benvenuti!

 

la mia casetta

Benvenuto nella mia casa, benvenuto nella mia home!

Mi chiamo luciano e mi piace parlare e dialogare cogli amici. Sono anche un frate francescano e sacerdote, ma non voglio convincere o convertire nessuno. Mi piace parlare con tutti di ciò che muove la mia vita, e questa mia home la puoi considerare come la  ‘casa del dialogo’ anche e soprattutto con le posizioni più distanti dalle mie perché sento che questo mi arricchisce: per questo nella mia casetta di mattoni ho esposto una targhetta che ho riesposto anche qui: “la mia casa è aperta a tutti”.

la mia casa è aperta a tutti

Come uomo e come frate e sacerdote mi piace pensare (e ‘sognare’) che nell’unico mondo che ci è dato di vivere possiamo e dobbiamo vivere meglio. Credo nella possibilità di cambiarlo in meglio. Anche nella chiesa penso si debba radicalmente cambiare molto per renderla più autenticamente evangelica. Il Concilio Vaticano II° cinquanta anni fa ha avviato una rivoluzione che però è rimasta incompiuta perché non dobbiamo partire dalla chiesa, nel nostro riflettere e operare, ma dalla vita. La vera domanda che è necessario porsi è: quale umanità noi sogniamo? per quale progetto di umanità noi ci impegniamo, ci battiamo? Esso dovrebbe rappresentare il sogno che Dio ha per il mondo: un sogno di vita, di giustizia, di pace, di accoglienza, di fraternità, concepito a partire dai più deboli, dalle persone che fanno più fatica. Solo dopo possiamo domandarci: rispetto a tutto questo, di quale chiesa abbiamo bisogno?

Ma se il progetto di umanità corrisponde al sogno che Dio ha per l’uomo, non possiamo non domandarci subito dopo: quale Dio? Sembra a volte che in modo indistinto ci si possa rivolgere al dio dei ricchi e al dio dei poveri; al dio che legittima le guerre ed al dio di chi si impegna con perseveranza per la non violenza attiva e per la pace; al dio di chi fa appello – in nome di una qualche ‘identità cristiana’- alle discriminazioni e al razzismo e al dio di chi accoglie l’altro, lo straniero, il diverso da me; al dio di chi è morto per contrastare le mafie e al ‘ dio dei mafiosi’; al dio di chi è legato al potere e al dio di chi sta con gli umili e cammina coi poveri della terra … Ecco: l’interrogativo su ‘quale chiesa?’ secondo me rimanda alla domanda su ‘quale Dio?’. Ma anche su ‘quale Gesù?’: il Gesù delle devozioni o il Gesù di quella provocazione rivoluzionaria che il Vangelo continua a suggerirci quotidianamente?: dunque: ‘quale umanità?’, ‘quale Dio?’, ‘quale Gesù?’, e solo da ultimo: ‘quale chiesa?’

La chiesa è solo un segno dentro la storia, segno di una possibile umanità ‘altra’, alternativa a quella che abbiamo realizzato. Anche noi sacerdoti dobbiamo interrogarci sul senso e sul ruolo della nostra missione – ‘quali preti?’ – solo dopo aver cercato di rispondere a tutte le domande che ho appena evocato. Così possiamo evitare ogni sorta di autoreferenzialità, cioè un atteggiamento in cui la chiesa guarda a se stessa, al proprio interno e ai propri bisogni e interessi e ha col mondo un rapporto di competizione, o  di paura, o di sospetto: sentimenti che ispirano prediche, ammonimenti, condanne, al limite pii consigli moralistici, ma non spirito di vero confronto, apertura, ascolto, dialogo. E’ importante ascoltare molto prima di parlare…

Indubbiamente viviamo in tempi complessi, e la sofferenza, la crisi che attraversa tutta la società, compresa la chiesa.  Non credo, tuttavia, che si possa parlare di una generale crisi della religione. Di ‘religione’ penso, modestamente, che ce ne sia anche troppa nella nostra società: non mancano di certo le celebrazioni, i riti religiosi … rilanciati continuamente anche dai media. Altra cosa è la chiesa della fede, la chiesa del Vangelo, una chiesa esigente, questa, perché chiama a scelte radicali, perché il mondo ha bisogno di una grande spinta alla giustizia, di un grande processo di umanizzazione. Il pregare stesso dovrebbe essere meno una serie di formule o riti e più una vibrazione profonda dell’essere dentro la storia, con riferimento all’ ‘ulteriorità’, certo, ma non nel senso di una fuga dal mondo, e l’impegno per la giustizia dovrebbe riassumere tutte le dimensioni della nostra vita.

Dobbiamo ritornare ad annunciare la parola di Dio come una parola profetica, sempre immersa nella storia, o meglio nelle molteplici ‘storie’ delle persone in carne e ossa che incrociano il nostro cammino. Perché ciò sia possibile è necessario che la chiesa si liberi dall’abbraccio mortale con il potere politico, economico e militare. Quando la chiesa diventa una ‘chiesa del potere’ non è più di fatto ‘chiesa’, popolo di Dio, chiesa di Gesù Cristo, presenza nel mondo della paternità universale di Dio.
Padre Luciano Meli

Padre Luciano Meli

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il commento al vangelo della domenica

BEATI VOI POVERI
il commento di E. Ronchi al vangelo della sesta domenica del tempo ordinario
Luca 6, 20-26
Un vangelo potente e inarrivabile.
Da oltre cinquant’anni lotto con questo vangelo, che mi sfugge sempre.
Le parole che cerco di allineare sono come uccellini che sbattono contro le pareti della gabbia, a dire poco più del nulla che capiamo di queste parole immense.
“Sono venuto a portare il lieto annuncio ai poveri”, aveva detto nella sinagoga. Ed eccolo qui, il miracolo: beati voi poveri.
Il luogo della felicità è Dio, ma il luogo di Dio sono le infinite croci degli uomini.
E aggiunge alla fine un’antitesi abbagliante: non sono i poveri il problema del mondo, ma i ricchi: guai a voi ricchi!
Sillabe sospese tra sogno e miracolo, osate, prima ancora che da Gesù, da sua madre nel canto del Magnificat: “ha saziato gli affamati di vita, ha rimandato i ricchi a mani vuote”. (Lc 1,53).
Questi oracoli profetici, anzi più-che-profetici, quel “beati” che contiene pienezza, felicità, completezza, grazia, incollato a persone affamate e in lacrime, a poveracci, a disgraziati, ai bastonati dalla vita, ci obbliga a un capovolgimento di prospettiva, a guardare la storia con gli occhi dei poveri e dei piccoli, non con quelli dei ricchi e dei potenti, altrimenti non cambierà mai niente.
E ci saremmo aspettati: “beati voi poveri perché ci sarà un capovolgimento, un’alternanza, diventerete voi i signori”.
No. Il progetto di Dio è più profondo. C’è di mezzo il Regno dei cieli, che non è il paradiso o l’al di là, ma una nuova architettura del mondo e dei rapporti umani.
Il mondo non appartiene a chi se ne impossessa o lo compra, ma a chi lo rende migliore. E non sarà reso migliore da coloro che hanno accumulato più denaro.
Beati voi… Il vangelo più alternativo che si possa pensare, il manifesto più stravolgente e contromano. Eppure, al tempo stesso, senti che è amico della vita, vangelo amico.
Perché le beatitudini non sono un comandamento, un ordine da eseguire, ma il cuore dell’annuncio di Gesù: la bella notizia che Dio regala vita a chi produce amore, Dio regala gioia a chi costruisce pace.
In esse è l’inizio della guarigione del cuore, perché il cuore guarito sia l’inizio della guarigione del mondo.
Guai a voi, ricchi, sazi, gaudenti, famosi. I quattro “guai” ci inquietano un po’, ma non sono delle maledizioni: Dio non maledice le sue creature, mai, la sua è la voce della tristezza del padre in pena per i figli che si stanno perdendo.
“Guai” non suona come una minaccia, ma come il gemito dei lamenti funebri, il singhiozzo del pianto su chi appare come morto.
“Guai”: e vi sento dentro il lamento di Gesù, che piange i ricchi e i sazi come coloro che si sono sbagliati su ciò che è vita e ciò che non lo è; e sono diventati gli idolatri del vuoto, gli amanti del nulla.
E gli idoli sono crudeli, spietati: divorano i loro stessi adoratori.
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quale giubileo per le forze armate – il sogno di un’alternativa

sogno di un giubileo delle forze disarmate e nonviolente!

