste le zingare rapitrici a nutrire le isterie di cui la società ha bisogno e di cui l’alterità interpretata come minacciosa è stata sempre ottima fornitrice. L’intolleranza e il razzismo non sono scomparsi, e coinvolgono anche le chiese.”

Un’idea diversa di centro e di periferia

Finito di leggere l’articolo, mi è tornata alla mente una battuta che mi fece una volta don Tonino Bello quando gli chiesi se non sentiva un vescovo “anomalo”. Mi rispose di no, soggiungendo subito che “bisogna poi vedere che cosa significa essere anomalo. Introdurre in casa i poveri per farli dormire d’inverno, è anomalo per un vescovo, o non è anomalo il contrario?” Come a dire che il Vangelo ha un concetto, diverso dal nostro, di centro e di periferia.
E da dove sei lo leggi e lo comprendi in modo diverso. Ricordiamocelo, noi che solitamente lo leggiamo dal centro e seguendo il buonsenso. Non è l’unico osservatorio e forse neanche il più privilegiato.

una teologa che si è formata tra i rom

Cristina Simonelli
la teologa che ha vissuto con i Rom

Ha scelto di studiare proprio grazie all’esperienza nell’accampamento e ci racconta: “Ho capito che le vite di tutti sono appelli di Dio e insieme aiutano a interrogare il Vangelo”. Per questo nei suoi studi continua a prediligere i “temi scomodi”

“Ultimi chi?” La teologa Cristina Simonelli presidente del Coordinamento teologhe italiane, ha vissuto dal 1976 al 2012 in un campo Rom, prima a Lucca, poi a Verona, e di approcci alla “questione Rom” ne ha incontrati di tutti i tipi. Per questo è molto critica sia verso l’atteggiamento di chiusura, “espresso anche da tanti preti e laici che condividevano quel disprezzo rispetto al quale papa Francesco ha chiesto perdono durante il viaggio in Romania lo scorso giugno”, sia verso il “buonismo”, “estremamente dannoso “, perché ancora una volta ha a che vedere con il guardare dall’alto in basso. “Le persone non vogliono la nostra compassione, ma la sua trascrizione nella simpatia e nella stima “, spiega Simonelli. Al campo non abbiamo mai lavorato “per”, ma sempre “con”, sia che si trattasse di dove posizionare le piazzole, che di questioni sanitarie o scolastiche”.

COMUNITA’ IN ROULOTTE

Cristina ha vissuto in comunità con altre laiche e un prete diocesano, costituendo il “Gruppo ecclesiale veronese fra i Sinti e i Rom”, con mandato del vescovo. In quegli anni e fino a poco tempo fa la pastorale dei Rom in Italia era condotta da un gruppo molto affiatato di uomini e donne, laici, religiosi e preti: tutte persone che vivevano in roulotte, con un referente nazionale (si sono succeduti don Mario Riboldi, don Francesco Cipriani, don Piero Gabella, don Federico Schiavon), pure provenienti dal mondo delle carovane. Era qualcosa di nuovo, di comunitario, ma con alle spalle spiritualità “provate”. “Venivamo da esperienze diverse, io dall’ambiente missionario, altri dal francescanesimo o dalla spiritualità di Charles de Foucauld, ma eravamo stati tutti formati dal concilio Vaticano II e dai movimenti terzomondisti e dell’America Latina. Era una stagione di grande fermento culturale, civile, politico, e anche di Chiesa. Credevamo fermamente che un altro mondo era possibile. Ma “l’evangelizzazione doveva partire dai piedi””.

