il razzismo naviga in internet, soprattutto nei social-media

misoginia, omofobia e odio online

le regioni e le città più intolleranti

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La mappa dell’intolleranza, creata da Vox – Osservatorio Italiano sui Diritti, inquadra le aree geografiche dove i messaggi di odio via Twitter sono più intensi e i periodi nei quali le violenze si intensificano. Per il settimo anno consecutivo le donne svettano quale categoria più odiata via Twitter.

Odio online, intolleranza, tweet e messaggi violenti all’indirizzo di donne, persone omosessuali, migranti, persone con disabilità, ebrei e musulmani. La mappa dell’intolleranza creata da Vox – Osservatorio Italiano sui Diritti, fotografa nel dettaglio l’odio via social. Il rapporto, realizzato in collaborazione con alcuni poli universitari italiani, monitora quali sono le città dove la geolocalizzazione dei tweet che contengono parole considerate sensibili è più alta.

Com’è stata realizzata la mappa

La mappa prende in analisi il periodo gennaio-ottobre 2022 e mira a identificare le zone dove l’intolleranza è maggiormente diffusa nei confronti di 6 gruppi: donne, persone omosessuali, migranti, persone con disabilità, ebrei e musulmani. Sono stati estratti 629.151 tweet dei quali 583.067 negativi (il 93% circa vs. 7% positivi). Una relazione che assume particolare significato a ridosso del Giorno della memoria, il 27 gennaio, data nella quale l’antisemitismo registra un picco di messaggi. Ecco quali sono le città più intolleranti e quali sono le categorie più prese di mira dall’odio online.  

Omofobia

Dopo anni di indifferenza, o quasi, da parte degli odiatori online, le persone omosessuali sono di nuovo prese di mira. Non accadeva dal 2016. Un’inversione di tendenza, che evidenzia un attacco ai diritti della persona. Tra le zone più intolleranti, il Veneto, la Calabria e la città di Bari.

Infografica sull’omofobia – Vox Osservatorio sui diritti

Antisemitismo  

A Roma e nel Lazio si registra l’antisemitismo più forte. L’odio, si legge, contro gli ebrei diminuisce, ma si radicalizza e si concentra nelle date simbolo, come la Giornata della Memoria. Esplode anche in occasione delle aggressioni contro gli ebrei in alcune città. E si lega alle manifestazioni antisemite internazionali.

Disabilità

UmbriaSardegna e Sicilia le Regioni con l’incidenza più alta di tweet d’odio indirizzati a persone con disabilitàBolognaCaserta e Novara le città con più concentrazione di tweet intolleranti.

Islamofobia 

PiemonteNord Est ed Emilia sono tra le zone a più alto tasso di tweet islamofobi. A fomentare l’odio via social, eventi internazionali legati al terrorismo, come la sentenza di Parigi per l’attentato al Bataclan. O l’uccisione in Siria durante un raid aereo Usa di due terroristi dell’Isis.

Misoginia

CasertaTerni e Bologna, le città con l’incidenza più alta di tweet d’odio contro le donne. Per il settimo anno consecutivo le donne svettano quale categoria più odiata via Twitter. È un triste primato, che si accompagna all’innalzamento dei picchi di odio in concomitanza con i femminicidi, segno tragico del rapporto sempre più stretto tra lo sciame d’odio online e la violenza agita.

Xenofobia  

L’arrivo dei barconi dei migranti e dei profughi dall’Ucraina hanno scatenato intolleranza e odio. Le polemiche politiche e l’attenzione dei media riaccendono l’attenzione degli hater, che colpiscono soprattutto in VenetoLazio e Puglia, con una concentrazione maggiore tra Venezia, Verona e l’area tra Terni e Roma.

Odio online: i risultati della relazione

Secondo il rapporto, nel 2022 la rilevazione, che ha riguardato il periodo gennaio-ottobre, “ha attraversato un periodo di forti turbolenze, segnate dalla guerra in Ucraina, dalla crisi energetica, dalle elezioni politiche, con un cambio di governo, e dall’inflazione: così anche quest’anno ansie, paure, difficoltà si sono affastellate nel vissuto quotidiano delle persone, contribuendo a creare un tessuto endemico di tensione e polarizzazione dei conflitti. Un dato su tutti fotografa al meglio la realtà che oggi rappresenta l’odio online e il ruolo di cinghia di trasmissione che i social svolgono tra i mass media tradizionali, la politica e alcune sacche di forte malcontento, che trovano sfogo ed espressione proprio nelle praterie dei social. La forte polarizzazione rappresentata dall’aumento evidente e notevolissimo delle percentuali dei tweet negativi a fronte del totale dei tweet rilevati. Il che indica una maggiore radicalizzazione dei discorsi d’odio. Come precisa il rapporto, le aree prive di colorazione, non indicano assenza di tweet discriminatori, ma luoghi che mostrano una percentuale più bassa di tweet negativi rispetto alla media nazionale”.

I picchi di odio a seconda degli eventi più importanti

“Contro le donne, in occasione dell’elezione di Giorgia Meloni a presidente del Consiglio e della sua scelta di usare il maschile per il suo titolo. Drammatica, la concomitanza dei picchi d’odio con i femminicidi, come purtroppo le rilevazioni della Mappa dell’Intolleranza evidenziano da anni”.

“Contro le persone con disabilità, in concomitanza con un’omelia di papa Francesco che invitava a considerare la disabilità una sfida per costruire insieme una società più inclusiva. E in seguito alla notizia di un taxista veronese, rifiutatosi di prendere a bordo un disabile”.

“Nei riguardi delle persone omosessuali, in occasione del monologo di Checco Zalone al festival di Sanremo, che ha raccontato una favola LGBTQ, e in generale in concomitanza con aggressioni omofobe”.

“Contro i migranti, in occasione degli sbarchi e dei discorsi di papa Francesco improntati all’accoglienza e all’inclusione”.

“Contro gli ebrei, in occasione della Giornata della Memoria e ogni qualvolta si verifichino aggressioni contro ebrei, di stampo antisemita”.

“Contro i musulmani, in occasione della sentenza per l’attentato a Parigi al Bataclan e dell’uccisione in Siria da parte degli americani di due dirigenti dell’Isis”.