di Pax Christi e Mosaico di Pace
in “www.finesettimana.org” del 11 febbraio 2025

Non più di qualche giorno fa, dalla Piazza San Pietro a Roma, le immagini ci raccontavano di
30.000 militari in “marcia” per il Giubileo delle Forze Armate, di Polizia e di Sicurezza. Anche loro,
le nostre sorelle e i nostri fratelli militari, lì per attraversare la Porta Santa, partecipare alla
celebrazione dell’Eucaristia, presieduta da Papa Francesco, e ripartire come “pellegrini di
speranza”.
Erano stati preceduti dalla domanda provocatoria, che Papa Francesco pone nella Bolla di Indizione
del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025, al n. 8: “E’ troppo sognare che le armi tacciano e smettano
di portare distruzione e morte?”. E poi le sue forti e accorate parole rivolte alle e ai militari,
nell’omelia di domenica 9 febbraio u.s.: “Vi chiedo, per favore, di vigilare; vigilare contro la
tentazione di coltivare uno spirito di guerra; vigilare per non essere sedotti dal mito della forza e dal
rumore delle armi, …”.
Come Pax Christi Italia, unitamente alla redazione di Mosaico di Pace, non possiamo non porre
alcune domande che inquietano le nostre coscienze, e, ne siamo certi, anche quelle di tante donne e
uomini impegnati nella ricerca della pace. Lo facciamo anche se derisi e insultati come
“pacefondai” o, come letto di recente su un quotidiano italiano, “contaminati dalla epidemia di
pacifismo”, ma sempre più convinti che “se vogliamo la pace dobbiamo preparare la pace”.
Le Forze Armate sono lì per fare la guerra, che non è mai, mai giusta! Perché ogni guerra degenera
in immorali e illegali investimenti di armi che certo non concorrono a portar pace e riconciliazione
tra i popoli. Semplicemente scandalosa la modifica alla legge 185/90 che il nostro governo si
prepara ad approvare. Una legge nata per mettere un argine all’export delle armi e oggi, purtroppo,
destinata ad essere “cancellata” per lasciare campo libero a investimenti miliardari offensivi di
necessità, di urgenze e di bisogni vitali per il nostro vivere quotidiano.
Noi, artigiani di pace, NON CI STIAMO!!! Lo diciamo ad alta voce, in nome del Vangelo che ci
indica ben altre strade: Basta armare sempre di più l’economia, la cultura e la politica! Ci
permettiamo, poi, in quel coraggioso ed evangelico Sì-Sì, No-No, di chiedere alla Chiesa che
l’Anno Giubilare appena iniziato ricordi ai cristiani e al mondo intero, con le parole di San
Giovanni XXIII nella Pacem in Terris, che risolvere i conflitti con la guerra “Alienum est a ratione”.
Don Tonino Bello, Presidente di Pax Christi Italia, ebbe a parafrasare questa espressione con “…è
roba da matti!”.
Ci permettiamo fraternamente, ancora una volta, non di provocare ma di invitare ad avere il
coraggio di mandare segnali di un cambiamento di mentalità e di cultura di pace.
Possiamo chiedere di sostituire alle Diocesi Militari, agli Ordinari Militari, ai Cappellani Militari
vescovi e presbiteri che, senza divise e senza stellette, si prendano cura spirituale di coloro che
fanno questa difficile scelta di vita? Possiamo chiedere di modificare con parole di pace le preghiere
delle varie Forze Armate che a volte chiedono a Dio di benedire le loro armi? Nessun intento
“polemico” in queste nostre domande, solo il sogno e la visione di un mondo altro possibile rispetto
a quanto stiamo vivendo in questi giorni, sogno e visione di un Giubileo delle Forze Disarmate e
Nonviolente!
Tavarnuzze (Fi), 11 Febbraio 2025 Pax Christi Italia – Mosaico di pace Contatti: Pax Christi
Segreteria Nazionale 055-2020375, info@paxchristi.it – www.paxchristi.it Mosaico di pace:
080.3953507 – 348.3035658, info@mosaicodipace.it – www.mosaicodipace.i

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l’antievangelica e anticristiana cosiddetta ‘teologia della prosperità’