VOCAZIONE PER LO STUDIO: TEOLOGIA E VITA, COSÌ CRISTINA SIMONELLI SE N’È INNAMORATA

Dopo dieci anni di vita al campo, gli amici della comunità propongono a Cristina gli studi di teologia. “All’inizio non ne volevo sapere. I teologi mi sembravano astrusi, sparatori di frasi astratte, lontani dalla vita reale nella quale io ero profondamente immersa. Poi la teologia mi ha conquistata, l’ho trovata un luogo di riflessione critica, di profondità, che andava molto d’accordo con quello che facevamo”.
Negli anni Ottanta lo studio teologico San Zeno di Verona incoraggiava la presenza delle donne. Cristina inizia come uditrice, poi studentessa a Verona e Firenze, quindi la laurea e il dottorato a Roma. Dal 1997 insegna Patristica a Verona e Milano. Un percorso insieme formativo, professionale e personale. “Sono credente da cristiana in senso ecumenico e praticante nella Chiesa cattolica. Sono convinta che fede ed esodo (il tema di un documento ecumenico del Gruppo di Dombes) vadano insieme. Dio è un Altro o un’Altra che per brevità chiameremo Dio, come ben si esprime la filosofa Luisa Muraro e ci attende, ci chiama, ci convoca sempre oltre, anche oltre i confini. Una nostra collega americana, Mary Boys, suggerisce che più si va in profondità nella propria appartenenza, alle radici spirituali, più i confini della separazione diventano sottili e trasparenti. La teologia aiuta a porre domande, a non scambiare piccole convinzioni con le grandi questioni del Vangelo. Ma non da sola: la vita, le vite di tutti sono appelli di Dio e insieme aiutano a interrogare il Vangelo, che può dare così gemme che in astratto non si trovano. La preghiera di tutto questo è il respiro, ma fatta corpo, fatta mani, fatta pane, sia nel rito che nella vita”.

DONNE E CHIESA

Sebbene lo spazio delle donne nella Chiesa rimanga una questione dibattuta, qualche passo avanti è stato fatto. “Premetto che, per quanto mi riguarda, la questione dei ruoli non è prioritaria. A me stanno a cuore più la pace, la giustizia, la possibilità di una vita migliore per tutti, anche dal punto di vista evangelico teologico: questa è per me la questione femminile, in primo luogo. Tuttavia, in questi miei quarant’anni di vita adulta, qualche cambiamento è avvenuto. Ne è prova la presenza sempre maggiore di donne teologhe. Dal 2013 presiedo il Coordinamento delle teologhe italiane (iniziato nel 2003 da Marinella Perroni) e anche quest’anno per l’assemblea ho mandato 150 convocazioni.
Cominciamo a essere un soggetto riconosciuto nella parola, anche se da qualcuno ancora guardato con sarcasmo. Siamo un gruppo ecumenico e le nostre socie hanno ruoli diversi nelle Chiese di appartenenza, molte sono pastore, mentre nella Chiesa cattolica non è in agenda neanche il diaconato femminile, perché è forte la resistenza di ambienti soprattutto clericali. Io credo che sia importante tenere aperto questo dibattito, focalizzandolo su che cosa impedisce che le donne possano essere ordinate diaconesse. Bisogna stanare i motivi di questa fobia. Papa Francesco sulla questione femminile ha scelto la via del discernimento, che probabilmente è un processo più radicale, ma è lungo. Una riforma istituzionale ormai va fatta: il Diritto canonico sul diaconato permanente degli uomini è cambiato, quindi può cambiare ancora. Lo spazio delle donne nella Chiesa non è un problema solo delle donne, ma di tutta la Chiesa”.

CRISTINA SIMONELLI SU GENDER E OMOFOBIA: NUOVE PAURE

Ma le fobie ai giorni nostri sono in aumento, e Cristina con i “temi scomodi” si sente a proprio agio. “Lavorando sul gender, rispetto al quale è stata montata una campagna totalmente fuorviante, mi sono scontrata con un odio nei confronti delle persone omosessuali, che se prima non era un mio tema, d’ora in poi lo sarà per sempre. La Chiesa prima o poi arriverà a chiedere perdono anche per l’omofobia dilagante. Ancora oggi il parroco che decida di approntare una pastorale Lgbt lo paga molto pesantemente “. Questo clima di odio, riflette, ha avuto un momento significativo nel Congresso di Verona dello scorso marzo che, “con i proclami a difesa della famiglia, mirava a rifare una “verginità cattolica” ad ambienti che si possono definire nazisti, finanziati da lobbies internazionali. Ma la realtà è diversa e migliore, e in molti abbiamo affermato che essere cattolici è un’altra cosa”.

