benvenuti!

 

la mia casetta

Benvenuto nella mia casa, benvenuto nella mia home!

Mi chiamo luciano e mi piace parlare e dialogare cogli amici. Sono anche un frate francescano e sacerdote, ma non voglio convincere o convertire nessuno. Mi piace parlare con tutti di ciò che muove la mia vita, e questa mia home la puoi considerare come la  ‘casa del dialogo’ anche e soprattutto con le posizioni più distanti dalle mie perché sento che questo mi arricchisce: per questo nella mia casetta di mattoni ho esposto una targhetta che ho riesposto anche qui: “la mia casa è aperta a tutti”.

la mia casa è aperta a tutti

Come uomo e come frate e sacerdote mi piace pensare (e ‘sognare’) che nell’unico mondo che ci è dato di vivere possiamo e dobbiamo vivere meglio. Credo nella possibilità di cambiarlo in meglio. Anche nella chiesa penso si debba radicalmente cambiare molto per renderla più autenticamente evangelica. Il Concilio Vaticano II° cinquanta anni fa ha avviato una rivoluzione che però è rimasta incompiuta perché non dobbiamo partire dalla chiesa, nel nostro riflettere e operare, ma dalla vita. La vera domanda che è necessario porsi è: quale umanità noi sogniamo? per quale progetto di umanità noi ci impegniamo, ci battiamo? Esso dovrebbe rappresentare il sogno che Dio ha per il mondo: un sogno di vita, di giustizia, di pace, di accoglienza, di fraternità, concepito a partire dai più deboli, dalle persone che fanno più fatica. Solo dopo possiamo domandarci: rispetto a tutto questo, di quale chiesa abbiamo bisogno?

Ma se il progetto di umanità corrisponde al sogno che Dio ha per l’uomo, non possiamo non domandarci subito dopo: quale Dio? Sembra a volte che in modo indistinto ci si possa rivolgere al dio dei ricchi e al dio dei poveri; al dio che legittima le guerre ed al dio di chi si impegna con perseveranza per la non violenza attiva e per la pace; al dio di chi fa appello – in nome di una qualche ‘identità cristiana’- alle discriminazioni e al razzismo e al dio di chi accoglie l’altro, lo straniero, il diverso da me; al dio di chi è morto per contrastare le mafie e al ‘ dio dei mafiosi’; al dio di chi è legato al potere e al dio di chi sta con gli umili e cammina coi poveri della terra … Ecco: l’interrogativo su ‘quale chiesa?’ secondo me rimanda alla domanda su ‘quale Dio?’. Ma anche su ‘quale Gesù?’: il Gesù delle devozioni o il Gesù di quella provocazione rivoluzionaria che il Vangelo continua a suggerirci quotidianamente?: dunque: ‘quale umanità?’, ‘quale Dio?’, ‘quale Gesù?’, e solo da ultimo: ‘quale chiesa?’

La chiesa è solo un segno dentro la storia, segno di una possibile umanità ‘altra’, alternativa a quella che abbiamo realizzato. Anche noi sacerdoti dobbiamo interrogarci sul senso e sul ruolo della nostra missione – ‘quali preti?’ – solo dopo aver cercato di rispondere a tutte le domande che ho appena evocato. Così possiamo evitare ogni sorta di autoreferenzialità, cioè un atteggiamento in cui la chiesa guarda a se stessa, al proprio interno e ai propri bisogni e interessi e ha col mondo un rapporto di competizione, o  di paura, o di sospetto: sentimenti che ispirano prediche, ammonimenti, condanne, al limite pii consigli moralistici, ma non spirito di vero confronto, apertura, ascolto, dialogo. E’ importante ascoltare molto prima di parlare…

Indubbiamente viviamo in tempi complessi, e la sofferenza, la crisi che attraversa tutta la società, compresa la chiesa.  Non credo, tuttavia, che si possa parlare di una generale crisi della religione. Di ‘religione’ penso, modestamente, che ce ne sia anche troppa nella nostra società: non mancano di certo le celebrazioni, i riti religiosi … rilanciati continuamente anche dai media. Altra cosa è la chiesa della fede, la chiesa del Vangelo, una chiesa esigente, questa, perché chiama a scelte radicali, perché il mondo ha bisogno di una grande spinta alla giustizia, di un grande processo di umanizzazione. Il pregare stesso dovrebbe essere meno una serie di formule o riti e più una vibrazione profonda dell’essere dentro la storia, con riferimento all’ ‘ulteriorità’, certo, ma non nel senso di una fuga dal mondo, e l’impegno per la giustizia dovrebbe riassumere tutte le dimensioni della nostra vita.

Dobbiamo ritornare ad annunciare la parola di Dio come una parola profetica, sempre immersa nella storia, o meglio nelle molteplici ‘storie’ delle persone in carne e ossa che incrociano il nostro cammino. Perché ciò sia possibile è necessario che la chiesa si liberi dall’abbraccio mortale con il potere politico, economico e militare. Quando la chiesa diventa una ‘chiesa del potere’ non è più di fatto ‘chiesa’, popolo di Dio, chiesa di Gesù Cristo, presenza nel mondo della paternità universale di Dio.
Padre Luciano Meli