«non è neri contro bianchi, è tutti contro i razzisti» – la potenza di una fotografia

la potenza di una foto quando l’uomo aiuta l’uomo

portare sulle spalle uno che sta dimostrando contro di te, perché è rimasto ferito. L’icona più bella del ‘sopportare’, del portare il peso dell’altro, dell’essere umano

di Caterina Soffici
in “La Stampa” del 15 giugno 2020


Una fotografia, talvolta, è più potente di qualsiasi parola. Questo è uno di quei casi.
Questa immagine è stata scattata a Londra, vicino a Trafalgar Square, dove gli attivisti di Black
Lives Matter, che sfilano per chiedere il rispetto dei diritti dei neri, vengono attaccati dai
manifestanti dell’estrema destra, che rivendicano la supremazia dell’uomo bianco.
Nell’agone di questi giorni concitati, da quando George Floyd è stato ucciso sotto il ginocchio del
poliziotto bianco, il colore della pelle sembra essere il motore che ha mosso il mondo, il vortice
intorno al quale tutto ha ruotato. Bianchi contro neri, neri contro bianchi, tafferugli con gli agenti
della polizia, tutti contro le statue, tutti contro tutti.
Questa foto sembra fermare il tempo e rimettere un valore al centro della scena: non è il bianco
contro il nero o viceversa, ma l’uomo che aiuta l’uomo, a prescindere dal colore della pelle. Eppure,
paradossalmente è proprio il colore della pelle dei due che ne fa una foto simbolo: il gigante nero si
fa largo tra la folla, si carica sulle spalle il razzista ferito e lo porta in salvo.
Questa fotografia ferma il tempo e scrive una parola che avevamo dimenticato: umanità. Pietà per
l’altro uomo, anche se sulla carta è il mio nemico. Indulgenza. Fratellanza. Tolleranza. Parole che
paiono dimenticate, e che pure sono l’essenza stessa del nostro essere umani, ciò che distingue
l’uomo dal mostro.
Nello sguardo del gigante nero, che poi si scoprirà risponde al nome di Patrick Hutchinson ed è un
personal trainer, c’è la determinazione di chi sa di fare la cosa giusta. Non ha il mantello del
supereroe, non è superman, è semplicemente un uomo che fa il suo dovere. Anche se l’altro è dalla
parte sbagliata e lui sa di essere dalla parte giusta, perché è lì per recriminare i propri diritti violati,
per protestare perché la comunità nera è tra quelle più colpite dal virus in termini di morti e che lo
sarà in termini di crisi economica, non ci pensa due volte: sgomita nella ressa e si espone per
recuperare l’uomo a terra che rischia di essere schiacciato, quindi lo deposita ai piedi della polizia.
Poteva abbandonarlo al suo destino. Occhio per occhio, dente per dente. Ma Patrick Hutchinson non
è un Maramaldo, non sferra il colpo finale all’uomo morto. E’ il cavaliere valoroso. Il suo gesto
richiama le gesta dell’eroe nell’iconografia classica.
Questo è ciò che dice la foto. E già basterebbe.
In serata Patrick Hutchinson aggiungerà una didascalia all’immagine che già fa il giro dei social
media e diventa virale. Sono le sue parole: «Oggi abbiamo salvato una vita». E sotto l’hashtag
#BlackLivesMatter aggiunge: «Non è neri contro bianchi, è tutti contro i razzisti». Poi aggiunge, in
una intervista all’emittente televisiva Channel Four: «Se gli altri tre agenti di polizia che stavano in
piedi quando George Floyd è stato assassinato avessero pensato di intervenire e di impedire al loro
collega di fare quello che stava facendo, George Floyd oggi sarebbe ancora vivo. Voglio solo
l’uguaglianza per tutti noi. Al momento, la bilancia non è in equilibrio, voglio che le cose siano
giuste per i miei figli e i miei nipoti».
Queste parole completano il messaggio. Ma la foto parlava già da sola.

preoccupante l’odio e il razzismo sul web

oltre la metà degli italiani giustifica gli atti razzisti

l’odio in crescita specialmente sul web

 

Il dato è il risultato di un’indagine di Swg. Anche Vox, l’Osservatorio sui diritti, ha analizzato lo scenario dell’odio in Italia, concentrandosi sul web: “L’anonimato e il senso di impunità sono un elemento che scatena gli haters. Ma il trend in crescita è evidente. L’odio contro i migranti registra un +15,1% rispetto all’anno scorso e sul totale dei tweet il 66,7% sono di odio”.

di Annalisa Girardi

“Se il 45% degli italiani è contro ogni atto di razzismo, il 55% in qualche modo, anche con molti distinguo, alla fine li giustifica. Non si può dire che il razzismo sia in crescita, ma i dati illustrano una diminuzione, un affievolimento degli anticorpi”

con queste parole Enzo Risso, direttore scientifico di Swg commenta il risultato dell’indagine dell’Istituto triestino, per cui oltre la metà degli italiani giustifica il razzismo. Anche Vox, l’Osservatorio Italiano sui diritti, ha analizzato questa tendenza sul web, in particolare su Twitter.

La co-fondatrice della piattaforma, la giornalista Silvia Brena, ha spiegato al Corriere della Sera che

“i tweet sugli stranieri sono al 32% xenofobi, quelli islamofobici sono il 15% mentre il 10% sono antisemiti”

Brena ha sottolineato inoltre che questi “dati sono in crescita costante”. E ha aggiunto:

“Solo 4 anni fa, all’inizio delle nostre ricerche, i tweet antisemiti erano l’1%. Si sono decuplicati in 10 anni”.

I social sono i mezzi in cui il sentimento razzista si fa più visibile:

“L’anonimato e il senso di impunità sono un elemento che scatena gli haters. Ma il trend in crescita è evidente. L’odio contro i migranti registra un +15,1% rispetto all’anno scorso e sul totale dei tweet il 66,7% sono di odio. L’intolleranza contro gli ebrei quest’anno sale del 6,4%. Ma il 76,1% del totale dei tweet sugli ebrei sono di odio. Così come in aumento sono i tweet contro i musulmani, +7,4% dei tweet con un totale di 74,1% di odio di tutti i tweet che riguardano i fedeli al Corano”,

ha proseguito la giornalista.

Vox ha anche analizzatto la mappa dell’odio, mettendo in evidenza quali sono le città in cui questo è più diffuso: al vertice troviamo Roma, seguita da Milano, Napoli, Torino e Firenze. La maggioranza degli haters contro i migranti, secondo quanto rilevato dalla piattaforma, si troverebbero a Milano, mentre l’odio verso i musulmani è più diffuso a Bologna, Torino, Milano e Venezia. L’antisemitismo è invece più concentrato a Roma.

