dopo l’olocausto è possibile ancora credere in un Dio buono?

alla luce della grandezza del male visto durante l’Olocausto molte persone hanno riesaminat0 le impostazioni  classiche del problema dell conciliazione della realtà  di Dio con il male soprattutto così intollerabile

la domanda comune è: “come può la gente avere ancora qualche tipo di fede dopo l’Olocausto?”

a questa domanda cerca di dare una risposta il teologo ebreo H. Jonas con il volumetto: ‘il concetto di Dio dopo Auschwitz:

Il concetto di Dio dopo Auschwitz

Hans Jonas

Hans Jonas

Le tragedie pongono sempre dei dubbi e delle domande. E se la tragedia in questione riguarda migliaia di persone ed è di gravità incommensurabile, i dubbi che pone sono parimenti gravi. Per questo Auschwitz pone al popolo ebraico, e non solo, problemi sulla stessa natura di Dio, problemi difficili da risolvere, da chiarire. Davanti a una simile tragedia, davanti a migliaia di vittime innocenti, si pone una domanda essenziale: quale Dio ha potuto permettere questo?

A questa domanda prova a rispondere Hans Jonas col suo libello “Il concetto di Dio dopo Auschwitz”. Un trattato breve, ma incisivo, ben scritto e ben argomentato, su un tema difficoltoso, soprattutto per un ebreo. Scrive infatti Jonas:

Si deve considerare a questo punto, il fatto che l’ebreo, di fronte a un simile interrogativo, si trova teologicamente in una situazione più difficile del cristiano. Infatti, per il cristiano che attende l’autentica salvezza dall’al-di-là, questo mondo (e in particolare il mondo umano a causa del peccato d’origine) è il mondo di Satana e conseguentemente un mondo non degno di fiducia. Ma per l’ebreo che vede nell’al di qua il luogo della creazione, della giustizia e della salvezza divina, Dio è in modo eminente il signore della storia, e quindi Auschwitz, per il credente, rimette in questione il concetto stesso di Dio che la tradizione ha tramandato.

Cosa fare allora? Come ripensare il concetto di Dio? Come conciliarlo con l’orrore del campo di sterminio? Rinunciando all’onnipotenza.

Jonas ci presenta un Dio inedito, sofferente, compartecipe delle vicissitudini

Il famigerato cancello di entrata di Auschwitz

Il famigerato cancello di entrata di Auschwitz.

umane e non più onnipotente e distaccato. Del resto l’onnipotenza è insostenibile anche da un punto di vista logico. Nel momento della creazione, nel momento in cui Dio ha creato un altro-da-sé, l’onnipotenza è venuta a mancare. L’esistenza di un altro infatti limita il potere di Dio poiché l’altro ha una sua indipendenza, seppur parziale e limitata, e quindi una sua potenza. Solo restando unico e solo, Dio avrebbe potuto rimanere onnipotente. Ma sarebbe stata un’onnipotenza solo teorica e inutile poiché non ci sarebbe stato nessun altro soggetto su cui applicare quella stessa potenza. Perciò l’onnipotenza di Dio diviene un concetto non più sostenibile.

Ma non è solo la logica a far vacillare il concetto. Jonas ci dice che tre cose sono importanti nella concezione ebraica di Dio: l’onnipotenza, la bontà e la comprensibilità. Ora, dice l’autore, questi tre attributi non possono valere contemporaneamente. Possono sussistere solo due alla volta. Se infatti Dio è buono e comprensibile (pur parzialmente) dall’uomo allora non può essere onnipotente. Non si potrebbe in tal caso comprendere l’esistenza dell’ingiustizia, della sofferenza degli innocenti. Non si potrebbe spiegare ciò che successe ad Auschwitz. Se fosse invece onnipotente e comprensibile, ne seguirebbe la mancanza della bontà. Un Dio che può evitare la sofferenza degli innocenti e non lo fa non può essere considerato buono, se postuliamo la possibilità di comprenderne la legge e le azioni. Per salvare l’onnipotenza e la bontà di Dio dobbiamo rinunciare alla comprensione, dobbiamo renderlo un Dio distante, misterioso, sconosciuto e inconoscibile in ogni suo aspetto. Ma per l’ebraismo bontà e comprensibilità sono irrinunciabili. Senza questi due attributi, l’intero ebraismo perde significato. Per questo Jonas dice che l’onnipotenza è, tra i tre attributi, quello a cui rinunciare. Solo un Dio che ha rinunciato all’onnipotenza creando e si è messo in gioco nel divenire del tempo può far capire un male insensato e ingiusto. E può, finalmente, mostrare il suo aspetto vero, quello di un Dio che pur nella sua potenza e grandezza, soffre e diviene e partecipa del destino dell’uomo.