CHI È LA TEOLOGA CRISTINA SIMONELLI

Esperta della Chiesa antica, Cristina Simonelli insegna Patristica, la branca della teologia che studia il pensiero dei padri della Chiesa, i grandi maestri dei primi secoli dell’era cristiana, su cui si fonda buona parte della dottrina. Tra i più importanti si ricordano: sant’Ignazio d’Antiochia, sant’Ambrogio, sant’Agostino e san Girolamo.

di Romina Gobbo
https://www.famigliacristiana.it/articolo/cristina-simonelli-la-teologa-che-ha-vissuto-con-i-rom.aspx

le dodici tesi di Shelby Spong – per un radicale rinnovamento della teologia e della vita cristiana

la fine del teismo e del Dio tribale nelle tesi di John Shelby Spong

Tra i vari contributi, tutti uniti dall’idea della necessità di superare le forme tradizionali delle religioni, fino a oggi presenti nella nostra cultura, in direzione di una religione dell’amore, spiccano le 12 tesi di John Shelby Spong (1931) vescovo episcopaliano di Newark. Un Appello ad una forte e radicale riforma della religione cristiana.”

 

TESI UNO Il teismo come modo di definire Dio è morto. Non possiamo più percepire Dio in modo credibile come un essere dal potere soprannaturale, che vive nell’alto dei cieli ed è pronto a intervenire periodicamente nella storia umana, perché si compia la sua divina volontà. Pertanto, oggi, la maggior parte di ciò che si dice su Dio non ha senso. Dobbiamo trovare un nuovo modo di concettualizzare Dio e di parlarne.

TESI DUE Dal momento che Dio non può essere concepito in termini teistici, non ha senso cercare di intendere Gesù come l’incarnazione di una divinità teistica. I concetti tradizionali della cristologia sono, pertanto, finiti in bancarotta.

TESI TRE Il racconto biblico di una creazione perfetta e compiuta, dalla quale noi, gli esseri umani, “siamo caduti” con il peccato originale è mitologia pre-darwiniana e non senso post-darwiniano.

TESI QUATTROLa nascita verginale, intesa in senso biologico letterale, rende impossibile la divinità di Cristo così come è stata tradizionalmente compresa.

TESI CINQUE Le storie di miracoli del Nuovo Testamento non possono più essere interpretate, nel nostro mondo post-newtoniano, come avvenimenti soprannaturali operati da una divinità incarnata.

TESI SEI L’interpretazione della croce come sacrificio per i peccati è pura barbarie: è basata su concezioni primitive di Dio e deve essere abbandonata.

TESI SETTELa risurrezione è un’azione di Dio, Gesù è stato elevato nella direzione del significato di Dio. La risurrezione, pertanto, non può consistere in un risuscitare fisico all’interno della storia umana.

TESI OTTO Il racconto dell’ascensione di Gesù presuppone un universo a tre livelli (cielo, terra, inferno) e, pertanto, non può essere tradotto nei concetti di un’era post-copernicana.

TESI NOVE Non c’è alcun criterio, eterno e rivelato,scritto nella Bibbia o su tavole di pietra, che debba dirigere per sempre il nostro agire etico.

TESI DIECI La preghiera non può essere una petizione rivolta a una divinità teistica perché agisca nella storia umana in un determinato modo.

TESI UNDICI La speranza della vita dopo la morte deve essere per sempre separata dalla moralità del premio e del castigo come sistema di controllo della condotta umana. Pertanto la Chiesa deve abbandonare la sua dipendenza dalla colpa come motivazione del comportamento.