“Alla lunga i messaggi degli odiatori legittimano pure l’azione di chi odia”

ha concluso Vox.

continua su: https://www.fanpage.it/politica/oltre-la-meta-degli-italiani-giustifica-gli-atti-razzisti-lodio-in-crescita-specialmente-sul-web/
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radici bibliche del razzismo? l’analisi del biblista Maggi

nella bibbia le radici profonde del razzismo?

la riflessione di Alberto Maggi

“Si trovano nella Bibbia le radici profonde del razzismo, pianta venefica che intossica gli uomini generando persone che, chiuse nel proprio angusto confine mentale, si sentono minacciate da tutto ciò che è più ampio, diverso

 Costoro ritengono di essere superiori nei confronti di chi non appartiene al loro mondo, alla loro cultura, mentre in realtà sono razzisti proprio perché intimamente si sentono inferiori e per questo odiano l’altro, come espresso brillantemente in un aforisma da André Gide: “Meno è intelligente il bianco, più gli sembra che sia stupido il negro”

Le origini del razzismo si trovano nelle primissime pagine della Sacra Scrittura, nel Libro della Genesi, dove si narra di Noè e dei suoi tre figli Sem, Cam, e Iafet, e della loro discendenza che si sparpagliò per la terra, dividendosi in aree geografiche ben distinte. Di questi tre figli, due, Sem e Iafet furono benedetti dal padre, mentre il terzo, Cam, fu maledetto. L’autore sacro racconta che Noè, piantata una vigna, bevve il vino, si ubriacò e si spogliò, restando completamente nudo nella sua tenda. Cam, vista la nudità del genitore andò a raccontarlo ai suoi fratelli, che si premurarono di ricoprire il loro padre. Quando Noè smaltì la sbornia, saputo quanto Cam aveva fatto, irritato, ne maledì il figlio, Canaan, rendendolo per sempre schiavo dei suoi fratelli: “Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli” (Gen 9,18-27).

È evidente che l’autore non intendeva redarre una cronaca degli avvenimenti, né riportare un fatto storico, ma presentare in luce negativa i legittimi abitanti della terra di Canaan, che gli israeliti avevano occupato, sentendosi in questo legittimati dal volere divino. Eppure da questa fragile narrazione nacque la giustificazione della schiavitù e della segregazione razziale, dell’apartheid, tenacemente difesa proprio da confessioni cristiane di matrice evangelica riformata, per le quali tutto quel che è scritto nella Bibbia è indiscutibilmente Parola di Dio, e come tale eterna e immutabile. Ma senza una scala di gerarchia del valore dei testi sacri, e senza la distinzione tra quel che è l’intento teologico dell’autore, i generi letterari e l’ambiente culturale nel quale si è espresso, si rischia di attribuire a Dio ogni efferatezza compiuta dagli uomini. Sicché per secoli si è creduto che la Sacra Scrittura giustificasse la superiorità di alcune popolazioni sulle altre, per questo ritenute inferiori, e ciò fu sostenuto fino la fine degli anni ’80 in Sud Africa, per giustificare l’apartheid, che venne finalmente smantellata non tanto grazie ai politici ma ai teologi che hanno alla fine compreso la mancanza di un qualsiasi appiglio nei sacri testi. La Chiesa riformata olandese, la principale confessione sudafricana, arrivò a comprendere che la Bibbia non è un manuale politico, e pertanto non se ne possono dedurre modelli politici. E la segregazione razziale, fondata sui testi sacri, da credo indiscutibile si rivelò essere un’eresia teologica. Ma ormai il danno era stato fatto.

Ci si può chiedere come sia stato possibile tutto questo, come si sia potuto usare la Parola di Dio per causare sofferenza anziché alleviarla, uccidere anziché comunicare vita. La storia delle chiese è costellata da crimini perpetrati in nome di Dio, della sua volontà espressa nella Bibbia, basta solo pensare alle migliaia di  donne torturate e bruciate perché considerate streghe, poiché era scritto: “Non lascerai vivere colei che pratica la magia” (Es 22,17). Se si inorridisce nel veder come in passato si siano fatte soffrire tante persone in nome della presunta volontà di Dio, c’è da chiedersi se forse anche oggi, nella Chiesa, non s’impongano pesi impossibili da portare “perché c’è scritto nella Bibbia”.

La Sacra scrittura non va solo letta, ma interpretata, altrimenti la Parola, anziché trasmettere vita, rischia di comunicare solo morte “perché la lettera uccide, lo Spirito invece dà vita” (2 Cor 3,6). Per questo Gesù ai suoi discepoli non si è limitato a leggere i testi sacri, così come erano, ma li interpretava (“E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò [lett. interpretò] loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui”, Lc 24,27). Gesù insegna che la Scrittura va interpretata con il medesimo Spirito che l’ha ispirata: l’amore incondizionato del Creatore per le sue creature (Lc 6,35). Quando ciò non avviene il testo resta come nascosto (“quel medesimo velo rimane, non rimosso, quando si legge l’Antico Testamento, perché è in Cristo che esso viene eliminato”, 2 Cor 3,14). Il Cristo è pertanto la chiave di spiegazione della Scrittura, e il criterio interpretativo offerto da Gesù è che tutto quel che concorre al bene, alla libertà, alla felicità dell’uomo viene da Dio, quel che limita o si oppone al bene dell’uomo in nessuna maniera ha origine divina. Per questo, con Gesù non trova alcuna giustificazione il razzismo, la segregazione, l’esclusione, le chiusure. Anche al suo tempo c’era lo slogan “prima noi!”, sbandierato da quelli che presumevano essere un popolo preferito, ma Gesù risponde con un “tutti insieme” (Mt 15,27). L’amore del Padre non si riversa sugli aventi diritto, i privilegiati, ma su chi ha bisogno, pagani compresi. E Gesù ha rischiato il linciaggio per testimoniare questo amore quando, nella sinagoga di Nazaret, ha ricordato come in occasione di una grande carestia l’azione del Signore non si rivolse al popolo eletto, ma sui pagani, perché lui guarda chi ha più bisogno e non chi vanta più diritti (Lc 4,25-27). Gesù ha dato la sua vita per gli “uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione” (Ap 5,9; 7,9). Il vangelo è un messaggio universale per tutta l’umanità. Quel che divide, separa, emargina non viene mai da Dio, perché come scrive Paolo, “Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti” (Col 3,10; Gal 3,28).
Questo amore universale fece fatica a essere compreso dai seguaci di Gesù; pensavano anch’essi di essere una casta eletta (“si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo”, At 11,47), e a malincuore dovettero costatare che “anche ai pagani Dio ha concesso che si convertano perché abbiano la vita!” (At 11,18). Anche l’ostinato Pietro, che resisteva tenacemente all’invito del Signore di accogliere i pagani, arroccandosi sulla separazione razziale (“Voi sapete che a un giudeo non è lecito aver contatti e recarsi da stranieri”), accolse finalmente Cornelio, centurione romano, con queste liberanti parole: “ma Dio mi ha mostrato che non si deve chiamare profano o impuro nessun uomo” (At 10,28). Pietro pensava di dover convertire i pagani, ma è stato un pagano che ha convertito lui, facendogli comprendere la buona notizia del suo Signore.