Padre Luciano Meli

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la nascita di Israele è una storia coloniale

la nascita di Israele è una storia coloniale accettarlo è doloroso ma serve alla pace

di Anna Foa
in “La Stampa” del 20 marzo 2025

Il libro dello studioso di origine palestinese Rashid Khalidi, Palestina. Cento anni di colonialismo, guerra e resistenza, ci racconta la storia di questo secolare conflitto visto dalla parte dei palestinesi.
Khalidi, la cui famiglia apparteneva agli strati più elevati dell’élite palestinese, è nato nel 1948 a New York City, dove suo padre era un alto funzionario dell’Onu. Un suo pro-prozio era stato un importante funzionario sotto il governo ottomano, a lungo sindaco di Gerusalemme. Studioso di  rilievo, docente all’università di Chicago e alla Columbia, Rashid Khalidi è stato anche attivamente
coinvolto nelle vicende politiche: era a Beirut durante la guerra del Libano del 1982, e ha partecipato attivamente alle trattative tra palestinesi e israeliani a Madrid e a Washington.
In questo libro, Khalidi fa ampio uso tanto dei documenti pubblici che delle memorie famigliari
oltre che della sua stessa esperienza politica. Ne risulta una scrittura affascinante in cui l’uso
rigoroso delle fonti documentarie si mescola con quello delle memorie famigliari e personali.
Il filo rosso che percorre il libro, che caratterizza la storia secolare del conflitto, è il “colonialismo”.
Tutta la storia del conflitto, dalla nascita del sionismo ad oggi, è infatti analizzata nell’ottica
coloniale. Come già per Edward Said, il grande studioso autore di “Orientalismo”, quella della
nascita di Israele è per Khalidi una storia coloniale, sia pure di un colonialismo diverso da quello
che ha caratterizzato le potenze europee nei secoli XIX e XX. Quello “di insediamento”,
caratterizzato dall’insediamento di coloni e dall’espulsione più o meno ampia dei precedenti abitanti.
L’analisi in chiave coloniale dell’intera storia di Israele è così il filo rosso del libro. Altri studiosi,
dando maggior rilievo agli elementi di rinascita nazionale presenti inizialmente nel sionismo, fanno
invece risalire la caratterizzazione coloniale ad anni più recenti, il 1948 con la Naqba (la cacciata
dei palestinesi con la guerra) o il 1967 con l’inizio dell’occupazione. Comunque lo si voglia
interpretare, questo del colonialismo resta un tema su cui nessuno studioso serio può fare a meno di
soffermarsi e su cui il libro di Khalidi apre una discussione importante e, credo, necessaria. Questa
coloniale non è, vorrei sottolinearlo, un’interpretazione adottata solo dalla storiografia palestinese,
ma da molti studiosi israeliani e americani, la maggior parte dei quali ebrei. Inoltre, lungi dal trarre
dall’etichetta coloniale la conseguenza della necessità di distruggere lo Stato di Israele, Khalidi
immagina scenari per il futuro che non sono molto diversi da quelli di una buona parte degli
studiosi post-sionisti israeliani, sostenitori di un’Israele che non sia più lo Stato degli ebrei, ma uno
Stato democratico in cui tutti, ebrei e non ebrei, godano degli stessi diritti.
Decisa è anche, nel libro, la valutazione negativa della cosiddetta stagione di Oslo, le trattative fra
israeliani e palestinesi che dalla conferenza di Madrid a quella del 2000 di New York hanno portato
al fallimento della nascita di uno Stato, ai cui negoziati pure Khalidi aveva partecipato.
Particolarmente netto il giudizio negativo sugli accordi di Oslo e sull’incapacità di negoziare dei
vecchi dirigenti dell’OLP, troppo a lungo lontani dalla situazione reale della Palestina.
Infatti Khalidi non si limita a condannare in maniera netta la politica israeliana, che vede in tutta la
sua storia politica, sia con i governi laburisti che con quelli del Likud, come volta a creare uno Stato
fondato sull’oppressione dei palestinesi, e nella cui volontà di pacificazione non crede. La sua
critica, in molti casi durissima, è anche rivolta alle organizzazioni palestinesi, tanto l’OLP che
Hamas, che vede oscillare fra l’incapacità di darsi dei progetti politici e la scelta del terrorismo e
della violenza. Questa scelta, scrive, «oltre a sollevare gravi questioni legali e morali e a privare i
palestinesi di un’immagine mediatica positiva, a livello tattico si è dimostrata enormemente
controproducente».
In quest’ottica, nessuna indulgenza per il 7 ottobre nella postfazione al libro, scritta nella primavera
del 2024 (mentre il testo si fermava al 2019). La lettura del secolo di guerra, una guerra sempre per
lui asimmetrica, in cui i palestinesi sono sempre visti come i più deboli tra i due contendenti, non lo
spinge a giustificare il terribile attacco terroristico del 7 ottobre, ma piuttosto a riflettere sulle
possibilità che si aprono anche dopo questa data. Il trauma collettivo seguito in Israele al 7 ottobre
ha portato ad esacerbare le attitudini verso i palestinesi della società israeliana, spingendone molta
parte a sostenere il governo di estrema destra, afferma. Una nuova fase è iniziata, particolarmente
letale e distruttiva, in cui tuttavia si riconoscono ancora le tracce della storia precedente. La pace
che Khalidi auspica, anche se la vede sempre più allontanarsi nel tempo, è «una pace fondata
sull’ammissione delle dolorose realtà storiche e sullo smantellamento delle strutture di oppressione,
basata sulla giustizia, sulla parità di diritti e sul riconoscimento reciproco». Uno scenario su cui
anche gli israeliani che si oppongono a questa guerra e a questo governo non possono che
concordare.

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il messaggio di L. Segre ai giovani del forum internazionale giovanile

miei cari ragazzi state attenti, l’odio è sempre in agguato

di Liliana Segre

il messaggio della senatrice Liliana Segre che apre  il Change the World Model
United Nations di New York, il più grande forum internazionale giovanile, a cui partecipano 4.000  studenti provenienti da oltre 140 Paesi.