TESI DODICI Tutti gli esseri umani sono fatti a immagine di Dio e devono essere rispettati per quello che sono. Pertanto nessuna descrizione esteriore dell’essere di ciascuno basata sulla razza, l’etnia, il genere e l’orientamento sessuale, né alcun credo basato su parole umane elaborate dalla religione in cui si è stati educati possono essere usati come giustificazione di rifiuto o di discriminazione.

i suoi denigratori lo definiscono poco teologo, in realtà …

papa Francesco segreto

nelle omelie a Santa Marta il suo vero pensiero

di Marco Politi
in “www.ilfattoquotidiano.it” del 27 luglio 2017

C’è un aspetto nascosto dell’impegno di papa Francesco, perché si svolge lontano dalle telecamere e dai giornalisti. Dunque non è “visibile” all’opinione pubblica. E’ uno spazio che Jorge Mario Bergoglio si è riservato per evitare che la sua attività di leader della Chiesa cattolica e di capo di Stato soffochi la sua dimensione di parroco. Si tratta delle messe mattutine, che celebra nella residenza Santa Marta dinanzi ad una trentina di persone, fedeli di parrocchie romane o pellegrini venuti dall’estero. “Nascosto” non vuol dire segreto, perché le messe sono documentate. Ma rispetto alla cronaca quotidiana, basata sulle immagini, questo aspetto di Francesco rimane quasi nell’ombra. E invece le sue omelie da parroco, meno altisonanti di quelle pronunciate davanti alle folle, sono estremamente interessanti per capire il nucleo del pensiero di Francesco e la visione che lo accompagna nel suo sforzo di riforma della Chiesa. I critici del pontefice tendono a dipingerlo come “poco teologo”, mentre in realtà le sue parole volutamente semplici e comprensibili ad un uditorio vasto sono sorrette da un pensiero complesso.

Un pensiero orientato a cogliere le sfide, che il grande mutamento dovuto alla secolarizzazione pone alla vecchia “Chiesa del catechismo” e della tradizione fossilizzata. Questa Chiesa è diventata in larga parte estranea alle giovani generazioni, che silenziosamente – senza contestazioni – si pongono fuori campo, e il Papa, per usare un’immagine, è come un seminatore che lancia semi di riflessione.

 

Gianpiero Gamaleri, sociologo e docente di Scienze della comunicazione in università laiche ed ecclesiastiche (tra l’altro è membro del Cda del Centro Televisivo Vaticano), segue da tempo il Bergoglio delle celebrazioni mattutine e ad esse ha dedicato un attento monitoraggio, ricco di commenti, raccolto in un volume intitolato “Santa Marta – Omelie” (ed. Libreria Editrice Vaticana). “Papa Francesco – sottolinea – è sensibilissimo agli eventi”. E in questa capacità di tenere insieme l’attenzione ai fatti del mondo contemporanea, gli episodi del Vangelo e l’afflato religioso sta certamente il segreto della comunicatività dell’attuale papa. Si prenda solo la predica di una mattinata di marzo del 2016. “Tre giorni fa è morto uno, qui, sulla strada, un senzatetto: è morto di freddo. In piena Roma, una città con tutte le possibilità per aiutare. Perché, Signore? Neppure una carezza… Ma io mi affido, perché Tu non deludi. Signore non ti capisco. Questa è una bella preghiera. Ma senza capire mi affido nelle tue mani”. C’è tutto. L’esortazione a non chiudere gli occhi dinanzi alle tragedie quotidiane, la “teologia della non comprensione del silenzio di Dio”, l’affidamento in Cristo che viene dalla fede. La Chiesa a cui pensa Francesco, anzi come dice lui il “Regno di Dio”, non si affida alla “religione dello spettacolo… sempre (alla ricerca di ) cose nuove, rivelazioni, messaggi… Fuochi d’artificio che illuminano per un momento”. (Per chi vuole capire è un’archiviazione delle multirivelazioni di Medjugorie).

