la ‘cattiva’ intervista al vescovo di Lucca e le franche risposte del vescovo Paolo

il vescovo di Lucca Paolo Giulietti

“I dubbi su Bergoglio? Tutta colpa dei giornalisti”

(il titolo che viene dato all’intervista la dice lunga sulla ‘cattiveria’ e faziosità dell’intervistatore)

di aldo grandi

Monsignor Paolo Giulietti, una prima impressione dell’universo lucchese.

Io distinguerei. Della chiesa di Lucca ho avuto e sto avendo un riscontro abbastanza oggettivo perché ho incontrato tutti i preti e i diaconi e quasi tutti gli operatori pastorali in una quindicina di incontri. L’impressione che ne ho ricavato è quella di una Chiesa che ha imboccato un cammino di rinnovamento e di crescita sulle linee del Concilio e del magistero di Papa Francesco e che ha bisogno di dare concretezza alle scelte fatte. Questo per la Chiesa di Lucca. Peraltro una Chiesa ricca di risorse umane e spirituali. Per quanto riguarda la società lucchese chiaramente è una impressione superficiale e occasionale, ma caratterizzata dal calore dell’accoglienza e anche dal piacere della scoperta di tanti aspetti interessanti, per me che vengo da un’altra realtà, di questa società.

Non sono pochi i fedeli che si domandano dove stia andando la Chiesa. Certe posizioni di Papa Francesco destano non poche perplessità.

La Chiesa sta andando nella direzione del Concilio, quindi verso un modo nuovo di vivere e operare, caratterizzato dal primato dell’annuncio del Vangelo e del servizio al mondo. Papa Francesco porta avanti questa linea con l’originalità che gli viene dal punto di vista che la sua storia gli dà per guardare le vicende della Chiesa e del mondo. Nessun papa accontenta tutti e, quindi, è normale che alcune delle cose che dice e che fa incontrino delle resistenze. E’ sempre accaduto.

Lei riduce il tutto a una semplice ripetizione di cose già avvenute in passato, ma, a pensarci bene, mai come durante questo pontificato si assiste ad un impegno decisamente concreto della Chiesa nella vita politica e sociale del Paese.

Ma vuole scherzare? Ci siamo dimenticati la Democrazia Cristiana, i referendum…? Mai come oggi il Vaticano si è disinteressato della politica in Italia, è proprio l’opposto. E’ che oggi il papa mette in evidenza, in continuità con tutto il magistero sociale dei suoi predecessori, il nesso che esiste tra professione della fede e impegno fattivo per il regno di Dio cioè per la giustizia e per la pace e per la salvaguardia del creato. Quest’ultimo, casomai, è un apporto particolarmente legato all’insegnamento di papa Francesco.

Prendiamo ad esempio l’immigrazione. Non le sembra che il papa parli spesso e soprattutto di migranti nemmeno si trattasse di una questione fondamentale per il futuro della nostra società?

E’ una questione fondamentale perché il fenomeno migratorio di cui noi in Italia viviamo una parte microscopica sposta nel mondo ogni anno, tra migrazioni interne ed esterne dovute a cause di natura diverse, decine di milioni di persone e, quindi, si tratta di una delle questioni sociali ed economiche fondamentali del nostro pianeta.

Non è che noi possiamo farci carico di tutte le disavventure che colpiscono l’umanità.

Infatti noi ne stiamo gestendo una modestissima parte; torno da Antiochia di Siria (che si trova in Turchia), dove una città di 500 mila abitanti ospita 150 mila rifugiati.

E secondo lei dovremmo essere tutti così?

Secondo me ciascuno, avendo ben presente la complessità e la globalità del fenomeno, dovrebbe fare la sua parte con intelligenza, ma senza nascondere la testa sotto la sabbia.

Non crede che questa migrazione epocale di individui che si spostano verso l’Europa occidentale, con usi, costumi e principi spesso in contrasto con le realtà che li ospitano, possa in qualche modo portare a una perdita di identità religiosa, storica, nazionale?

Innanzitutto dobbiamo essere un pochino più precisi sul fenomeno migratorio che viene spesso considerato in maniera superficiale, non tenendo conto del fatto che la maggioranza dei migranti sono molto più vicini alle nostre tradizioni e religioni di quanto si pensi. A titolo di esempio, solo un terzo dei migranti che si trovano in Italia sono musulmani. Dopodiché non ci dobbiamo dimenticare che la nostra cultura e identità è frutto dell’incontro tra popoli che si sono spostati occupando in epoche successive i nostri territori. Basterebbe pensare a Lucca e ai Longobardi. Il problema non è la migrazione, ma la capacità di un popolo di confrontarsi, trasmettere i propri valori e pervenire a una sintesi nuova. La paura che abbiamo verso questo fenomeno deriva non tanto dalle sue proporzioni, ma dalla percezione che abbiamo di non aver più niente da dire di forte e di significativo sulla base delle nostre radici più autentiche.

Ma lei pensa davvero che ai nuovi migranti che vorrebbero sbarcare a milioni sulle coste europee frega qualcosa delle nostre tradizioni e della nostra identità?

E’ sempre andato così. Dall’indifferenza si passa all’incontro e quindi alla sintesi: basta imparare dalla storia.

Quindi ci faccia capire: per lei chiunque, in Italia, non è favorevole a questa sostituzione etnica o migrazione, è perché ha paura e non perché ritiene che siano in pericolo le fondamenta stesse della nostra società?

E’ un dato di fatto che gli italiani sono tra i peggio informati sul fenomeno migratorio per quello che riguarda i numeri, la qualità e le conseguenze sociali che esso comporta. Non lo dico io, lo dicono esperti del campo culturale e della comunicazione. Questo comporta che la nostra percezione sia distorta e non corrisponda alla realtà dei fatti. Lo stesso concetto che lei usa di “sostituzione etnica” è espressione di questa disinformazione. Dopodiché la paura, comprensibile, va affrontata con una corretta consapevolezza e con scelte che consentano una gestione ordinata e sapiente di questo fenomeno. Certamente questo richiede una governance ampia. E per questo Papa Francesco sollecita la comunità internazionale nel suo complesso a rendersi protagonista di tale processo.

Molti faticano a comprendere tutta questa apertura verso l’Islam. In fondo la storia ha sempre tenuto particolarmente distanti questi due aspetti religiosi.

Noi ricordiamo della storia alcuni episodi, per esempio Lepanto, Vienna.. di scontro violento, ma dimentichiamo i processi secolari di incontro fruttuoso tra questi mondi per i quali l’Occidente si è arricchito di conoscenze, competenze tecniche e scientifiche che hanno dato un apporto significativo alla nostra civiltà. E viceversa. L’esistenza di differenze profonde, pertanto, può generare non solo e non tanto il conflitto, ma l’incontro e lo scambio. Come è già accaduto.

In sostanza lei il crocifisso dalle aule scolastiche o da qualunque altro luogo per non urtare la suscettibilità dei musulmani sempre più numerosi, la accetta o la respinge?

Io credo che il crocifisso nelle aule non urti la suscettibilità dei musulmani, i quali normalmente non hanno alcun problema con i nostri simboli, ma che questo sia un pretesto per chi intende laicizzare in maniera estremistica la nostra società. Ancora una volta il problema non sono loro, ma siamo noi.

Ha notato come, negli ultimi tempi e salvo sporadiche eccezioni, l’operato di papa Francesco vada a braccetto con l’entusiasmo e l’approvazione della sinistra anche più radicale?

Non credo che la sinistra radicale apprezzi tutto il magistero di papa Francesco. Per esempio quando parla in difesa della vita, della famiglia naturale e di altri valori tradizionalmente appartenenti a un’altra visione del mondo e della vita. E’ normale che ciascuno tenda a sottolineare, nel magistero del pontefice, ciò che è più affine al proprio modo di vedere, trascurando il resto. Chi è onesto e scevro da ideologie prende in considerazione il complesso dell’insegnamento del papa, legge i suoi scritti e non si limita a quello che scrivono i giornali e così può riconoscere che il papa non è di nessuno.

A noi sembra che il papa affronti sì molteplici questioni e, a volte, anche in maniera diversa rispetto alle attese delle varie forze in campo, ma che non prenda mai una posizione di netta critica e di netto rifiuto verso quei valori o quelle concezioni della vita che sono lontane, da sempre, anni luce per chi segue e condivide il messaggio cristiano.

Legga.

Quindi la colpa è sempre dei giornalisti?

Tu lo dici.

Ma la gente normale, quella che la mattina si alza e deve andare a lavorare e non ha molto tempo per dedicarsi, la sera, alla lettura dei saggi pontifici o di altri temi analoghi, come può fare per comprendere quando il papa è contro qualcosa?

Suggerirei che si informasse da fonti oggettive e attendibili. Per esempio Avvenire, Toscana Oggi, Tv2000 e altri organi di stampa che hanno tra le proprie finalità quella di restituire in maniera semplice e immediata gli insegnamenti della Chiesa e del papa. Se uno si informa superficialmente, saranno superficiali anche i suoi giudizi.

La Chiesa mai come oggi appare tutt’altro che dogmatica. Non rischia a suo avviso di diventare una sorta di Ong o associazione di mutuo soccorso perdendo di vista quelli che sono stati, da sempre, i suoi fondamenti religiosi inamovibili?

E’ un rischio che ha ben presente anche Papa Francesco, il quale ci invita con insistenza a riscoprire e a tenere ben presenti le motivazioni evangeliche del servizio e dell’impegno accanto ai poveri, proprio per non rischiare di diventare una Ong. Accanto a questo, Papa Francesco ci richiama a rimettere al centro della nostra vita e di persone e di comunità la Parola di Dio e l’impegno per l’evangelizzazione. Il prossimo mese missionario straordinario di ottobre esprime il desiderio del papa che la Chiesa si fondi su ciò che è davvero essenziale e lo annunci al mondo con le parole e le opere.

Sia sincero: in Italia aumentano le conversioni all’Islam. Quest’ultimo non le sembra rappresentare una sorta di punto fermo che, a differenza della Chiesa, rifiuta ogni forma di secolarizzazione?

Innanzitutto i dati sulle conversioni sono discutibili, anche alla luce del fatto che, in molti casi, si tratta di conversioni formali richieste per i matrimoni misti. Bisogna anche aggiungere che ogni anno, nel nostro paese, sono molti coloro che fanno il percorso opposto ricevendo il battesimo; anche nei paesi islamici, spesso sotterraneamente, esiste un importante processo di avvicinamento al cristianesimo da parte di molte persone e famiglie.

Che, ci perdoni l’interruzione, finiscono spesso per essere perseguitate senza che il papa lanci anatemi o si mostri particolarmente ed evidentemente arrabbiato.

Non ovunque e non sempre. Torno ieri dalla Turchia dove ho ascoltato storie di convertiti che non hanno avuto particolari problemi. Va anche detto che non esiste un solo Islam, né tutti i paesi islamici sono uguali, per cui atteggiamenti di apertura e di dialogo e possibilità di conversioni, in alcuni luoghi stanno diventando molto più frequenti che in passato.

Lei ha citato i matrimoni misti. Ricordo che fino ad alcuni lustri fa la Chiesa metteva pubblicamente in guardia le donne italiane e cristiane dal contrarre matrimonio con uomini islamici proprio per la forte differenza di vedute che da sempre caratterizza le due filosofie di vita. Non se ne sente più parlare, ma non ci pare che, nel concreto, le cose siano cambiate. Perché questo silenzio?

Il matrimonio interreligioso continua ad essere sottoposto a particolari procedure per cui va autorizzato dall’ordinario diocesano e caso per caso si valuta la praticabilità delle unioni continuando a rendere consapevole la parte cattolica dei rischi che ci possono essere.

Teoria Gender. Perché il santo padre non tuona e non si sofferma così fortemente e quotidianamente su questa ideologia così difforme dai dettami della Chiesa, come fa, in genere, con la questione dei migranti?

Il papa ha detto e scritto in maniera chiara il suo pensiero nettamente contrario alla diffusione di questa teoria che nega il valore della differenza sessuale. Probabilmente non tutti i suoi interventi sono rilanciati con eguale evidenza per cui l’impressione che alcuni temi siano prevalenti su altri non è sempre corretta.

Antonio Socci. Una spina nel fianco per papa Bergoglio.

Le spine nel fianco fanno parte della nostra missione. Papa Francesco sa che gli basta la grazia di Dio.

I lucchesi sono sempre stati profondamente vicini alla Chiesa. Oggi, tuttavia, per i motivi che abbiamo affrontato in questa intervista, hanno anche loro dubbi e perplessità. Lei, volendo trasmettere un messaggio all’inizio del suo mandato, cosa si sente di poter promettere a questa comunità in cerca di conferme?

Cosa posso promettere? Che cercheremo insieme le risposte e troveremo insieme la strada per essere una Chiesa nuova in un mondo nuovo.

Lei si definisce un pellegrino e nella sua vita ha percorso in lungo e in largo i cammini classici della fede cristiana. Cosa vuol dire sentirsi pellegrini?

Vuol dire riconoscere che siamo fondamentalmente in cammino in questo mondo tesi verso l’assoluto nella compagnia di altri esseri umani.

il ‘pizzino’ del card. Mueller contro papa Francesco contiene gravi affermazioni

le gravi affermazioni del card. Mueller contro papa Francesco

di Andrea Grillo

in “Come se non” http://www.cittadellaeditrice.com/munera/come-se-non/ – del 27 novembre 2017

Se “per natura” dice di essere con il Santo Padre, non dimostra affatto di esserlo per cultura. La minaccia di scisma è la coda di paglia di chi non ha argomenti teologici e spirituali da contrapporre alla svolta conciliare di papa Francesco. Il sintomo più grave di questa lettura deficitaria è la esigenza di “superare la definizione di Chiesa come ospedale da campo”. Se c’è un papa che ha recuperato, non solo nell’immaginario collettivo, ma nel cuore stesso della Chiesa, la qualità “paterna e fraterna”, è proprio Francesco

Le accuse che il card. Mueller ha rivolto ieri al papa, direttamente o indirettamente, sono molto gravi e meritano di essere accuratamente identificate

in appendice, il testo integrale della intervista

Presentato da Massimo Franco come “forse il teologo cattolico più rispettato” – espressione davvero ambigua e senza fondamento – nel corso della intervista dimostra proprio di essere debole sul versante squisitamente teologico intorno alle questioni affrontate. Ma andiamo per ordine:

a) la richiesta di “leadership ostile” e la fedeltà

Massimo Franco le definisce “parole dure e risentite”: come un Giobbe offeso, Mueller chiede conto al Papa della ingiustizia subita e dei consiglieri satanici…un quadro a dir poco paradossale e davvero privo di temperanza. Un uomo di Chiesa, che voglia salvaguardare la comunione, in questi casi tace, o parla con discrezione e misura. Se invece parla accusando apertamente il papa di ingiustizia, si chiama fuori dalla Chiesa, si isola su una turris eburnea molto isolata e non poco autoreferenziale. E la sua ribadita fedeltà al Romano Pontefice è puramente formale, astratta. In concreto continua a lottare contro il pontificato, in modo vistosamente sleale. Se “per natura” dice di essere con il Santo Padre, non dimostra affatto di esserlo per cultura.

b) la minaccia di scisma

Se passa il messaggio di una “ingiustizia da parte della Curia romana”… ma che cosa sta facendo Mueller da 5 anni se non continuamente insistere su questa ingiustizia? In un certo senso Mueller mette in guardia la Chiesa da se stesso. Fin dall’inizio ha interpretato se stesso, come Prefetto, come “correttore del papa”. E ora pretende di parlare “super partes”? Come se fosse un osservatore romano disinteressato? Come se non fossero state proprio le sue parole ad alimentare la fronda nostalgica e tradizionalista? La minaccia di scisma è la coda di paglia di chi non ha argomenti teologici e spirituali da contrapporre alla svolta conciliare di papa Francesco. Dare credito ai “dubia” di 4 cardinali e alla lettera di accuse di 62 cattolici poco competenti è un errore irrimediabile del suo approccio.