Care ragazze e cari ragazzi, sono molto felice di rivolgermi a voi che siete la migliore garanzia per
il futuro. Il tempo è una strana variabile, comincia oggi come l’attimo fuggente. Velocissimo. Ecco
perché vorrei chiedervi di fermarvi un attimo per ascoltare, in silenzio, i vostri pensieri.
Voi che siete i cittadini del mondo dominato dai social, una dimensione sempre più interconnessa,
uno spazio in cui vengono condivisi – sarebbe meglio dire esibiti – opinioni, punti di vista, stati
d’animo, umori, che sembrano sentimenti e invece nella stragrande maggioranza dei casi sono
pulsioni.
La pulsione più inquietante e la più radicata nell’animo umano, ha a che fare con l’odio. E io ne sono
la testimone vivente, avevo più o meno la vostra età quando ho conosciuto l’odio che si fa sistema,
teoria e pratica, dell’uomo contro l’uomo.
Uscita per buona sorte dal campo di sterminio di Auschwitz, porto con me quella storia sulla pelle:
l’odio inciso. Ecco perché è importante ricordare anche a voi giovani sentinelle della Memoria che
la memoria è la funzione del mondo. A voi che avete scelto questo percorso, affinché siate pronti ad
indagare le ragioni dell’altro prima di volere affermare le vostre.
La buona pratica dell’ascolto che si mescola al dialogo nella diversità resta il miglior strumento di
comprensione e di crescita. È l’elogio dell’imperfezione tanto caro alla Nostra indimenticata Rita
Levi Montalcini.
In un’epoca in cui il mondo sembra spesso diviso da parole di odio è fondamentale che ci fermiamo
a riflettere su cosa vogliamo realmente costruire. L’odio non crea mai nulla di buono: è una forza
distruttiva che lascia solo macerie, divisioni e sofferenza. Proprio in questo momento di difficoltà
voi, le nuove generazioni, avete un’opportunità unica e un’importante responsabilità: quella di
rispondere a tutto questo con un linguaggio diverso, con una forza positiva che può cambiare
davvero le cose.
Ribellatevi all’aggressività e alla violenza che passa attraverso le parole e atterra direttamente dentro
le nostre vite.
Le parole che scegliamo di pronunciare, le azioni che decidiamo di intraprendere possono
trasformare la realtà. Non ci sono muri da alzare, ma ponti da costruire. La nostra forza sta nella
capacità di guardare al futuro con speranza e determinazione, di lavorare per la pace, per la
solidarietà, per un mondo fatto di comprensione di ciò che è diverso da noi. L’aggressività, la
violenza, l’intolleranza, il razzismo, l’antisemitismo, l’odio per chi è diverso dilagano anche nel
discorso pubblico. Neanche le grandi istituzioni ne sono immuni, così che addirittura gli organismi
sovranazionali come l’ONU sembrano incapaci di rispondere alle sfide del nostro tempo.
Eppure io, bisnonna, quando vi guardo, quando vi parlo, vedo e sento la speranza del cambiamento.
Voi siete avamposti di pace, nel cuore custodite i semi del bene, del buono. Ciascuno, però, deve
farli germogliare in gesti concreti e prese di posizioni precise: contro l’indifferenza e l’intolleranza,
che sono l’altra faccia dell’odio.
Dovete essere voi i veri protagonisti di questo cambiamento necessario. Non siate spettatori passivi
del nostro tempo, perché Voi siete chiamati a scrivere il nostro futuro. Siate ambasciatori d’amore
contro l’odio e guardate al presente con il giusto stupore, perché alla fine di ogni notte sorgerà il
sole e avrà il vostro sorriso.
Abbiate sempre in mente le parole di Martin Luther King: “Occorre piantare il melo anche sotto le
bombe”.
Coraggio ragazze e ragazzi, buon lavoro.

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il commento al vangelo della domenica

IL TEMPO VERTICALE DELL’ATTESA
 Luca 13,1-9
il commento di E. Ronchi al vangelo della terza domenica di quaresima
Un vangelo di cronache sanguinose, disgrazie e stragi, contemporaneo all’uomo di sempre.
La risposta di Gesù è netta: non è Dio che fa cadere torri o palazzi, non è la mano di Dio ad architettare tragedie o guerre.
E tuttavia nei giorni del dolore la prima domanda che brucia è un’altra: perché, Dio? Dov’eri quel giorno? Quando la mia bambina è stata investita da quell’ubriaco, dov’eri?
Dio era lì, e moriva nella tua bambina; era lì anche in quel giorno dell’eccidio dei Galilei nel tempio; era là come il primo a subire violenza, il primo dei trafitti.
E non c’è altra risposta al pianto del mondo che il primo vagito dell’alleluia pasquale.
Se non vi convertirete, perirete tutti. Non è una minaccia all’umanità, non c’è nessuna scure calata alle radici dell’albero.
È un lamento, una supplica. E’ Dio che ci implora: convertitevi, invertite la direzione di marcia, ovunque voi siate. Nella politica del potere, nell’economia che uccide, nell’ecologia derisa, nella finanza padrona del mondo, nell’investire in nuove armi.
Non è l’uomo che si rivolge a Dio, qui è Dio che si rivolge all’uomo e ci prega, ci implora: tornate umani!
Bellissima la poesia di J. Donne che ci ricorda: Non domandarti per chi suona la campana/ Essa suona sempre un poco anche per te.
Conversione è un termine austero, ma sulla bocca di Gesù ha un altro suono; vuol dire essere freschi, essere rinnovabili; essere nuovi e incamminati. Vieni di qua, il cielo è più azzurro, l’aria è più limpida. La vite, l’ulivo, il fico sono pieni di frutti. Di qua è più bello!
E il vangelo ci porta via dai campi della morte, per farci camminare nei campi della luce.
“Sono tre anni che vengo a cercare e in questo fico non ho trovato un solo frutto. Mi sono stancato, taglialo!”
No, padrone!
Il contadino sapiente che è Gesù, dice: “no, padrone; no alla misura breve del demolire, sì alla misura lunga della pazienza e della cura. Sì al tempo verticale che sa aspettare.
Proviamo ancora, un altro anno e poi vedremo”.
Lui ha fiducia in me: l’albero dell’umanità è sano e ha radici buone, tu non sei sterile e forse porterai frutto.
Il mio Dio ortolano lascia la scure e si appoggia, si aggrappa a un forse, a una parolina che ci fa sbirciare nel cuore di Dio. Un forse che profuma di speranza come fai a negarlo?
Il finale della piccola parabola resta aperto, non è detto cosa sarà del frutto futuro. Ma è detto l’atto di fede di Dio in me: tu puoi diffondere un gusto di bontà, la dolcezza di un piccolo fico. Tu puoi.
Signore, tu vedi in me il santo prima del peccatore, la luce prima del buio. E io spero in te perché tu speri in me, credo in te perché tu credi in me.
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perché il boom delle destre nazionaliste