Pertanto, l’unica razza presente nei vangeli è quella delle vipere, serpenti velenosi, immagine delle pie persone, degli “scribi e farisei ipocriti” tanto devoti con Dio quanto disinteressati al bene degli uomini, ai quali va il severo rimprovero del Signore: “Serpenti, razza di vipere, come potrete sfuggire alla condanna della geènna?” (Mt 23,33).

L’AUTORE – Alberto Maggi, frate dell’Ordine dei Servi di Maria, ha studiato nelle Pontificie Facoltà Teologiche Marianum e Gregoriana di Roma e all’École Biblique et Archéologique française di Gerusalemme. Fondatore del Centro Studi Biblici «G. Vannucci» a Montefano (Macerata), cura la divulgazione delle sacre scritture interpretandole sempre al servizio della giustizia, mai del potere.
Maggi ha pubblicato diversi libri, tra cui: Chi non muore si rivede – Il mio viaggio di fede e allegria tra il dolore e la vitaRoba da preti; Nostra Signora degli eretici; Come leggere il Vangelo (e non perdere la fede)Parabole come pietreLa follia di Dio e Versetti pericolosi, L’ultima beatitudine – La morte come pienezza di vita, Di questi tempi Due in condotta.

Qui tutti gli articoli scritti da Alberto Maggi per ilLibraio.it.

il rischio di banalizzare il male quotidiano del razzismo

il razzismo quotidiano

se è normale dire “negro”

di Luigi Manconi

Una delle più futili sciocchezze che si sentono in giro si manifesta nella falsa ingenuità della domanda: ma perché non posso chiamare negro un negro?

L’ ultimo a esercitarsi in questo classico dilemma della semantica è stato Luca Castellini, capo riconosciuto degli ultrà del Verona. Ma è stato preceduto da numerosi giornalisti e intellettuali della destra che trovano in quell’interrogativo il gusto civettuolo di una presunzione di anticonformismo (d’altra parte, viviamo in tempi in cui a dirsi fuori dal coro sono i più gregari tra i coristi). I più sofisticati, si fa per dire, tra quei giornalisti e quegli intellettuali, precisano pomposamente: «Li abbiamo sentiti, nei film americani, i negri chiamarsi l’un l’altro nigger . E poi, al gay pride, si appellano tra loro checca o finocchia».

Ma, santa pazienza, come non comprendere che all’interno di una comunità, piccola o grande, quelle denominazioni esprimono reciproco affetto e confidenza condivisa, mentre — se utilizzate all’esterno — segnalano ostilità e disprezzo?

D’altra parte, sono i diretti interessati a patirne l’uso malevolo e a chiederne l’interdizione. Tutte le lotte per l’emancipazione hanno avuto come preliminare posta in gioco il diritto a nominarsi, a darsi il proprio nome e a decidere come essere chiamati dagli altri. È un processo lungo, e dunque, non stupisce nemmeno che — come ancora sottolineano gli intellettuali di destra, per così dire sofisticati — nelle traduzioni dei libri americani di 70 anni fa compaia il termine negro (il racconto autobiografico Ragazzo Negro di Richard Wright e il ricorso allo stesso termine nella traduzione italiana de Il Buio oltre la Siepe ).

Le culture e i linguaggi cambiano e maturano e diventano, o dovrebbero diventare, più rispettosi delle minoranze e anche, sì, delle loro suscettibilità. Non c’entra nulla il politically correct :

c’entra quel minimo di intelligenza e di civiltà che può agevolare la convivenza e disinnescare i conflitti tra diversi.

Ma il nostro ultrà-semiologo ha altro da dire. Intanto, sulla controversa questione dello ius soli e dello ius culturae (che ovviamente qui non c’entra, perché il giocatore del Brescia è figlio adottivo di genitori italiani): «Balotelli ha la cittadinanza italiana, ma non è del tutto italiano». E poi, l’affondo: «Mi viene a prendere la “Commissione Segre”, perché chiamo uno negro? Mi vengono a suonare il campanello?».

Attenzione: non sentite qui l’eco fedele di gran parte dei commenti critici nei confronti dell’istituzione di quell’organismo contro l’antisemitismo e il razzismo, promosso dalla senatrice a vita Liliana Segre? Non è lo stesso ragionamento, proprio lo stesso, di Giorgia Meloni e di Matteo Salvini e di molti esponenti di Forza Italia, quando denunciano la “Commissione Segre”, quasi fosse un tribunale liberticida contro le idee irregolari? Gli oppositori hanno volutamente confuso le finalità di un organismo che ha funzioni di documentazione, ricerca, testimonianza e discussione su quei fenomeni con il ruolo di una commissione d’inchiesta che ha, invece, funzioni inquirenti e che dispone degli stessi poteri della magistratura ordinaria. Ma questo episodio, in apparenza poco rilevante, la dice lunga sulla questione del razzismo. Va chiarito subito, e una volta per tutte, che l’Italia non è un Paese razzista. Certo, cresce il numero dei razzisti e degli atti di razzismo, ma ciò non è in alcun modo sufficiente perché si faccia ricorso a quell’etichetta. E già quella domanda (l’Italia è un paese razzista? Macerata è una città razzista?), oltre a essere scema, è profondamente errata e contiene una qualche tonalità razzistica: perché tende ad attribuire a un’intera comunità nazionale o locale i comportamenti di un gruppo, o anche di molti gruppi, o di minoranze magari aggressive o atteggiamenti di connivenza da parte di alcuni settori di popolazione.

Insomma, è il cortocircuito tra i discorsi irresponsabili di una quota consistente della classe politica e il senso comune di una collettività, sottoposta a continui stress e percorsa da angosce profonde, a costituire la vera insidia. E a rappresentare un incentivo per una tensione quotidiana che si riversa su chi è, allo stesso tempo, il più prossimo e il più diverso. Questo è ciò che accade all’interno delle fasce più deboli della società, dove, più e prima che il razzismo — e sarebbe un errore chiamarlo così — si diffonde la xenofobia: alla lettera la paura, la diffidenza, l’ostilità verso lo sconosciuto e l’ignoto.

È questo che produce un’intolleranza minuta e ordinaria, fatta di soperchierie che colpiscono nella stessa misura stranieri emarginati e italiani vulnerabili (l’episodio di Chioggia è solo l’ultimo di una lunga serie).

