quale giubileo per le forze armate – il sogno di un’alternativa

sogno di un giubileo delle forze disarmate e nonviolente!

di Pax Christi e Mosaico di Pace
in “www.finesettimana.org” del 11 febbraio 2025

Non più di qualche giorno fa, dalla Piazza San Pietro a Roma, le immagini ci raccontavano di
30.000 militari in “marcia” per il Giubileo delle Forze Armate, di Polizia e di Sicurezza. Anche loro,
le nostre sorelle e i nostri fratelli militari, lì per attraversare la Porta Santa, partecipare alla
celebrazione dell’Eucaristia, presieduta da Papa Francesco, e ripartire come “pellegrini di
speranza”.
Erano stati preceduti dalla domanda provocatoria, che Papa Francesco pone nella Bolla di Indizione
del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025, al n. 8: “E’ troppo sognare che le armi tacciano e smettano
di portare distruzione e morte?”. E poi le sue forti e accorate parole rivolte alle e ai militari,
nell’omelia di domenica 9 febbraio u.s.: “Vi chiedo, per favore, di vigilare; vigilare contro la
tentazione di coltivare uno spirito di guerra; vigilare per non essere sedotti dal mito della forza e dal
rumore delle armi, …”.
Come Pax Christi Italia, unitamente alla redazione di Mosaico di Pace, non possiamo non porre
alcune domande che inquietano le nostre coscienze, e, ne siamo certi, anche quelle di tante donne e
uomini impegnati nella ricerca della pace. Lo facciamo anche se derisi e insultati come
“pacefondai” o, come letto di recente su un quotidiano italiano, “contaminati dalla epidemia di
pacifismo”, ma sempre più convinti che “se vogliamo la pace dobbiamo preparare la pace”.
Le Forze Armate sono lì per fare la guerra, che non è mai, mai giusta! Perché ogni guerra degenera
in immorali e illegali investimenti di armi che certo non concorrono a portar pace e riconciliazione
tra i popoli. Semplicemente scandalosa la modifica alla legge 185/90 che il nostro governo si
prepara ad approvare. Una legge nata per mettere un argine all’export delle armi e oggi, purtroppo,
destinata ad essere “cancellata” per lasciare campo libero a investimenti miliardari offensivi di
necessità, di urgenze e di bisogni vitali per il nostro vivere quotidiano.
Noi, artigiani di pace, NON CI STIAMO!!! Lo diciamo ad alta voce, in nome del Vangelo che ci
indica ben altre strade: Basta armare sempre di più l’economia, la cultura e la politica! Ci
permettiamo, poi, in quel coraggioso ed evangelico Sì-Sì, No-No, di chiedere alla Chiesa che
l’Anno Giubilare appena iniziato ricordi ai cristiani e al mondo intero, con le parole di San
Giovanni XXIII nella Pacem in Terris, che risolvere i conflitti con la guerra “Alienum est a ratione”.
Don Tonino Bello, Presidente di Pax Christi Italia, ebbe a parafrasare questa espressione con “…è
roba da matti!”.
Ci permettiamo fraternamente, ancora una volta, non di provocare ma di invitare ad avere il
coraggio di mandare segnali di un cambiamento di mentalità e di cultura di pace.
Possiamo chiedere di sostituire alle Diocesi Militari, agli Ordinari Militari, ai Cappellani Militari
vescovi e presbiteri che, senza divise e senza stellette, si prendano cura spirituale di coloro che
fanno questa difficile scelta di vita? Possiamo chiedere di modificare con parole di pace le preghiere
delle varie Forze Armate che a volte chiedono a Dio di benedire le loro armi? Nessun intento
“polemico” in queste nostre domande, solo il sogno e la visione di un mondo altro possibile rispetto
a quanto stiamo vivendo in questi giorni, sogno e visione di un Giubileo delle Forze Disarmate e
Nonviolente!
Tavarnuzze (Fi), 11 Febbraio 2025 Pax Christi Italia – Mosaico di pace Contatti: Pax Christi
Segreteria Nazionale 055-2020375, info@paxchristi.it – www.paxchristi.it Mosaico di pace:
080.3953507 – 348.3035658, info@mosaicodipace.it – www.mosaicodipace.i