Il Regno di Dio non è una “struttura ben fatta, tutto in ordine, organigrammi ben fatti… ”. E’ qualcosa che si costruisce nella quotidianità, il prodotto di un cammino, una crescita. La rigidità non serve e nemmeno il “fissismo” (Bergoglio inventa spesso parole). Credere nello Spirito Santo significa “andare avanti”, mentre i Dottori della Legge “incantano” con le ideologie. E’ evidente che un simile approccio risulti destabilizzante per i fautori di una dottrina concepita come legge e ordine e di una Chiesa militarmente organizzata. Emergono in queste omelie – in parte preparate, in parte sviluppate a braccio – molte esperienze dirette di Bergoglio. Come lo squarcio sulla “fila di mamme nelle carceri di Buenos Aires… donne (che) soffrivano non solo la vergogna di essere lì, ma anche le più brutte umiliazioni nelle perquisizioni che venivano fatte loro prima di entrare…”.
Molti altri impulsi si colgono in queste prediche. La ripulsa per la corruzione, la valorizzazione del dubbio (anche Giovanni il Battista, ricorda Francesco, ha dubitato), l’esigenza che il perdono sia totale e dunque comporti che gli altri dimentichino il peccato commesso, l’importanza che la fede cristiana sia caratterizzata da “gioia” e “stupore”, mai da routine. La denuncia definitiva che il terrorismo, che si ammanta di religione, è “satanico”. Il giorno della morte di padre Jacques Hamel, sgozzato in Francia da adepti dell’Isis, Francesco esclama da leader religioso (e geopolitico): “Quanto piacerebbe che tutte le confessioni religiose dicessero ‘Uccidere in nome di Dio è satanico!’. Gli input, che vengono dalle omelie di Santa Marta, vanno in tutte le direzioni. Gamaleri rileva che il messaggio di Francesco ha un richiamo universale. Di certo i sondaggi confermano che il papa argentino parla al di là di frontiere confessionali e filosofiche.

una teologia invecchiata è come il sale che perde il suo sapore

è urgente rinnovare la teologia

di José M. Castillo

La teologia, che regge il pensiero della Chiesa e ci dice per quale strada devono andare le decisioni della Chiesa, è più importante del papa, dei cardinali, dei vescovi, dei chierici, dei teologi, dei fedeli, delle leggi, dei riti, dei costumi, di tutto il resto che c’è nella Chiesa. La teologia, in fin dei conti, dice a tutti noi quello che Dio vuole e quello che Dio ordina. In maniera tale che il papa (qualsiasi) dice e ordina quello che la teologia gli dice. Per questo è così importante la teologia. Il problema sta, come credo, nel fatto che ad un gran numero di cristiani non interessa la teologia. E quindi non sanno molto di teologia. Questo è comprensibile. Perché la teologia, che solitamente si insegna (dove questo si insegna), utilizza una serie di parole, concetti e criteri, che sono stati inventati dai greci dell’Antichità, ma in questi tempi la maggior parte della gente non sa neanche quello che vuole dire questo vocabolario, né a che cosa serve. Il centro, l’asse, il fondamento della teologia cristiana dovrebbe essere non il pensiero dei sapienti greci dell’Antichità. Ed ancor meno i miti religiosi precedenti al giudaismo, che nella Bibbia leggiamo come “Parola di Dio”. La teologia cristiana dovrebbe avere come centro, asse e fondamento quello che è l’origine ed il principio determinante del cristianesimo: quell’umile artigiano galileo che è stato Gesù di Nazareth: il suo modo di vivere, quello che ha fatto, quello che ha detto, quello che sono stati i suoi interessi e le sue preoccupazioni, quello che ha visto nella gente che ha conosciuto ed il “ricordo pericoloso” che quell’uomo così speciale ci ha lasciato. Questo “ricordo pericoloso” di Gesù è stato scritto nel Vangelo, che si riassume e si raccoglie in quattro collezioni di racconti, i quattro vangeli, cioè la “teologia narrativa”, sommario decisivo di ogni possibile teologia che voglia definirsi “cristiana”. Il centro della teologia cristiana non può stare fuori del Vangelo. E non può essere teologia cristiana se non comporta un “ricordo pericoloso”. Ebbene, leggendo e rileggendo la teologia narrativa che ci presenta il Vangelo, in quest’insieme di racconti quello che subito si nota è che le tre grandi preoccupazioni, che hanno occupato e monopolizzato la vita di Gesù, sono state: 1) la salute degli esseri umani (racconti di guarigioni, espresse nel “genere letterario” dei miracoli); 2) l’alimentazione condivisa (i pranzi dei quali si parla tanto nei vangeli); 3) le relazioni umane (sermoni e parabole). La fede, la relazione con il Padre, i sentimenti personali più profondi …, tutto nella vita di Gesù gira intorno a queste tre preoccupazioni. E queste preoccupazioni sono state così forti che Gesù le ha anteposte alle norme che imponevano i maestri della legge, alle osservanze dei farisei, all’autorità dei sommi sacerdoti …. Fino al punto che questo gli è costato la vita. Gesù ha fatto tutto questo perché affermava con certezza che chi vedeva lui, vedeva Dio (Gv 14,7-9). Ossia, si è identificato con Dio. L’aspetto centrale nella vita di Gesù non è stato la religione. È stato umanizzare questo mondo così disumanizzato. Non ci dovrebbe preoccupare tanto il dialogo tra le religioni. Ci dovrebbe preoccupare quello che preoccupa tutti gli esseri umani: la salute, il cibo condiviso, le migliori relazioni umane. I tre pilastri di ogni possibile religione. Questo è stato il centro della vita di Gesù: umanizzare questa vita. In questo sta il cammino della speranza che ci porta a Dio. __________________________________________________