quel «Vangelo diverso» che lo stravolge

di Antonio Spadaro
in “Avvenire” dell’11 febbraio 2025

La «teologia della prosperità» invocata dal tycoon: la fede per ottenere ricchezza: la dottrina che considera Dio un «fattorino cosmico» dei desideri umani.
La teologia della prosperità è stata definita un «vangelo diverso», talmente diverso da stravolgerne il senso. Le sue radici affondano negli Stati Uniti, dove il pastore Esek William Kenyon (1867- 1948) fu tra i primi a sostenere che attraverso il potere della fede, i credenti potevano ottenere ricchezza, salute e benessere, mentre la mancanza di fede portava alla povertà e alla malattia.
Queste dottrine chiare e semplici si sono correlate e nutrite in misura consistente anche del positive thinking, il «pensiero positivo», espressione di un certo American way of life. Esse si collegano in questo senso alla «posizione eccezionale» che Alexis de Tocqueville nel suo celebre La democrazia in America (1831) attribuiva agli americani. Fu Tocqueville ad affermare che tale way of life plasma
anche la religione degli americani. Questa «teologia», inizialmente circoscritta a piccoli gruppi
religiosi, ha trovato terreno fertile nel movimento neo-pentecostale e carismatico, che l’ha
amplificata e diffusa a livello globale. Il fenomeno si traduce, dal punto di vista mediatico, nell’uso
della televisione da parte di figure molto carismatiche di alcuni pastori, detentori di un messaggio
semplice e diretto, montato attorno a uno show di musica e testimonianze e a una lettura
fondamentalista e pragmatica della Bibbia ed è sostenuto dalla sua forte incidenza sulla vita
politica. Sin dalla sua prima cerimonia d’inaugurazione del mandato presidenziale, Donald Trump
ha incluso preghiere di predicatori del «vangelo della prosperità» quali Paula White, uno dei suoi
consiglieri spirituali. Per la prima volta nell’ottobre 2015 la White ha organizzato, nella Trump
Tower, un incontro di telepredicatori legati alla «teologia della prosperità», che hanno pregato per
l’attuale Presidente, imponendo le mani su di lui.
Il nucleo di questa «teologia» è la convinzione che Dio vuole che i suoi fedeli abbiano una vita
prospera, e cioè che siano ricchi dal punto di vista economico, sani da quello fisico e
individualmente felici. I fedeli sono incoraggiati a visualizzare ciò che desiderano e a dichiararlo
con fede, considerandolo già ricevuto. Questo approccio trasforma le promesse di Dio in una sorta
di contratto vincolante, in cui il credente assume una posizione dominante rispetto a un Dio che
diventa un “fattorino cosmico” (cosmic bellhop) al servizio dei desideri umani.
L’urgenza di una vita prospera e senza sofferenze si adegua a una religiosità a misura del cliente, e
il kairos del Dio della storia si adegua al kronos frenetico della vita attuale. In alcune società in cui
la meritocrazia è stata fatta coincidere con il livello socio-economico senza che si tenga conto delle
enormi differenze di opportunità, questo «vangelo», che mette l’accento sulla fede come «merito»
per ascendere nella scala sociale, risulta ingiusto e radicalmente anti-evangelico.
La teologia della prosperità presenta numerose criticità. Promuove un forte individualismo, in cui il
benessere personale è visto come risultato diretto della fede individuale, rischiando di esacerbare le
disuguaglianze sociali e di creare una mancanza di empatia verso i poveri, considerati come persone
con “fede insufficiente”. Inoltre, distorce il messaggio evangelico, riducendo la salvezza a un
semplice benessere materiale e trasformando la religione in un fenomeno utilitaristico e pragmatico.
Questo approccio è in netto contrasto con la concezione tradizionale del cristianesimo, che vede la
salvezza come un dono di Dio, non come il risultato delle proprie opere o della propria fede.
Questa teologia è chiaramente funzionale ai concetti filosofico-politico-economici di un modello di
taglio neoliberista e abbatte il senso di solidarietà. Inoltre, spinge le persone ad avere un
atteggiamento miracolistico, per cui solamente la fede può procurare la prosperità, e non l’impegno.
Quindi il rischio è che i poveri che restano affascinati da questo pseudo-vangelo rimangano
imbrigliati in un vuoto politico-sociale che consente con facilità ad altre forze di plasmare il loro
mondo, rendendoli innocui e senza difese. Sin dall’inizio del suo pontificato Francesco ha avuto
presente il «vangelo diverso» della «teologia della prosperità» e, criticandolo, ha applicato la
classica dottrina sociale della Chiesa. Più volte lo ha richiamato per porne in evidenza i pericoli
anche per un suo possibile diffondersi dentro la vita ecclesiale in modo strisciante. La prima volta è
avvenuto già in Brasile, il 28 luglio 2013. Rivolgendosi ai vescovi del Consiglio Episcopale
Latinoamericano, aveva puntato il dito contro il «funzionalismo» ecclesiale», che realizza «una
sorta di “teologia della prosperità” nell’aspetto organizzativo della pastorale». Essa finisce per
entusiasmarsi per l’efficacia, il successo, il risultato constatabile e le statistiche favorevoli. La
Chiesa così tende ad assumere «modalità imprenditoriali» che sono aberranti e allontanano dal
mistero della vera fede evangelica

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il commento al vangelo della domenica

LUI SULLA MIA BARCA
Luca 5,1-10
il commento di E. Ronchi al vangelo della quinta domenica del tempo orinario
Tirate le barche a terra lasciarono tutto e lo seguirono.
Senza neppure chiedersi dove Gesù li avrebbe condotti. Lo seguono in piena incoscienza.
Perché il motivo di tutto è solo lui, quel Rabbi dalle parole folgoranti. Allontanati da me, aveva detto Pietro; e alla fine si allontanano ma insieme, verso un altro mare, lasciando sulla riva le barche riempite fino all’orlo dal miracolo. Sono i ‘futuri di cuore’.
Tutto è cominciato con una notte buttata, le reti vuote, la fatica inutile. E Gesù in piedi vede. Vede ‘due barche’, dice il vangelo, ma io credo che veda tutta la delusione e la tristezza del mondo sui volti dei pescatori, che in disparte lavano le reti vuote.
Il maestro parla con linguaggio universale e immagini semplicissime, non dal pinnacolo del tempio ma dalla barca di un pescatore di Cafarnao. Non da luoghi sacri, ma da un angolo umanissimo e laico, in mezzo alle attività umane, non padrone, ma ospite dello spazio umano, delle periferie, delle attese, delle delusioni.
Gesù di fronte a uomini in crisi, per un pescatore non pescare è la crisi d’identità, usa tutta la sua sapienza e delicatezza: prega Simone di staccarsi un po’ dalla riva.
Sale sulla barca di Simone e lo prega: notiamo la finezza del verbo scelto da Luca. Così il maestro sale sulla barca della mia vita e mi prega di ripartire con quel poco che ho, con quel poco che so fare, per affidarmi un nuovo mare.
Prendi il largo e getta le tue reti.
Sulla tua parola le getterò. Simone si fida e si avvia il miracolo. Una quantità enorme di pesci, una quantità di giorni pieni di pane e di luce per lui e per tutti coloro che sulla sua parola getteranno le reti.
Un prodigio. Un segno. Simone ha paura: Allontanati da me, perché sono un peccatore. ​Gesù sull’acqua del lago ha una reazione bellissima. Lui, il grande pescatore di uomini, alle parole di Simone non risponde “non sei peggio degli altri”, non giudica, non condanna, ma neppure assolve.
A lui non interessa giudicare neppure in vista di una assoluzione, a lui interessa il frutto, la pesca abbondante, la fecondità della vita e non la purezza fondamentalista. Mette oro nelle ferite.
Gesù pronuncia una parola solenne e inattesa: non temere, d’ora in avanti tu sarai… e il futuro conta più del presente, più del passato,
d’ora in avanti cercherai uomini, raccoglierai vite per la vita.
E il bene possibile domani vale più del male di ieri e di oggi.
Io non sono che un perdonato, uno che non ha preso niente, ma che ora sulla tua parola getterà le reti ancora. Sono il primo dei paurosi, l’ultimo dei coraggiosi, ma d’ora in avanti qualcosa sarò, Signore, se la tua grazia farà del mio nulla qualcosa che serva a qualcuno.
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a proposito di migranti: la storia cancellata dalla tracotanza dell’occidente

 

Il boomerang dei migranti

di Luigi Manconi
in “la Repubblica” del 3 febbraio 2025

Vent’anni fa Antonio Martino, economista e politico liberale e liberista, mi diceva: «Gli Stati Uniti
sono diventati grandi grazie al contributo della forza lavoro immigrata.
E, ricorda, si trattava in buona parte di forza lavoro irregolare. Ir-re-go-la-re!»