l’antievangelica e anticristiana cosiddetta ‘teologia della prosperità’

quel «Vangelo diverso» che lo stravolge

di Antonio Spadaro
in “Avvenire” dell’11 febbraio 2025

La «teologia della prosperità» invocata dal tycoon: la fede per ottenere ricchezza: la dottrina che considera Dio un «fattorino cosmico» dei desideri umani.
La teologia della prosperità è stata definita un «vangelo diverso», talmente diverso da stravolgerne il senso. Le sue radici affondano negli Stati Uniti, dove il pastore Esek William Kenyon (1867- 1948) fu tra i primi a sostenere che attraverso il potere della fede, i credenti potevano ottenere ricchezza, salute e benessere, mentre la mancanza di fede portava alla povertà e alla malattia.
Queste dottrine chiare e semplici si sono correlate e nutrite in misura consistente anche del positive thinking, il «pensiero positivo», espressione di un certo American way of life. Esse si collegano in questo senso alla «posizione eccezionale» che Alexis de Tocqueville nel suo celebre La democrazia in America (1831) attribuiva agli americani. Fu Tocqueville ad affermare che tale way of life plasma
anche la religione degli americani. Questa «teologia», inizialmente circoscritta a piccoli gruppi
religiosi, ha trovato terreno fertile nel movimento neo-pentecostale e carismatico, che l’ha
amplificata e diffusa a livello globale. Il fenomeno si traduce, dal punto di vista mediatico, nell’uso
della televisione da parte di figure molto carismatiche di alcuni pastori, detentori di un messaggio
semplice e diretto, montato attorno a uno show di musica e testimonianze e a una lettura
fondamentalista e pragmatica della Bibbia ed è sostenuto dalla sua forte incidenza sulla vita
politica. Sin dalla sua prima cerimonia d’inaugurazione del mandato presidenziale, Donald Trump
ha incluso preghiere di predicatori del «vangelo della prosperità» quali Paula White, uno dei suoi
consiglieri spirituali. Per la prima volta nell’ottobre 2015 la White ha organizzato, nella Trump
Tower, un incontro di telepredicatori legati alla «teologia della prosperità», che hanno pregato per
l’attuale Presidente, imponendo le mani su di lui.
Il nucleo di questa «teologia» è la convinzione che Dio vuole che i suoi fedeli abbiano una vita
prospera, e cioè che siano ricchi dal punto di vista economico, sani da quello fisico e
individualmente felici. I fedeli sono incoraggiati a visualizzare ciò che desiderano e a dichiararlo
con fede, considerandolo già ricevuto. Questo approccio trasforma le promesse di Dio in una sorta
di contratto vincolante, in cui il credente assume una posizione dominante rispetto a un Dio che
diventa un “fattorino cosmico” (cosmic bellhop) al servizio dei desideri umani.
L’urgenza di una vita prospera e senza sofferenze si adegua a una religiosità a misura del cliente, e
il kairos del Dio della storia si adegua al kronos frenetico della vita attuale. In alcune società in cui
la meritocrazia è stata fatta coincidere con il livello socio-economico senza che si tenga conto delle
enormi differenze di opportunità, questo «vangelo», che mette l’accento sulla fede come «merito»
per ascendere nella scala sociale, risulta ingiusto e radicalmente anti-evangelico.
La teologia della prosperità presenta numerose criticità. Promuove un forte individualismo, in cui il
benessere personale è visto come risultato diretto della fede individuale, rischiando di esacerbare le
disuguaglianze sociali e di creare una mancanza di empatia verso i poveri, considerati come persone
con “fede insufficiente”. Inoltre, distorce il messaggio evangelico, riducendo la salvezza a un
semplice benessere materiale e trasformando la religione in un fenomeno utilitaristico e pragmatico.
Questo approccio è in netto contrasto con la concezione tradizionale del cristianesimo, che vede la
salvezza come un dono di Dio, non come il risultato delle proprie opere o della propria fede.
Questa teologia è chiaramente funzionale ai concetti filosofico-politico-economici di un modello di
taglio neoliberista e abbatte il senso di solidarietà. Inoltre, spinge le persone ad avere un
atteggiamento miracolistico, per cui solamente la fede può procurare la prosperità, e non l’impegno.
Quindi il rischio è che i poveri che restano affascinati da questo pseudo-vangelo rimangano
imbrigliati in un vuoto politico-sociale che consente con facilità ad altre forze di plasmare il loro
mondo, rendendoli innocui e senza difese. Sin dall’inizio del suo pontificato Francesco ha avuto
presente il «vangelo diverso» della «teologia della prosperità» e, criticandolo, ha applicato la
classica dottrina sociale della Chiesa. Più volte lo ha richiamato per porne in evidenza i pericoli
anche per un suo possibile diffondersi dentro la vita ecclesiale in modo strisciante. La prima volta è
avvenuto già in Brasile, il 28 luglio 2013. Rivolgendosi ai vescovi del Consiglio Episcopale
Latinoamericano, aveva puntato il dito contro il «funzionalismo» ecclesiale», che realizza «una
sorta di “teologia della prosperità” nell’aspetto organizzativo della pastorale». Essa finisce per
entusiasmarsi per l’efficacia, il successo, il risultato constatabile e le statistiche favorevoli. La
Chiesa così tende ad assumere «modalità imprenditoriali» che sono aberranti e allontanano dal
mistero della vera fede evangelica