articolo pubblicato il 06.07.2017 nel Blog dell’Autore in Religión Digital (www.religiondigital.com ) 

la grande notte della teologia odierna

non c’è successione per la generazione dei teologi del concilio

introduzione di  Eletta Cucuzza 12/06/2017

da: Adista Documenti n° 22 del 17/06/2017

 Non c’è più la “grande teologia”, quella che ha reso possibile realizzare e alimentare il Concilio Vaticano II, la legge della vita ha portato via quei maestri, ma il guaio è che è senza eredi, perché la paura ha coartato la creatività dei teologi: troppe teste sono cadute sotto la scure della Congregazione per la Dottrina della Fede durante i pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI! Eppure ci sarebbe un gran bisogno di attualizzare le risposte della teologia cattolica alle fondamentali domande degli esseri umani, di rendere comprensibile oggi il messaggio di Gesù, di non insistere su «presunte “verità”» ormai indifendibili, su rituali liturgici che si continua ad imporre malgrado vecchi di secoli. È questo il cuore della riflessione del teologo José María Castillo che riconosce a papa Francesco l’intelligenza e la volontà di un essenziale rinnovamento, ma teme che non glielo consentiranno i «molti uomini» che nella Chiesa hanno «il bastone del comando» e «non sono disposti a lasciare il potere che esercitano».

 

di seguito, in una  traduzione di Adista, l’articolo di Castillo, tratto da Religión digital del 15 maggio scorso.

non c’è più teologia

e la chiesa non ha le parole per l’umanità di oggi

 

Per la legge della vita, la grande generazione dei teologi che hanno reso possibile il rinnovamento teologico che ha realizzato il Concilio Vaticano II è sul punto di estinguersi del tutto. E nei decenni successivi, purtroppo, non è emersa una generazione nuova che ha potuto continuare il lavoro che i grandi teologi del XX secolo hanno iniziato.

Gli studi biblici, alcuni lavori storici e anche altro in materia di spiritualità sono ambiti del lavoro teologico che sono stati degnamente mantenuti. Per converso si ha l’impressione che movimenti anche importanti, come ad esempio la teologia della liberazione, stiano venendo meno. Speriamo che mi stia sbagliando.