E se tutto questo non deve ancora indurci a definire razzista l’Italia, sarebbe assai pernicioso sottovalutarlo. E l’attenzione va indirizzata innanzitutto su ciò che ne rappresenta la radice culturale e di senso comune. Ascoltiamo ancora l’ultrà-semiologo Castellini: «Prendiamo in giro il giocatore pelato, quello con i capelli lunghi, il giocatore meridionale e il giocatore di colore, ma non lo facciamo con istinti politici o razzisti». Qui, non abbiamo solo l’eco, bensì una vera e propria parafrasi di quanto detto qualche settimana fa da Salvini: «Se uno odia il prossimo per il colore della pelle, per la squadra di calcio, per la religione….se uno dice crepa, è grave a prescindere, sia che lo dice a un cristiano, a un ebreo, a un buddhista, ad un valdese, a un protestante, ad un Hare Krishna, a un islamico. Non c’è l’insulto più grave, e l’insulto meno grave. Se uno aggredisce una persona, può aggredire un uomo, una donna, un bianco, un nero, un giallo, un fucsia, è un delinquente». In queste parole c’è — nitidissimo — una sorta di Manifesto della Banalizzazione della Storia. Qui tutto è uguale a tutto: l’antisemitismo e l’odio per la squadra avversaria. Non esistono le grandi tragedie storiche, e non esistono vittime e carnefici, dal momento che il tifoso ultrà di una squadra può essere, a distanza di poche settimane, e a campi invertiti, l’aggressore o l’aggredito. Il fine di una simile operazione è l’azzeramento delle responsabilità dei regimi e delle ideologie, ma anche dei despoti e dei dittatori (non troppo diversi, per l’ostilità che suscitano, da arbitri incompetenti o corrotti): e l’appiattimento dei drammi individuali e collettivi, mortificati a tenzoni e giochi di ruolo. Ma quando la storia viene ridotta a un presente indistinto, amorale e fantasmatico, è la comunità degli uomini che inizia ad andare in rovina.

“non sono razzista ma … ” a proposito di migranti, un problema divisivo che ci fa riscoprire razzisti

Italiani brava gente. «Non sono razzista, ma...»

italiani brava gente

«non sono razzista, ma…»

 da: Adista Segni Nuovi n° 4 del 01/02/2019

Oggi porre il tema dell’immigrazione risulta essere divisivo. È paradossale come l’immagine di persone che lasciano il loro Paese e attraversano una condizione disperata e situazioni terrificanti, invece di suscitare unità e canalizzare energie e risorse in spirito di umanità, riesca a creare divisioni, fazioni contrapposte, ideologie che usano proprio quella situazione di fragilità per osteggiarsi se non addirittura combattersi, facendo emergere beceri razzismi o giudizi taglienti.

Se è vero che da un lato sembra continuare una sorta di comune denominatore che è un certo sentimento di insofferenza e razzismo, dall’altro tutto il resto è in continuo mutamento: punti di arrivo, circolari ministeriali, discussioni pubbliche, vissuti dei migranti. Pertanto ogni tentativo di semplificazione risulta essere fuorviante e ingiusto. Da una parte c’è una negazione netta e radicale all’arrivo dei migranti. Esagerazioni di numeri, di messaggi mediatici, la categorizzazione in stupratori o terroristi, la divisione in migranti economici e politici, fanno da contraltare invece all’uso dei migranti nella prostituzione e nel caporalato.

L’immigrazione oggi è sempre più un fenomeno complesso e come tutti i fenomeni complessi richiede analisi, percorsi, interpretazioni strutturate. Come il liquido di contrasto nelle analisi cliniche, il fenomeno migratorio riesce, con lucidità, a mettere in evidenza alcune criticità della nostra società. Ad esempio ha svelato spesso con brutale forza che l’argomento razzismo non può certo dirsi risolto pur a decenni di distanza dalle leggi razziali o dopo le esperienze di Martin Luther King o Nelson Mandela. Ci riscopriamo essere un popolo razzista. Certo cerchiamo sempre e subito di giustificare dicendo “Non sono razzista, ma..”. Basta andare davanti a un ufficio postale, davanti a un supermercato e osservare. Lì in un angolo appoggiato al muro un immigrato che chiede uno spicciolo, magari in cambio di un aiuto per portare la spesa e quella presenza genera commenti, giudizi, appellativi e nomignoli che hanno tutto il sapore del becero razzismo di piazza. Credo che la questione razzistica non sia affatto risolta, e l’afflusso, oggettivamente consistente, di persone provenienti da culture, lingue e religioni diverse abbia accentuato l’atteggiamento di chiusura, inacerbendo le menti, anziché promuovere un’occasione per sviluppare un multiculturalismo già presente da decenni nelle grandi metropoli europee. Così, credo, quest’aria di intolleranza del “diverso” in fondo renda noi “diversi”: incapaci di accogliere, incapaci di interagire con culture differenti, con l’atavica e infantile paura “dell’uomo nero”. Questo rivela che abbiamo ancora molta, moltissima strada da fare.

Altra criticità che emerge con virulenza è certamente la discrepanza all’interno del mondo cristiano, dove incontriamo sempre più frequentemente persone che si identificano con il messaggio cristiano e contemporaneamente aderiscono a forme politiche o di comune sentire che vanno in direzione diametralmente opposta. Così non è raro vedere persone che in chiesa pregano per i profughi e fuori firmano al banchetto di raccolta firme contro l’arrivo degli stessi in quartiere. Questa che chiamo schizofrenia religiosa è presente più di quanto pensiamo e rischia di scindere il nostro essere religiosi e credenti: «La grande tentazione è quella di diventare praticanti di pratiche religiose. Accendere candele e sostare un paio di minuti a mani giunte, per poi uscire di chiesa lasciando lì dentro le cose di Dio… È una sorta di dissociazione dell’anima, in cui con abilità sappiamo vestire mille facce tutte belle e tutte pronte all’occorrenza. Apriamo l’armadio e indossiamo l’abito più opportuno» (Luca Favarin, Animali da circo. I migranti obbedienti che vorremmo, ed. San Paolo, 2018 p. 112).

Infine, una terza criticità che mi sembra emergere chiaramente è che si continua a gestire, ma ancora prima a concepire e leggere, il fenomeno migratorio come un fatto emergenziale. È fallimentare considerare emergenziale ciò che è epocale. La gente si sposta perché dove si trova non sta ben. Lo fa perché è nella natura umana cercare soluzioni migliori per sé e per la propria famiglia. La migrazione trova giustificazione nell’animo umano. E in fondo è la stessa identica motivazione che spinge un giovane europeo a fare le valigie e tentare la fortuna in una grande metropoli occidentale.