a proposito di migranti: la storia cancellata dalla tracotanza dell’occidente

 

Il boomerang dei migranti

di Luigi Manconi
in “la Repubblica” del 3 febbraio 2025

Vent’anni fa Antonio Martino, economista e politico liberale e liberista, mi diceva: «Gli Stati Uniti
sono diventati grandi grazie al contributo della forza lavoro immigrata.
E, ricorda, si trattava in buona parte di forza lavoro irregolare. Ir-re-go-la-re!»

E se quello che appare oggi come il maggiore punto di forza delle destre di tutto il mondo — la
questione delle migrazioni — si traducesse con il tempo nel motivo di loro più acuta debolezza?
Notizie provenienti dalla Corte di Appello di Roma e dal parlamento tedesco, ma anche dalla stessa
America trumpiana, sembrano confermare una simile ipotesi. Il fenomeno delle migrazioni è
enorme, ed enormemente complesso, e richiede risposte altrettanto complesse, provvedimenti
razionali e strategie intelligenti. Al contrario, i programmi delle destre sono, palesemente, semplici.
E pur se suggestivi e ad alto tasso di manipolazione, si rivelano semplicistici fino alla rozzezza; e
cominciano già a manifestare le prime crepe.
Le foto pubblicate sul sito della Casa Bianca di migranti con i ceppi e incatenati alla vita
costituiscono la sordida icona del cattivismo più conformista, ma sembrano un manifesto ideologico
piuttosto che un credibile programma politico. Questo mentre, qualche giorno fa, il Financial Times
scriveva che il progetto di espulsione di undici milioni di stranieri irregolari richiederebbe dieci anni
di tempo e una spesa complessiva di mille miliardi.
Ma parliamo di noi. Il protocollo Albania sembra ispirarsi a quel meccanismo psichico che le
discipline della mente definiscono rimozione.
Il processo, cioè, che trasferisce altrove — nell’inconscio — pulsioni, angosce e fobie; e che si
realizza attraverso la sottrazione allo sguardo e, dunque, alla consapevolezza di ciò che è fattore di
inquietudine e ansia. Ecco, il nascondimento dei migranti fuori dai confini nazionali e dentro galere
etniche risponde a questa esigenza di occultare il «perturbante» (Freud).
Ma perché possa essere efficace, un simile progetto deve attuarsi all’interno di un sistema
istituzionale tutto all’insegna di quello stesso nascondimento.
Cosa non possibile in uno Stato di diritto quale tuttora, nonostante le insidie subite, è l’Italia. E in
questo Stato di diritto la divisione dei poteri resiste e quello giudiziario — oggi la Corte di Appello
di Roma — continua a fare la sua parte.
In Germania il tentativo di creare una intesa tra il centro conservatore e la destra neo-nazista ha
fatto un pericoloso passo avanti, salvo poi arrestarsi.
Credo che in ciò abbia avuto un ruolo importante il «fattore umano»: un soprassalto emotivo che,
dalle manifestazioni di piazza alle parole della ex cancelliera Angela Merkel, ha attraverso una parte
significativa dell’opinione pubblica.
Una politica migratoria più autoritaria e un accordo parlamentare con chiunque volesse sostenerla
volevano rappresentare, ancora una volta, la risposta semplice a un problema complesso, reso
ancora più arduo dal peso irriducibile della memoria collettiva.
Lì, centri d’accoglienza, centri per il rimpatrio, centri di detenzione evocano ancora fosche
assonanze storiche e richiamano spettri tuttora minacciosi.
Paradossalmente, dunque, il «passato che non passa» può manifestarsi come nuova vitalità di una
coscienza comune scossa, indebolita e lacerata e, tuttavia, resistente.
Ripeto, si tratta di incrinature e di brecce in un impianto ideologico e politico reazionario che
procede, si estende e, soprattutto, allarga i propri consensi: ma quei primi segnali di debolezza
vanno osservati con attenzione e — ecco il compito di una politica non subalterna — valorizzati e
approfonditi.
La funzione demagogico-propagandistica delle iniziative anti-migranti delle destre è sicuramente
potente, efficace nel breve periodo e assai remunerativa sul piano elettorale.
Ma quando il progetto trumpiano di «espellere undici milioni di clandestini» si scontrerà con il
ruvido dato dell’altissima percentuale di irregolari nell’agricoltura statunitense (oltre il 50 per
cento), che cosa accadrà?
E un ragionamento simile può essere fatto, in Italia, per la nostra agricoltura (circa il 25 per cento di
irregolari) e per segmenti importanti del settore manifatturiero e siderurgico, dei servizi, della
ristorazione e della cura della persona (oltre la metà «in nero»).
E quando l’indecente peregrinazione coatta dei richiedenti asilo tra il Nord Africa e Lampedusa e
tra Lampedusa e l’Albania e tra l’Albania e l’Italia avrà rivelato tutta la sua crudele vacuità,
sopravviverà qualcosa del «Piano Mattei» e della guerra agli scafisti «lungo tutto il globo
terracqueo»?
Per non dire di quel fantasmatico blocco navale che tanto priapismo xenofobo ha suscitato negli
angoli più oscuri della società italiana.
Sia chiaro: non c’è nulla per cui essere ottimisti, ma sarebbe un grave errore pensare che tutto sia
perduto. C’è molto, moltissimo, da fare.
Innanzitutto in chiave difensiva: non vanno tollerati alcun sopruso, alcuna forzatura normativa,
alcuna violazione dei diritti fondamentali.
E, poi, va costruita pazientemente una strategia alternativa che non conceda nulla all’ideologia
dell’avversario (per capirci: nessuna riedizione dello sciagurato memorandum con la Libia!) e che
sia capace di elaborare un piano economico sociale per la convivenza tra residenti e nuovi arrivati,
di regolarizzare gli irregolari (sul modello delle «grandi sanatorie» volute da Silvio Berlusconi nel
2002 e nel 2009) e di operare per una società la cui cultura e la cui identità non vengano cancellate,
bensì arricchite dal confronto con altre e nuove culture e identità.
Vent’anni fa Antonio Martino, economista e politico liberale e liberista, mi diceva: «Gli Stati Uniti
sono diventati grandi grazie al contributo della forza lavoro immigrata.
E, ricorda, si trattava in buona parte di forza lavoro irregolare. Ir-re-go-la-re!»