E se quello che appare oggi come il maggiore punto di forza delle destre di tutto il mondo — la
questione delle migrazioni — si traducesse con il tempo nel motivo di loro più acuta debolezza?
Notizie provenienti dalla Corte di Appello di Roma e dal parlamento tedesco, ma anche dalla stessa
America trumpiana, sembrano confermare una simile ipotesi. Il fenomeno delle migrazioni è
enorme, ed enormemente complesso, e richiede risposte altrettanto complesse, provvedimenti
razionali e strategie intelligenti. Al contrario, i programmi delle destre sono, palesemente, semplici.
E pur se suggestivi e ad alto tasso di manipolazione, si rivelano semplicistici fino alla rozzezza; e
cominciano già a manifestare le prime crepe.
Le foto pubblicate sul sito della Casa Bianca di migranti con i ceppi e incatenati alla vita
costituiscono la sordida icona del cattivismo più conformista, ma sembrano un manifesto ideologico
piuttosto che un credibile programma politico. Questo mentre, qualche giorno fa, il Financial Times
scriveva che il progetto di espulsione di undici milioni di stranieri irregolari richiederebbe dieci anni
di tempo e una spesa complessiva di mille miliardi.
Ma parliamo di noi. Il protocollo Albania sembra ispirarsi a quel meccanismo psichico che le
discipline della mente definiscono rimozione.
Il processo, cioè, che trasferisce altrove — nell’inconscio — pulsioni, angosce e fobie; e che si
realizza attraverso la sottrazione allo sguardo e, dunque, alla consapevolezza di ciò che è fattore di
inquietudine e ansia. Ecco, il nascondimento dei migranti fuori dai confini nazionali e dentro galere
etniche risponde a questa esigenza di occultare il «perturbante» (Freud).
Ma perché possa essere efficace, un simile progetto deve attuarsi all’interno di un sistema
istituzionale tutto all’insegna di quello stesso nascondimento.
Cosa non possibile in uno Stato di diritto quale tuttora, nonostante le insidie subite, è l’Italia. E in
questo Stato di diritto la divisione dei poteri resiste e quello giudiziario — oggi la Corte di Appello
di Roma — continua a fare la sua parte.
In Germania il tentativo di creare una intesa tra il centro conservatore e la destra neo-nazista ha
fatto un pericoloso passo avanti, salvo poi arrestarsi.
Credo che in ciò abbia avuto un ruolo importante il «fattore umano»: un soprassalto emotivo che,
dalle manifestazioni di piazza alle parole della ex cancelliera Angela Merkel, ha attraverso una parte
significativa dell’opinione pubblica.
Una politica migratoria più autoritaria e un accordo parlamentare con chiunque volesse sostenerla
volevano rappresentare, ancora una volta, la risposta semplice a un problema complesso, reso
ancora più arduo dal peso irriducibile della memoria collettiva.
Lì, centri d’accoglienza, centri per il rimpatrio, centri di detenzione evocano ancora fosche
assonanze storiche e richiamano spettri tuttora minacciosi.
Paradossalmente, dunque, il «passato che non passa» può manifestarsi come nuova vitalità di una
coscienza comune scossa, indebolita e lacerata e, tuttavia, resistente.
Ripeto, si tratta di incrinature e di brecce in un impianto ideologico e politico reazionario che
procede, si estende e, soprattutto, allarga i propri consensi: ma quei primi segnali di debolezza
vanno osservati con attenzione e — ecco il compito di una politica non subalterna — valorizzati e
approfonditi.
La funzione demagogico-propagandistica delle iniziative anti-migranti delle destre è sicuramente
potente, efficace nel breve periodo e assai remunerativa sul piano elettorale.
Ma quando il progetto trumpiano di «espellere undici milioni di clandestini» si scontrerà con il
ruvido dato dell’altissima percentuale di irregolari nell’agricoltura statunitense (oltre il 50 per
cento), che cosa accadrà?
E un ragionamento simile può essere fatto, in Italia, per la nostra agricoltura (circa il 25 per cento di
irregolari) e per segmenti importanti del settore manifatturiero e siderurgico, dei servizi, della
ristorazione e della cura della persona (oltre la metà «in nero»).
E quando l’indecente peregrinazione coatta dei richiedenti asilo tra il Nord Africa e Lampedusa e
tra Lampedusa e l’Albania e tra l’Albania e l’Italia avrà rivelato tutta la sua crudele vacuità,
sopravviverà qualcosa del «Piano Mattei» e della guerra agli scafisti «lungo tutto il globo
terracqueo»?
Per non dire di quel fantasmatico blocco navale che tanto priapismo xenofobo ha suscitato negli
angoli più oscuri della società italiana.
Sia chiaro: non c’è nulla per cui essere ottimisti, ma sarebbe un grave errore pensare che tutto sia
perduto. C’è molto, moltissimo, da fare.
Innanzitutto in chiave difensiva: non vanno tollerati alcun sopruso, alcuna forzatura normativa,
alcuna violazione dei diritti fondamentali.
E, poi, va costruita pazientemente una strategia alternativa che non conceda nulla all’ideologia
dell’avversario (per capirci: nessuna riedizione dello sciagurato memorandum con la Libia!) e che
sia capace di elaborare un piano economico sociale per la convivenza tra residenti e nuovi arrivati,
di regolarizzare gli irregolari (sul modello delle «grandi sanatorie» volute da Silvio Berlusconi nel
2002 e nel 2009) e di operare per una società la cui cultura e la cui identità non vengano cancellate,
bensì arricchite dal confronto con altre e nuove culture e identità.
Vent’anni fa Antonio Martino, economista e politico liberale e liberista, mi diceva: «Gli Stati Uniti
sono diventati grandi grazie al contributo della forza lavoro immigrata.
E, ricorda, si trattava in buona parte di forza lavoro irregolare. Ir-re-go-la-re!»