c) la presunta debolezza teologica e spirituale

Molto grave, ma non nuova, è la affermazione secondo cui oggi la Chiesa di Francesco sarebbe più debole teologicamente e spiritualmente. Questo è davvero il colmo. Mueller identifica nella autoreferenzialità teologica degli ultimi 30 anni il modello teologico e spirituale che “conserva lo status quo”. Per Mueller questo è l’orizzonte: quieta non movere et mota quietare. Non riconosce affatto né la grande dinamica spirituale introdotta dal pontificato di Francesco, né il grande approfondimento teologico, che ha ripreso lo slancio della fase conciliare di riflessione nella Chiesa. Il sintomo più grave di questa lettura deficitaria è la esigenza di “superare la definizione di Chiesa come ospedale da campo”. Quella affermazione è lo specchio di una profonda e forse irrimediabile estraneità di L. Mueller alla Chiesa conciliare, ripensata 50 anni dopo in modo dinamico e capace di “prendere la iniziativa”. Egli legge come “cedimento alla immanenza” la logica della incarnazione. E questo compromette tutto. Applica al papato di Francesco schemi antimodernistici e resta giocato dalla sua teologia non aggiornata. Un deficit teologico sta alla radice del disagio.

d) La domanda di “teologia accademica” e il ruolo della Congregazione

Bisogna infine sottolineare l’esito ultimo di questo approccio distorto al pontificato: la percezione, che Mueller ripete più volte, secondo cui Francesco sarebbe più un sovrano che un “padre nella fede”. Questo è davvero difficile da capire. Se c’è un papa che ha recuperato, non solo nell’immaginario collettivo, ma nel cuore stesso della Chiesa, la qualità “paterna e fraterna”, è proprio Francesco. E questo è dovuto non anzitutto al suo “personaggio mediatico”, ma alla sua spiritualità e alla sua teologia. Su questo punto Mueller sembra aver vissuto, in questi 5 anni, in un altro mondo, in un’altra storia, con altre prospettive e preoccupazioni. Anche la domanda di “teologia accademica” mi sembra paradossale. Proprio in questi 5 anni abbiamo avuto una ripresa e un rilancio del pensiero teologico, che ha riscoperto profondamente il prezioso tesoro della sua immaginazione, della sua incompletezza e della sua inquietudine nel restituire il “depositum fidei” con nuova forza e con efficace eleganza. Le “tre i” con cui Francesco ha identificato il “lavoro teologico” sembrano totalmente estranee alla cultura di L. Mueller. Che un teologo tanto sordo alle prospettive teologiche e spirituali di Francesco e tanto preoccupato di dover condizionare come Prefetto un papato davvero proficuo avesse la pretesa di restare in carica e di condizionare così pesantemente il pontificato, risulta difficile da comprendere.

appendice

la Intervista integrale del Card Mueller al Corriere della sera di ieri (26/11/2017)

di Massimo Franco

«C’è un fronte dei gruppi tradizionalisti, così come dei progressisti, che vorrebbe vedermi a capo di un movimento contro il Papa. Ma io non lo farò mai. Ho servito con amore la Chiesa per 40 anni da prete, 16 anni da cattedratico della teologia dogmatica e 10 anni da vescovo diocesano. Credo nell’unità della Chiesa e non concedo a nessuno di strumentalizzare le mie esperienze negative degli ultimi mesi. Le autorità della Chiesa, però, devono ascoltare chi ha delle domande serie o dei reclami giusti; non ignorarlo o, peggio, umiliarlo. Altrimenti, senza volerlo, può aumentare il rischio di una lenta separazione che potrebbe sfociare in uno scisma di una parte del mondo cattolico, disorientato e deluso. La storia dello scisma protestante di Martin Lutero di cinquecento anni fa dovrebbe insegnarci soprattutto quali sbagli evitare».

Il cardinale Gerhard Müller parla con voce piana e un marcato accento tedesco. Siamo nell’appartamento di Piazza della Città Leonina che in passato aveva occupato Joseph Ratzinger prima di diventare Benedetto XVI, in un palazzo abitato da alti prelati. Müller, forse il più rispettato teologo cattolico, è l’ex prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, sostituito a sorpresa nel luglio scorso da Jorge Mario Bergoglio.

«Il Papa mi confidò: “Alcuni mi hanno detto anonimamente che lei è mio nemico” senza spiegare in qual punto»,

racconta affranto.

«Dopo quarant’anni al servizio della Chiesa, mi sono sentito dire questo: un’assurdità preparata da chiacchieroni che invece di instillare inquietudine nel Papa farebbero meglio a visitare uno strizzacervelli. Un vescovo cattolico e cardinale di Santa Romana Chiesa è per natura con il Santo Padre. Ma credo che, come diceva il teologo del Cinquecento, Melchior Cano, i veri amici non sono coloro che adulano il Papa ma quelli che lo aiutano con la verità e la competenza teologica ed umana. In tutte le organizzazioni del mondo i delatori di questa specie servono solo se stessi».

Parole dure, risentite, di chi sente di avere subito un torto immeritato. Il cardinale esclude, come sostengono alcune voci allarmistiche, che qualcuno stia ordendo complotti contro Francesco, in polemica con alcune prese di posizione ritenute troppo progressiste: lo considera «un’assoluta esagerazione». Ma ammette che la Chiesa è percorsa da tensioni profonde.

«Le tensioni nascono dalla contrapposizione tra un fronte tradizionalista estremista su alcuni siti web, e un fronte progressista ugualmente esagerato, che oggi cerca di accreditarsi come superpapista»,

secondo Müller. Si tratta di minoranze, ma agguerrite. Per questo il cardinale trasmette un messaggio di unità ma anche di preoccupazione.

«Attenzione: se passa la percezione di un’ingiustizia da parte della Curia romana, quasi per forza di inerzia si potrebbe mettere in moto una dinamica scismatica, difficile poi da recuperare. Credo che i cardinali che hanno espresso dei dubbi sull’Amoris Laetitia, o i 62 firmatari di una lettera di critiche anche eccessive al Papa vadano ascoltati, non liquidati come “farisei” o persone brontolone. L’unico modo per uscire da questa situazione è un dialogo chiaro e schietto. Invece ho l’impressione che nel “cerchio magico” del Papa ci sia chi si preoccupa soprattutto di fare la spia su presunti avversari, così impedendo una discussione aperta ed equilibrata. Classificare tutti i cattolici secondo le categorie di “amico” o “nemico” del Papa, è il danno più grave che causano alla Chiesa. Uno rimane perplesso se un giornalista ben noto, da ateo si vanta di essere amico del Papa; e in parallelo un vescovo cattolico e cardinale come me viene diffamato come oppositore del Santo Padre. Non credo che queste persone possano impartirmi lezioni di teologia sul primato del Romano Pontefice».

Müller non vede una Chiesa più divisa di quanto fosse negli anni di Benedetto XVI.

«Però la vedo più debole. Fatichiamo ad analizzare i problemi. I sacerdoti scarseggiano e diamo risposte più organizzative, politiche e diplomatiche che teologiche e spirituali. La Chiesa non è un partito politico con le sue lotte per il potere. Dobbiamo discutere sulle domande esistenziali, sulla vita e la morte, sulla famiglia e le vocazioni religiose, e non permanentemente sulla politica ecclesiastica. Papa Francesco è molto popolare, e questo è un bene. Ma la gente non partecipa più ai Sacramenti. E la sua popolarità tra i non cattolici che lo citano con entusiasmo, non cambia purtroppo le loro false convinzioni. Emma Bonino, per esempio, loda il Papa ma resta ferma sulle sue posizioni in tema di aborto che il Papa condanna. Dobbiamo stare attenti a non confondere la grande popolarità di Francesco, che pure è un enorme patrimonio per il mondo cattolico, con una vera ripresa della fede: anche se tutti sosteniamo il Papa nella sua missione».

Nell’ottica del cardinale Müller, dopo quasi cinque anni di pontificato una fase si è chiusa: quella della Chiesa intesa come «ospedale da campo», definizione felice che Francesco affidò alla Civiltà Cattolica nel 2013, poco dopo l’elezione.

«Fu una grande intuizione del Papa. Ma forse ora bisogna andare oltre l’ospedale da campo, e archiviare la guerra contro il bene naturale e soprannaturale degli uomini di oggi che lo ha reso necessario»,

sostiene.

«Oggi avremmo bisogno più di una Silicon Valley della Chiesa. Dovremmo essere gli Steve Jobs della fede, e trasmettere una visione forte in termini di valori morali e culturali e di verità spirituali e teologiche».

Non basta, aggiunge,

«la teologia popolare di alcuni monsignori né la teologia troppo giornalistica di altri. Abbiamo bisogno anche della teologia a livello accademico».

Dalle sue parole si intuisce che le critiche sono rivolte soprattutto ad alcuni collaboratori di Francesco.

«Va bene la divulgazione. Francesco tende giustamente a sottolineare la superbia degli intellettuali. A volte, tuttavia, i superbi non sono solo loro. Il vizio della superbia è una impronta del carattere e non dell’intelletto. Io penso alla umiltà di San Tommaso, il più grande intellettuale cattolico. La fede e la ragione sono amiche».

Nell’ottica del cardinale, il modello di papato che tende a emergere a intermittenza,

«più come sovrano dello Stato del Vaticano che come supremo insegnante della fede»,

può suscitare qualche riserva.

«Ho la sensazione che Francesco voglia ascoltare e integrare tutti. Ma gli argomenti delle decisioni devono essere discussi prima. Giovanni Paolo II era più filosofo che teologo, ma si faceva assistere e consigliare dal cardinale Ratzinger nella preparazione dei documenti del magistero. Il rapporto fra il Papa e la Congregazione per la dottrina della fede era e sarà sempre la chiave per un proficuo pontificato. E ricordo anche a me stesso che i vescovi sono in comunione con il Papa: fratelli e non delegati del Papa, come ci ricordava il Concilio Vaticano II».

Müller non ha ancora smaltito «la ferita», la chiama così, dei suoi tre collaboratori licenziati poco prima della sua sostituzione. «Sono stati dei preti buoni e competenti che lavoravano per la Chiesa con dedizione esemplare»,

è il suo giudizio.

«Le persone non possono essere mandate via ad libitum, senza prove né processo, solo perché qualcuno ha denunciato anonimamente vaghe critiche al Papa mosse da parte di uno di loro…».

intervista al teologo J. Moltmann: mi comprendo come un cristiano evangelico cattolico: in questo senso sono in comunione con i cristiani romani cattolici”

Jürgen Moltmann

la chiesa esiste solo al singolare


dal 25 al 28 ottobre 2017, il teologo riformato Jürgen Moltmann (fecondo autore tra gli altri di Teologia della speranza, Il Dio crocifisso, La Chiesa nella forza dello Spirito…) è stato presente a Bose in occasione del seminario su «La Riforma in prospettiva ecumenica» organizzato congiuntamente dall’Istituto biblico teologico Sant’Andrea di Mosca e dal Monastero di Bose. In margine a quell’incontro, Finestra ecumenica ha intervistato il grande pensatore tedesco di Tübingen, novantunenne, sul cammino verso l’unità tra le chiese.

 
Professor Moltmann, l’ecumenismo per lei non è solo un’idea, ma un’esperienza attiva. Ricordiamo in particolare la sua ventennale partecipazione alla commissione Fede & Costituzione del Consiglio ecumenico delle chiese, o la sua lunga collaborazione nel direttivo della rivista Concilium. Sulla base di queste esperienze, come descriverebbe l’ecumenismo? Che definizione ne dà?
 
Si tratta dell’unità visibile della chiesa! L’unità invisibile è già istituita, attraverso la preghiera sacerdotale di Gesù: «Che tutti siano uno» (Gv 17,21). Sono convinto che Dio ha esaudito la preghiera di Cristo: l’unità invisibile è dunque già realizzata. Per questo sono del tutto tranquillo e non spingo per l’unità visibile: ci verrà regalata un giorno.
 
Parla dell’unità della chiesa, e non dell’unità delle chiese o dei cristiani.
 
Sì, l’unità della chiesa, perché la chiesa esiste solo al singolare. «Credo la chiesa una, santa, cattolica e apostolica»: è quanto affermiamo nel Simbolo di Nicea. Le chiese locali sono una manifestazione di questa chiesa una.
 
Anche le diverse chiese confessionali allora sono da intendere come espressioni diversificate di quest’unica chiesa, dell’Una Sancta?
 
Certamente. Io stesso mi comprendo come un cristiano evangelico cattolico. In questo senso sono in comunione con i cristiani romani cattolici. Si tratta di un’unità invisibile, di un’unità nello Spirito. Abbiamo una comunione attraverso il battesimo, nel riconoscimento del battesimo amministrato nelle diverse chiese, e la comunione eucaristica ci sta ancora davanti, ma è vicina. Secondo me, in realtà, è già stata affermata nella dichiarazione di Lima su Battesimo, eucaristia, ministero (1982), del Consiglio ecumenico delle chiese, ma ugualmente nella Concordia di Leuenberg (1973), che unisce le chiese evangeliche europee e che anche dei teologi cattolici possono sottoscrivere. Un punto tuttavia rimane aperto: quello che riguarda il ministero, il servizio nella chiesa. Anche questo nodo potrebbe essere sciolto.
 
Che cosa manca per arrivarci?
 
La pazienza e una fede salda!
 
Suggerisce di realizzare l’intercomunione, cioè condividere la comunione eucaristica, e di discutere solo in un secondo tempo delle cose che ci dividono?
 
Sì, la comunità di fede appare quando le persone sentono l’invito di Cristo: «Siate riconciliati con Dio», e vengono insieme alla tavola dell’altare dove Cristo le aspetta. È Cristo che invita e dà il proprio corpo e il proprio sangue: non celebriamo nel nostro nome proprio o nel nome di una chiesa, ma nel nome di Gesù Cristo. La Cena del Signore è inseparabile da quanto è avvenuto sulla croce, sul Golgota. Lì, cattolici, protestanti, ortodossi non sono divisi: lì i peccatori sono perdonati, le vittime ritrovano i loro diritti, gli afflitti sono consolati e i disperati trovano nuova speranza. Come possiamo mantenere le separazioni gli uni dagli altri se insieme siamo riconciliati con Dio? La mia proposta è allora che dopo avere condiviso la comunione in comune, dovremmo rimanere insieme e discutere di quanto ci è successo nell’eucaristia, di quello che vi abbiamo vissuto. La comprensione viene dopo l’esperienza. La pratica è prima, la teologia seconda. In fondo, è come nella vita quotidiana: dopo avere mangiato e bevuto insieme, si è più distesi e più disposti al dialogo…
 
Ha scritto che il concetto di «diversità riconciliata» elaborato dalle chiese luterane è «il sonnifero dell’ecumenismo». Ci può spiegare cosa intende?
 
Nell’«ecumenismo ginevrino», portato avanti dal Consiglio ecumenico delle chiese, avevamo insistito sul rinnovamento delle chiese e l’unità della chiesa. La nozione di «diversità riconciliata» proviene dalla Federazione luterana mondiale, la quale non prevede più il rinnovamento delle chiese. Si finisce per addormentarsi, ammettendo la diversità senza più prendere atto dei cambiamenti, delle riforme, che sono esigiti in vista della visibilità dell’unità. La massima dell’ecumenismo che mi ha sempre convinto recita: «Più ci avviciniamo a Cristo, più ci avviciniamo gli uni agli altri». E questo movimento in avanti, verso Cristo, non è più presente nel concetto della diversità riconciliata, perché tutto vi rimane statico, il movimento è escluso.
 
Quale riforma nella chiesa è necessaria oggi, a cinquecento anni dall’inizio della Riforma protestante, per concretizzare un tale rinnovamento?
 
La Riforma del XVI secolo si proponeva di essere una riforma dell’unica chiesa, per questo la Riforma è imperfetta e incompiuta finché durerà la separazione tra le chiese evangeliche e la chiesa cattolica.
 
Nel XVI secolo sono stati soprattutto gli interventi dei poteri politici a intralciare questa riforma. Anche oggi i fattori politici ritardano o impediscono il cammino verso l’unità. Una «riforma per l’unità» che cosa dovrebbe dire o rispondere oggi alla comunità politica più ampia?
 