il ‘corno’ e il … giubileo

Giubileo, un corno

i Alberto Maggi
in “ilLibraio.it” del 10 gennaio 2025

Se quando ci chiedono cos’è il Giubileo rispondiamo che è un corno, abbiamo risposto giusto.
Infatti, “giubileo”, deriva da un termine ebraico (Yobel) che indica il corno (di montone) al suono
del quale s’inaugurava un tempo particolarmente santo (Lv 25,9). La motivazione che sta alla base
del Giubileo è la volontà del Signore che in mezzo al suo popolo “non vi sia alcun bisognoso” (Dt
15,4).
Per impedire che qualcuno finisse definitivamente in situazioni di povertà, si stabilì che ogni sette
anni tutti i debiti fossero cancellati (Dt 15,1-11). Inoltre, ogni quarantanove anni, fu stabilito un
cinquantesimo anno in cui non si sarebbe né seminato né raccolto, e ogni proprietà doveva ritornare
al suo proprietario originario (Lv 25,8-17). Entrambe le leggi, del settimo e del cinquantesimo anno,
si rivelarono subito inefficaci e inapplicabili. Infatti, la legge del condono dei debiti, da
provvedimento a favore dei poveri, si era ritorta contro le categorie più disagiate, poiché nessuno
prestava denaro se non aveva la certezza che gli sarebbe stato restituito entro il settimo anno. E la
legge del Giubileo ogni cinquanta anni, era talmente utopica che rimase una pia intenzione e non fu
mai realizzata. Ideato per evitare che nel popolo ci fossero bisognosi, l’applicazione del Giubileo
avrebbe ridotto alla povertà l’intero popolo. Infatti, se ogni 49° e 50° anno non si poteva né
seminare né raccogliere, la carestia era garantita, e bisognoso sarebbe diventato tutto Israele.
Nonostante questo, l’ideale del Giubileo, come anno in cui il Signore avrebbe ristabilito la giustizia,
rimase vivo nel popolo, e venne proclamato da Gesù nella sinagoga di Nazaret. Qui Gesù annunciò
“l’anno di grazia del Signore”, e affermò che il tempo nel quale ognuno avrebbe sperimentato
l’amore di Dio non sarebbe stato ogni cinquanta anni, ma che ogni giorno sarebbe stato tempo di
liberazione: “Oggi questa Scrittura si è compiuta in voi che ascoltate” (Lc 4,21). I presenti nella
sinagoga però non gradirono l’annuncio dell’attuazione di questo anno giubilare. Fintanto che il
Giubileo restava una legge utopica andava bene a tutti, ma quando Gesù ne annunciò la sua
immediata realizzazione, tutti gli si rivoltarono contro: “All’udire queste cose, tutti nella sinagoga
furono pieni di sdegno; si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del
monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio” (Lc 4,29). Gesù, venuto a
realizzare la volontà del Padre suo, non viene meno al suo proposito, e continua a proporre la realtà
del Giubileo rendendolo caratteristica visibile della comunità del regno di Dio.
Per questo, nel Padre nostro, formula con la quale la comunità si impegna ad accettare le
Beatitudini, Gesù rende quotidiano il Giubileo con la richiesta: “Condona i nostri debiti come noi li
abbiamo cancellati ai nostri debitori” (Mt 6,12). Gesù non parla di peccati, ma ha scelto il termine
debiti, che va al di là della trasgressione di precetti o comandamenti. Mentre è possibile perdonare