non solo Trump o Israele:

la ‘finestra di Overton’ spiega anche il boom delle destre nazionaliste

politica, economia e cultura del Grande Mediterraneo

di Claudia De Martino

Il politologo statunitense Joseph P. Overton (1960-2003) ha coniato un modello, la “finestra di Overton”, che è diventato celebre negli anni ’90 per spiegare come fosse possibile rendere progressivamente accettabili idee che la società in una data epoca rigettava in blocco.

Interessato a spiegare al grande pubblico il ruolo svolto dai think-tanks nel forgiare nuove idee e concezioni del mondo, si soffermò sull’efficacia della persuasione politica, che riesce gradualmente a spostare interi segmenti di opinione pubblica da posizioni di fermo rigetto di determinati principi a atteggiamenti di cauta apertura fino all’accettazione totale di un nuovo modello e all’identificazione di quest’ultimo come paradigma interpretativo del mondo. Overton spiegò quindi che ogni società è in continua trasformazione e che non ha senso ritenere che idee percepite come maggioritarie nel passato (si pensi, ad esempio, alle concezioni collettivistiche o religiose in Europa), poiché hanno rappresentato dei valori etici e una bussola per intere generazioni, debbano continuare a guidare gli individui di un’epoca successiva.

Perché una nuova idea possa emergere occorre che si producano delle condizioni ad essa favorevoli, ovvero che le sia permesso quell’impercettibile passaggio dallo stadio di “impensabile” ad una prima forma di tolleranza e di circolazione nella società, che precede il suo radicamento nelle masse. Overton illustra un percorso contraddistinto da 8 tappe: l’avvio si snoda a partire dalla “impensabilità” iniziale, che viene sfidata da un pensatore/un politico solitario che la sdogana, per poi avanzare grazie alla sua “radicalità”, livello in cui un’idea disturba e viene percepita dai più come estrema ma comincia comunque a circolare, per lasciare il passo gradualmente alla sua “accettabilità”, momento in cui l’idea circola ampiamente e viene considerata come una tra tante sul mercato delle idee, fino a trasformarsi in “sensatezza”, quando la maggioranza di individui iniziano ad attribuirle un alto valore esplicativo, per poi tradursi nella fase della “diffusione”, quando ormai è stata adottata dalle masse, e infine giungere allo stadio supremo della “legalizzazione” quando viene incorporata a livello istituzionale dai governi e dagli stati e diventa il nuovo paradigma esplicativo di una determinata epoca storica. ⁠

Trump taglia la ricerca: l’Ue pensa a un passaporto speciale per i cervelli. L’interesse “inusuale” dei ricercatori Usa per la Germania

Del resto, la storia abbonda di esempi in cui il binomio impensabilità/radicalità di certe idee (si pensi all’Olocausto, solo per citare l’esempio più eloquente) fu inizialmente offuscato dall’assunzione di una strategia graduale, che applicando la discriminazione degli ebrei e delle altre categorie considerate impure a poco a poco, partendo dall’esposizione di simboli distintivi come la “stella di David”, e intensificando di anno in anno le persecuzioni, fece passivamente accettare ai cittadini europei l’utilità di un genocidio con camere a gas e di una guerra mondiale senza proteste, scioperi di massa o insurrezioni popolari.

Scorrendo l’attualità ci si accorge di quanto questo processo di “apertura di finestre di idee” stia esclusivamente favorendo l’avanzare ineluttabile delle destre, contro cui le sinistre mondiali non riescono a produrre alcuna forma alternativa di pensiero. Solo considerando il Medio Oriente, l’immagine della Riviera di Gaza proposta da Trump gioca esattamente su questo terreno: essa ha già superato numerosi stadi impercettibili di cui l’opinione pubblica si è accorta solo parzialmente – la legittimazione delle conquiste territoriali del ’67 (Gerusalemme, le alture del Golan, l’area C della Cisgiordania) a dispetto delle risoluzioni Onu e contro il diritto internazionale nel suo primo mandato presidenziale, il “piano di pace del secolo” che di pace aveva solo il titolo – per preparare il terreno alle proposte avanzate nel secondo mandato trumpiano, quelle di una pulizia etnica nella Striscia.

Se Trump è ancora percepito come un personaggio “radicale” in Europa, è perché tra Europa e Usa si è instaurata una sorta di dissonanza cognitiva, per cui quello che è diventato accettabile oltreoceano – e non solo ammissibile, ma, secondo lo schema di Overton, ormai legalizzato dall’assunzione di una carica presidenziale – ancora fortunatamente non lo è nel Vecchio continente, in cui forse questo passaggio è più lento a compiersi.

Tuttavia, non bisogna solo focalizzarsi su Israele e Trump, perché il mondo corrente abbonda di esempi: la Russia di Putin, ad esempio, attraverso i fondi elargiti a partiti “fratelli” ormai indifferentemente collocati all’estrema destra e all’estrema sinistra, è riuscita gradualmente a far passare il messaggio che lo shock dell’aggressione territoriale unilaterale all’Ucraina del febbraio 2022 può trasformarsi, a dispetto dei fatti e di 190mila morti tra le due parti, in una giustificata e nobile guerra di difesa per la dignità del popolo russo, ipoteticamente umiliato dalla Nato a guida Biden e quindi dall’intero Occidente, all’interno di una concezione del mondo strutturalmente diviso in sfere di influenza intangibili ma perpetue, le cui linee di demarcazione vanno accettate come placche tettoniche e non come il prodotto di scelte e orientamenti politici costantemente in movimento.