L’unità della chiesa, di ogni chiesa, non è fine a se stessa, ma è un fermento per l’unità di tutto il genere umano. E questa umanità unificata dovrebbe saper ascoltare il grido della terra… Se noi non pensiamo l’unità cristiana nell’orizzonte più ampio dell’unità e della cura del mondo in cui viviamo, cadiamo nella trappola della religione civile, dei nazionalismi, dell’alleanza con il potere, che anche oggi – lo vediamo bene – ostacolano l’unità tra i cristiani. Ogni chiesa dovrebbe manifestare l’universalità del cristianesimo che è presente in ogni tradizione, e mostrare come questa sua cattolicità sia al servizio dell’umanità intera.
 
La complementarietà tra «unità» e «cattolicità» dovrebbe essere maggiormente presa in considerazione?
 
Quando si parla di «unità», si ha in mente l’unità interna della chiesa. La nozione di «cattolicità» porta a vedere l’orizzonte esterno. Ora è il Regno di Dio a essere cattolico. E la chiesa è un’anticipazione del Regno di Dio nella storia di questo mondo. La cattolicità è una qualità derivata della chiesa. Per questo, la chiesa riconosce Israele come prima anticipazione del Regno di Dio e spera nella redenzione di Israele allo spuntare del Regno di Dio. Invito così a una riforma della speranza, in cui le chiese non si identifichino con il Regno, né lo riconoscano nei poteri del mondo, ma insieme tra loro e con il popolo della prima alleanza sperino e attendano la venuta di Cristo.
 
Nel suo lavoro teologico, si rifà volentieri alla «pericoresi» delle tre persone della Trinità. Quest’idea della comunione relazionale tra Padre, Figlio e Spirito santo si può anche applicare alla comunione tra le chiese?
 
L’unità della Trinità è il fondamento per l’unità della chiesa. Cipriano l’aveva già riconosciuto nel III secolo. Questo implica di riconoscere la Trinità come una Trinità sociale, e non come una Trinità psicologica. La chiesa, la comunione dei credenti, è l’immagine della Trinità. Un teologo russo ha affermato: «La Trinità è il nostro programma sociale». Lo ritengo corretto: infatti la piena unità del Dio trino è l’archetipo della comunione della creazione. Non solo degli umani, ma anche della comunione di tutto il creato.
 
Tornando alla collaborazione che ha avuto per lunghi decenni con cristiani di diverse confessioni, ci può dire cosa le ha insegnato?
 
Mi ha infinitamente arricchito. Ho riconosciuto una comunione nello Spirito santo o in Cristo con tutte le chiese, sia nell’ortodossia, sia nel mondo cattolico, ma anche nelle chiese pentecostali. In tutte le chiese ho ritrovato l’opposizione tra tradizionalismo e innovazione, rinnovamento. Ci sono dei fondamentalisti nelle chiese protestanti, dei tradizionalisti nella chiesa cattolica; le chiese pentecostali conoscono il contrasto tra coloro che trovano ispirazione nella fede e quelli che spingono per la missione. Le controversie oggi non si svolgono più lungo i confini confessionali. Solo raramente, ormai, le posizioni teologiche divergenti hanno qualche cosa in comune con quei confini. Ma con una nuova teologia possono nascere nuove forme di comunione.

Narciso e la sua dittatura

ribelliamoci alla dittatura di Narciso

intervista a Vincenzo Paglia

a cura di Aldo Cazzullo
in “Corriere della Sera” del 8 ottobre 2017

Monsignor Paglia, nel suo nuovo libro lei scrive che «la fraternità è la promessa mancata della modernità».

«Purtroppo sì. Non che libertà e uguaglianza godano di ottima salute; ma la fraternità è la più negletta, e resta l’utopia da realizzare. Il Noi sta prima di noi stessi: l’io nasce da un Noi, si trova in un Noi; che poi è Dio. Il Noi viene da Dio. Ma dopo la morte di Dio sembra venuta ora la morte del prossimo».

La crisi, lei dice, è dentro noi stessi.

«Stiamo costruendo il mondo globale, ma il rischio è che manchi l’anima. Come se si volesse costruire una dimensione universale senza quel Noi che rende ragione di questo fenomeno. Ecco la profonda contraddizione del nostro tempo: l’avvento del mondo globale coesiste con la disintegrazione della società del convivere, attraverso la forma associata della vita, dalla famiglia alla città alle nazioni; come conferma ora il dramma catalano. Assistiamo alla nascita di un nuovo individualismo che asservisce tutto a se stesso, piega l’intera esistenza. Come un virus che ha infiacchito e sgretolato lo stare assieme».

Neppure la famiglia resiste?

«La famiglia resta senza dubbio in cima ai desideri di tutti. Eppure è il luogo dove più emergono le contraddizioni, dove i legami si indeboliscono via via: non ci si sposa per costruire un futuro assieme, ci si sposa per realizzarsi, sino a depotenziare la forza dei legami. Siamo arrivati all’assurdo di un uomo e poi di una donna che si sposano con se stessi».

Sono solo personaggi in cerca di pubblicità.

«Che purtroppo hanno raggiunto il loro obiettivo. L’individualismo piega anche la famiglia a se stesso; e una società defamiliarizzata porta a una società desocializzata, dove i vincoli sono alla mercé delle ambizioni individuali. Tutto questo non risponde al bisogno profondo che ognuno ha di sconfiggere la solitudine. Il mondo comincia plurale».

Nel libro c’è un capitolo dedicato all’«errore di Dio».

«Dio crea l’essere perfetto e poi si rende conto che è solo, ci ripensa e crea il suo vero capolavoro: la donna. Di fronte a lei anche Adamo cade in ginocchio. E alla loro alleanza Dio affida sia la custodia del creato sia la cura di tutti i legami sociali. L’alleanza dell’uomo e della donna deve guidare non solo la famiglia, ma anche la storia umana. Finché non va bene questa alleanza, anche la storia non andrà bene».

L’esclusione dell’altro, lei scrive, si manifesta con il rifiuto dei migranti, con la polemica contro lo ius soli. Non teme però che su questo punto la Chiesa abbia perso la sintonia con gran parte dell’opinione pubblica italiana?

«La Chiesa non può fare altro che difendere l’accoglienza e proporre a tutti di riconoscere il proprio bisogno dell’altro. In questo senso va interpretata bene anche la parabola del Samaritano».

Cioè?

«Si nota poco che Gesù rovescia la domanda “chi è il mio prossimo?”. Gesù non risponde, la capovolge. Dice che tu devi essere il prossimo dell’altro. E prossimo è superlativo di proper: devi essere il più vicino all’altro. Ecco perché l’accoglienza dello straniero è l’inizio per ritessere il tessuto del Noi. Se tu rifiuti il fratello in arrivo è come quando in casa il figlio unico non accetta che arrivi un altro. Dobbiamo reinventare la prossimità, il modo di essere più vicini a chi è più scartato. Ripartire dalle periferie, direbbe Papa Francesco».

Tra pochi mesi saranno i cinquant’anni della Comunità di Sant’Egidio, nata proprio nelle periferie romane. Lei da giovane sacerdote lasciò la sua parrocchia per fare da assistente spirituale al gruppo di giovani guidati da Andrea Riccardi.

«Fin dall’infanzia volevo fare il prete. Sono entrato in seminario a nove anni. Il libro è dedicato alla comunità: una storia che è andata oltre Roma fino ad abbracciare il mondo intero. Non è una storia finita, testimonia l’urgenza di partire da nuove periferie. Il pianeta è un’immensa megalopoli. Il sorpasso è del 2006: più della metà del mondo vive nelle città».

Lei disse al «Corriere» che negli anni Settanta nelle borgate c’eravate solo voi e le Brigate rosse.

«A Roma c’erano centomila baraccati. Ma oggi se possibile il tessuto sociale è ancora più lacerato e complesso. La periferia è divenuta un agglomerato di quartieri dove si è perso quel senso di comunità che nelle baracche ancora c’era. È cominciato lo sgretolamento di quel Noi che comunque legava e resisteva alla solitudine. Oggi quel processo giunge all’acme: la questione delle periferie è la questione centrale dell’età contemporanea».

Nelle periferie delle grandi città si combatte una guerra tra poveri, tra residenti e nuovi arrivati.

«Si sono moltiplicati i conflitti. Il veleno della violenza è diventato ancora più micidiale e riesce ad assoldare tutte le età della vita, dai bambini agli anziani. Le persone sono abbandonate a loro stesse, al livore, al rancore. È ovvio che in un terreno privo di relazioni umane non può che crescere la zizzania dell’odio. Tutto questo non genera solo violenze trasversali; mette in discussione la tenuta della democrazia. Da qui il populismo: chiunque in qualche modo si imponga diviene il leader in base alle emozioni più che al ragionamento».

Ma l’individualismo non è un istinto eterno dell’uomo? Non può essere anche una spinta positiva?

«Il valore dell’individuo è una grande conquista della cultura cristiana. Ma ora è diventato narcisismo, tradendo se stesso. Il primo santo dell’Occidente, il numero uno del calendario, è Narciso. Ha spodestato Prometeo, Ulisse e tutti i santi».

Come si guarisce dal narcisismo?

«Cambiando la domanda: non “chi sono io?”, ma “per chi sono io?”. Viviamo oggi l’indebolimento della speranza, che sola permette di superare gli egoismi innati in ciascuno di noi. Se non c’è un sogno per il quale vale la pena di vivere, ci si ritira in se stessi, e chiunque si salvi come può. Papa Francesco è un esempio straordinario, perché è uno che sogna in grande».

Non si sta manifestando una forte opposizione conservatrice a Bergoglio?

«Non c’è dubbio che Papa Bergoglio stia portando la Chiesa oltre le colonne d’Ercole dell’ordinarietà del rito. Richiede una vera e propria conversione: ciascuno deve uscire da sé, dal proprio individualismo. Questo non è facile né scontato. Impone una scelta che porta a cielo aperto, fuori dal luogo sicuro, dalle sacrestie, dalle certezze. L’opposizione nasce così. Non è il primo cui accade. Basti pensare a Gesù. Ma anche a Giovanni XXIII e a Paolo VI, i Papi del Concilio. A Giovanni Paolo II, il Papa del dialogo interreligioso di Assisi. E a monsignor Romero, ucciso dagli squadroni della morte sull’altare, durante l’Elevazione».

Romero diventerà finalmente santo? Lei è il postulatore della causa.

«Mi auguro che venga riconosciuto presto il miracolo della guarigione di una donna, con il bambino che aspettava. Così, dopo la decisione del Papa, la Chiesa potrà avere un altro santo che aveva addosso l’odore delle pecore, e per questo è stato ucciso».

una stupenda intervista di Levinas

sono responsabile d’altri, rispondo d’altri

intervista a E. Levinas

Sono responsabile d’altri, rispondo d’altri. Il tema principale, la mia definizione fondamentale, è che l’altro uomo, che di primo acchito fa parte di un insieme che tutto sommato mi è dato, come gli altri oggetti, come l’insieme del mondo, come lo spettacolo del mondo, l’altro uomo emerge in un certo modo da tale insieme precisamente con la sua apparizione come volto.

Il volto non è semplicemente una forma plastica, ma è subito un impegno per me, un appello a me, un ordine per me di trovarmi al suo servizio. Non solamente di quel volto, ma dell’altra persona che in quel volto mi appare contemporaneamente in tutta la sua nudità, senza mezzi, senza nulla che la protegga, nella sua semplicità, e nello stesso tempo come il luogo dove mi si ordina. Questa maniera di ordinare, è ciò che chiamo la parola di Dio nel volto.

[Gli scrittori russi] erano fondamentali, Puskin, Gogol, in seguito i grandi prosatori, Turgenev, Tolstoj, Dostoevskij… Vi si trova costantemente la messa in discussione dell’umano, del senso dell’umano. Ciò vi avvicina ai problemi che, a mio avviso, restano essenziali alla filosofia, e che sotto altre forme trovate nella letteratura specificamente filosofica, e in ogni caso li trovate anche in un’opera letteraria, il libro di tutti i libri, la Bibbia.

C’è, secondo lei, una contraddizione tra la Bibbia e la filosofia?

Non credo, non ho mai vissuto ciò come una contraddizione. In entrambi i casi, si tratta del senso, dell’apparizione del sensato: che sia sotto la forma che tra i greci si definisce ragione, o che sia sotto la forma della relazione con il prossimo nella Bibbia, per me, ciò che le unisce, prima di tutto, è in entrambi i casi la questione della ricerca del senso.

È in questa stessa Europa che lei ha vissuto l’esperienza degli anni ’30 e della guerra del 1940-1945, un’esperienza e un’influenza che è probabilmente molto importante per lei e per l’elaborazione del suo pensiero.

È addirittura l’esperienza fondamentale della mia vita e del mio pensiero, il presentimento di questi anni tremendi, il ricordo indimenticabile di questi anni. Ma io non penso che l’uscita possa consistere in un cambio dei principi di questa civiltà. Penso che all’interno di questa civiltà, ponendo in posizione centrale elementi che erano più marginali, c’è forse un’uscita. Non ho dimenticato neppure che questa Europa si trova senza dirlo, senza ammetterlo, nell’angoscia della guerra nucleare. Ciò che si definisce spesso la modernità mi pare porsi tra ricordi indelebili e un’attesa angosciata. Non so affatto se, rinunciando a ciò, accettando delle forme che sono certamente umane, che possono umanizzarsi ancora di più, si troverà una risposta alle nostre angosce. Non mi aspetto molto dalle mie ricerche per cambiare questo, ma in ogni caso queste sono determinate da ciò che ritengo essere uno squilibrio all’interno di questa civiltà tra i temi fondamentali del sapere e quelli della relazione con altri.

Si potrebbe dire che questa esperienza abbia anche influenzato il suo modo di considerare la filosofia occidentale, la sua critica di tale filosofia?

«Critica della filosofia occidentale», è troppo ambizioso. Ci permettiamo espressioni eccessive. È un po’ come se si contestasse l’altezza dell’Himalaya. Questo insegnamento filosofico è così importante, così essenziale. Esige così tanto di essere attraversato prima di iniziare diversamente.

Ciononostante, lei ha scritto che la storia della filosofia occidentale è stata una distruzione della trascendenza.

La trascendenza è altra cosa, essa ha un senso molto preciso. L’ideale verso il quale andava la filosofia europea consisteva nel credere nella possibilità per il pensiero umano di abbracciare tutto ciò che sembra opporvisi e, in tal senso, di rendere interiore ciò che è esteriore, ciò che è trascendente. La filosofia occidentale non voleva più considerare la trascendenza divina, qualcosa che oltrepassa il limite dell’abbracciabile, del carpibile, come se lo spirito consistesse nel cogliere ogni cosa.

Se posso esprimerlo un po’ più semplicemente, credo che lei voglia dire che è una filosofia dove l’io regna con pieni poteri e dove la conoscenza va più presa che compresa.

Sì, l’io, attraverso il sapere, riconosce come il Medesimo, come riducibile al Medesimo, ciò che di primo acchito sembrava Altro. Sono responsabile d’altri, io rispondo d’altri, prima d’aver fatto qualcosa. Il tema principale, la mia definizione fondamentale, è che l’altro uomo, che innanzitutto, fa parte di un insieme, che sostanzialmente mi è dato come gli altri oggetti, come l’insieme del mondo, come lo spettacolo del mondo, l’altro uomo emerge in qualche modo da tale insieme precisamente con la sua comparsa come volto, che non è semplicemente una forma plastica, ma è immediatamente un impegno per me, un appello a me, un ordine per me di trovarmi al servizio di questo volto, non solamente questo volto, servire l’altra persona che in questo volto mi appare contemporaneamente nella sua nudità, senza mezzi, senza protezioni, nella sua semplicità, e al tempo stesso come il luogo dove mi si comanda. Questa maniera di comandare, è ciò che chiamo la parola di Dio nel volto.

E questo comandamento è: «non uccidere».

Prima di tutto è questo, con diverse sfumature. Nei miei primi scritti, ne parlavo in modo assolutamente diretto: il volto significa «non uccidere», non mi devi uccidere. È la sua umiltà, il suo essere senza mezzi, la sua sobrietà, ma al tempo stesso, precisamente, il comandamento «non uccidere». È ciò che si presta all’omicidio e ciò che resiste all’omicidio. Ecco l’essenza di tale relazione «non uccidere» che è tutto un programma, che vuol dire «tu mi farai vivere». Ci sono mille modi di uccidere altri, non solo con una pistola; si uccide altri restandogli indifferenti, non occupandosene, abbandonandolo. Di conseguenza, «non uccidere» è la cosa principale, è l’ordine principale nel quale l’altro uomo è riconosciuto come ciò che si impone a me.