le colpe e restare in possesso dei propri averi, il condono dei debiti esige la rinuncia a questi.
Mentre “peccato” è un vocabolo appartenente alla sfera religiosa e si richiama a una norma
trasgredita, “debito” è un termine riguardante concretamente il campo economico e figuratamente le
relazioni interpersonali (essere in debito di qualcosa). Il debito nei confronti di Dio si deve al fatto
che l’uomo veniva considerato debitore verso il Signore per i beni della creazione. Dio non
pretendeva l’impossibile pagamento di questo debito, ma chiedeva che gli uomini si rendessero
conto di essergli debitori per avere lo stesso comportamento umano e solidale verso i loro debitori.
Il condono di questo debito infatti viene dal Padre concesso unicamente in base alla sua misericordia, e non è condizionato da alcun tipo di prestazione umana. Il condono agli altri deve essere una
conseguenza del condono del Padre.
Gesù, pertanto, scegliendo il termine “debiti” intende richiamarsi a quanto prescritto nel Libro del
Deuteronomio, dove appare il verbo “essere debitore” in riferimento alla “legge del settimo anno”:
“Alla fine di ogni sette anni celebrerete la remissione. Ecco la norma di questa remissione: ogni
creditore che detenga un pegno per un prestito fatto al suo prossimo, lascerà cadere il suo diritto:
non lo esigerà dal suo prossimo, dal suo fratello, poiché è stata proclamata la remissione per il
Signore” (Dt 151-2 LXX). Questa legislazione era stata aggirata al tempo di Gesù attraverso la
pratica del Prosbul, un certificato contenente una dichiarazione, fatta di fronte al tribunale, in virtù
della quale il debitore autorizzava il creditore a riscuotere il suo credito in qualunque tempo, anche
dopo i sette anni, prescindendo dalla legge del condono.
Gesù ha preso le distanze e rifiutato l’istituzione del Prosbul per riportarsi così alla purezza del
disegno primitivo di Dio, in aperta opposizione alla “tradizione degli antichi” (Mt 15,9) che
pretendeva di spacciare per insegnamenti divini quelli che erano soltanto “precetti di uomini” (Mt
15,9; Is 29,13), soppiantando l’originaria parola di Dio. Pertanto il condono del debito e con esso la
concessione del perdono, devono essere immediati. Ogni ritardo nella manifestazione di un amore
capace di tradursi in generosa condivisione, non fa che aumentare il debito verso il Padre originato
dall’assenza dell’amore e impoverire tutta la comunità: “Non abbiate alcun debito con nessuno, se
non quello di un amore vicendevole” (Rm 13,8). Ma l’annuncio di questo Giubileo, vera “buona
notizia” per quanti sono poveri, si trasforma in una sciagura per i ricchi, che credono di possedere il
denaro mentre in realtà ne sono posseduti. E il furore col quale i fedeli della sinagoga di Nazaret
hanno cacciato Gesù, è lo stesso che coglie quanti capiscono che la vera porta santa da varcare per il
Giubileo, è quella della banca, per alleggerire il proprio conto, e condividere il tanto che hanno con
chi non ha niente. Fintanto che il Giubileo si risolve con una pratica religiosa è bene accolto da tutti,
ma quando esige un cambiamento di vita