Cos’è successo nella Chiesa? Cosa ci sta succedendo? La prima considerazione è che quello che stiamo vivendo in questo ordine di cose è molto grave. Gli altri ambiti del sapere non smettono di crescere: le scienze, gli studi storici e sociali, sicuramente le più diverse tecnologie ci sorprendono ogni giorno con nuove scoperte; mentre la teologia (sto parlando di quella cattolica) rimane ferma, inaccessibile e scoraggiante, interessante per sempre meno gente, incapace di dare risposte alle domande che si pongono tante persone e, soprattutto, impegnata a mantenere come intoccabili presunte “verità” che non so come si possa continuare a difendere a questo punto della storia.

Per fare alcuni esempi: come possiamo continuare a parlare di Dio con tanta sicurezza che diciamo quello che pensa e quello che vuole, sapendo che Dio è il Trascendente, che pertanto non è alla nostra portata? Com’è possibile parlare di Dio senza sapere esattamente quello che diciamo? Come si può affermare con sicurezza che “attraverso un uomo è entrato il peccato nel mondo”? E com’è che presentiamo come verità centrali della nostra fede quelli che in realtà sono miti vecchi di oltre quattro mila anni? Con quali argomenti si può dar per certo che il peccato di Adamo e la redenzione da questo peccato sono verità centrali della nostra fede?

Com’è possibile difendere l’affermazione che la morte di Cristo è stato un “sacrifico” rituale di cui Dio ha avuto bisogno per perdonarci le nostre malvagità e salvarci per il cielo? Come si può dire alla gente che la sofferenza, la disgrazia, il dolore e la morte sono “benedizioni” che Dio ci manda? Perché continuiamo a mantenere rituali liturgici che risalgono a più di 1.500 anni fa e nessuno comprende né sa perché li si continui ad imporre alla gente? Davvero crediamo a quello che ci dicono in alcuni sermoni sulla morte in merito al purgatorio e all’inferno?

A ben guardare, la lista delle domande strane, incredibili, contraddittorie sarebbe interminabile. E intanto le chiese sono vuote o frequentate da poche persone anziane che assistono alla messa per inerzia o per abitudine. E in tutto questo i nostri vescovi gridano al cielo per questioni di sesso, mentre tacciono (o fanno affermazioni tanto generiche da equivalere a silenzi complici) di fronte alla quantità di abusi di minori commessi da sacerdoti, di abusi di potere commessi da quanti maneggiano il potere per abusare di alcuni, rubare ad altri ed umiliare quelli che sono alla loro portata.

Insisto: a mio modo di vedere, il problema è nella povera, poverissima teologia che abbiamo. Un teologia che non prende sul serio la cosa più importante della teologia cristiana, che è la “incarnazione” di Dio in Gesù, il richiamo di Gesù a “seguirlo”, l’esemplarità della vita e del progetto di vita di Gesù. E la grande domanda che noi credenti dovremmo porre è: come rendiamo presente il Vangelo di Gesù in questo tempo e in questa società in cui ci è dato vivere?

E insisto, infine, sul fatto che il controllo di Roma sulla teologia è stato molto forte, dalla fine del pontificato di Paolo VI fino alla rinuncia al papato di Benedetto XVI. Il risultato è stato tremendo: nella Chiesa, nei seminari, nei centri di studi teologici, c’è paura, molta paura. E ben sappiamo che la paura blocca il pensiero e paralizza la creatività.

L’organizzazione della Chiesa, in questo ordine di cose, non può continuare come negli ultimi anni. Papa Francesco vuole una “Chiesa in uscita”, aperta, tollerante, creativa. Ma porteremo avanti questo progetto? Purtroppo nella Chiesa ci sono molti uomini, con il bastone del comando, che non sono disposti a lasciare il potere che esercitano. E se così, avanti!, che presto avremo liquidato il poco che ci rima

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