Siamo dunque in balia del caos e del male? Dobbiamo pensare che Dio non possa dunque nulla contro l’ingiustizia e la sofferenza? Dobbiamo pensare di essere soli nella lotta di questo mondo? No. Dio c’è comunque e c’è una superiorità del bene sul male, una superiorità che porta lentamente il mondo verso qualcosa di meglio, verso un perfezionamento. Così scrive Jonas:

Grazie alla superiorità del bene sul male in cui noi confidiamo in virtù della logica non causale che governa le cose di questo mondo, la loro nascosta santità può controbilanciare una colpa incalcolabile, saldare il conto di una generazione e salvare la pace del regno invisibile.

Così la scoperta della non-onnipotenza di Dio lungi dal divenire motivo di disperazione, diventa motivo di speranza e di avvicinamento al Creatore.

Questa concezione non è rimasta limitata all’ebraismo. Nonostante ciò che si diceva all’inizio dell’articolo, anche alcuni teologi cristiani hanno sposato questa tesi per spiegare l’eccesso di male che pervade il nostro mondo. Simili idee sono nettamente minoritarie, ma presenti nel cattolicesimo sia romano che ortodosso. Cito solamente, a tal proposito, il nome di Sergio Quinzio, importante e originale teologo del XX secolo.

Hans Jonas fu un filosofo tedesco (poi naturalizzato statunitense) di origine ebraica. Nato nel 1903, fu un grande studioso dello gnosticismo. Fuggì dal nazismo prima in Inghilterra e poi in Palestina e partecipò come volontario alla seconda guerra mondiale. Morì nel 1993.

“Il concetto di Dio dopo Auschwitz” è un’opera a mio parere molto importante e non solo per i credenti (ebrei o meno), ma per tutti. Dà spunti di riflessione sul mondo contemporaneo che si rivelano preziosi.

L’edizione della casa editrice “il melangolo” è ben curata, elegante, e corredata da utili note e da un discorso dello stesso Jonas sul razzismo, tenuto in occasione del conferimento del premio Nonino.

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la ‘parresia’ del card. Maradiaga, elogiata da Mancuso, criticata da ‘il Foglio’

mutare la dottrina, si può e si deve, dice Mancuso alle orecchie scandalizzate de ‘il Foglio’, quando tale dottrina non è più capace di parlare e annunciare il vangelo all’uomo contemporaneo:  qualcuno potrebbe parlare di “tattica del camaleonte, ma sbaglierebbe. Perché è solo un modo per dire che l’insegnamento di Gesù è sempre attuale”. “Se la chiesa non muta – aggiunge Mancuso – non vive. Vogliamo qualcosa di immutabile? Bene, prendiamo una pietra. Se la chiesa vuole vivere, deve mutare”

questa la ricostruzione delle dichiarazioni di Mancuso a ‘il Foglio’ fatta da M. Matzuzzi:

Nelle parole del teologo novatore Mancuso, ecco la posta in gioco

“Se non entrerà in gioco il concetto di famiglia, non so a cosa possa servire il Sinodo. La questione di fondo è proprio questa, l’ha detto anche Maradiaga nella recente intervista concessa al quotidiano tedesco Kölner Stadt-Anzeiger”. Il teologo Vito Mancuso è rimasto impressionato dalle parole del porporato honduregno, “mi ha colpito la libertà della mente che il suo incedere aveva, e di questo c’è molto bisogno, soprattutto nella chiesa”, dice al Foglio. “Serve parresìa, franchezza nel dire le cose, pur avendo sempre rispetto verso la persona verso cui le si dice. C’è necessità di dire le cose in maniera netta, franca. Cosa che oggi non si vede più troppo spesso”. Maradiaga parla di nuova èra, si richiama al Vaticano II, “quasi ci fosse bisogno di riprendere quella musica dopo l’ouverture interrotta. E’ penetrante quell’immagine dell’aria fresca”, aggiunge Mancuso. Il cuore della faccenda è che “il genere di famiglia descritto dalla Familiaris Consortio, l’esortazione giovanpaolina del 1983, non esiste quasi più. Ci sono altre situazioni, oggi, che ambiscono ad avere la qualifica di famiglia, e ciò sarebbe opportuno e giusto”. Maradiaga, nell’intervista, parla di genitori separati, famiglie allargate, genitori single. Cita il fenomeno della maternità surrogata, i matrimoni senza figli, le unioni tra persone dello stesso sesso. “Più queste forme di unione vengono stabilizzate, più gli individui interessati ne trarranno del bene. Ricordiamo che il compito ultimo della chiesa è proprio quello, il bene. Ecco perché – aggiunge il teologo – il concetto di famiglia deve entrare nel dibattito sinodale. E questo senza paura di aprirsi troppo né di mostrarsi sempre necessariamente accondiscendenti verso la realtà”.