Questo viso dell’altro fa appello alla mia responsabilità, e lei si spinge molto in là in questa responsabilità, va fino a dire che si deve anche espiare per l’altro.

Ciò che chiamo essere per l’altro, la parola «responsabilità» non è che un modo di esprimere questo: io sono responsabile d’altri, rispondo d’altri, e sostanzialmente rispondo prima d’aver fatto qualcosa. Il paradosso della responsabilità, è che essa non è il risultato di un atto qualsiasi da me commesso. È come se fossi responsabile prima d’aver commesso qualsiasi cosa, come se fosse un a priori e, di conseguenza, come se non fossi libero di scrollarmi da tale responsabilità, come se fossi responsabile senza aver votato, come se espiassi, come se mi comportassi come un ostaggio

Che significa allora la libertà e l’autonomia dell’essere umano quando, prima di ogni conoscenza e quindi di ogni libertà di scelta, è l’altro che mette in dubbio la mia libertà e esige la mia responsabilità?

Pongo la domanda: come definisce lei la libertà? Evidentemente, quando c’è costrizione, non c’è libertà. Ma quando non c’è costrizione, c’è necessariamente libertà? La libertà deve essere definita in modo puramente negativo, come assenza di costrizione, o al contrario, la libertà significa la possibilità per una persona, l’appello rivolto ad una persona a fare qualcosa che nessun altro può fare al posto suo? In tale bontà precedente ad ogni scelta che è la mia responsabilità, sono come eletto, non intercambiabile, il solo a poter fare ciò che faccio nei confronti di altri. Di fatto, questa è una risposta a Sartre quando dice che siamo condannati ad essere liberi. Quando si è votati a qualcosa, a qualcosa dove non c’è semplicemente una cieca necessità ma dove c’è un appello a me in quanto unico a poter compiere ciò che compio, l’etica, la responsabilità etica è sempre questo. Il significato stesso del mio obbligo etico, è il fatto che nessun altro poteva fare ciò che faccio, come se fossi eletto. È questa nozione di libertà, d’elezione che sostituisco a quella libertà puramente negativa. Ciò che ci colpisce nella non-libertà, è che siamo chiunque. Nella mia responsabilità per altri, sono sempre chiamato come se fossi il solo a poterlo fare… Farsi sostituire per un atto morale, vuol dire rinunciare ad un atto morale.

È ciò che dice Sartre quindi?

Non so se Sartre dica questo. Dico anche, ed è sicuramente una formulazione terribile, che la bontà non è un atto volontario. Con ciò voglio intendere che non c’è, nel movimento di libertà, l’atto in particolare di una volontà che interviene. Non si decide di essere buoni, si è buoni prima di ogni decisione. C’è, nel mio concetto, l’affermazione di una bontà iniziale della natura umana.

Ma lei ha anche detto che non si è buoni volontariamente. È dunque contro natura?

Non è a seguito di un atto volontario, è la rottura con l’ordine della natura. E quando dico rottura dell’ordine della natura, lo penso con molta forza, come se la comparsa stessa dell’umano nell’ordine regolare della natura — dove ogni cosa tende a restare immutata, dove ogni essere umano pensa a sé stesso, persiste nel suo essere, ciò che Spinoza chiamava l’atto supremo di Dio che consiste per l’essere nel persistere nel suo essere — con la responsabilità per altri, questo ordine è rotto, può essere rotto, anche se non sempre lo è. Io non dico affatto che ciò trionfi sempre, ma con l’umano, c’è la possibilità per l’uomo di pensare, di impegnarsi, di occuparsi dell’altro prima di perseguire la persistenza nel suo proprio essere.

È la sua vocazione?

Certamente, nel senso fortissimo del termine: c’è qualcuno che chiama, qualcuno che nel volto d’altri chiama, obbliga senza forza. L’autorità non è affatto possesso della forza. È un obbligo senza forza. Purtroppo, il XX secolo ci ha abituati a questa idea che non si abbia il diritto di predicare, ma che si possa dire a se stessi che Dio ha rinunciato alla violenza, che comanda senza violenza. È anche una predicazione, e non si ha il diritto di predicare (lo si può dire a se stessi) perché, quando lo si predica, sembra si voglia giustificare Auschwitz. Dopo Auschwitz, Dio non ha più giustificazioni. S’è c’è ancora fede, è una fede senza teodicea.

Intende dire senza speranza?

No, senza teodicea, senza che si possa giustificare Dio. Dicendo questo, non invento una possibilità fondamentale dell’umano. In realtà, quando non ci lasciamo essere in modo puro e semplice, quando abbiamo compreso l’alterità dell’altro, non abbiamo mai finito di comprenderla. Non si è mai affrancati da altri. È una moralità assolutamente borghese che dice: «In dati momenti, posso chiudere la porta».

In questo contesto, lei cita più volte Dostoevskij che dice: «Noi siamo tutti colpevoli di tutto e di tutti davanti a tutti, e io più di tutti gli altri» [I Fratelli Karamazov].

Torneremo a breve, se me lo permette, sul fatto che non sia probabilmente così tutti i giorni. Ma, se si è in questo incontro d’altri che provo a descrivere, non si è mai colui che comprende la sua relazione ad altri come reciproca. Se si dice: «Sono responsabile per lui, ma anche lui è responsabile nei miei riguardi», in tal caso, si trasforma la propria responsabilità iniziale in commercio, in scambio, in uguaglianza, si è già mal interpretato tale frase di Dostoevskij, che è un’esperienza fondamentale dell’umano.

E che illustra ciò che lei intende per «asimmetria».

L’asimmetria, è in primo luogo il fatto che la mia relazione nei confronti di me stesso e le mie obbligazioni come io stesso le intendo non sono immediatamente in un rapporto tra due pari, dove altri è sempre supposto essere io stesso. Io stesso, sono prima di tutto l’obbligato, e lui, è prima di tutto colui nei confronti del quale sono obbligato. Non è affatto uno smarrimento, è la modalità essenziale dell’incontro con altri. Come dicevo poc’anzi, io non posso predicare la religione ad altri, anche se in me stesso posso accettare alcune cose che, proposte agli altri, paiono avere la facilità della chiacchierata teologica. Io posso accettare una teologia per me, assumere per me una teologia, ma non ho il diritto di proporla agli altri. È la vocazione dell’asimmetria.

Ci si può chiedere se sia possibile vivere con un perpetuo senso di colpa. Come vivere con questo problema contro natura?

Tutto ciò che tento di presentare è un’umanità contro natura. Come una rottura dell’ordine regolare dell’essere preoccupato di sé stesso, preoccupato del proprio sostentamento, perseverante nell’essere, stimando perfino che, quando si tratta del mio essere, tutte le altre questioni cadano. È contro ciò che tento di scoprire nell’umanità una vera rottura d’un essere costretto ad essere, preoccupato d’essere.

Ma non sarebbe una morale quasi masochista?

Il masochismo è una caratteristica di una malattia dell’essere ben portante. Io non credo che l’essere umano sia ben portante, nel senso banale del termine: è una rottura di questa salute facile, che è soprattutto la mia salute, è una preoccupazione. Non tutte le malattie sono da curare. Masochismo? Io non temo questa parola. Che cos’è l’umano? È lì dove l’altro è l’indesiderato per eccellenza, dove l’altro è il disturbatore, ciò che mi limita. Nulla può limitarmi maggiormente che un altro uomo. Per questa umanità-natura, per questa umanità vegetale, per questa umanità-essere, l’altro è l’indesiderabile per eccellenza. Ma è contro di lui e verso di lui che vi guida, nel volto dell’uomo, l’appello di Dio. È drammatico. È un termine tratto dal mio articolo «Dieu et la philosophie» (è uno degli articoli ai quali tengo maggiormente) dove la risposta di Dio non consiste nel rispondervi, ma nel rinviarvi verso l’altro. La relazione con Dio, con l’infinito, è il rapporto all’umano, a l’altro. Ciò che ammiro di più nel Vangelo — io non sono cristiano, lo sapete, ma trovo nel Vangelo molte cose che mi sono prossime e le cui basi mi paiono assolutamente bibliche –, è il capitolo 25 di Matteo sul giudizio finale, dove il Cristo dice: «Voi mi avete cacciato, mi avete perseguito. Quando ti abbiamo perseguito? Quando ti abbiamo cacciato? Quando avete cacciato il povero». Bisogna considerare ciò, non in senso metaforico, ma in senso eucaristico. È veramente nel povero che c’è la presenza di Dio, nel senso concreto. Ho sempre letto in questo senso il capitolo 58 di Isaia, dove pure ci sono persone che dicono di cercare Dio, e questi dice che, per trovarlo, si devono liberare gli schiavi, vestire gli ignudi, nutrire gli affamati, far entrare in casa i senzatetto. È più difficile perché i senzatetto sporcano i tappeti.

Nella sua opera Totalità e infinito, lei dice: «L’uomo è naturalmente ateo, ed è una grande gloria per il Creatore l’aver dato vita ad un essere capace di essere ateo. L’ateismo condiziona una relazione vera con un vero Dio». Vuole liberare l’uomo da Dio?

Il fatto che l’uomo possa giungere a partire dalla sua bontà verso Dio invece di andare verso la bontà a partire da Dio, ecco cosa mi pare estremamente importante. Il fatto che, senza pronunciare la parola Dio, io sia nella bontà è più importante di una bontà che venga semplicemente a posizionarsi tra le raccomandazioni di un dogma. È estremamente importante indicare un procedimento a partire dalla bontà e non a partire dalla creazione del mondo. La creazione del mondo stessa deve prendere il suo significato a partire dalla bontà. È una vecchia credenza rabbinica, ma si pretende che sia tratta dalla Bibbia, che il mondo sussista, sia stato creato dall’etica, dalla Torah; che nell’espressione, «in principio Dio creò», la parola reshit (principio) significhi l’etica o, se volete, la Torah. Può darsi che la spiritualità alla quale si giunge attraverso l’etica non sia completa. Può darsi che infatti, gli altri, vadano aiutati ancora diversamente. Io non affermo che ciò sia falso, ma non è questa la via che mi pare corrispondere allo spirito, che definisce lo spirito.

Lei ha illustrato ciò attraverso la storia del romano che chiede al rabbino: «Perché il vostro Dio, che è il Dio dei poveri, non nutre i poveri?». La risposta del rabbino è: «Per salvare l’umanità dalla dannazione».

No, questa è un’altra cosa. Questo vuol dire che è assolutamente scandaloso, è un peccato mortale che gli uomini non aiutino gli altri uomini. Se fosse Dio ad incaricarsene, non gli resterebbe più che lasciare gli uomini al loro peccato.

Lo si potrebbe rimproverare alle Chiese…

Io non condanno le Chiese, hanno molto da fare, hanno altri problemi ma per me non è l’inizio della spiritualità. Ci sono tanti libri che le Chiese commentano e diffondono, ma è ciò che è contenuto in questi libri, prima di questa organizzazione, che è importante. Il Messia, ovvero l’obbligo di occuparsi d’altri, è il mio compito. Nella mia individualità, nella mia unicità, c’è questo: sono un potenziale Messia.

Non è l’effetto della grazia.

Assolutamente no, al contrario, è la condizione dell’io come la descrivo sin dall’inizio: il soggetto non è assolutamente colui che prende, ma colui che è responsabile. L’universo pesa su di me, sono ostaggio, espiazione, sono scelto per questo. La mia unità, la mia unicità, è ciò che chiamo Messia. Vengo per salvare il mondo, ma lo dimentico. Tuttavia, nell’io, ovvero in questa soggettività — che non concepisco affatto come sostanza, come potere, ma che descrivo con questa bontà iniziale, gratuita — con questa responsabilità, diversa, di qualunque grado sia, anche nella condotta, mi interessa, mi riguarda. Mi riguarda non nel senso sartriano, condannandomi, ma nel senso nel quale si dice in francese: «I vostri fatti mi riguardano» o «I vostri fatti non mi riguardano». È ciò che chiamo il momento messianico nell’io umano. Non dico che trionfi — il Messia non viene — ma questa vocazione, lui l’ha sentita, è tramite questa vocazione che è unico e uno, lì si trova la sua individuazione. Non ho filosofia della storia che possa consolare da tutti gli abusi, anche dalla relazione ad un volto. Ciò che mi è importato, è di scoprire nella pesantezza dell’essere che si occupa di sé stesso, questa possibilità di tenere conto, di sviluppare una bontà per un altro essere, di occuparsi della sua morte prima di occuparsi della propria. Questo scoraggiamento non ha consolazione, ma ho spesso pensato che si debba insistere nelle analisi sul disinteresse della relazione interumana, della parola che si ha con altri, e che non è impossibile — ma questo è al di là della filosofia — che coloro che non contano su nessuna ricompensa siano degni di una ricompensa.

da mondodomani.org

papa Francesco riconosce la corruzione in Vaticano

 

 papa Francesco

«sì, c’è corruzione in Vaticano ma non perdo la serenità»

il pontefice e i mali della chiesa

«a Buenos Aires ero più ansioso. Scrivo bigliettini a San Giuseppe li metto sotto la sua statua»

ampi stralci del colloquio di Francesco con i superiori degli ordini religiosi, pubblicato nel numero 4000 de «La Civiltà cattolica» e trascritto dal direttore, padre Spadaro

«Il Papa è in ritardo», mi dicono all’ingresso dell’Aula Paolo VI il 25 novembre 2016. Dentro, nel luogo in cui si svolgono i Sinodi, erano in attesa 140 Superiori Generali di Ordini e Congregazioni religiose maschili (Usg), riuniti alla fine della loro 88a Assemblea Generale. Fuori una leggera pioggia. «Andate e portate frutto. La fecondità della profezia»: questo il tema dell’Assemblea che si è svolta dal 23 al 25 novembre presso il «Salesianum» di Roma. Non è comune che il Pontefice arrivi in ritardo. Alle 10,15 ecco arrivare i fotografi e quindi il Papa a passo svelto. Dopo l’applauso di saluto, Francesco esordisce: «Scusate per il ritardo. La vita è così: piena di sorprese. Per capire le sorprese di Dio bisogna capire le sorprese della vita. Grazie tante». E ha proseguito dicendo che non voleva che il suo ritardo influisse sul tempo fissato per stare insieme. Per questo l’incontro è durato comunque tre ore piene. A metà dell’incontro si è avuta una pausa. Era stata preparata una saletta riservata per il Papa, ma lui ha esclamato: «Perché mi volete far stare tutto da solo?». E così la pausa ha visto il Papa gioiosamente tra i Generali a prendere un caffè e uno spuntino, salutando l’uno e l’altro. Non vi è stato alcun discorso preparato in anticipo né da parte dei religiosi né da parte del Papa. Le telecamere del Ctv hanno ripreso solamente i saluti iniziali e poi sono andate via. L’incontro doveva essere libero e fraterno, fatto di domande e risposte non filtrate. Il Papa non ha voluto leggerle in anticipo. Dopo aver ricevuto un brevissimo saluto da parte di p. Mario Johri, ministro generale dei Frati Cappuccini e presidente dell’Usg, e di p. David Glenday, comboniano, segretario generale, il Papa ha ascoltato le domande dell’Assemblea.

E se ci fossero critiche?

«È bene essere criticato — afferma il Papa —, a me piace questo, sempre. La vita è fatta anche di incomprensioni e di tensioni. E quando sono critiche che fanno crescere, le accetto, rispondo. Le domande più difficili però non le fanno i religiosi, ma i giovani. I giovani ti mettono in difficoltà, loro sì. I pranzi con i ragazzi nelle Giornate Mondiali della Gioventù o in altre occasioni, queste situazioni mi mettono in difficoltà. I giovani sono sfacciati e sinceri e loro ti chiedono le cose più difficili. Adesso fate le vostre domande».

Santo Padre, noi riconosciamo la sua capacità di parlare ai giovani e di infiammarli per la causa del Vangelo. Noi sappiamo anche del suo impegno per avvicinare i giovani alla Chiesa; per questo ha convocato il prossimo Sinodo dei vescovi sui giovani, la fede e il discernimento vocazionale. Quali motivazioni l’hanno spinta a convocare il Sinodo sui giovani? Quali suggerimenti ci offre per raggiungere i giovani oggi?