è morto il fondatore della ‘teologia della liberazione’, Gustavo Gutierrez

in morte di Gustavo Gutierrez
di Tonio Dell’Olio

in “www.mosaicodipace.it” del 24 ottobre 2024

Non so dire se la vita di Gustavo Gutierrez sia stato un canto ma sicuramente è grido. In nome degli
impoveriti/empobrecidos e degli esclusi. È stata rivoluzione. Perché non può essere eresia la vita di
chi è schiacciato dall’ingiustizia. La teologia della liberazione, che lo celebra come padre, ha detto
semplicemente che il sogno di Dio rivelatosi in Gesù di Nazareth è di riconoscere la dignità di
ciascuno dei suoi figli che si riscoprono fratelli. Le parole “rassegnazione”, “sottomissione”,
“schiavitù” e “oppressione” non hanno condominio nel Vangelo di Cristo e la povertà è una parola
nobile da sposare mentre la miseria è una maledizione che non ammette giustificazioni. “Il grido del
mio popolo è giunto fino alle mie orecchie” dice Dio. Per questo la teologia della liberazione non è
un altro genitivo del pensiero su/di Dio ma piuttosto il tentativo di dare parola al sogno stesso di
Dio, al suo amore per tutte le creature. Se una teologia non è della liberazione che teologia è? Per la
prima volta i poveri si sono seduti in cattedra a spiegare la Bibbia. Senza parole se non quelle della
vita e dell’esodo. Questo è stato il parto di Gustavo Gutierrez che ha tracciato una strada che ora non
si ferma più perché scorre per mille rivoli con nomi e contesti diversi ma sempre come grido, canto
e cammino di liberazione.