Ucraina e Medio Oriente, i cittadini americani delusi dagli sforzi di Trump per la pace: crolla il tasso di approvazione per il suo lavoro

Infine, senza nemmeno considerare il paradigma della politica di potenza che si sta di nuovo imponendo nelle relazioni internazionali, sarebbe sufficiente citare i paradossi della sponsorizzazione delle ultime due edizioni delle conferenze sul clima da parte dei Paesi maggiori produttori di petrolio, come l’Azerbaijan e gli Emirati Arabi Uniti; la scelta dell’Arabia Saudita nel marzo 2024 per guidare una commissione Onu sulla parità di genere; il ritorno del reato di blasfemia in Europa sotto la copertura di incitazione all’odio razziale; la riproposizione del prototipo della casalinga stile anni ’50 in Europa e America (tradwives) come modello femminista; l’ossessione per la retorica della chiusura dei confini e la sovranità nazionale che non riduce minimamente i flussi migratori (si veda l’effetto Brexit e i centri per migranti in Albania); la guida di un partito neonazista e xenofobo come AfD in Germania da parte di una dirigente lesbica, residente in Svizzera e sposata con un’immigrata; la singolare incongruenza tra maggiore sostegno ai partiti xenofobi in Europa nelle aree a minore immigrazione e molti altri esempi che potrebbero essere addotti su come questo XXI secolo, seguendo lo schema di Overton ma forse anche la sovrabbondanza di fake news propagandate da media irresponsabili o conniventi, ci stia inducendo a considerare normale il regresso sociale e culturale a cui stiamo spianando la strada.

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il commento al vangelo della domenica

LECH LECHA’
il commento di E. Ronchi al vangelo della seconda domenica di quaresima
il 9,28b-36
E il Signore disse ad Abramo: vattene dalla tua terra e dalla casa di tuo padre! «Lech lechà», gli disse, “vai verso te stesso”.
Sei tu la meta, non casa, terra o patria.
A un bambino che nasce, cosa augureresti?
A un uomo, a una donna di oggi, con la terra che brucia, cosa diresti?
Le stesse parole di Dio ad Abramo, “lech lechà”, vattene da questa visione del mondo, sporca e bugiarda.
Vattene da questa storia, dove ha ragione il più armato, il più violento, il più immorale.
Vai a te stesso.
Dentro di te non hai armi, non cercare di riempire i tuoi vuoti con la violenza. Ma non senti dentro che la pace è più umana che non uccidere?
E poi gli direi, come Dio ad Abramo: alza la testa, conta le stelle. Perditi con gli occhi nel cielo a fare quello che sembra impossibile.
L’immensità ti rende giudice davanti ad ogni dittatore.
Guarda in altro modo, guarda da un altro punto di vista, non quello piccolo di casa, di patria, ma con l’ottica del grande, dell’infinito, dell’immenso, delle stelle e del loro mistero.
Questa domenica della luce ci ricorda che abbiamo urgente bisogno di una trasfigurazione, di un cambiamento radicale. Di andare via da questi bassipiani per guardare le cose dall’alto.
Mentre pregava il suo volto cambiò di aspetto.
Pregare trasforma, contemplare ti cambia il cuore, e tu diventi ciò che contempli; diventi come Colui che preghi.
Guardano i tre, e sono storditi perché gettano lo sguardo sull’abisso di Dio.
“Che bello, Signore!” esclama Pietro. La mia fede per essere pane, sale, luce, lievito deve discendere da un “che bello” gridato a piena voce, da un innamoramento.
Dio è bellissimo. E ha un cuore di luce, come Gesù sul monte.
Che questa immagine resti viva nei tre discepoli, e in tutti noi; viva per i giorni in cui il volto di Gesù invece di luce gronderà sangue, come sarà nel Giardino degli Ulivi, come oggi accade nelle infinite guerre del mondo, nelle infinite croci dove Cristo è ancora crocifisso nei suoi fratelli. Alza la testa, guarda la luce del Tabor, guarda le stelle e vai, ritorna al cuore.
Preghiamo non per convincere Dio, ma perché ci aiuti ad essere fedeli ai piccoli del mondo contro tutti i potenti: “tienili per mano, baciali in fronte”.
Ci aiuti a credere che, nonostante tutte le smentite, il filo rosso della storia è saldo fra le tue dita e che noi dobbiamo porre mano non al futuro del mondo ma al mondo del futuro, oltre il muro d’ombra delle cose e degli avvenimenti.
Per capire le linee di fondo su cui camminare abbiamo le ultime parole del Padre in quel giorno luminoso:
“questi è mio figlio, ascoltatelo, ascoltate Lui”.
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il commento al vangelo della domenica