Alla fine del Sinodo scorso ogni partecipante ha dato tre suggerimenti sul tema da affrontare nel prossimo. Poi sono state consultate le Conferenze episcopali. Le convergenze sono andate su temi forti, quali gioventù, formazione sacerdotale, dialogo interreligioso e pace. Nel primo Consiglio post-sinodale è stata fatta una bella discussione. Io ero presente. Ci vado sempre, ma non parlo. Per me importante è ascoltare davvero. È importante che io ascolti, ma lascio che siano loro a lavorare liberamente. In questo modo capisco come emergono le problematiche, quali sono le proposte e i nodi, e come si affrontano.
Hanno scelto i giovani. Ma alcuni sottolineavano l’importanza della formazione sacerdotale. Personalmente ho molto a cuore il tema del discernimento. L’ho raccomandato più volte ai gesuiti: in Polonia e poi alla Congregazione Generale . Il discernimento accomuna la questione della formazione dei giovani alla vita: di tutti i giovani, e in particolare, a maggior ragione, anche dei seminaristi e dei futuri pastori. Perché la formazione e l’accompagnamento al sacerdozio ha bisogno del discernimento.
Al momento è uno dei problemi più grandi che abbiamo nella formazione sacerdotale. Nella formazione siamo abituati alle formule, ai bianchi e ai neri, ma non ai grigi della vita. E ciò che conta è la vita, non le formule. Dobbiamo crescere nel discernimento. La logica del bianco e nero può portare all’astrazione casuistica. Invece il discernimento è andare avanti nel grigio della vita secondo la volontà di Dio. E la volontà di Dio si cerca secondo la vera dottrina del Vangelo e non nel fissismo di una dottrina astratta. Ragionando sulla formazione dei giovani e sulla formazione dei seminaristi, ho deciso il tema finale così come è stato comunicato: «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale».
La Chiesa deve accompagnare i giovani nel loro cammino verso la maturità, e solo con il discernimento e non con le astrazioni i giovani possono scoprire il loro progetto di vita e vivere una vita davvero aperta a Dio e al mondo. Dunque ho scelto questo tema per introdurre il discernimento con maggior forza nella vita della Chiesa. L’altro giorno abbiamo avuto la seconda riunione del Consiglio post-sinodale. Si è discusso abbastanza bene su questo argomento. Hanno preparato la prima bozza sui Lineamenta che si dovrà inviare subito alle Conferenze episcopali. Hanno lavorato anche religiosi. È uscita una bozza ben preparata.
Questo comunque è il punto chiave: il discernimento, che è sempre dinamico, come la vita. Le cose statiche non vanno. Soprattutto con i giovani. Quando io ero giovane, la moda era fare riunioni. Oggi le cose statiche come le riunioni non vanno bene. Si deve lavorare con i giovani facendo cose, lavorando, con le missioni popolari, il lavoro sociale, con l’andare ogni settimana a dar da mangiare ai senzatetto. I giovani trovano il Signore nell’azione. Poi, dopo l’azione si deve fare una riflessione. Ma la riflessione da sola non aiuta: sono idee… solo idee. Dunque due parole: ascolto e movimento. Questo è importante. Ma non solamente formare i giovani all’ascolto, bensì innanzitutto ascoltare loro, i giovani stessi. Questo è un primo compito importantissimo della Chiesa: l’ascolto dei giovani. E nella preparazione del Sinodo la presenza dei religiosi è davvero importante, perché i religiosi lavorano molto con i giovani.

Che cosa si aspetta dalla vita religiosa nella preparazione del Sinodo?
Quali speranze Lei ha per il prossimo Sinodo sui giovani, alla luce della diminuzione delle forze della vita religiosa in Occidente?

Certo, è vero che c’è una diminuzione delle forze della vita religiosa in Occidente. Certamente è collegata al problema demografico. Ma è anche vero che a volte la pastorale vocazionale non risponde alle attese dei giovani. Il prossimo Sinodo ci darà idee. La diminuzione della vita religiosa in Occidente mi preoccupa.
Ma mi preoccupa anche un’altra cosa: il sorgere di alcuni nuovi Istituti religiosi che sollevano alcune preoccupazioni. Non dico che non debbano esserci nuovi Istituti religiosi! Assolutamente no. Ma in alcuni casi mi interrogo su che cosa stia accadendo oggi. Alcuni di essi sembrano una grande novità, sembrano esprimere una grande forza apostolica, trascinano tanti e poi… falliscono. A volte si scopre persino che dietro c’erano cose scandalose… Ci sono piccole fondazioni nuove che sono davvero buone e che fanno sul serio. Vedo che dietro queste buone fondazioni ci sono a volte anche gruppi di vescovi che accompagnano e garantiscono la loro crescita. Però ce ne sono altre che nascono non da un carisma dello Spirito Santo, ma da un carisma umano, da una persona carismatica che attira per le sue doti umane di fascinazione. Alcune sono, potrei dire, «restaurazioniste»: esse sembrano dare sicurezza e invece danno solo rigidità. Quando mi dicono che c’è una Congregazione che attira tante vocazioni, lo confesso, io mi preoccupo. Lo Spirito non funziona con la logica del successo umano: ha un altro modo. Ma mi dicono: ci sono tanti giovani decisi a tutto, che pregano tanto, che sono fedelissimi. E io mi dico: «Benissimo: vedremo se è il Signore!».
Alcuni poi sono pelagiani: vogliono tornare all’ascesi, fanno penitenze, sembrano soldati pronti a tutto per la difesa della fede e di buoni costumi… e poi scoppia lo scandalo del fondatore o della fondatrice… Noi sappiamo, vero? Lo stile di Gesù è un altro. Lo Spirito Santo ha fatto rumore il giorno della Pentecoste: era all’inizio. Ma di solito non fa tanto rumore, porta la croce. Lo Spirito Santo non è trionfalista. Lo stile di Dio è la croce che si porta avanti fino a che il Signore non dice «basta». Il trionfalismo non va bene d’accordo con la vita consacrata.
Dunque, non mettete la speranza nel fiorire improvviso e massiccio di questi Istituti. Cercate invece l’umile cammino di Gesù, quello della testimonianza evangelica. Benedetto XVI ce lo ha detto molto bene: la Chiesa non cresce per proselitismo, ma per attrazione.

Perché ha scelto tre tematiche ne per le prossime tre Giornate mondiali della gioventù che condurranno alle Giornate mondiali di Panama?

I temi ni per le prossime tre Giornate mondiali non li ho scelti io! Dall’America Latina hanno chiesto questo: una forte presenza na. È vero che l’America Latina è molto na, e a me è sembrata una cosa molto buona. Non ho avuto altre proposte, e io ero contento così. Ma la Madonna vera! Non la Madonna capo di un ufficio postale che ogni giorno manda una lettera diversa, dicendo: «Figli miei, fate questo e poi il giorno dopo fate quest’altro». No, non questa. La Madonna vera è quella che genera Gesù nel nostro cuore, che è Madre. Questa moda della Madonna superstar, come una protagonista che mette se stessa al centro, non è cattolica.

Santo Padre, la sua missione nella Chiesa non è facile. Malgrado le sfide, le tensioni, le opposizioni, Lei ci offre la testimonianza di un uomo sereno, di un uomo di pace. Qual è la sorgente della sua serenità? Da dove viene questa fiducia che la ispira e che può sostenere anche la nostra missione? Chiamati a essere guide religiose, cosa ci suggerisce per vivere con responsabilità e pace il nostro compito?

Qual è la sorgente della mia serenità? No, non prendo pastiglie tranquillanti! Gli italiani danno un bel consiglio: per vivere in pace ci vuole un sano menefreghismo. Io non ho problemi nel dire che questa che sto vivendo è un’esperienza completamente nuova per me. A Buenos Aires ero più ansioso, lo ammetto. Mi sentivo più teso e preoccupato. Insomma: non ero come adesso. Ho avuto un’esperienza molto particolare di pace profonda dal momento che sono stato eletto. E non mi lascia più. Vivo in pace. Non so spiegare.
Per il conclave, mi dicono che nelle scommesse a Londra ero nel numero 42 o 46. Io non lo prevedevo affatto. Ho pure lasciato l’omelia pronta per il Giovedì santo . Nei giornali si diceva che ero un king maker, ma non il Papa. Al momento dell’elezione io ho detto semplicemente: «Signore, andiamo avanti!». Ho sentito pace, e quella pace non se n’è andata.
Nelle Congregazioni Generali si parlava dei problemi del Vaticano, si parlava di riforme. Tutti le volevano. C’è corruzione in Vaticano. Ma io sono in pace. Se c’è un problema, io scrivo un biglietto a san Giuseppe e lo metto sotto una statuetta che ho in camera mia. È la statua di san Giuseppe che dorme. E ormai lui dorme sotto un materasso di biglietti! Per questo io dormo bene: è una grazia di Dio. Dormo sempre sei ore. E prego. Prego a mio modo. Il breviario mi piace tanto e mai lo lascio. La Messa tutti i giorni. Il rosario…. Quando prego, prendo sempre la Bibbia. E la pace cresce. Non so se questo è il segreto… La mia pace è un regalo del Signore. Che non me la tolga!
Credo che ciascuno debba trovare la radice dell’elezione che il Signore ha fatto su di lui. Del resto, perdere la pace non aiuta affatto a soffrire. I superiori devono imparare a soffrire, ma a soffrire come un papà. E anche a soffrire con molta umiltà. Per questa strada si può andare dalla croce alla pace. Ma mai lavarsi le mani dai problemi! Sì, nella Chiesa ci sono i Ponzio Pilato che se ne lavano le mani per stare tranquilli. Ma un superiore che se ne lava le mani non è padre e non aiuta.

Santo Padre, nei suoi interventi ci ha detto spesso che ciò che specifica la vita religiosa è la profezia. Ci siamo confrontati a lungo su cosa significhi essere radicali nella profezia. Quali sono le «zone di sicurezza e di conforto» da cui siamo chiamati a uscire? Lei ha parlato alle monache di una «ascesi profetica e credibile». Come la intende in una prospettiva rinnovata di «cultura della misericordia»? Come può la vita consacrata contribuire a tale cultura?

Essere radicali nella profezia. A me questo importa tanto. Prenderò come «icona» Gioele 3. Mi viene spesso in mente, e so che viene da Dio. Dice: «Gli anziani avranno sogni e i giovani profetizzeranno». Questo versetto è un nocciolo della spiritualità delle generazioni. Essere radicali nella profezia è il famoso sine glossa, la regola sine glossa, il Vangelo sine glossa. Cioè: senza calmanti! Il Vangelo va preso senza calmanti. Così hanno fatto i nostri fondatori.
La radicalità della profezia dobbiamo trovarla nei nostri fondatori. Loro ci ricordano che siamo chiamati a uscire dalle nostre zone di conforto e sicurezza, da tutto quello che è mondanità: nel modo di vivere, ma anche nel pensare strade nuove per i nostri Istituti. Le strade nuove vanno cercate nel carisma fondazionale e nella profezia iniziale. Dobbiamo riconoscere personalmente e comunitariamente qual è la nostra mondanità.
Persino l’ascetica può essere mondana. E invece deve essere profetica. Quando sono entrato nel noviziato dei gesuiti, mi hanno dato il cilicio. Va bene anche il cilicio, ma attenzione: non deve aiutarmi a dimostrare quanto sono bravo e forte. La vera ascesi deve farmi più libero. Credo che il digiuno sia una cosa che conservi attualità: ma come faccio il digiuno? Semplicemente non mangiando? Santa Teresina aveva anche un altro modo: mai diceva cosa le piaceva. Non si lamentava e prendeva tutto quello che le davano. C’è un’ascesi quotidiana, piccola, che è una mortificazione costante. Mi viene in mente una frase di sant’Ignazio che aiuta a essere più liberi e felici. Lui diceva che per seguire il Signore aiuta la mortificazione in tutte le cose possibili. Se ti aiuta una cosa, falla, anche il cilicio! Ma solamente se ti aiuta a essere più libero, non se ti serve per mostrare a te stesso che sei forte.

Cosa comporta la vita comunitaria? Qual è il ruolo di un superiore per custodire questa profezia? Quale apporto possono dare i religiosi per contribuire al rinnovamento delle strutture e della mentalità della Chiesa?

La vita comunitaria? Alcuni santi l’hanno definita una continua penitenza. Ci sono comunità in cui la gente si spella e si spiuma! Se la misericordia non entra nella comunità, non va bene. Per i religiosi la capacità di perdono deve spesso iniziare nella comunità. E questo è profetico. Si comincia sempre con l’ascolto: che tutti si sentano ascoltati. Ci vuole ascolto e persuasione anche da parte del superiore. Se il superiore rimprovera continuamente, non aiuta a creare la profezia radicale della vita religiosa. Sono convinto che i religiosi siano in vantaggio nel dare un contributo al rinnovamento delle strutture e della mentalità della Chiesa.
Nei consigli presbiterali delle diocesi i religiosi aiutano nel cammino. E non devono avere paura di dire le cose. Nelle strutture della Chiesa entra il clima mondano e principesco, e i religiosi possono contribuire a distruggere questo clima nefasto. E non c’è bisogno di diventare cardinali per credersi prìncipi! Basta essere clericali. Questo è quanto di peggio ci sia nell’organizzazione della Chiesa. I religiosi possono contribuire con la testimonianza di una fratellanza più umile. I religiosi possono dare la testimonianza di un iceberg capovolto, dove la punta, cioè il vertice, il capo, è capovolta, sta in basso.

Santo Padre, noi abbiamo speranze che attraverso la sua guida si sviluppino migliori relazioni tra vita consacrata e Chiese particolari. Che cosa ci suggerisce per esprimere in pienezza i nostri carismi nelle Chiese particolari e per affrontare le difficoltà che a volte sorgono nei rapporti con i vescovi e il clero diocesano? Come vede la realizzazione del dialogo della vita religiosa con i vescovi e la collaborazione con la Chiesa locale?
Da tempo si chiede di rivedere i criteri circa i rapporti tra i vescovi e i religiosi stabiliti nel 1978 dalla Congregazione per i religiosi e dalla Congregazione per i vescovi nel documento Mutuae relationes. Già nel Sinodo del 1994 ne se era parlato. Quel documento risponde a un certo tempo e non è più così attuale. Il tempo è maturo per il cambiamento. È importante che i religiosi si sentano appieno dentro la Chiesa diocesana. Appieno. A volte ci sono tante incomprensioni che non aiutano all’unità, e allora bisogna dare un nome ai problemi. I religiosi devono essere nelle strutture di governo della Chiesa locale: consigli di amministrazione, consigli presbiterali… A Buenos Aires i religiosi eleggevano i loro rappresentanti nel consiglio presbiterale. Il lavoro va condiviso nelle strutture delle diocesi. I religiosi devono essere nelle strutture di governo della diocesi. Da isolati non ci si aiuta. In questo si deve crescere tanto. E così anche il vescovo è aiutato a non cadere nella tentazione di diventare un po’ principe…
Ma anche la spiritualità va diffusa e condivisa, e i religiosi sono portatori di forti correnti spirituali. In alcune diocesi i sacerdoti del clero diocesano si riuniscono in gruppi di spiritualità francescana, carmelitana… Ma che lo stile di vita possa essere condiviso: alcuni preti diocesani si chiedono perché non possano vivere insieme per non essere soli, perché non possano vivere una vita più comunitaria. Il desiderio viene, ad esempio, quando si ha la buona testimonianza di una parrocchia retta da una comunità di religiosi. Dunque, c’è un livello di collaborazione radicale, perché spirituale, di anima. E stare vicini spiritualmente in diocesi tra il clero e i religiosi aiuta a risolvere le possibili incomprensioni. Si possono studiare e ripensare tante cose. Tra queste anche la durata del servizio come parroco, che mi sembra breve e si cambiano i parroci troppo facilmente. Non nascondo che poi ci sono tanti altri problemi a un terzo livello, legato alla gestione economica. I problemi vengono quando si toccano le tasche! Penso alla questione dell’alienazione dei beni. Con i beni dobbiamo essere molto delicati. La povertà è midollare nella vita della Chiesa. Sia quando la si osserva, sia quando non la si osserva. Le conseguenze sono sempre forti.