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il ‘corno’ e il … giubileo

Giubileo, un corno

i Alberto Maggi
in “ilLibraio.it” del 10 gennaio 2025

Se quando ci chiedono cos’è il Giubileo rispondiamo che è un corno, abbiamo risposto giusto.
Infatti, “giubileo”, deriva da un termine ebraico (Yobel) che indica il corno (di montone) al suono
del quale s’inaugurava un tempo particolarmente santo (Lv 25,9). La motivazione che sta alla base
del Giubileo è la volontà del Signore che in mezzo al suo popolo “non vi sia alcun bisognoso” (Dt
15,4).
Per impedire che qualcuno finisse definitivamente in situazioni di povertà, si stabilì che ogni sette
anni tutti i debiti fossero cancellati (Dt 15,1-11). Inoltre, ogni quarantanove anni, fu stabilito un
cinquantesimo anno in cui non si sarebbe né seminato né raccolto, e ogni proprietà doveva ritornare
al suo proprietario originario (Lv 25,8-17). Entrambe le leggi, del settimo e del cinquantesimo anno,
si rivelarono subito inefficaci e inapplicabili. Infatti, la legge del condono dei debiti, da
provvedimento a favore dei poveri, si era ritorta contro le categorie più disagiate, poiché nessuno
prestava denaro se non aveva la certezza che gli sarebbe stato restituito entro il settimo anno. E la
legge del Giubileo ogni cinquanta anni, era talmente utopica che rimase una pia intenzione e non fu
mai realizzata. Ideato per evitare che nel popolo ci fossero bisognosi, l’applicazione del Giubileo
avrebbe ridotto alla povertà l’intero popolo. Infatti, se ogni 49° e 50° anno non si poteva né
seminare né raccogliere, la carestia era garantita, e bisognoso sarebbe diventato tutto Israele.
Nonostante questo, l’ideale del Giubileo, come anno in cui il Signore avrebbe ristabilito la giustizia,
rimase vivo nel popolo, e venne proclamato da Gesù nella sinagoga di Nazaret. Qui Gesù annunciò
“l’anno di grazia del Signore”, e affermò che il tempo nel quale ognuno avrebbe sperimentato
l’amore di Dio non sarebbe stato ogni cinquanta anni, ma che ogni giorno sarebbe stato tempo di
liberazione: “Oggi questa Scrittura si è compiuta in voi che ascoltate” (Lc 4,21). I presenti nella
sinagoga però non gradirono l’annuncio dell’attuazione di questo anno giubilare. Fintanto che il
Giubileo restava una legge utopica andava bene a tutti, ma quando Gesù ne annunciò la sua
immediata realizzazione, tutti gli si rivoltarono contro: “All’udire queste cose, tutti nella sinagoga
furono pieni di sdegno; si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del
monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio” (Lc 4,29). Gesù, venuto a
realizzare la volontà del Padre suo, non viene meno al suo proposito, e continua a proporre la realtà
del Giubileo rendendolo caratteristica visibile della comunità del regno di Dio.
Per questo, nel Padre nostro, formula con la quale la comunità si impegna ad accettare le
Beatitudini, Gesù rende quotidiano il Giubileo con la richiesta: “Condona i nostri debiti come noi li
abbiamo cancellati ai nostri debitori” (Mt 6,12). Gesù non parla di peccati, ma ha scelto il termine
debiti, che va al di là della trasgressione di precetti o comandamenti. Mentre è possibile perdonare
le colpe e restare in possesso dei propri averi, il condono dei debiti esige la rinuncia a questi.
Mentre “peccato” è un vocabolo appartenente alla sfera religiosa e si richiama a una norma
trasgredita, “debito” è un termine riguardante concretamente il campo economico e figuratamente le
relazioni interpersonali (essere in debito di qualcosa). Il debito nei confronti di Dio si deve al fatto
che l’uomo veniva considerato debitore verso il Signore per i beni della creazione. Dio non
pretendeva l’impossibile pagamento di questo debito, ma chiedeva che gli uomini si rendessero
conto di essergli debitori per avere lo stesso comportamento umano e solidale verso i loro debitori.
Il condono di questo debito infatti viene dal Padre concesso unicamente in base alla sua misericordia, e non è condizionato da alcun tipo di prestazione umana. Il condono agli altri deve essere una
conseguenza del condono del Padre.
Gesù, pertanto, scegliendo il termine “debiti” intende richiamarsi a quanto prescritto nel Libro del
Deuteronomio, dove appare il verbo “essere debitore” in riferimento alla “legge del settimo anno”:
“Alla fine di ogni sette anni celebrerete la remissione. Ecco la norma di questa remissione: ogni
creditore che detenga un pegno per un prestito fatto al suo prossimo, lascerà cadere il suo diritto:
non lo esigerà dal suo prossimo, dal suo fratello, poiché è stata proclamata la remissione per il
Signore” (Dt 151-2 LXX). Questa legislazione era stata aggirata al tempo di Gesù attraverso la
pratica del Prosbul, un certificato contenente una dichiarazione, fatta di fronte al tribunale, in virtù
della quale il debitore autorizzava il creditore a riscuotere il suo credito in qualunque tempo, anche
dopo i sette anni, prescindendo dalla legge del condono.
Gesù ha preso le distanze e rifiutato l’istituzione del Prosbul per riportarsi così alla purezza del
disegno primitivo di Dio, in aperta opposizione alla “tradizione degli antichi” (Mt 15,9) che
pretendeva di spacciare per insegnamenti divini quelli che erano soltanto “precetti di uomini” (Mt
15,9; Is 29,13), soppiantando l’originaria parola di Dio. Pertanto il condono del debito e con esso la
concessione del perdono, devono essere immediati. Ogni ritardo nella manifestazione di un amore
capace di tradursi in generosa condivisione, non fa che aumentare il debito verso il Padre originato
dall’assenza dell’amore e impoverire tutta la comunità: “Non abbiate alcun debito con nessuno, se
non quello di un amore vicendevole” (Rm 13,8). Ma l’annuncio di questo Giubileo, vera “buona
notizia” per quanti sono poveri, si trasforma in una sciagura per i ricchi, che credono di possedere il
denaro mentre in realtà ne sono posseduti. E il furore col quale i fedeli della sinagoga di Nazaret
hanno cacciato Gesù, è lo stesso che coglie quanti capiscono che la vera porta santa da varcare per il
Giubileo, è quella della banca, per alleggerire il proprio conto, e condividere il tanto che hanno con
chi non ha niente. Fintanto che il Giubileo si risolve con una pratica religiosa è bene accolto da tutti,
ma quando esige un cambiamento di vita

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Neve Shalom – il villaggio della convivenza tra Israele e Palestina

 

seminare pace

di Claudio Geymonat
in “Riforma” – settimanale delle chiese evangeliche battiste metodiste e valdesi – del 31 gennaio
2025

l’“Oasi della Pace”, Wahat-al-Salam in arabo, Neve Shalom in ebraico, è un esperimento pressoché unico in Israele e Palestina. Un villaggio dove si vive, si cresce, si studia insieme, ebrei, palestinesi, cristiani