Quanto al confronto sul riaccostamento dei divorziati risposati ai sacramenti, con il custode dell’ortodossia cattolica, Gerhard Müller che dalle pagine dell’Osservatore Romano invita a non banalizzare la misericordia divina e Maradiaga che ricorda come le parole di Cristo possano essere interpretate, Mancuso non ha dubbi: “Le parole di Cristo si sono sempre interpretate. Se non si vuole cadere nel fondamentalismo delle sette, è inevitabile esporsi al rischio (che è anche fascino) dell’interpretazione. Si è sempre fatto così. Basti pensare che le parole di Cristo già sono consegnate a noi come interpretazione, le ipsissima verba Iesu quasi non esistono, Gesù parla in modo molto diverso nei vari vangeli. Direi quindi che l’interpretazione non è certo un pericolo ma è specifico dell’identità cristiana”. Nel mondo della vita spirituale, aggiunge il nostro interlocutore, “nulla si fa senza il rischio di interpretazione”. E’ inevitabile, poi, che – come dice Maradiaga – si pensi più alla pastorale che alla dottrina: “Nel discorso d’apertura del Concilio, Giovanni XXIII distinse tra la dottrina certa e immutabile e il modo per renderla comunicabile all’altezza delle esigenze contemporanee. La pastorale è proprio questo, è il tentativo di rendere comunicabile la dottrina all’uomo contemporaneo”, spiega Mancuso. Certo, “ho dei dubbi che questo possa avvenire senza toccare la dottrina, anche se i vescovi non ammetteranno mai un mutamento dottrinale, diranno che si tratta semmai di normale evoluzione”, aggiunge. “Ma è inevitabile che ci debba essere un cambiamento di prospettiva, anche clamoroso. Se si è fedeli all’esigenza dei tempi, questo è inevitabile”. Niente di totalmente inedito però: “Anche in passato si è fatto così. E’ già successo – spiega il teologo –, solo che la chiesa ha negato che si trattava di rottura, parlando di naturale evoluzione”. Un esempio? “La questione della libertà religiosa. Aveva ragione Marcel Lefebvre nel dire che c’è stato un effettivo disconoscimento del Sillabo e della Mirari Vos di Gregorio XVI e, più in generale, di tutto un magistero secolare della chiesa. Non ci sono dubbi che la Dignitatis Humanae ha compiuto una svolta mettendo l’accento sulla libertà di coscienza del singolo e non sulla verità oggettiva”. Qualcuno potrebbe parlare di “tattica del camaleonte, ma sbaglierebbe. Perché è solo un modo per dire che l’insegnamento di Gesù è sempre attuale”. “Se la chiesa non muta – aggiunge Mancuso – non vive. Vogliamo qualcosa di immutabile? Bene, prendiamo una pietra. Se la chiesa vuole vivere, deve mutare”.

Quanto alle frasi del prefetto Müller sulla misericordia che deve andare sempre di pari passo con la giustizia – “al mistero di Dio appartengono, oltre alla misericordia, anche la santità e la giustizia; se non si prende sul serio la realtà del peccato, non si può nemmeno mediare alle persone la sua misericordia”, scriveva sull’Osservatore Romano – Vito Mancuso dice che “la misericordia vera sa, conosce le ferite delle persone”. La strada, aggiunge, “è quella che porta al primato della misericordia. O vogliamo dire che chi ha un matrimonio fallito ha commesso un peccato? Semmai è un errore, ma non ci sono i presupposti per parlare di peccato”. A ogni modo, sottolinea il nostro interlocutore, “ciò non significa che si debba avere un’idea troppo sbarazzina della misericordia. Questa non va contrapposta alla giustizia, ma non può esserci giustizia senza misericordia. Altrimenti si cade nel giustizialismo, nel terrore, nel giacobinismo freddo e spietato. Troppo spesso, oggi, appare solo la parte fredda e oggettiva”. Ma qualcosa, dice, sta cambiando. Con l’ascesa al Soglio pontificio di Francesco, sta venendo meno l’idea di una dottrina “troppo canonistica e legalistica.  L’idea di un’etica cristiana che si traduceva in una serie di no”. Il prossimo passo sarà quello di far entrare il principio della libertà anche nella lettura del corpo, “come è già avvenuto a livello di ideologia morale e sociale, generando una dottrina capace di parlare all’uomo contemporaneo”. In assenza di questo passaggio, la dottrina morale prodotta rimane incomprensibile.

 

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