In quest’ottica è fuorviante e, ridicolo, continuare ostinatamente a dividere i migranti in politici ed economici, come se dicessimo “Tu che scappi dalla guerra e dalle bombe vieni, ti accolgo, sei il benvenuto” e invece “Per te che scappi dalla miseria, dalla fame, dalla desertificazione e dalla deforestazione non c’è posto”. È una distinzione illusoria che non porta a nulla. Come vane restano le promesse e gli annunci che garantiscono rimpatri. A parte due o tre messe in scena il rimpatrio richiede una gestione che tra accordi bilaterali con ogni Paese, gestione dei transiti e personale necessario risulta essere fisicamente irrealizzabile.

C’è poi l’accoglienza che chiede di essere declinata: non è semplice gestione di strutture e servizi, significa avere a che fare con persone, con la loro storia, è chiamata a declinare una progettualità. E questo significa fare i conti con sogni, a volte sogni infranti o feriti, aspettative e desideri.

Ecco perché è più corretto parlare di “gestione” dell’accoglienza più che di “fare” accoglienza. Questa gestione dell’accoglienza richiede una professionalità di saperi, di pratiche, di metodologie. L’approccio che in questi anni stiamo sperimentando è un approccio olistico. Operatori con competenze e laurea diverse ci permettono di leggere in maniera più completa un fenomeno complesso. La storia del migrante e, soprattutto, il suo accompagnamento richiedono una molteplicità di conoscenze. Il lavoro di una buona équipe è essenziale. Il prendersi cura di colui che arriva dal Mediterraneo richiede grande umanità e professionalità. Un operatore in questo campo deve essere posto anche in continua formazione.

Sull’accoglienza, in Italia, si è fatto molto. Troppo, a mio avviso, guidati da una logica emergenziale. Le sbavature pesanti in termini di eticità dell’accoglienza che abbiamo visto a livello nazionale in più occasioni hanno rischiato di inficiare il lavoro di tutti. Come spesso avviene dove non si approfondisce, bastano gli errori di pochi per compromettere il buon lavoro dei molti. Certo è che la narrazione pesante, offensiva e volgare, distruttiva e maligna che viene fatta sulle ONG o sulle organizzazioni umanitarie non ha precedenti nella storia del nostro Paese. E offende tutti coloro che rimboccandosi le maniche ogni giorno e ogni notte si occupano di anziani, disabili, poveri, emarginati, immigrati, persone senza dimora e molto altro. Ogni organizzazione di servizio o di volontariato si occupa di un “piccolo pezzo di umanità”: lo fa con cura, con amore.

Lo Stato è chiamato a occuparsi del tutto. Sarebbe bello che le istituzioni ai massimi livelli invece di offendere, denigrare, screditare le organizzazioni, semplicemente le ringraziassero perché, liberamente e per amore, si occupano di umanità. Quella che a volte, sembra, abbiamo smarrito e che fatichiamo a ritrovare.

* Luca Favarin è prete di Padova, ha realizzato numerosi progetti in diversi Paesi africani, nonché con vittime di tratta, persone senza dimora e carcerati. Ha fondato ed è presidente di Percorso Vita onlus, organizzazione che si occupa di migranti, minori e forme estreme di povertà

* Parte superiore del libro di Luca Favarin, Animali da circo. I migranti obbedienti che vorremmo

una bimba e il suo tema sul razzismo

il razzismo attraverso gli occhi di una bambina

ecco il tema che ha commosso il web

ecco il tema di una bambina bolognese che fa un ritratto inconsueto del razzismo: autentico, delicato e senza giri di parole

Tema

Il tema di una bambina bolognese di circa dieci anni, ha fatto il giro del web dopo essere stato postato dalla mamma su Facebook.
La bambina nel compito svolto in classe, ha raccontato il razzismo dal suo punto di vista scrivendo:
“Non so bene cos’è il razzismo. So solo che è una chiusura mentale nelle persone. Non accettare qualcuno per il colore della pelle è impossibile, è terribile! Ma il razzismo non si manifesta solo con una persona di un altro colore: parte tutto dalla religione, poi dalle abitudini, dai vestiti, dai cibi”.
I compagni di scuola della bambina provengono da più parti del mondo.
Un ambiente formativo, dunque, dove l’integrazione è all’ordine del giorno. Per questo motivo un’insegnante ha coinvolto fin dal principio i suoi alunni in dibattiti e letture sull’argomento.
“Una persona può essere razzista anche se non se ne accorge o non volendo. Si può essere razzisti anche in classe non accettando un compagno, ad esempio, se è di un altro colore e quindi mangia diversamente, e magari per quello nei suoi vestiti è impregnato l’odore delle spezie. O perché è un po’ dispettoso, quella è una piccola forma di razzismo. Bisogna sforzarsi di accettarlo per com’è”, ha continuato la bambina. Che è giunta poi a una riflessione più ampia: “La diversità ha sempre creato problemi nella mentalità delle persone”.
La bimba si è soffermata anche su una questione italiana:
“Un tempo non si era razzisti solo con i neri, ma anche con i meridionali, che non potevano affittare case o stanze al Nord, perché sulla porta c’era scritto ‘Non affittasi ai meridionali’. Ma il bello è che oggi i meridionali che oramai avranno 60 anni, sono più inferociti e razzisti delle altre persone e non so perché. Mi chiedo: se lo sono già scordati cosa gli facevano?”.
“Io auguro a tutti i razzisti di non restare razzisti per sempre”,
ha concluso la ragazzina.
La madre, orgogliosa della figlia, ha commentato sui social:
“Mi ha fatto commuovere, perché è privo di violenza e odio. Voglio che diventi virale perché abbiamo bisogno di messaggi positivi considerando i morti in mare. L’Italia può ripartire e migliorare, a cominciare dai bambini”.

il nostro razzismo secondo p. Zanotelli

Alex Zanotelli

«il nero a chilometro zero svela il nostro razzismo»

 un brano da “prima che gridino le pietre”, pamphlet del missionario per una disobbedienza civile per non «tradire i valori cristiani»