«Le divisioni, i litigi, avvengono anche qui, è ovvio. La differenza sta nel fatto che noi non
smettiamo mai di parlarci e confrontarci. Non alziamo mura fra di noi e, nonostante tutto,
proseguiamo nel confronto, anche se poi ognuno magari rimane con le proprie convinzioni». E poi
ancora: «Un’altra cosa che sappiamo fare bene è non essere d’accordo. Però lavoriamo sulla
mediazione e continuiamo a vivere insieme». L’“Oasi della Pace”, Wahat-al-Salam in arabo, Neve
Shalom in ebraico, è un esperimento pressoché unico in Israele e Palestina. Un villaggio dove si
vive, si cresce, si studia insieme, ebrei, palestinesi, cristiani. Dalla nostra prospettiva a migliaia di
chilometri di distanza appare logico. Evidentemente non lo è, tanto che rappresenta praticamente un
unicum. È stato fondato negli anni ’70 da fra’ Bruno Hussar, nato ebreo, cresciuto nell’islamico
Egitto e diventato frate domenicano, che ha scelto di costruire un luogo dove fare dialogare le
persone di fedi diverse.
Oggi sono circa 300 persone a convivere su questa collina a metà strada fra Gerusalemme e Tel
Aviv, che deve il nome alle parole di Isaia (32, 18): «Il mio popolo abiterà in un territorio di pace, in
abitazioni sicure, in quieti luoghi di riposo».
Una piccola ma coraggiosa sfida sia al potere dei più forti sia alla disperazione dei più deboli, che
indica che soltanto nel riconoscimento dell’altro si possono trovare soluzioni di pace.
Nell’ambito del progetto «Fermiamo l’odio, aiutiamo i costruttori di pace» della Federazione delle
chiese evangeliche in Italia (Fcei) sono in Italia due donne che vivono nel villaggio.
Dorit Alon Shippin è nata in Israele da genitori ebrei israeliani nel 1958. Fa parte della comunità dal
1984. Insieme al marito Howard vi ha cresciuto tre figli. Shireen Najjar è stata la prima bambina
araba a nascere nella comunità.
Ha frequentato l’asilo e la scuola primaria del villaggio. Dopo aver vissuto a Gerusalemme, con il
marito Mustafa ha deciso di tornare ad abitare nell’“Oasi” «perché non volevo crescere i nostri figli
tra quotidiane violenze e soprusi da parte dell’esercito israeliano».
Vari i loro incontri pubblici in queste settimane, due in particolare organizzati dalla stessa Fcei con i
referenti italiani delle associazioni che appoggiano l’esistenza del villaggio. A Milano il 21 gennaio,
a esempio, insieme al Forum delle religioni di Milano, Acli Milanesi, Associazione italiana amici di
Neve Shalom – Wahat al-Salam e Centro studi Confronti, hanno risposto alle domande del pubblico
accorso assai numeroso. Insieme a loro sono intervenuti i pastori Alessandro Spanu, presidente
dell’Unione cristiana evangelica battista d’Italia, Cristina Arcidiacono e Gabriele Arosio che ha
anche moderato l’incontro.
L’Oasi non è un eremo isolato, dove il mondo non entra, ma un’idea differente di convivenza che si
esprime a partire dall’aspetto educativo, centrale per formare nuove generazioni in grado di
spezzare il ciclo di violenza. In un Paese dove, ancora, appena l’1 per cento degli studenti dei due
popoli condivide il medesimo percorso scolastico, sono presenti scuole di vario grado, dove studenti
ebrei e musulmani frequentano le stesse classi, giungendovi anche da paesi vicini. Le lezioni
vengono condotte da due insegnanti, tutto si svolge nelle proprie lingue di riferimento, e si impara
soprattutto a crescere insieme fin da giovanissimi.
Come ha ricordato lo storico Gadi Luzzatto Voghera in chiusura dell’incontro milanese, «la
dinamica dell’educazione è il grande esempio di Neve Shalom – Wahat-al-Salam. Sentire la
narrazione, studiare la narrazione della storia dell’altro. Studiare la Nakba, da parte ebraica, e
studiare la Shoah, da parte araba palestinese, è – credo – il modo più significativo per riuscire ad
attivare delle dinamiche di dialogo che siano permanenti. E l’educazione è l’unico mezzo che ci
permette di guardare con fiducia al futuro, al di là di qualsiasi retorica».
«Una sera – ricorda Dorit Alon Shippin – ero seduta proprio a casa dei genitori di Shireen e ho
sentito per la prima volta la narrativa araba sulla nascita dello Stato di Israele. Fu uno shock
assoluto, non c’era Internet, noi avevamo ricevuto sempre e solo una narrazione soltanto, di parte.
Sono passati 40 anni, oggi ci sono molte organizzazioni rispetto ad allora che lavorano per la
mediazione dei conflitti e la costruzione della Pace, eppure la situazione è peggiorata».
«Dopo il 7 ottobre – raccontano le due donne – grazie al dialogo ci siamo accorti che le notizie che
noi riceviamo sono ancora una volta profondamente differenti. Gli ebrei leggono e ascoltano i
propri mezzi di comunicazione che forniscono una narrazione, e gli arabi fanno lo stesso con i loro.
I media delle due parti raccontano la loro verità. Come fare a capire quale sia la vera situazione?
Continuando a parlare, a informarsi fino alla sfinimento».
Il villaggio ospita anche una “Scuola per la pace” aperta al mondo: un luogo dove i giovani ebrei e
arabi imparano a cogliere la complessità del conflitto in corso e avviano percorsi di comprensione
reciproca. A tutt’oggi più di 25.000 giovani, tra i 15 e i 18 anni, hanno partecipato ai corsi. Nel
villaggio fra’ Bruno ha inoltre fortemente voluto un edificio che poi ha preso il nome di “Casa del
silenzio”, il luogo dell’incontro fra religioni, senza spigoli, aperta per le preghiere e le funzioni dei
fedeli: cristiani, ebrei, musulmani, di qualunque religione.
«Come diceva mio padre, conclude Shireen Najjar, vivere a Wahat-al-Salam – Neve Shalom è come
stare in una coppia: quando le cose vanno bene, è facile stare insieme, ma la vera prova si ha
durante le difficoltà. Dal 7 ottobre in poi, la nostra comunità sta affrontando un momento
estremamente difficile. Questo è il nostro esame come comunità. Ma nessuno se n’è andato».
Convivenza, riconciliazione, parole chiave con il proposito di rispettare tutte le differenze facendo
incontrare le diversità perché si conoscano e si diano valore reciprocamente, per non aver più paura
l’uno dell’altro: per seminare appunto l’idea della pace.

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il commento al vangelo della domenica

FESSURA SULL’INFINITO

presentazione di Gesù al tempio 

il commento di E. Ronchi al vangelo della quarta domenica del tempo ordinario

Lc 2,22-40

Maria e Giuseppe portarono il Bambino al tempio, per presentarlo al Signore. Una giovane coppia col suo primo bambino porta la povera offerta dei poveri, due tortore, ma anche il più prezioso dono del mondo: un bambino.

Sulla soglia, due anziani in attesa, Simeone e Anna: “Che attendevano”, dice Luca, cioè che avevano speranza. Perché le cose più importanti del mondo non vanno cercate, vanno attese (S. Weil). Quando il discepolo è pronto, il maestro arriva.

Non sono le gerarchie religiose ad accogliere il bambino, ma due laici innamorati di Dio, occhi velati dalla vecchiaia ma ancora accesi dal desiderio, il passato che tiene fra le braccia il futuro del mondo.

Perché Gesù non appartiene all’istituzione, non è dei preti ma dell’umanità. È Dio che si incarna nelle creature e tracima dovunque, nella vita che finisce e in quella che fiorisce. È nostro, di tutti gli uomini e di tutte le donne. Appartiene agli assetati, ai sognatori, come Simeone; a quelli che sanno vedere oltre, come Anna; a quelli capaci di incantarsi davanti a un neonato. Dio lo incontri attraverso la tua umanità.

Lo Spirito aveva rivelato a Simeone che “non avrebbe visto la morte senza aver prima veduto il Messia”. Sono parole che la Bibbia conserva perché le stampiamo nel cuore: anch’io, come Simeone, non morirò senza aver visto il Signore. Il viaggio non finirà nel nulla, ma in un abbraccio.

“Simeone aspettava la consolazione di Israele”. Lui sapeva aspettare, come fa chi ha speranza. Se attendi, gli occhi si fanno attenti, penetranti, vigili. E vedono: “ho visto la luce, da te preparata per tutti”!

Ma quale luce emana da questo piccolo figlio della terra, un neonato che sa solo piangere e succhiare il latte? Il sapiente d’Israele ha colto l’essenziale: la luce di Dio è Gesù, è carne illuminata, storia fecondata, innesto del cielo nella terra.

La salvezza non è un’opera particolare, un fatto preciso, ma è Dio che è venuto, si è perso nel mondo, è naufragato negli amori, si è impigliato nei sorrisi e nelle croci dello sterminato accampamento umano, si è nutrito anche lui dei nostri nutrimenti umani. E non se ne andrà più.

“Egli è qui per la risurrezione”: per lui nessuno è perduto, nessuno finito per sempre, è possibile ricominciare da capo e ripartire ad ogni alba. È qui come una mano che ti prende per mano e ti tira su, sussurrando: “talità kum”, bambina alzati! Sorgi, rivivi, risplendi, riprendi la danza della vita.

“Tornarono quindi alla loro casa. E il Bambino cresceva e la grazia di Dio era su di lui”. Tornarono alla santità, alla profezia e al magistero della famiglia, che vengono prima di quello del tempio; alla casa dove arde in appartata fiamma la vita; alla famiglia che è santa perché l’amore vi celebra la sua festa, e ne fa la più viva fessura sull’infinito.