DALLE CENERI ALLA LUCE
Lc 4,1-13
il commento di E. Ronchi al vangelo della prima domenica di quaresima
Cenere sul capo e nardo profumato sui capelli di Gesù: sono le due parentesi che aprono e chiudono il tempo di quaresima, che va dal mercoledì delle ceneri, all’ultimo mercoledì, vigilia dei giorni supremi.
Cenere e nardo sul capo: tra questi due poli si snoda il percorso quaresimale. O anche: dalle ceneri all’acqua, quella versata da Gesù sui piedi degli apostoli, nell’ultima sera, nell’ultima e prima di infinite cene in suo ricordo.
Povertà e bellezza, fragilità e servizio sono le due grandi prediche che la chiesa affida ai segni, più che alle parole.
Segni altrettanto potenti, che incidono a fondo il cuore, sono le tre tentazioni raccontate dal vangelo.
Tentazioni strane: nessuno di noi pensa di mangiare pietre, o di ordinare che diventino pane; nessuno pensa di arrampicarsi sui pinnacoli del tempio e di volare giù. Eppure: “togliete le tentazioni e più nessuno si salverà” (Sant’Antonio Abate, IV sec). Perché nessuno avrà più la possibilità di scegliere, e scegliere è vivere, il nostro decreto di libertà, una chiamata al futuro.
Nelle tentazioni sono racchiuse le tre connessioni di fondo di ogni esistenza umana: io e le cose, io e gli altri, io e l’Altro.
Scelgo quindi la relazione esatta da instaurare con le cose, non predatoria ma grata. Scelgo tra fede o superstizione, tra un Dio che è miracolo e un Dio che è ossigeno. Tra impormi sugli altri o servirli.
Le tentazioni non si evitano, si attraversano, e come si fa? Con un grande sforzo di volontà? La strategia di Gesù è un’altra: rilanciare, alzare la posta in gioco mostrando che ci sono cose che nutrono più del pane…
Egli oppone all’offerta del tentatore parole più alte, e le trova nella Bibbia, e tutte contengono un di più di vita: non di solo pane vive l’uomo, c’è dell’ altro che fa vivere le persone, è tutto ciò che è venuto dalla bocca di Dio. E dalla bocca di Dio son venuti la luce, le stelle, l’intero creato, la bontà e la bellezza, e sei venuto tu, mio prossimo, mio amato, amore mio che mi fai vivere.
La tecnica vincente di Gesù è opporre per tre volte al Nemico dell’uomo, un bene maggiore; al volare basso, orizzonti liberi; alla cenere, la luce; al deserto, un mondo dove anche le pietre sono sillabe del discorso di Dio: nel cuore della pietra Dio sogna il suo sogno (G. Vannucci).
Lo Spirito che ha condotto Gesù nel deserto non lo ha abbandonato, è lì con lui; e fra le pietre di Giudea fa vibrare il sussurro della brezza leggera, il brivido del silenzio, come per Elia sul monte quando Dio passava.
Noi credenti non siamo più bravi degli altri, noi siamo soltanto i non-da-soli, i non-abbandonati, quelli al sicuro sulla rotta da percorrere perché sulla loro vela soffia sempre il vento di Dio, la ‘ruah’ che accende parole di fuoco e di miele.
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per una vera cultura della pace

quale cultura della pace per noi cristiani?

di Rocco Gumina

Elaborare una cultura della pace cristianamente ispirata richiede prima una migliore comprensione di cosa sia la pace…

Quello della pace è un tema importante e attuale. Basta accedere a qualsiasi piattaforma social o sintonizzarsi su di un’emittente televisiva per intendere che viviamo in un tempo abitato dalla logica di guerra alla quale bisogna rispondere con la cultura della pace. Quest’ultima non riguarda soltanto l’opera dei grandi politici o dei leader delle multinazionali, bensì di ciascuno di noi. Così la pace non è un tema impersonale ma storico e concreto per il quale necessita il contributo di tutti.

Le decine di conflitti attivi nel mondo, oltre a quello russo-ucraino e israelo-palestinese, manifestano l’impotenza della comunità internazionale e l’avvento di una logica da guerra fredda del terzo millennio. Inoltre l’aumento della produzione di armi leggere e pesanti, e della loro distribuzione finalizzata all’utilizzo, sembra affossare ogni tentativo di promozione della fraternità fra i popoli a favore di quella che a più riprese da papa Francesco è stata definita come la terza guerra mondiale a pezzi.

Tuttavia è proprio in questo frangente storico che siamo chiamati a sostenere la cultura della pace attraverso una pedagogia che appare centrale tanto nella costituzione italiana quanto nel messaggio cristiano. Nel nostro dettato costituzionale, infatti, il rispetto della dignità umana e il rifiuto della guerra appaiono come punti fermi sui quali edificare la nostra comunità nazionale e le relazioni internazionali. Nell’insegnamento della Chiesa poi, come anche nella testimonianza dei santi di ogni epoca, si evidenzia il radicale rifiuto della logica della guerra e l’impegno per la diffusione di una cultura della pace.

Per provare a delineare sommariamente alcune caratteristiche dell’apporto cristiano alla cultura della pace dobbiamo intanto rispondere a questa domanda: da cosa è costituita una cultura della pace? Nel 1986 il filosofo Italo Mancini sosteneva che la pace consiste nel «mettere in primo piano la coesistenza dei volti, fare dei volti l’assoluto dei nostri atteggiamenti». Per definire ulteriormente il profilo di una cultura di pace possiamo rifarci alla Pacem in terris di Giovanni XXIII secondo la quale il contributo evangelico si fonda sulla validità sociale e politica di valori come verità e giustizia, amore e libertà i quali si declinano in un’opera concreta destinata alla diffusione dell’istruzione per tutti, al riconoscimento della proprietà privata nel grande orizzonte della destinazione universale dei beni, alla tutela della dignità umana strettamente congiunta alla salvaguardia del creato.

Va poi registrata la ricchezza di significato del termine pace. La parola pace, ad esempio, rimanda ad un’azione diplomatica fra due parti in lotta fra loro ma anche al mantenimento dell’ordine sociale o ancora al rispetto dei diritti umani e alla tutela dell’ambiente. Nondimeno il termine ebraico per indicare la pace nel testo biblico, shalòm, possiede un significato connesso all’interezza, alla pienezza di vita, alla fecondità. Si tratta di una sorta di condizione umana che è parimenti un processo individuale e collettivo ovvero non vi è pace senza giustizia. Inoltre dalla fonte biblica affiora il legame tra la pace e il perdono inteso come elemento sociale teso più che alla dimenticanza del dolore e delle vittime, al ricominciamento, alla trasformazione, alla conversione. In questi termini, l’apporto cristiano ad una cultura di pace delinea che questa non è soltanto un traguardo escatologico donato dal Signore bensì un obiettivo della storia umana poiché nella visione biblica la storia della salvezza e quella dell’umanità sono strettamente congiunte.