Alex Zanotelli

Alex Zanotelli

«L’Europa ha perso la coscienza, la memoria e l’umanità. Ci preoccupiamo di difendere i nostri valori “cristiani” di fronte ad altre religioni, ma quei valori li stiamo tradendo da soli». Lo scrive un uomo che i principi del cristianesimo li conosce e li ha vissuti sulla propria pelle come missionario, Alex Zanotelli, nel pamphlet “Prima che gridino le pietre” (Chiarelettere, pp. 160, € 15, a cura di Valentina Furlanetto) dal sottotitolo che elimina ogni possibile malinteso: «Manifesto contro il nuovo razzismo».
«Questo libro racconta il razzismo di ieri e soprattutto di oggi, potente macchina del consenso», annota l’editore nella scheda. Il missionario e attivista, per il quale «Dio è schierato, è il Dio degli oppressi, degli schiavi, dei poveri», per più di mezzo secolo ha convissuto con «gli ultimi della terra, prima in Sudan poi in Kenya, in una delle infinite baraccopoli di Nairobi, Korogocho». Nato a Trento nel 1938, sacerdote dal 1964, missionario comboniano, direttore della rivista “Nigrizia” dal 1978 al 1987, Zanotelli traccia una storia di emigrati e migranti ricordando un linciaggio di italiani emigrati del 1893 nel sud della Francia scatenato da notizie false e con il furore popolare. Ci ricorda qualcosa?, chiede e si chiede. Arrivando all’esperienza di Riace e del sindaco Mimmo Lucano, Zanotelli rilancia «il valore politico della disobbedienza civile». Un dato citato nel libro: l’86% dei 65 milioni di rifugiati nel mondo calcolati dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite  (Unhcr) è nei paesi poveri, appena il 14% nell’Occidente. Di seguito, su gentile concessione dell’editore potete leggere un estratto dal paragrafo «Razzismo di Stato» dal capitolo «Rompere il silenzio».

Razzismo di Stato
Mi viene da ripetere la domanda che ha fatto il papa ai leader della Ue: «Europa, che cosa ti è successo?». Purtroppo non naufragano solo i migranti nel Mediterraneo, sta naufragando anche l’Europa come patria dei diritti. Il razzismo sta crescendo in Europa e anche in Italia.
Abbiamo sempre pensato agli italiani come a delle persone accoglienti, ci siamo sempre vantati del detto «italiani brava gente». Ma solo perché in realtà da noi non c’erano africani, non c’erano persone di colore. Era facile non essere razzisti senza neri in giro. Da quando nel nostro paese sono arrivate delle persone con la pelle scura si è visto di che pasta siamo fatti. E da dove arriva questo razzismo? Arriva da un senso di superiorità che hanno gli europei e gli italiani.
Noi europei crediamo fermamente che la nostra civiltà sia migliore di quella degli altri popoli. Crediamo di essere detentori di una cultura, una religione, una filosofia superiori. Questa convinzione è quella sulla quale si sono appoggiati primo lo schiavismo e poi il colonialismo. C’è questo senso di superiorità che impedisce di sentire il nero come un pari. Altrimenti non si spiegherebbe questa ostilità nei confronti dei migranti africani.
Prestiamoci attenzione: i migranti cinesi in Italia sono presenti in misura pari a quelli africani e tuttavia non suscitano la stessa rabbia, la stessa riprovazione, lo stesso furore. Evidentemente scatta qualcosa a livello psicologico, qualcosa che è dentro di noi, un rifiuto, un senso di superiorità atavico, che non riusciamo a sopprimere.Quando anni fa chiedevo ai fedeli delle parrocchie che frequentavo delle sottoscrizioni per i poveri in Africa oppure di adottare a distanza dei bambini africani erano tutti molto generosi; toccati profondamente dalle situazioni di povertà che raccontavo, aprivano volentieri il portafoglio.
Un po’ perché le donazioni verso i poveri pongono sempre chi dona in una situazione di superiorità morale, il dono è sempre verso qualcuno che ha bisogno, che tende la mano. Ci sentiamo lusingati e gratificati da questo. Ma bisognerebbe saper rispettare il diritto dell’altro alla dignità, non soltanto donare con condiscendenza e senso di superiorità.
Il fatto nuovo è che il nero a chilometro zero non funziona. Il nero va bene se sta in Africa, più lontano possibile, il nero al nostro fianco ha svelato il razzismo che c’è in noi. Una ostilità che non dimostriamo verso i migranti di altri paesi. Evidentemente è proprio la pelle nera a disturbare l’uomo bianco. E come chiamare questo se non razzismo?
Siamo di fronte a un razzismo di Stato, preparato da decenni da leggi come la Turco-Napolitano, la Bossi-Fini, i decreti Maroni, la realpolitik di Minniti. È un fenomeno che ci interpella tutti. Ora, con il governo Salvini-Di Maio-Conte siamo addirittura allo sdoganamento verbale del razzismo, della xenofobia, dell’aggressività. La politica sull’immigrazione del ministro dell’Interno Matteo Salvini, che porta a chiudere i porti, va contrastata. La disobbedienza civile in questo contesto è l’unica arma che abbiamo. «Una legge che degrada la personalità umana è ingiusta», scriveva dal carcere di Birmingham Martin Luther King. Le sue parole ci chiamano in causa: «I primi cristiani si rallegravano di essere considerati degni di soffrire per quello in cui credevano.
Allora la Chiesa non era un semplice termostato che misurava le idee e i principi dell’opinione pubblica, era un termostato che trasformava la società. Quando i primi cristiani entravano in una città le autorità si allarmavano e subito cercavano di imprigionarli perché “disturbavano l’ordine pubblico” ed erano “agitatori venuti da fuori”. Ma i cristiani non cedettero».

È questo lo spirito che deve tornare ad animare le comunità cristiane, se vogliamo sconfiggere il razzismo e la xenofobia che ci stanno travolgendo. Papa Francesco ha lanciato molti segnali, ma è rimasto inascoltato. Il suo messaggio non sta passando. È attaccato, è solo.

una ostilità immotivata e razzista contro i migranti

migranti

gli sbarchi si riducono, l’ostilità aumenta

di Andrea Federica de Cesco
in “Corriere della Sera” del 5 dicembre 2018

«Nel corso del 2018 abbiamo vissuto un paradosso: a fronte di una drastica riduzione degli sbarchi (dell’80%), c’è stata una drammatizzazione e strumentalizzazione del fenomeno migratorio, che si sta traducendo in un’aperta ostilità verso gli stranieri»

Vincenzo Cesareo, segretario generale della Fondazione Ismu (iniziative e studi sulla multietnicità), ha aperto così la mattinata dedicata al ventiquattresimo rapporto dell’ente di ricerca scientifica indipendente, che dal 1993 è impegnato nello studio e nella diffusione di una corretta conoscenza dei fenomeni migratori.

Il testo, edito da FrancoAngeli, è stato presentato  all’Università degli Studi di Milano, con il vicedirettore del Corriere Venanzio Postiglione in veste di moderatore e con il politologo Nicola Pasini ad aprire il dibattito.