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non ogni critica a Israele è antisemitismo

antisionismo e antisemitismo

di Mauro Boarelli
in “Doppiozero” del 27 gennaio 2025

un quadro  interpretativo semplificato e polarizzato che classifica in modo perentorio chiunque assuma una
posizione critica nei confronti della condotta di Israele come ostile all’esistenza stessa di quello
stato o come antisemita

Il conflitto tra Israele e Palestina ha intensificato il controllo sul discorso
pubblico. Istituzioni politiche e accademiche e organi di informazione – con poche eccezioni
(particolarmente rare nel panorama italiano) – hanno partecipato all’imposizione di un quadro
interpretativo semplificato e polarizzato che classifica in modo perentorio chiunque assuma una
posizione critica nei confronti della condotta di Israele come ostile all’esistenza stessa di quello
stato o come antisemita. Ogni possibilità di dibattito è preclusa: con un “antisemita” (non importa se
reale o immaginario) non si discute.
Con il suo libro Antisemita. Una parola in ostaggio (Bompiani, 2025), Valentina Pisanty rifiuta le
regole di questa rappresentazione e ne indaga le origini e il funzionamento, concentrandosi in
particolare sul “sequestro” della parola antisemita e sullo slittamento da un preciso significato
storico a un uso politico strumentale.
Il punto cruciale è individuato nella fusione tra il concetto di antisionismo e quello di antisemitismo,
praticata diffusamente con irresponsabile leggerezza. Questo processo di equiparazione necessita
della negazione della storicità di entrambi i termini. Solo questa rimozione, infatti, può permettere
di ridurre a sinonimi due termini che – in realtà – non sono affatto sovrapponibili, e di nascondere le
stratificazioni di significato che ciascuno di essi custodisce. Se è fondata la preoccupazione che
pezzi del tradizionale repertorio dell’antisemitismo possano oggi ricombinarsi dentro una cornice
antisionista favorendo rigurgiti antisemiti, è altrettanto evidente che l’equiparazione tra i due
concetti rafforza questa deriva, mentre una accurata distinzione la priverebbe della capacità di
espandersi in modo incontrollato.
Pisanty pone l’attenzione sul rischio che il processo di de-storicizzazione possa rinvigorire il
discorso razzista:
“Negare la storicità dell’antisemitismo significa farsi catturare dalla narrazione razzista. Gli
antisemiti essenzializzano gli ebrei riconducendoli a uno stereotipo che ai loro occhi è scolpito
nell’eternità. Per reazione molti ebrei essenzializzano gli antisemiti, replicandone l’operazione a
valori invertiti, e ricostruiscono la propria identità di gruppo sul mito di uno scontro senza tempo”.
(pp. 36-37)
Questa osservazione – un’osservazione scomoda, che tocca nervi scoperti – evidenzia le
responsabilità di tutti coloro che, a qualsiasi livello, maneggiano senza cura – per ignoranza o,
viceversa, per intenzionale quanto miope scelta strategica – concetti che possono trasformarsi in
armi pericolose. Collocati al di fuori del tempo, cioè al di fuori della storia, risultano inservibili per
la comprensione di ciò che accade, ma possono essere agevolmente utilizzati per manipolare
l’opinione pubblica.
Non è certo una novità che la contesa intorno all’interpretazione storica avvenga anche sul controllo
delle definizioni. È agli inizi degli anni duemila che prende corpo l’idea di mettere a punto una
definizione prescrittiva di antisemitismo. Pisanty ricostruisce in modo dettagliato il lungo processo
da cui ha avuto origine la Definizione operativa di antisemitismo elaborata nel 2016
dall’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), che da allora si è imposta – o pretende
di imporsi – come riferimento obbligato. Se la definizione proposta è piuttosto vaga, decisamente
ambigui sono alcuni degli esempi che il documento indica come comportamenti antisemiti, e che
potrebbero essere invece legittimamente interpretati – a seconda del contesto in cui si manifestano –
secondo altre chiavi di lettura. Il loro ruolo – ancora una volta – è quello di orientare il senso
comune verso l’equiparazione tra antisionismo e antisemitismo.
Il tentativo di affermare un monopolio sulla definizione di antisemitismo è strettamente connesso
alla disputa intorno al significato storico e all’eredità della Shoah. In un articolo di notevole valore
pubblicato dalla rivista “Gli asini” (n. 113/2024), Stefano Levi Della Torre ha messo a fuoco con
grande lucidità la portata del conflitto tra due diverse concezioni. La prima assume l’unicità della
Shoah come elemento che ne afferma il valore universale. In questo senso, “la memoria della Shoah
vale non solo per se stessa, ma anche a focalizzare l’attenzione su ogni altra «crudeltà di massa» del
passato e del presente al fine di mobilitare le coscienze e l’azione perché fatti simili non si ripetano
né per gli Ebrei né per altri.” La seconda afferma invece che “lo sterminio degli Ebrei è un fatto
estremo, tale che ogni commistione con persecuzioni, massacri e genocidi inflitti ad altri e in altre
situazioni riduce la percezione della sua unicità e della sua portata […]”. La prima sostiene che il
crimine commesso contro gli Ebrei sia stato un crimine contro l’umanità, e quindi la sua memoria
esprime sia un monito a riconoscere che il male estremo risiede nella nostra normalità, sia uno
stimolo ad agire perché nulla di simile possa ripetersi. La seconda – adottando una prospettiva
opposta – sostiene che la Shoah abbia rappresentato un crimine dell’umanità contro gli Ebrei, e in
questo modo chiude l’interpretazione entro uno spazio dominato dal vittimismo e dalla
sacralizzazione della Shoah.
L’analisi di Pisanty è quindi focalizzata su un aspetto specifico che deriva direttamente da questo
contrasto tra modi differenti di intendere la memoria della Shoah (la stessa autrice aveva già
affrontato il tema della “sacralizzazione”: Abusi di memoria. Negare, banalizzare, sacralizzare la
Shoah, Bruno Mondadori, 2012). Più precisamente, l’oggetto del libro è il modo in cui una specifica
declinazione della memoria della Shoah viene trasferita da un piano culturale a un piano operativo,
nel quale assume la forma di prescrizioni e divieti. Sarebbe di grande interesse continuare l’analisi
indagando i modi in cui prescrizioni e divieti si depositano nel senso comune attraverso i meandri
dei social network e dei canali di informazione, lungo i quali gli indizi di antisemitismo vengono
diffusi senza controllo, amplificati, distorti, non di rado falsificati. Pisanty ne propone un assaggio
nelle pagine in cui ricostruisce minuziosamente la campagna orchestrata contro il leader laburista
britannico Jeremy Corbyn (a proposito della quale viene sottolineata la coincidenza con l’adozione
della Definizione operativa di antisemitismo dell’IHRA).
Si tratta, in definitiva, della pretesa di “assumere il controllo della lingua”, come l’autrice scrive
nell’introduzione. Questa pretesa, naturalmente, non è una prerogativa del governo israeliano o
degli intellettuali che, in Europa e negli Stati uniti, semplificano concetti complessi piegandoli a
obiettivi politici contingenti (magari perdendo di vista, in questo modo, l’antisemitismo vero, che
non ha mai cessato di esistere e che rischia di tornare a espandersi, mentre gli occhi sono rivolti
nella direzione sbagliata). Herbert Marcuse aveva scritto pagine illuminanti al riguardo nel suo
saggio più celebre, L’uomo a una dimensione, pubblicato nel 1964. “Il linguaggio rituale-autoritario
– scriveva – si diffonde in tutto il mondo contemporaneo, nei paesi democratici come in quelli nondemocratici”, ed è un “linguaggio chiuso [che] non dimostra e non spiega, bensì comunica
decisioni, dettati, comandi”. E ancora:
“Gli elementi di autonomia, di scoperta, di dimostrazione e critica recedono dinanzi alla
designazione, all’asserzione, all’imitazione. […] il linguaggio tende ad esprimere ed a promuovere
l’identificazione immediata della ragione col fatto, della verità con la verità stabilita […]. Nei punti
nodali dell’universo di discorso pubblico, compaiono proposizioni analitiche autovalidantisi, che
funzionano come formule magico-rituali. Ficcate con un martellamento continuo nella mente
dell’ascoltatore, esse pervengono a chiuderla nel cerchio delle condizioni prescritte dalla formula”.
Anche in questo caso il concetto di “chiusura” è centrale, e la ricorrenza fa riflettere. Chiuso è il
linguaggio evocato da Marcuse, un linguaggio privato della sua funzione cognitiva in favore di un
ruolo meramente funzionale e operativo (e “la razionalità operativa – scrive ancora Marcuse – non
sa che farsene della ragione storica”). È chiusa la memoria della Shoah nella declinazione contestata
da Levi Della Torre, piegata su se stessa a difesa della propria identità di vittima. Ed è chiusa la
definizione di antisemitismo analizzata da Pisanty, costruita con l’intento di delegittimare e tacitare
le opinioni critiche nei confronti della politica di uno stato stigmatizzandole con un epiteto associato
a un comportamento sociale universalmente riconosciuto come inaccettabile (antisemita!),
indipendentemente da una verifica sulla verità di tale affermazione.
Chiusura è quindi il tratto che accomuna politiche della memoria e del controllo del linguaggio e
caratterizza aspetti cruciali della vita politica e sociale modellata nel corso di un lungo arco
temporale. Questa metamorfosi mostra ora il suo volto autoritario. Se la ristrutturazione del
linguaggio analizzata da Pisanty ha radici nel passato, l’aggressività con cui si manifesta ai nostri
giorni rappresenta un aspetto peculiare. D’altra parte non c’è da stupirsi: chiusura invoca
necessariamente censura, e prima o poi la censura arriva, anche nella forma più subdola
dell’autocensura, indotta dalla paura di prendere posizioni che verranno sistematicamente
stigmatizzate. Il dibattito pubblico sul conflitto tra Israele e Palestina – in particolare dopo il feroce
attacco di Hamas – è stato fortemente condizionato dal binomio censura/autocensura. Pisanty
analizza il caso della Germania, ricostruendo le tappe attraverso le quali, nel corso di un ventennio,
le “politiche della memoria […] hanno assunto i tratti di una religione di stato” (p. 119),
cristallizzando il lungo processo di elaborazione del senso di colpa della nazione in una serie di
imperativi categorici cui tutti devono uniformarsi, pena l’esclusione dalla vita civile (e quanto
questa esclusione sia concreta è testimoniato dai casi di censure e licenziamenti riportati nel
capitolo).
Il modo in cui il passato viene interpretato, trasmesso e utilizzato è sempre stato oggetto di una
disputa densa di conseguenze sociali. Nelle Tesi “sul concetto di storia” Walter Benjamin afferma:
“In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo
che è sul punto di soggiogarla”. La sua preoccupazione era rivolta al rischio che le società
conformino il proprio punto di vista (e quindi anche il rapporto con la propria storia e memoria) a
quello di chi detiene il potere. Quello che sta accadendo sotto i nostri occhi somiglia molto a ciò che
Benjamin temeva. Nell’introduzione al suo libro, Valentina Pisanty sostiene che i processi di
costruzione di un linguaggio prescrittivo e autoritario relativo all’antisemitismo da lei analizzati
sono andati “di pari passo con la scalata al potere delle destre mondiali negli ultimi vent’anni” (p.
16). Benjamin ha scritto le sue riflessioni nei primi mesi del ‘40, inevitabilmente influenzato
dall’esperienza del nazismo. Un parallelismo su cui riflettere