Santo Padre, come la Chiesa anche la vita religiosa è impegnata ad affrontare le situazioni di abusi sessuali sui minori e di abusi finanziari con trasparenza e determinazione. Tutto ciò è una contro-testimonianza, suscita scandali e ha anche ripercussioni sulla proposta vocazionale e sull’aiuto dei benefattori. Quali misure ci suggerisce per prevenire tali scandali nelle nostre Congregazioni?

Forse non c’è il tempo per una risposta molto articolata e faccio affidamento alla vostra sapienza. Fatemi dire però che il Signore vuole tanto che i religiosi siano poveri. Quando non lo sono, il Signore manda un economo che porta l’Istituto in fallimento! A volte Congregazioni religiose sono accompagnate da un amministratore ritenuto «amico» e che poi le fa fallire. Comunque, criterio fondamentale per un economo è quello di non essere personalmente attaccato ai soldi. Una volta accadde che una suora economa svenne e una consorella disse a chi la soccorreva: «Passatele sotto il naso una banconota e certamente si riprenderà!». C’è da ridere, ma anche da riflettere. Importante poi verificare come le banche investono i soldi. Non deve mai accadere che ci siano investimenti in armi, ad esempio. Mai.
Circa gli abusi sessuali: pare che su 4 persone che abusano, 2 siano state abusate a loro volta. Si semina l’abuso nel futuro: è devastante. Se sono coinvolti preti o religiosi, è chiaro che è in azione la presenza del diavolo che rovina l’opera di Gesù tramite colui che doveva annunciare Gesù. Ma parliamoci chiaro: questa è una malattia. Se non siamo convinti che questa è una malattia, non si potrà risolvere bene il problema. Quindi, attenzione a ricevere in formazione candidati alla vita religiosa senza accertarsi bene della loro adeguata maturità affettiva. Per esempio: mai ricevere nella vita religiosa o in una diocesi candidati che sono stati respinti da un altro seminario o da un altro Istituto senza chiedere informazioni molto chiare e dettagliate sulle motivazioni dell’allontanamento.

Santo Padre, la vita religiosa non è in funzione di se stessa, ma della sua missione nel mondo. Lei ci ha invitato ad essere una Chiesa in uscita. Dal suo punto di osservazione, la vita religiosa nelle diverse parti del modo sta operando questa conversione?

La Chiesa è nata in uscita. Era chiusa nel Cenacolo e poi è uscita. E deve rimanere in uscita. Non deve tornare a chiudersi nel Cenacolo. Gesù ha voluto che fosse così. E «fuori» significa quelle che io chiamo periferie, esistenziali e sociali. I poveri esistenziali e i poveri sociali spingono la Chiesa fuori di sé. Pensiamo a una forma di povertà, quella legata al problema dei migranti e dei rifugiati: più importante degli accordi internazionali è la vita di quelle persone! E proprio nel servizio della carità è pure possibile trovare un ottimo terreno per il dialogo ecumenico: sono i poveri che uniscono i cristiani divisi! Queste sono tutte sfide aperte per i religiosi di una Chiesa in uscita. L’Evangelii gaudium vuole comunicare questa necessità: uscire. Vorrei che si tornasse a quella Esortazione apostolica con la riflessione e la preghiera. Essa è maturata alla luce dell’Evangelii nuntiandi e del lavoro fatto ad Aparecida, contiene un’ampia riflessione ecclesiale. E infine ricordiamolo sempre: la misericordia è Dio in uscita. E Dio è sempre misericordioso. Anche voi uscite!

Alle 13,00 circa l’incontro si è concluso con alcune parole di ringraziamento e un lungo applauso. Il Papa, già in piedi, prima di lasciare l’Aula, ha salutato tutti con queste parole: «Andate avanti con coraggio e senza paura di sbagliare! Quello che non sbaglia mai è quello che non fa nulla. Dobbiamo andare avanti! Sbaglieremo, a volte, sì, ma c’è sempre la misericordia di Dio dalla nostra parte!». Prima di uscire, Francesco ha voluto salutare ancora una volta tutti i presenti, uno ad uno.

 

bella intervista alla suora ‘bufala, eretica, femminista’

la teologa femminista e queer

“Non rispondi a interessi precisi? Scomoda, per gli uni e gli altri!”

teresa-forcadesa Berlino esiste una suora catalana che insegna teologia queer. Eva, del gruppo traduzionimilitanti, ha tradotto una intervista fatta a lei su picaramagazine.com

 

Teresa Forcades è dottoressa in medicina e teologia e monaca benedettina nel monastero Sant Benet de Montserrat. Bersaglio assiduo delle lobby economiche e politiche per la sua denuncia coraggiosa sul peso degli interessi delle multinazionali farmaceutiche nella gestione della pandemia dell’influenza A nel 2008, e più recentemente, nella vaccinazione non necessaria del Virus del Papilloma Umano nelle ragazze adolescenti, così come per aver criticato le posizioni della cupola ecclesiastica sui temi come l’aborto o i rapporti con il franchismo, promuove il Processo Costituente in Catalugna mentre impartisce lezioni di teologia queer a Berlino

Cosa pensi del disegno di Legge su “protezione del concepito e diritti della donna incinta” presentato in Consiglio dei Ministri lo scorso 20 dicembre?

La mia posizione è quella del Processo Costituente: critica e rifiuto frontale, poiché tenta di regolare socialmente in funzione di valori imposti. Detto questo, adesso viene la mia motivazione personale della quale sono responsabile a livello individuale: credo che sia una violazione chiara del diritto all’autodeterminazione di una donna che una legge la obblighi ad essere madre. E’ troppo prezioso per me il significato di esserlo. Credo che una donna che è rimasta incinta senza volerlo, anche attraverso la violenza, possa vivere la gravidanza in positivo, ma sono favorevole a permettere l’aborto quando il feto non è formato e questo a prescindere dai motivi della scelta.

C’è un vero conflitto etico, un bioconflitto, tra il diritto all’autodeterminazione della madre e il diritto alla vita dell’essere che è in gestazione. In una situazione in cui la madre non ha opzioni, i suoi diritti di autodeterminazione meritano il massimo rispetto. Può anche esserci una madre che vuole fare nascere e accompagnare un nascituro con una malformazione molto grave anche se sa che soffrirà e che subito dopo essere nato morirà. Obbligarla ad abortire sarebbe l’altro estremo e io sono contro, credo che questo nascituro sia immagine di Dio e mi piacerebbe che avessimo un mondo in grado di accoglierlo. Ma questo è ciò che io penso, e non posso imporlo a un’altra donna: “A lei, per legge, voglio che lo Stato la obblighi a fare questo perché io penso sia buono”.

Le Cattoliche per il Diritto di Scelta spiegano che il diritto canonico assolve le donne che abortiscono quando sono minori di 16 anni, in caso di stupro, bisogno, per rimediare un danno, per  legittima difesa… Perché pensi che questa legge è persino più restrittiva che il diritto canonico a partire da Papa Giovanni XXIII?

Ci sono gruppi che, riparandosi nella fede cattolica, spingono leggi restrittive per polarizzare la società in gruppi di interessi e tentare di creare un dibattito che a volte si allontana dei temi più trascendentali, come possono essere in questo momento il tema sociale e la crisi. Nel 1992 sono andata negli Stati Uniti per la prima volta: c’era un sacco di gente per strada con immagini di feti insanguinati, dicendo che le donne che abortiscono sono assassine… Durante quegli anni un ginecologo che praticava aborti [i] e la persona che l’accompagnava furono assassinati a colpi di pistola. Questa polarizzazione ricercata e voluta a fini politici è arrivata fin qui, e non è stato spontaneo.

Ci sono gruppi e movimenti che lavorano per la giustizia sociale e molti cristiani sarebbero d’accordo, ma quando entriamo nell’omosessualità, i diritti di matrimonio e adozione, l’aborto, il diritto a decidere sul proprio corpo, si problematizza fino a estremi assurdi. E’ un modo preciso di dividere il corpo sociale che unito farebbe molta paura. Si era disarticolato un potenziale di lotta sociale molto forte e adesso lo stiamo di nuovo intrappolando.

Lidia Falcón analizza questa legge come una punizione per tutti i passi avanti in equità e parità di genere raggiunti nelle ultime decadi, incarnato nel corpo delle donne e frutto del continuismo con la visione nazionalcattolica del proprio corpo delle donne e dell’aborto. Cosa ne pensi?

Leggi come questa rispondono ad un fenomeno che ho pure studiato con il tema delle streghe: tanto in Oriente come in Occidente, nei differenti momenti di crisi sociale, sconcerto, angoscia, perdita di riferimenti, la figura materna emerge come quella che risolverà il problema e quella che deve essere controllata in maniera speciale come una sorta di esorcismo collettivo, per essere il capro espiatorio: “Mettiamo le donne al loro posto e le cose andranno meglio”. Ma questi strateghi di destra non avrebbero successo se non ci fosse qualcosa nella popolazione che si aggiungesse. E perché li appoggiano? Per questa parte psicologica che fa in modo che si sentano protetti con questo tipo di leggi.

Credo che il patriarcato sorge da strutture tras storiche psichiche che abbiamo, basati sull’affermazione psicoanalitica del oggetto erotico primario, che tanto nei bimbi come nelle bimbe è la madre o il suo sostituto, rispetto al quale si origina una binarietà: a chi si identifica con l’oggetto del desidero lo chiamiamo bimba, e chi no, lo chiamiamo bimbo. Il patriarcato ci dice che in vita adulta dobbiamo essere così; io dico che dobbiamo attraversare questa fantasia primordiale, in linguaggio lacaniano, e, se usiamo il cristianesimo, nascere di nuovo. Se il referente identitario è la figura materna, le donne tendono a fare da badanti e gli uomini aspettano di essere accuditi.

Come ti sembrano le iniziative per costruire un’alleanza ampia di donne di tutti i settori sociali contro la riforma dell’aborto come il patto di tre deputate promossa dalla Piattaforma Femminista di Alicante e alla quale hanno aderito le politiche socialiste, invitando anche le donne di destra?

Eccellenti. Questa alleanze tra donne, questa prossimità e questo rendersi conto che c’è un interesse comune, pratico, nelle lotte viste giorno per giorno, sono sempre state presenti nella storia ed è la nostra forza: nel secolo XVII, la grande battaglia tra le confessioni cristiane dopo la Riforma e la Controriforma la fecero gli uomini, mentre le donne si scrivevano lettere le une alle altre e una era protestante, l’altra anglicana, l’altra cattolica…

Trovarono il modo di fare ponte tra di loro prescindendo da queste diversità confessionali. Negli albori del cristianesimo, durante l’Impero Romano, una legge vietava alle donne cristiane di lasciare che i loro vestiti fossero indossati dalle pagane quando andavano al circo. Questo significa che lo facevano!

Hai detto che la Chiesa spagnola deve chiedere perdono per la sua connivenza con il franchismo e rinunciare ai privilegi che ne derivano. Questo include derogare il concordato del 73 con la Santa Sede, i privilegi ecclesiali al momento di destinare la dichiarazione dei redditi?

La chiesa non solo tollerò il franchismo, che fu un governo criminale, bensì diede un appoggio senza  il quale probabilmente non avrebbe resistito. La forma migliore di continuare come istituzione dopo una esperienza del genere è riconoscerlo e, senz’altro, abolire tutti i privilegi che gli aspettano per il semplice fatto di essere chiesa.

Ma con la Legge Wert torniamo alla segregazione scolastica per sessi, privilegi alle strutture concertate, il rinserimento della religione cattolica come materia obbligatoria…

Nella scuola non deve esserci catechesi di nessuna religione. Una materia che fa enfasi nella religione come cultura sarebbe molto interessante, non una materia facile, ma ben fatta, e non solo sul cristianesimo, si deve disegnare e pensare bene il suo curriculum. C’è un valore nel conoscere la storia di un paese, e non perché il Vangelo dal  punto di vista culturale debba essere preminente riguardo un altro libro sacro.

Privilegiare le scuole religiose concertate, in modo alcuno. Questo si inquadra in questa tendenza alla privatizzazione: in Spagna avevamo un buon livello universitario e, in alcuni casi, d’avanguardia. Adesso, i dipartimenti che funzionavano meglio verranno privatizzati e diventeranno istituzioni d’élite.

Si potrà arrivare se hai una borsa di studio, ma non si tratta di prendere i cervelli vivaci e i ricchi, ma di fare si che la popolazione generale abbia accesso alla cultura superiore e universitaria.

Ti aspetti che Papa Francesco affronti riforme strutturali in seno alla chiesa. Questo include rendere possibile il sacerdozio femminile, che il celibato sia facoltativo e che il clero possa sposarsi?

Le riforme non vengono mai dall’alto, nella società come nella Chiesa. Questa si è allontanata della società nel suo insieme e non credo che adesso, all’improvviso, un papa carismatico farà un cambiamento strutturale dall’alto e produrrà una discontinuità verso una maggiore giustizia sociale. Sicché è certo possibile che, come accadde con Giovanni XXIII, un leader della Chiesa promuova cambiamenti verso una maggiore giustizia, dopo essersi reso conto che le basi ecclesiali erano anni non solo che chiedevano ma che lo preparavano, sperimentando, innovando, creando istituzioni come la Nouvelle Teologie (nuova teologia), il movimento liturgico e il movimento biblico.

Giovanni XXIII disse: “Dobbiamo aprire le finestre perché entri l’aria poiché qui odora di chiuso”. Adesso siamo in una situazione parallela, ci sono molti gruppi che si ispirarono al Concilio Vaticano II, per vedere come li si chiudevano le porte, e ciò che avevano cominciato arretrava. Per esempio, a partire dal Concilio Vaticano II si dice che le decisioni nel consiglio parrocchiale si prendono collegialmente. In molte parrocchie questi consigli sono stati smantellati o non hanno peso verso il reggente, e i gruppi di donne, di giovani, quelli che con preoccupazione sociale ne facevano parte sono stati man mano sommersi, escludendoli dalle attività…

A dispetto delle difficoltà, in tutti questi anni c’è stata una base cattolica crescente che vedeva come urgenti queste riforme, aperture e possibilità di democrazia all’interno della chiesa. Si sono creati movimenti come We are the Church (Siamo la Chiesa), come le cattoliche per il Diritto a Decidere, come i preti che chiedono un celibato facoltativo…

La teologia della liberazione, evidentemente, con tutto il suo compromesso politico, e la necessità di incarnare politicamente il vangelo. Vedremo se il Papa Francesco permette che tutto questo abbia un proprio spazio crescente dentro della Chiesa.

Dici che la teologia femminista si inserisce dentro le teologie critiche di liberazione e, pertanto, si centra nella situazione delle donne e la sua concezione dal punto di vista della struttura ecclesiastica, ma anche nelle disuguaglianze e discriminazioni per classe, etnia, opzione sessuale, identità di genere…

Le donne come collettivo trovano una struttura ecclesiastica che dice: “Dio giustifica la vostra sottomissione”, e nella storia ci sono gruppi di donne e uomini che dicono che Dio è per l’uguaglianza e la libertà di tutti, e in virtù di questo giustificano la loro liberazione.

Subito dopo il Concilio Vaticano II, Mary Daly e Elizabeth Schußler Fiorenza chiesero la parità assoluta nella Chiesa e le cattoliche fummo pioniere nel fare la petizione di sacerdozio femminile. Nel 74, con le prime ordinazioni di donne nelle chiesa episcopaliana (credo furono nove o undici, tra loro la teologa Carter Heyward, che ancora non aveva reso pubblico che era lesbica), Paolo VI incaricò una commissione biblica pontificia di studiare se nelle sacre scritture ci fosse qualcosa contraria all’ordinazione delle donne. La commissione lavora per due anni e la sua conclusione è che non c’è nulla in contrario. Paolo VI fece un motu proprio (un Papa può prendere l’ultima decisione) e gli parve che pastoralmente non era il momento. Dopo ci sono state dichiarazioni contro da parte di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, ma mai si è detto che fosse un dogma della Chiesa. Ci sono state molte affermazioni nella Chiesa che sono cambiate: durante molti anni si è detto che la schiavitù era voluta da Dio. Agli schiavi nordamericani i coloni bianchi dicevano questo e, quando imparano a leggere, prendono la bibbia, dissero che Dio non era con i coloni bianchi ma con la liberazione degli schiavi, e si creò tutta una forza spirituale a partire di questo messaggio: “Go down moses, let my people go”.