Allora per il cristiano la pace non inizia con la fine della guerra ma quando le tensioni e l’odio lasciano il posto alla ricerca della giustizia. Cioè la pace costituisce una radicale alternativa al conflitto e pertanto spinge all’assunzione di una responsabilità volta a ispirare modelli di coesistenza sociale e politica più giusti. Secondo tale proposta, quando viene meno la giustizia e l’uguaglianza la pace è a rischio e, quindi, il nostro quotidiano impegno va indirizzato alla lotta alle diseguaglianze e a tutti quei sistemi che deturpano la dignità umana.

Da quanto emerge si può affermare che l’apporto cristiano alla cultura della pace si muova verso il raggiungimento di due finalità: dire basta ad ogni forma di conflitto e generare spazi di stabilità, di giustizia, di sviluppo e di reintegrazione sociale nei quali si radichi una fraternità in grado di porre a centro l’uomo.

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si può immaginare un mondo senza guerre?

le guerre non sono una tappa necessaria della storia

di Enrico Peyretti
in “La Voce e il Tempo ” del 2 marzo 2025

Caro Direttore,
nel numero de La Voce e il Tempo del 16 febbraio scorso (pagina 31) una lettera del signor Guido Celoni afferma che «non si può e non si deve immaginare un mondo senza guerre, perché questa può essere una delle più grandi illusioni del maligno. Le guerre accompagneranno sempre la storia dell’umanità».

Mi permetto di pensare, invece, che dobbiamo sperare e operare fino alla liberazione dalla guerra, anche dalla difesa militare, che imita e riproduce l’offesa bellica. Nell’era attuale, più che mai ogni guerra è una pazzia (Giovanni XXIII: «Bellum alienum a ratione»), e non difende veramente nessun valore (papa Francesco: «La guerra è sempre una sconfitta»).
È proprio «il maligno» che ci illude giustificando la guerra come difesa. La difesa dell’umanità e
della giustizia verrà per le vie della nonviolenza attiva e coraggiosa, disobbediente ai poteri armati,
che anche storicamente si dimostra più efficace delle armi: dal 1900 al 2019 le lotte non violente
hanno avuto successo nella difesa dei diritti umani nel 50% dei casi e le lotte violente solo nel 26%
(vedi pag. 42 di Erica Chenoweth, Università di Harvard, «Come risolvere i conflitti senza armi e
senza odio con la resistenza civile» (ed. Sonda).
La violenza fa male a tutti, produce violenza, e non ottiene giustizia. Uccidere non difende, e
peggiora la società. La storia è un cammino travagliato, il male c’è, ma il Vangelo della fraternità
non è rinviato nell’aldilà: è un seme che può crescere nel tempo. L’umanità ha compiuto altri veri
progressi morali e può ancora compierne, con fatica e impegno, con errori e riprese. Il fatalismo
sulla guerra favorisce i violenti, rafforza le strutture e le economie di guerra. Speriamo e lavoriamo.
Enrico Peyrett

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il commento al vangelo della domenica

DISARMALI E DISARMACI
Luca 6,39-42
il commento di E. Ronchi al vangelo della ottava domenica del tempo ordinario
Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello, e non ti accorgi della trave che c’è nel tuo?
Noi pensiamo che la trave sia sempre negli occhi di qualcun altro, un potente, una nazione, un potere occulto, un collega, e che nel nostro occhio ci sia al massimo una pagliuzza, una responsabilità da niente.
Perché guardi la pagliuzza?
Un motivo c’è: chi non vuole bene a se stesso, vede solo male attorno, vive una sindrome da accerchiamento; chi non sta bene con sé, sta male anche con gli altri.
Un occhio che viene da un cuore che non è in pace, vede solo occhi malati, moltiplica pagliuzze alzando travi davanti al sole. L’occhio buono è invece come lucerna accesa, diffonde luce. Colui che è riconciliato con la sua radice profonda, guarda con sguardo benedicente, limpido, includente.
L’occhio cattivo emana oscurità, diffonde amore per l’ombra. E nascono le guerre.
Il priore dei sette monaci trappisti decapitati a Thibirine, frère Christian de Clergè, davanti all’imminenza del martirio pregava:
“Signore, disarmali e disarmaci”!
Due parole assolute, totali e sufficienti. Vangelo puro.
Signore, disarma anche noi. Facci ripetere, tutti insieme, che la guerra è la più grande bestemmia.
L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene. Il buon tesoro del cuore: una definizione così bella, così piena di luminosa speranza, di ciò che siamo nel nostro intimo mistero: portatori di un tesoro buono, custodito in vasi d’argilla, ma pieno di oro fino da distribuire. Anzi il primo tesoro è il nostro stesso cuore: “un uomo vale quanto vale il suo cuore” (Gandhi).
La nostra vita è viva se abbiamo coltivato tesori di speranza, di passione per il bene possibile, per il sorriso possibile, per la buona politica possibile, per una ‘casa comune’ curata e bella, dove sia possibile vivere meglio per tutti. La nostra vita è viva quando ha cuore e regala generosità, luce, attenzione. La nostra vita vive di vita donata.
Non c’è albero buono che faccia frutti cattivi. Gesù ci porta a scuola dalla sapienza degli alberi. La cui legge è semplice: vivere, crescere, fiorire, fare frutto, donarlo.
Sono le leggi della vita reale, e coincidono con quelle della vita spirituale, con la stessa morale evangelica: un’etica del frutto buono, della fecondità creativa, della sterilità vinta, del gesto che fa bene davvero, della parola che consola davvero, del sorriso autentico che guarisce chi è malato di solitudine. Martin Buber semplificava così la legge ultima della vita: “a partire da me, ma non per me”.
Il cuore del cosmo non dice semplice sopravvivenza di sé, ma dono di sé: crescere e fiorire, fare frutti e donarli. Come alberi forti, come cuori buoni.
​​​​​​​​​​p. Ermes Ronchi
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la Palestina colonizzata e l’uso distorto della religione