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la chiesa non scalda più il cuore e non cambia la vita – parola di papa

“la Chiesa è bloccata”

“parcheggiata dentro una religione convenzionale…”

di Andrea Filloramo 

La Chiesa è bloccata, parcheggiata dentro una religione convenzionale, esteriore, formale, che non scalda più il cuore e non cambia la vita”

Queste sono le parole chiare, semplici, lapidarie  di Papa Francesco con cui si oppone a quanti si dicono cattolici tradizionalisti, a quanti, cioè,  professano la dottrina e la prassi della Chiesa cattolica nella forma in uso prima del Concilio Vaticano II (1962-1965), deplorando gli aggiornamenti e le aperture  successive fatte  dagli ultimi Papi e auspicando o temendo che, come richiesto da più parti, ce ne siano ancora altre. 

Essi aderiscono alla dottrina cattolica come è esposta nel Catechismo di Pio X e praticano determinate devozioni pubbliche e private, che – come afferma Papa Francesco, non cambiano assolutamente la vita.  

Essi non pensano e molti di loro forse non sanno che il devozionismo, è cosa ben diversa dall’essere devoti e in effetti è – diciamolo con estrema  chiarezza  –  un frutto della crisi della fede. 

Ai vescovi conservatori statunitensi, che imputano  al Papa di aver impresso una svolta radicalmente progressista alla Chiesa cattolica, lo stesso Pontefice, nel corso di una intervista all’emittente televisiva “Cbs News, ” dice “E’ questo, un atteggiamento suicida, perché un conto è tenere in considerazione la tradizione, considerare le situazioni del passato, ma un altro è rinchiudersi in una scatola dogmatica” e ha precisato di riferirsi con l’epiteto di “conservatore” a quanti “si aggrappano a qualcosa e non vogliono vedere altro al di là di essa” 

    Sicuramente nessuno può negare che il cambiamento e l’innovazione, in ogni campo e in tutti, non sono di facile attuazione, non avvengono dall’oggi al domani, creano sempre ansia, mettono in stato di allerta, richiedono la capacità di fare scommesse audaci senza dare alcuna garanzia e la volontà di perseverare di fronte agli ostacoli, ma una certa parte della Chiesa Cattolica, quella clericale. sacerdotale, confessionale, chiamiamola pure sanfedista è fortemente incagliata in un dogmatismo astratto, che pietrifica la rivelazione, soffoca ogni istanza di novità, fa sempre arretrare e rifugiare nelle categorie della filosofia tomistica, considerata e rimasta ancora – qualunque cosa si pensi o si dica – la “philosofia perennis Ecclesiae”, cioè la filosofia imperitura della Chiesa.  

Non sono poche, quindi, le critiche, le osservazioni all’interno della stessa Chiesa, provenienti dallo stesso mondo clericale nel corso dei secoli, che – se osserviamo bene – si ripetono e sono sempre le stesse.  

Una cosa è certa: oggi non è più il tempo in cui a queste critiche, a questi giudizi e osservazioni, possa rispondere l’apologetica, che abbonda nelle omelie di molto preti, ossia il pensiero di teologi e scrittori di varie epoche, che si proponevano  di difendere la dottrina e l’autorità della Chiesa cattolica.     

Nella Chiesa il tema del rapporto tra passato e presente, rimane, come sempre è stato, uno dei più dibattuti e, probabilmente, finora irrisolti della nostra epoca.  

Interessante quanto il professore Marco Marzano osserva: “La Chiesa Cattolica trae la sua forza dalla sua formidabile continuità istituzionale, dal suo legame con un passato che essa cerca di rendere ogni giorno presente. Le fratture, le svolte, le discontinuità, gli strappi non le appartengono. Così come fondamentalmente ad essa estranee sono   l’umanesimo laico e la cultura dei diritti e delle libertà. Questa è la sua forza e questo è il suo limite. Chi si è illuso del contrario, di poter , dall’interno, trasformarla e stravolgerla o di farne, dall’esterno, una protagonista dei processi di liberazione ed emancipazione dell’umanità ha preso una solenne cantonata».  

Un semplice commento: “Se il vangelo è davvero «buona notizia», allora la fede cristiana non c’entra nulla con il pessimismo. Ciò non significa che la realtà non sia troppo spesso dura e dolorosa. Rimane il gravoso impegno e il coraggio di vedere come affrontarla”.

 

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