Con i dogmi di fede della Chiesa cattolica non ho nessun problema, perché mai ho pensato che la teologia fosse una filosofia, che nasce dalla ragione. La teologia nasce dei postulati rivelati e lavora con la ragione. Dice: Dio esiste e si fa presente nel tempo e nello spazio incarnandosi in una persona, ciò che festeggiamo a Natale. Mi piace il dogma mariano che dice che Dio domandò a Maria, e solo a lei. Festeggiamo che chi può esercitare il potere assoluto non lo fa, perché concede senso e rispetto all’altro, all’amore e all’aprire spazi di libertà. E per apparire nel mondo, Dio non ha bisogno di una coppia eterosessuale, solo una coscienza umana libera che dica sì.

Una coscienza femminile.

Può essere femminile o maschile, ma è evidente che quella femminile incarna tuto il potere dell’umanità. Gesù lo si chiama figlio dell’uomo, ma lo è stato solo di una donna, Maria, e lo Spirito Santo, espressione della parte più personale e libera di Dio, fa una proposta, e lei gli dice: “D’accordo”. Questo è pensare la relazione con Dio come una relazione, consensuale, di tu per tu.

Questa è la visione comunitaria e egualitaria della Santissima Trinità che rivendichi nella tua tesi dottorale.

Dio non è un sovrano solitario che incarna il delirio di onnipotenza infantile dello psicotico. È una comunità, una relazione di libertà. Maria indica il figlio, che indica il padre, e questo indica il figlio, e lui indica te, perché, certo, se non passa da te… La Trinità disarticola tutto il sistema piramidale, che non l’ha inventato il cristianesimo. In molte culture, organizzazioni sociali, la tendenza alla piramide è propria di questa insicurezza infantile, e se le religioni hanno qualche senso, è ispirarci per superare questa paura, capire che la realtà può essere assolutamente orizzontale. Nelle comunità, le società, ci sono ostiche le strutture piramidali.

L’orizzontalità la vedo nella teologia, nella regola benedettina, che vivo nella mia comunità, e nella chiesa in generale. Richiede fiducia e che ognuno sia maturo per rompere questi rapporti di dipendenza, per creare il regno di Dio in terra e trattarci gli uni agli altri come Dio ci tratta. La parola testamento (Vecchio e Nuovo) significa alleanza, ciò che si fa quando le persone hanno lo stesso potere. Questo è il cuore di questa religione.

Come arrivi alla teologia queer?

Studiando Judith Butler. Ritengo che il queer rivendichi il carattere di pezzo unico di ogni persona, e che qualunque etichetta identitaria, di genere, di razza, nazione… è una stampella che rispecchia la tua paura alla libertà personale. Il processo di spiritualizzazione, cristificazione e divinizzazione è osare a essere concezione dell’amore e della libertà che sono Dio stesso, quando dice ‘sei fatta a mia immagine”. Il buddismo dice che l’identità personale è una finzione e deve superarsi perché tutto è un’identità indifferenziata. Questo vuoto personale è solo un primo passo perché si arrivi alla coscienza di unità. Ma, con la Trinità, l’unità non è mai al di là della differenza. La Trinità dice che la diversità è tanto eccelsa come l’unità, giacché un cosa è l’unità e un’altra molto diversa l’uniformità.

L’analisi religiosa che interpreta il rapporto sessuale come qualcosa che ha il fine di concepire è una visione utilitarista dell’amore umano e contraria alla spiritualità cristiana. Consegnarsi al mistero di un rapporto interpersonale è consegnarti al crescere nella direzione di essere immagine di Dio, di incarnare ciò che Dio rappresenta in terra. Addentrandoti, ricevi un regalo, che questa unione possa concepire un figlio, ma questo è perfettamente compatibile con l’essere responsabile e usare i metodi contracettivi quando lo consideri opportuno.

Contrario alla morale cristiana è pensare come se ci fossero due modi di usare il corpo della donna, solitamente basate nella prospettiva maschile: la cattiva, usarlo perché ti dia piacere, che sarebbe la lussuria, e che è condannata da tutti i padri della Chiesa, e l’altra, usarlo perché ti dia figli, e questo è buono. No! Sarebbe denigrare l’integrità della coppia, l’altra persona.

Per questo capisco che l’amore omosessuale sia perfettamente assimilabile dalla Chiesa, perché ha l’essenziale: non è avere figli, bensì un’intimità aperta verso un rapporto interpersonale che include il rispetto per l’integrità dell’altro. Due persone che si amano, si desiderano e si rispettano l’un l’altra danno una testimonianza: questo è il sacramento, un segnale visibile, come il battesimo, che sta dicendo: “questa creatura è accettata in questa comunità come uno in più”. La teología trinitaria dice che tutti i sacramenti rappresentano una raffigurazione dell’amore di Dio. Dio padre, il figlio e lo Spirito Santo, sono diversi ma non sono complementari. L’amore non è bisogno, non è quando ho bisogno perché mi manca qualcosa, non può essere l’amore utilitarista.

Alcuni settori e spazi politici e sociali previamente organizzati all’irruzione del Processo Costituente (PC) in Catalugna hanno criticato la velocità del processo e il personalismo per la visibilità di gente riconosciuta ‘mediaticamente’ come puoi essere tu o Arcadi Oliveres.  Come vivi il rapporto con questi spazi, e con tutti i processi ed assemblee sorti dal 15M del 2011?

E’ normale che gente che da anni sta tentando di organizzare una unità critichi il fatto di andare veloce: se fossimo 46.000 persone che hanno aderito al PC solo perché è uscito in tv, questo sarebbe stato un soufflé (qualcosa che si sarebbe sgonfiato dopo un attimo). Se il Pc può andare a velocità altissime è grazie alle assemblee del 15M, le organizzazioni di quartiere, e molte persone che già stavano lavorando e organizzando con fiducia.

E anche molti che non c’erano, perché il nostro spazio o nicchia politica è coinvolgere persone che non partecipavano. Molte persone del 15M, persino assemblee intere di alcune località, hanno fatto loro il PC, altri sono più spettatori, ci sono tutte le variazioni possibili. Ma senza la gente che già lavorava, non si sarebbe nemmeno prodotto il clima in Catalugna perché il processo attecchisse né perché questo potenziale umano si organizzasse.

C’è un rapporto di continuità tra i pionieri e gli altri, e noi non approfitteremo di ciò che noi non abbiamo iniziato né faremo la concorrenza, bensì tenteremo di inserire un fattore di unità, e se funziona, sarà grazie a tutti. Per quanto riguarda il personalismo, andare a cercare una persona che abbia visibilità è stata una strategia. Altrimenti, come mobiliti gente che non l’aveva già fatto? Adesso cominciano ad esserci facce visibili, il nostro ruolo deve rimanere ogni volta più utile ad altri agenti attivi dentro il movimento.

Tu sei scomoda per certi settori del cattolicesimo, ma anche per settori della sinistra che vivono la tua implicazione nel Pc come un’ingerenza, o persino un tentativo di manipolazione da parte della Chiesa. Che ne pensi?

Ho assunto quest’iniziativa perché gente organizzata politicamente a diversi livelli si chiedeva cosa si potesse fare in Catalugna per creare unità, perché avevano chiaro che, a lungo termine, se non stavano uniti altri avrebbero vinto la partita, e così hanno pensato che Arcadi e io potevamo essere persone con una credibilità trasversale. Viene dal basso, e da gente che sta nella Chiesa.

Riguardo la Chiesa, ho trovato disagio da parte delle strutture dell’organigramma ecclesiastico. Il vescovo di Sant Feliu, della diocesi di cui fa parte il mio monastero, mi disse che non serve a niente cambiare le strutture se non si cambiano i cuori. Sono d’accordo, la Costituzione è carta straccia se la gente non lavora perché si faccia carne. La legge di per sé non fa una società giusta, ma adesso abbiamo leggi che favoriscono gli interessi delle compagnie multinazionali contro la sovranità popolare, e bisogna cambiarle. Il cuore ha bisogno di qualcosa di più del lavoro, per questo sono per il cambiamento di strutture. La nostra società ci dà una struttura dove si pratica la non-solidarietà, io voglio creare una società che ci aiuti a realizzare solidarietà.

C’è una paura alla Chiesa Cattolica che riconosco, perché nel nostro paese ha avuto un’alleanza di 40 anni con la dittatura. Ma c’è anche molta gente di base che appoggia da molti anni la teologia della liberazione, i poveri, gente vicina a chi è morto nelle battaglie repubblicane, che ha lavorato per il catalanismo quando questo andava contro il potere stabilito, che ha resistito.

Nella Chiesa c’è una base e delle strutture e quelli tra noi che ne fanno parte hanno la responsabilità di lavorare perché cambino. Ed essere scomoda per tutti, non mi sembra poi tanto male.

Quando non rispondi a degli interessi chiari, calpesti i piedi agli uni e agli altri. Ma gli scontri in blocco fanno gioco a chi pretende che la società si basi sulla sfiducia e la paura; ci saranno livelli che ci accomunano o ci separano, ma non possono vederti come una concorrente o nemica. Questo è lo sguardo capitalista verso l’altro, e questa base antropologica dobbiamo cominciare a cambiarla. 

Fino a dove può arrivare la dissidenza nella Chiesa? Hai paura di rappresaglie per il fatto di essere un soggetto pubblico?

Non dovrei perdere la coerenza. Non credo che l’istituzione ecclesiastica possa farmi abdicare per ciò che io penso siano i principi del Vangelo, e se mi porta problemi, dovrei valutare come lo rivendico. Né la Chiesa né nessuno può chiedermi di dire ciò che non penso e io faccio ciò in cui non credo. Mi possono chiedere di non parlarne, e non escludo che ad un certo punto lo faranno. La mia voce non è imprescindibile. C’è chi non ha parlato e dopo l’ha organizzata più in grande, come la teologa brasiliana Ivonne Gebara, alla quale chiesero di andarsene in Europa. Era una punizione, ma adesso ha più argomentazioni per difendere ciò che voleva dire prima.

Ti hanno chiamato suora bufala, suora eretica, suora anticapitalistica… Come ti senti quando ti riducono alla denominazione di suora?

Dietro il personaggio sparisce la persona. C’è una parte positiva, per portare il velo raccolgo frutti di molte suore che i poveri riconoscono come persone di fiducia: chiedono per strada, ti vedono e ti sorridono perché ti sentono vicina. In ospedale, anche se porto il camice bianco, il velo vince sul differenziale di classe. La gente semplice capisce che siamo allo stesso livello. Non l’ho guadagnato io bensì le suore che mi hanno preceduto, anche se ci sono critiche storiche alle suore che hanno una base fondata.

Anche se non mi piacciono le etichette, c’è una realtà sociale e i segnali che emetti dipendono da dove ti collochi. Anche, questo linguaggio riflette la difficoltà di riconoscere una persona oltre quello che vedi. Alla base della teoria queer c’è che ti si dia lo spazio per essere ciò che sei, invece di bollarti sotto il generico, suora, suorina, sorellina… E’ molto interessante pensare cosa significa dalla prospettiva del referente femminile, tocchi cose inconsce…


[i] Il 29 luglio 1994, il Dr. John Bayard Britton, operatore di servizi abortivi, e James Barrett, il volontario che lo accompagnava, furono assassinati fuori da una clinica abortiva di Pensacola, Florida.

“Vedo il cammino delle donne nella Chiesa più complesso di quanto si  possa pensare e ritengo che in esso poco contino i ruoli istituzionali”

«La Chiesa non aiuta il cammino di noi donne»

intervista a Antonietta Potente

a cura di Luigi Accattoli


in “la Lettura” del 11 dicembre 2016

«Nei nostri otto secoli di storia c’è stato un progressivo accomodamento in una spiritualità che in realtà chiedeva di non “sedersi” mai, nata all’insegna dell’itineranza dello spirito e della mente e di un’umile ricerca del Mistero. Penso a Domenico di Guzman, il nostro fondatore, che percorreva il Sud della Francia indignato non perché c’erano degli eretici, ma perché il Vangelo si predicava con armi e ricchezze: “a cavallo”, disse lui. E poi penso a quanti di noi si sono fatti inquisitori della storia altrui, invece di vivere la propria in umile condivisione con tutti. La celebrazione degli 800 anni potremmo prenderla come occasione per il recupero di una complicità profonda con l’umano, superando i limiti di un esclusivo servizio alla Chiesa in quanto istituzione»

parla così Antonietta Potente, dell’Unione Suore Domenicane San Tommaso d’Aquino. Già docente di teologia morale all’Angelicum di Roma, Potente è critica con la storia dell’Ordine e con la componente maschile, ma rivendica l’attualità del carisma domenicano. Nel 1994 lasciò l’Italia per andare a vivere in Bolivia dove ha insegnato all’Università Cattolica Boliviana. Per un quindicennio ha vissuto insieme a una famiglia di etnia Aymara. Ha fatto parte della commissione teologica della Conferenza dei religiosi e religiose d’America Latina e ha appoggiato le riforme del governo boliviano di Evo Morales. Nel 2012 è rientrata in Italia e vive a Torino.

Una delle sue pubblicazioni è intitolata “Un bene fragile. Riflessioni sull’etica” (Mondadori, 2011).

L’abbiamo intervistata al telefono durante un viaggio di ritorno in Bolivia:

Che cosa vuol dire essere domenicani oggi e in particolare domenicane?

«Per me significa raccogliere ogni minimo respiro di vita anche là dove la storia è più dissestata, perché Domenico aveva questa grande passione per ciò che respirava. Per Domenico gli eretici erano persone assetate e non nemici della Verità. Con loro dialogava e da loro imparava. Raccogliere ogni minimo respiro di vita non significa porsi come benefattori, ma come compagni di sete. È così che percepisco come questa spiritualità possa essere viva oggi e aiutare la ricerca di quanti, credenti e non, hanno sete e avvertono che la realtà ha ancora possibilità trasformative».

E per le donne, che c’è di specifico?

«Quasi mai si parla di noi, anche in queste rievocazioni degli 800 anni, e penso che sia una perdita grave di memoria delle origini dell’Ordine, che furono plasmate con la vita delle donne. La prima comunità fondata da Domenico era femminile. Il momento attuale, per noi domenicane, è il più difficile, perché bene o male nei secoli passati persino i cronisti parlavano di noi. Si raccontavano aneddoti e si trasmetteva sapienza. Eravamo mistiche, audaci nell’ascolto del Mistero e impegnate nella cura dell’esistenza umana. Capaci di imparare a leggere e scrivere da sole o con altre donne. Oggi l’Ordine sembra essere dei soli frati, che in noi donne non riescono a vedere delle compagne di ricerca».

Che ci fa una donna nell’Ordine dei Predicatori dal momento che alle donne non è riconosciuto il «ministero» della predicazione?

«Non mi sono mai preoccupata di chiedere il permesso di predicare. Te lo danno coloro che frequenti, e non questa o quella norma. Inoltre mi è chiaro che la vera predicazione non è solo linguaggio parlato in pubblico, ma crescita di vita nell’incontro. Nell’Ordine non è gradito che, nel firmare articoli o libri, noi domenicane accompagniamo alla firma la sigla “op”, cioè: “Ordine dei Predicatori”. Mi dispiace, ma so che non significa niente rispetto alla possibilità che abbiamo di interpretare la vita e di comunicarla».

Lei ha fama di donna forte, missionaria in luoghi difficili: forse si ispira a Caterina da Siena
che era anche lei domenicana?

«Non so se sono una donna forte. Forse l’unica cosa che evoca la forza, nella mia vita, è il mio cognome. Ho percorso e continuo a percorrere molti cammini, ma il mio viaggio è più interiore che esteriore. È la mia mente che viaggia molto, nello studio o nell’elaborare scrittura. Mi piace conoscere religioni altre, sapienze e discipline altre. Non mi considero missionaria. Se per quasi vent’anni ho vissuto in Bolivia, è stato per conoscere gli aspetti del Mistero che non riuscivo a vedere in altri luoghi. Per missione intendo fare della vita una costante questio, per usare un termine caro a Tommaso d’Aquino. Una continua richiesta: dove vivi, come ti chiami, che vedi tu del Mistero? Caterina da Siena è una presenza preziosa per me. Prendo da lei la sete infinita e l’infinito desiderio. Ricordo il suo metodo che fa scaturire tutto dallo stare “nella cella interiore”, nonostante la costante itineranza».