 «La colonizzazione della Palestina non ha a che fare con la religione»

intervista a Munther Isaac a cura di Annaflavia Merluzzi
in “il manifesto” del 21 febbraio 2025

Il 19 febbraio si è tenuto alla Fondazione Basso di Roma un incontro con una delegazione di Kairos Palestine, movimento palestinese cristiano non-violento, nato a seguito della pubblicazione dell’Appello Kairos Palestine: A moment of truth (2009). Presenti Rifat Kassis (coautore dell’appello e coordinatore di Global Kairos for Justice), Sahar Francis (avvocata e direttrice dell’associazione Addameer, che fornisce patrocinio legale ai prigionieri politici palestinesi) e Munther Isaac (pastore e teologo, preside del Bethlehem Bible college) che abbiamo intervistato a margine della conferenza.

Lei è prima di tutto un pastore cristiano, in questi 16 mesi quanto sono aumentate le
restrizioni alla libertà di culto?

Le restrizioni sono quelle che tutti in palestinesi vivono: confisca di terre, checkpoint. Impediscono
ai cristiani di Betlemme di andare a pregare a Gerusalemme. Non dovremmo aver bisogno di un
permesso per muoverci nella nostra terra, ma almeno in passato ce lo concedevano durante le
festività. Oggi non possiamo più farlo, è una violazione della nostra libertà di culto nella nostra
stessa terra. Le maggiori violazioni ci riguardano in quanto palestinesi, prima che cristiani.
Sono state distrutte moltissime chiese e moschee, non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania.
Le case di culto sono state colpite e distrutte specialmente a Gaza, Israele non ha nessun rispetto per
le istituzioni religiose, la santità dei luoghi – cristiani e musulmani – e la vita umana. La situazione
in Cisgiordania è diversa, lì abbiamo attacchi dai coloni, che fanno scritte d’odio, a Gerusalemme
est attaccano le chiese e le bruciano. Il problema è il governo che li supporta e non gli attribuisce
responsabilità. Se un palestinese attaccasse una sinagoga verrebbe messo in prigione per anni.

Com’è la vita oggi in Cisgiordania, a Betlemme?

Betlemme è una prigione a cielo aperto, una nuova Gaza, Israele ha bloccato e chiuso tutte le strade
che portano alla città con checkpoint, cancelli, blocchi di cemento, e controllano tutto il movimento
fuori e dentro Betlemme. I coloni attaccano i villaggi, le aree rurali, il movimento è molto difficile.
I checkpoint sono quasi sempre chiusi, chi deve passare aspetta finché i soldati decidono di aprirli,
si può aspettare una quantità indefinita di tempo. Spesso chiedono di uscire dalle macchine e
molestano, picchiano, torturano. In Cisgiordania hanno espulso forzatamente 45.000 palestinesi
dalle proprie terre. Il messaggio è che vogliono che ce ne andiamo.

Che rapporto c’è tra le comunità palestinesi cristiane e quelle musulmane, con gli altri leader
vi confrontate?

In Palestina siamo un solo popolo, cristiani e musulmani, non facciamo differenza. Israele ci
opprime allo stesso modo. Abbiamo la stessa cultura, parliamo la stessa lingua, mangiamo lo stesso
cibo, abbiamo la stessa storia. Anche la forma di resistenza è simile, la maggioranza dei palestinesi
sceglie la resistenza non violenta a prescindere dal culto.
Nel Natale 2023 in un discorso ha affermato che «il mondo non ci vede come uguali, forse per
il colore della nostra pelle, forse perché siamo nel lato sbagliato di un’equazione politica».

Com’è composta quest’equazione?

Molti cristiani occidentali preferiscono supportare Israele piuttosto che i palestinesi cristiani: è
perché non siamo bianchi? Perché non serviamo l’interesse degli Stati Uniti? Sono condiscendenti
verso di noi, credono di sapere meglio di noi quale sia la soluzione per il popolo palestinese, e
vorrebbero imporcela. Molti leader di Chiesa ci fanno lezioni sui diritti umani in quanto palestinesi
e mediorientali cristiani, sui diritti delle donne ad esempio, ma quando i palestinesi sono massacrati
stanno in silenzio. Per me l’unico modo per descriverlo è razzismo, double standard. Quando i loro
alleati violano le leggi va bene, il messaggio è che il potente può violare i diritti umani. È l’opposto
del credo cristiano, Gesù stava dalla parte di vulnerabili, oppressi, marginalizzati. Tutto ciò ha a che
fare con la «teologia dell’impero», per cui la religione viene usata per giustificare l’oppressione. La
colonizzazione della Palestina è giustificata come ritorno alla patria degli ebrei. In questo modo
hanno permesso che qualsiasi ebreo in qualsiasi parte del mondo avesse più diritto a vivere in
Palestina dei palestinesi stessi. È colonialismo, non ha a che fare con la religione.
Nel suo discorso ha detto: «Gaza oggi è la bussola morale del mondo, era un inferno prima del
7 ottobre e il mondo stava in silenzio».

Quanto è disorientato il mondo dopo 16 mesi di genocidio?

È molto peggio di quando ho pronunciato queste parole, il genocidio continua, la complicità del
mondo continua. L’umanità è in una vera crisi, i politici israeliani, che acquistano potere dalle
parole di Trump, ci pongono di fronte al rischio di pulizia etnica di 2 milioni di palestinesi. Per me
Gaza rimane la bussola morale del mondo, stanno permettendo che chi commette questi atroci
crimini sfugga alla responsabilità. Il presidente di Israele, Isaac Herzog, è ora a Roma, il messaggio
che ci arriva è che il genocidio e la pulizia etnica sono normalizzati e accettati.

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