Il responsabile del settore Statistica della Fondazione Ismu Gian Carlo Blangiardo ha poi messo in luce alcuni dei numeri raccolti nel volume, a partire da quelli sulla presenza di stranieri in Italia: al primo gennaio scorso erano 6 milioni e 108 mila; considerando che la popolazione italiana conta 60 milioni e 484 mila residenti, ciò significa che è stata superata la soglia simbolica di uno straniero ogni 10 abitanti. «Rispetto al 2017 c’è stato un incremento del 2,5% degli stranieri presenti in Italia. Tale aumento è trascinato in particolare da quello dell’8,6% degli irregolari», ha detto Blangiardo, che è a un passo dalla guida dell’Istat.

Un altro tema centrale è la formazione dei giovani stranieri e l’intercultura come pratica educativa, su cui si è concentrata la responsabile Ismu del settore Educazione Mariagrazia Santagati, mentre il direttore generale della Cooperazione internazionale e dello sviluppo della Commissione europea Stefano Manservisi ha evidenziato l’importanza di facilitare gli investimenti privati nei Paesi africani e anche le rimesse dei migranti. Nello stesso contesto il Centro sportivo italiano di Milano ha ricevuto il riconoscimento della Fondazione Cariplo e della Fondazione Ismu 2018 per il progetto «Sport Inside», che promuove i percorsi d’integrazione sociale e di inserimento per i giovani stranieri che chiedono la protezione internazionale

il nuovo libro di Zanotelli contro il ‘nuovo razzismo’

il manifesto antirazzista di un vero rivoluzionario

il nuovo libro di Alex Zanotelli

“prima che gridino le pietre”

“manifesto contro il nuovo razzismo”

pubblicato da Chiarelettere (150 pagine, 15 euro)

di Paolo Piffer
in “Trentino” del 5 dicembre 2018

Un dato:

Secondo l’Unhcr (l’Alto commissariato delle Nazioni unite che si occupa di migrazioni), i rifugiati nel mondo sono 65 milioni, l’86% dei quali è ospite dei Paesi più poveri. Solo il restante 14% si trova in Occidente.

E un commento:

“Eppure l’Europa si sente sotto assedio, si sente invasa, reagisce con paura e ostilità, erge muri, srotola filo spinato, chiude i porti, respinge i migranti. Quella stessa Europa che pretende di essere l’esempio della civiltà tollera episodi di discriminazione e xenofobia. Gli italiani, emigrati negli anni in tutto il mondo, hanno dimenticato la loro storia, o fanno finta di non ricordarla”.

Padre Alex Zanotelli, il comboniano originario di Livo, in val di Non, torna in libreria dopo “Korogocho. Alla scuola dei poveri” – che risale ormai ad una quindicina d’anni fa, sulla sua esperienza missionaria nella baraccopoli alle porte di Nairobi, in Kenia – con “Prima che gridino le pietre”, pubblicato da Chiarelettere (150 pagine, 15 euro).”Manifesto contro il nuovo razzismo” è il sottotitolo. Perché di questo si tratta. Di un accorato appello, indignato, contro il trattamento riservato ai migranti da gran parte dell’Europa, come dagli Stati Uniti di Trump.

Da buon giornalista, è stato per anni direttore della rivista “Nigrizia”, Zanotelli prende in mano i numeri.

“È semplicemente ridicolo parlare di invasione – scrive – In Europa gli abitanti sono più di cinquecento milioni e gli immigrati arrivati negli ultimi sei anni sono meno di due milioni della popolazione, meno dello 0,4%: una goccia nel mare”.

E ancora:

“Se si guarda all’Italia è vero che abbiamo avuto molti sbarchi ma il numero di rifugiati ogni mille abitanti è molto più basso che in altri Paesi d’Europa: 2,4 rifugiati ogni 1000 abitanti secondo i dati dell’Unhcr, tutto sommato pochi rispetto ai 23 rifugiati ogni 1000 della Svezia, gli 11 ogni 1000 della Norvegia, ma anche la Germania ne ospita di più (8,1 ogni 1000) e la Francia (4,6 ogni 1000)“.

Sugli irregolari presenti in Italia, annota:

“Non sappiamo esattamente quanti siano ma non è difficile fare una stima realistica e non di pura propaganda (come invece il ministro dell’interno Matteo Salvini che in campagna elettorale ha promesso di mandarne a casa 500mila). Se si sommano le richieste di asilo respinte dalle commissioni territoriali dal 2014 ad oggi si arriva ad una cifra di poco superiore a 100mila persone”.

“Siamo di fronte a un razzismo di Stato”, e Zanotelli ne ha per tutti, dalle leggi TurcoNapolitano alla Bossi-Fini, dai decreti Maroni alla “realpolitik di Minniti”. Di fronte al quale

“l’unica arma che abbiamo è la disobbedienza civile, ciascuno nel suo ruolo, se non diciamo no qui e ora salta la nostra umanità”.

Guarda anche in casa sua il comboniano.

“Nel mio paese d’origine, in Trentino, il 50% ha votato Lega (per l’esattezza, alle ultime politiche, il 54,04% ndr). Ne fui profondamente indignato – scrive – Mi sono vergognato perché non ci si può dire cristiani e contemporaneamente aderire ai valori della Lega, o l’una o l’altra cosa”.

Neanche presagisse l’invito del neoassessore provinciale leghista Mirko Bisesti a porre crocefissi nelle aule scolastiche e metter su presepi in vista del Natale negli istituti, padre Alex tuona:

“La croce rappresenta un uomo che predicava l’amore e la fratellanza ed è morto per le sue idee, morto insieme a due ladroni, non compreso, non amato, tradito. Quell’uomo stava con i poveri, le prostitute, gli stranieri, i malati, gli infermi. Quando guardiamo il presepe dobbiamo renderci conto che non è una composizione pittorica e folcloristica, è la rappresentazione di una famiglia povera che vaga in cerca di riparo. Altrimenti il presepe, se viene usato come simbolo identitario contro altri, diventa l’opposto del suo significato originario”.

Nel “manifesto” c’è poi la lista dei tanti casi di stranieri che negli ultimi mesi, da nord a sud della penisola, sono stati attaccati, da italiani. Una sequela dolorosa. E una sorta di “breviario” africano. Il continente dal quale arrivano migliaia e migliaia di migranti, spesso non accolti. Fortunatamente, sottintende Zanotelli,

“c’è sempre qualcuno che si ribella, che non sta in silenzio. E sono queste persone a fare la differenza”.

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