Domenicano era Savonarola e c’è chi spera di vederlo riabilitato…

«Se lo riabilitano si potranno conoscere meglio i suoi scritti, le bellissime lettere dal carcere, le omelie, la sua profonda e vera indignazione. Ma domenicani erano anche Giordano Bruno, Bartolomé de Las Casas, Antón de Montesinos e tutta la sua comunità che diventò capace di rifiutare la politica degli spagnoli nel XVI Secolo. Domenicana era Caterina de Ricci al tempo del Savonarola. E prima di lei c’erano tutte quelle donne e uomini della scuola domenicana in Germania. Domenicano era frei Tito de Alencar, portato fino al suicidio dopo tanta tortura durante la dittatura militare brasiliana. Domenicane erano alcune delle suore nordamericane che affrontarono l’assurda politica ed ecclesiologia del Vaticano. Basterebbe riscattare uno di questi giusti per avviare il riscatto degli altri, delle altre, morti o vivi per passione d’amore».

Il suo è stato anche l’Ordine dei tribunali dell’Inquisizione…

«Per noi domenicani l’Inquisizione resta come una ferita che ci identificò per troppo tempo con le pratiche violente contro la dignità delle coscienze. Ci vedo un tradimento, tipicamente maschile, per questioni di prestigio, di incarichi nella Chiesa. Un tradimento per una paurosa immaturità, quella di chi non vuole perdere le sue sicurezze, forse anche solo quelle del suo immaginario intellettuale. E pensare che eravamo nati per stare sul confine che si trova più vicino agli inquisiti che agli inquisitori. Ma non tutti tra noi hanno accettato l’Inquisizione. Tanti e soprattutto tante non si riconobbero in quell’esercizio del potere sulle coscienze».

Da italiana che si è fatta boliviana come valuta il Papa latinoamericano?

«Nella sua elezione vedo una mossa strategica di una Chiesa incapace, in quel momento, di uscire da un grande groviglio e desiderosa di dare un’immagine diversa di sé. Ma non ne sono venute profonde trasformazioni. Credo che quella di Bergoglio sia una conversione molto personale e poco istituzionale. Il suo nuovo modo di porsi ha indotto la società a dialogare come non mai con i cristiani su ogni questione, dai gay alla crisi della famiglia. Ma da parte della Chiesa istituzionale, che nonostante Bergoglio resta troppo piramidale, c’è poco ascolto di questo “mondo adulto”, come lo chiamava Dietrich Bonhoeffer».

Anche il nuovo generale dei gesuiti è un latino-americano: è venuta l’ora di quel continente nella Chiesa cattolica?

«Non lo so, posso solo assicurarle che tornando in America Latina ho notato che nell’ambito teologico e pastorale non è successo proprio niente. Anzi, in certi casi — per esempio nell’ambito teologico istituzionale — il clima è ancora quello degli ultimi due pontificati, quando l’America Latina era duramente colpita».

Che si aspetta come donna sul fronte delle riforme bergogliane?

«I cambiamenti per le donne non possono venire dagli uomini, neanche dai più santi. Da domenicana potrei sognare che succeda a tante quello che capitò a Caterina da Siena: l’affidarono a fra’ Raimondo da Capua come confessore, ma il rapporto si capovolse e lui divenne discepolo di lei e suo compagno di ricerca. Vedo il cammino delle donne nella Chiesa più complesso di quanto si  possa pensare e ritengo che in esso poco contino i ruoli istituzionali. Credo che noi donne dobbiamo trovare altri modi e metodi per cambiare la partecipazione “politica”, visto che quella esistenziale non ce la può togliere nessuno e in fin dei conti è quella che serve all’umanità per respirare e immaginare altre forme di convivenza sulla terra».

le cause delle migrazioni per papa Francesco

 

“di fronte al terrorismo islamico interroghiamoci su come abbiamo esportato la democrazia”

in un’intervista con «La Croix» il Papa torna a parlare dell’immigrazione causata dalle guerre in Medio Oriente e Africa e dal sottosviluppo, dei trafficanti di armi e dell’integrazione

 il papa intervistato da “La Croix”

 andrea tornielli   

«Di fronte al terrorismo islamico, sarebbe meglio interrogarci sul modo in cui un modello troppo occidentale di democrazia è stato esportato in paesi come l’Iraq». Papa Francesco ha concesso un’intervista esclusiva a La Croix, parlando di immigrazione, guerra e laicità.

 

Migranti, guerre e sottosviluppo

Alla domanda se il vecchio continente ha la capacità di accogliere così tanti immigrati, Francesco ha risposto in questo modo: «Questa è una domanda responsabile perché uno non può aprire le porte in modo irrazionale. Ma la domanda di fondo da farsi è perché ci sono così tanti migranti ora. I problemi iniziali sono le guerre in Medio Oriente e in Africa e il sottosviluppo del continente africano, che provoca la fame. Se ci sono guerre è perché ci sono fabbricanti di armi – che possono essere giustificati per propositi difensivi – e soprattutto trafficanti di armi. Se c’è così tanta disoccupazione, è per mancanza di investimenti capaci di portare il lavoro di cui l’Africa ha così tanto bisogno».

Il mercato totalmente libero non va

«Più in generale – ha insistito Francesco – ciò solleva il problema di un sistema economico mondiale che è caduto nell’idolatria del denaro. Più dell’80 per cento delle ricchezze dell’umanità sono nelle mani del 16 per cento della popolazione. Un mercato completamente libero non funziona. I mercati in sé sono un bene ma richiedono una parte terza o uno stato che li monitori e li bilanci. In altre parole ciò che serve è un’economia sociale di mercato».

Integrare e non ghettizzare gli immigrati

«Tornando ai migranti – ha continuato il Pontefice – la peggior forma di accoglienza è la ghettizzazione. Al contrario, è necessario integrarli. A Bruxelles, i terroristi erano belgi, figli di immigrati, ma cresciuti in un ghetto. A Londra, il nuovo sindaco (Sadiq Khan, figlio di musulmani pakistani, ndr) ha prestato il suo giuramento in una cattedrale e sicuramente incontrerà la regina. Questo mostra la necessità che l’Europa riscopra la sua capacità di integrare. Penso qui a Gregorio Magno, che aveva negoziato con popoli conosciuti come barbari, i quali si sono poi integrati. Questa integrazione è tanto più necessaria in quanto oggi, a seguito di una ricerca egoistica del benessere, l’Europa sta vivendo il grave problema di un tasso di natalità in declino».

Paura della conquista islamica

Francesco ha quindi risposto a una domanda sulla paura dell’islam nelle società europee. «Oggi io non credo che ci sia paura dell’islam – ha detto – ma dell’Isis e della sua guerra di conquista che è in parte tratta dall’islam. È vero che l’idea della conquista appartiene allo spirito dell’islam. Ma si potrebbe interpretare secondo la stessa idea di conquista la fine del Vangelo di Matteo, quando Gesù invia i suoi discepoli a tutte le nazioni. Di fronte al terrorismo islamico, sarebbe meglio interrogarci sul modo in cui un modello troppo occidentale di democrazia è stato esportato in paesi come l’Iraq, dove un governo forte esisteva in precedenza. Oppure, in Libia, dove esiste una struttura tribale. Non possiamo andare avanti senza prendere in considerazione queste culture. Come ha detto di recente un libico: “Eravamo abituati ad avere un Gheddafi, ora ne abbiamo cinquanta.” La coesistenza tra cristiani e musulmani è ancora possibile. Io provengo da un paese dove coabitano bene».

Laicità e religione in ambito pubblico

Il Papa ha risposto anche a una domanda sul modello della «laicité» francese. «Gli stati devono essere secolari, quelli confessionali finiscono male – ha detto – Sono contro la storia. Io credo che una versione della laicità, accompagnata da una solida legge che garantisca la libertà di religione, offra un quadro di riferimento per andare avanti. Siamo tutti figli e figlie di Dio, con la nostra personale dignità. Ognuno deve avere la libertà di esprimere la propria fede. Se una donna musulmana vuole indossare il velo, deve poterlo fare. Allo stesso modo, se un cattolico vuole indossare una croce. Le persone devono essere libere di professare la loro fede nel cuore delle loro proprie culture e non ai loro margini. La modesta critica che io vorrei rivolgere alla Francia riguarda il fatto che esagera con la laicità. Questo porta a considerare le religioni come sotto-culture, piuttosto che culture a pieno titolo con i loro diritti. Temo che questo approccio, un comprensibile patrimonio dei Lumi, continui ad esistere. La Francia ha bisogno di fare un passo avanti su questo tema al fine di accettare il fatto che l’apertura alla trascendenza è un diritto per tutti».

Le leggi e il diritto all’obiezione di coscienza

A Francesco è stato anche chiesto come i cattolici debbano difendere le loro convinzioni di fronte a leggi quali quella sull’eutanasia o sulle unioni civili. «Spetta al Parlamento discutere, argomentare, spiegare, dare le ragioni. È così che una società cresce. Tuttavia, una volta che una legge è stata approvata, lo Stato deve anche rispettare le coscienze. Il diritto all’obiezione di coscienza deve essere riconosciuto all’interno di ogni struttura giuridica, perché è un diritto umano. Anche per un funzionario pubblico, che è una persona umana. Lo Stato deve anche prendere in considerazione le critiche. Questa sarebbe una vera e propria forma di laicità. Non si possono accantonare gli argomenti proposti dai cattolici dicendo semplicemente che “parlano come un prete”. No, essi si fondano su quel tipo di pensiero cristiano che la Francia ha così notevolmente sviluppato».

I laici, il clericalismo e i lefebvriani

Nel corso dell’intervista, a proposito della mancanza di preti, Francesco ha parlato dell’esempio della Corea, un Paese che «per duecento anni è stata evangelizzata dai laici». Dunque, ha spiegato, «non c’è necessariamente bisogno di preti per evangelizzare. Il battesimo dà la forza per farlo». Il Papa è tornato a denunciare la malattia del clericalismo che «è particolarmente significativo in America Latina. Se la pietà popolare è forte, è appunto perché è soltanto un’iniziativa di laici che non è stata clericalizzata. Questo non è capito dal clero». Francesco ha quindi parlato dei rapporti con la Fraternità San Pio fondata dall’arcivescovo Lefebvre, affermando che il superiore, monsignor Bernard Fellay «è un uomo con il quale si può discutere». E ha detto che i lefebvriani sono «cattolici sulla strada della piena comunione», ricordando che il Concilio Vaticano II ha il suo valore e che bisogna procedere nel dialogo con questi tradizionalisti «lentamente e con pazienza». Infine, ha difeso il cardinale Philippe Barbarin, tirato in ballo per vicende di preti pedofili precedenti al suo arrivo come arcivescovo di Lione e ha detto che secondo lui non deve rassegnare le dimissioni.

il ruolo delle donne nella chiesa – intervista ad Antonietta Potente

  

“le diaconesse?

 è più urgente cambiare la struttura piramidale nella comunità di fedeli”

intervista con la teologa morale suor Antonietta Potente sulla spiritualità e il ruolo delle donne nella Chiesa

suor Antonietta Potente

«Non è in gioco solo il nostro essere ammesse o non ammesse come diaconesse o sacerdotesse, ma è in gioco, a mio avviso, il cambio strutturale nella comunità di credenti. Da una piramide alla circolarità»

A pensarla così è una donna. La teologa morale suor Antonietta Potente, domenicana di 57 anni, ora radicata a Torino; ha vissuto diciotto anni in Bolivia dove ha sperimentato una forma vita comunitaria con i contadini indigeni. Docente di Teologia morale presso l’Angelicum di Roma, nella Facoltà teologica dell’Italia centrale a Firenze e nell’Università Cattolica di Cochabamba (Bolivia), è stata anche membro della Conferenza latinoamericana dei Religiosi e collabora con l’Istituto ecumenico di Teologia andina di La Paz.

 

Secondo Lei le donne potrebbero avere un ruolo maggiore nella Chiesa con il magistero di papa Francesco?

«Ammetyo che papa Francesco ha dato un’altra chiave di lettura su tutto, e anche riscatta un po’ questo ignorare le donne per molto, molto tempo. Non dico per secoli perché credo che nel I secolo erano molto più protagoniste di quanto lo siamo oggi. Però certamente poi siamo cadute nell’ombra, non è che non ci venga dato un posto, ma è un posto come quello di Sara che resta nella tenda e guarda da lì. Io credo che in questo momento, come sta succedendo riguardo alle coppie separate, alla questione gay, alle unioni civili, anche su questo sta avvenendo qualcosa. A me sinceramente quello che inquieta un po’ è che comunque noi donne dobbiamo aspettare che gli uomini si mettano d’accordo per decidere se siamo ammesse o non siamo ammesse». 

 

Che cosa pensa del dibattito che si è creato intorno alla possibilità di aprire alle diaconesse?  

«La questione delle diaconesse, che è un ruolo, mi sembra un po’ come le quote rose dei partiti: vediamo qual è il partito che ha più donne. Quello che invece si dovrebbe fare e riconoscere è questa grande presenza alternativa, questa lettura alternativa che noi facciamo della storia da secoli. E anche un po’ lasciarsi criticare da noi donne. Fino a quando ci si circonderà di donne che sanno solo dare ragione, non cambierà nulla. Nella Chiesa serve davvero una certa critica, perché non è in gioco solo il nostro essere ammesse o non ammesse come diaconesse o sacerdotesse, ma è in gioco, a mio avviso, il cambio strutturale nella comunità di credenti. Da una piramide alla circolarità, perché, nonostante papa Francesco, la struttura piramidale esiste ancora». 

 

Anche quel clericalismo tante volte denunciato da papa Francesco…  

«Non va bene questo sentirsi pastori investiti di qualcosa di molto più grande di quello che è l’investitura quotidiana di tante donne e anche uomini. E poi, credo che se si ammettessero le donne al sacerdozio bisognerebbe anche ammettere tutti i laici che già si riconoscono in una vocazione di questo tipo. Però se la Chiesa continua con questa struttura piramidale, se le comunità continuano con questa struttura, mi sembra difficile. Sia riguardo alle donne, all’essere presenti nell’ambito della formazione oppure a esercitare determinati ministeri. Penso che il grande ostacolo sia questa grande struttura, che ormai ha secoli». 

 

Nella relazione finale del Sinodo sulla famiglia si legge che «la presenza dei laici e delle famiglie, in particolare la presenza femminile, nella formazione sacerdotale, favorisce l’apprezzamento per la varietà e la complementarietà delle diverse vocazioni nella Chiesa». Così le donne potrebbero trovare più spazio in generale nella vita delle comunità?

«Sì, per esempio in America Latina questo avveniva molto. La maggior parte degli studenti nella facoltà dove insegnavo in Bolivia erano seminaristi o comunque religiosi chiamati poi al sacerdozio. Il problema è che probabilmente siamo poche voci rispetto a quello che è tutto il resto della formazione. Io sono molto critica…». 

 

Lei è vissuta con i campesinos aymara della Bolivia. Cosa potrebbero imparare i laici e la Chiesa in generale dalle donne indigene?  

«Penso possano imparare tanto. Loro, le donne, hanno una grande capacità strategica e di esistenza. Mi sembra che somiglino a quelle donne bibliche, che nei momenti più disperati di un popolo riescono a trovare delle strategie particolari di vita, di vita concreta, cioè non solo di idee, di parole. In fin dei conti anche chi regge l’economia laggiù sono le donne, sia l’economia informale che quella riconosciuta. È vero che se uno guarda superficialmente, magari nelle riunioni comunitarie, sembra che parlino gli uomini e che le donne non partecipino. Stando lì, a me è sembrato il contrario. Le donne hanno comunque una forza, non è solo come ruolo, ma anche como pensiero, perché il pensiero nella cultura indigena è femminile. Non dico un femminile escludente, perché nella loro cultura c’è un netto bilanciamento». 

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