la ‘teologia della liberazione’ perde anche il suo fondatore

in morte di Gustavo Gutierrez

di Stefano Biancu

Gustavo Gutiérrez

 

In morte di Gustavo Gutierrez

Nel giorno in cui mi raggiunge la notizia della sua morte, desidero ricordare Gustavo Gutierrez con devozione e affetto.

Ho avuto con lui tre lunghe conversazioni, durate ciascuna molte ore, nel 2015, in occasione di un mio soggiorno di sei mesi negli USA, presso la Notre Dame University dove Gustavo era professore.

Di quelle lunghe conversazioni conservo un ricordo bellissimo e vivo. Percepivo di trovarmi di fronte a un vero credente, a un uomo profondo, ironico (che mi parlava del senso dell’umorismo come di un luogo teologico). Un uomo generoso, che mi aveva dedicato intere ore, mentre i suoi colleghi concedevano abitualmente appuntamenti di non più di 8 minuti. Un uomo libero, senza rancore, nonostante avesse potuto diventare professore soltanto all’età di 75 anni, al termine di un processo canonico nei suoi confronti durato vent’anni e conclusi – come amava raccontare – con un « lei è cattolico».

Durante quegli incontri sentivo di trovarmi davanti a un uomo vero: non un personaggio, come talvolta accade quando si ha a che fare col clero e con gli accademici. Gustavo Gutierrez era stato studente di medicina, poi prete, assistente per decenni degli studenti e dei laureati cattolici del suo Paese, per poi farsi domenicano per devozione verso i suoi maestri di teologia, e in particolare Chenu. Era un uomo che aveva vissuto e questo lo si percepiva chiaramente.

Vorrei in questa occasione richiamare soltanto alcuni punti della teologia della liberazione, a partire dal libro Teología de la liberacíon (1971), di cui egli stesso mi ha voluto regalare una copia, e dalla prefazione all’edizione del 1988 del libro, dal titolo “Mirar lejos” (guardare lontano).
Teologia della liberazione è originariamente il titolo di una conferenza tenuta da Gutierrez a un incontro nazionale di laici, religiosi e preti nel ’68 a Lima e pubblicata nel 1969 a Montevideo, per iniziativa di Pax Romana.
La teologia della liberazione prende le mosse da un “hecho mayor”: l’irruzione dei poveri nella chiesa latinoamericana. Per la prima volta entravano sulla scena della storia coloro che ne erano da sempre stati assenti, iniziando così ad essere agenti del loro destino. Di qui la miopia di coloro che hanno interpretato la teologia della liberazione come una corrente teologica puramente intellettuale e non come un cammino di popolo. Fondamentali per lo sviluppo di questo cammino sarebbero state le conferenze dell’episcopato latinoamericano di Medellin (1968) e Puebla (1978), precedute da quella di Rio de Janeiro (1955) e a cui sarebbero seguite quelle di Santo Domingo (1992), Aparecida (2007).
L’opzione preferenziale per i poveri, centrale per la teologia della liberazione, è un principio dell’evangelizzazione stabilito a Puebla, laddove il termine « opzione » indica impegno e decisione e ha le sue origini in Giovanni XXIII, e in particolare nel RADIOMESSAGGIO A UN MESE DAL CONCILIO ECUMENICO VATICANO II (11 settembre 1962): « In faccia ai paesi sottosviluppati la Chiesa si presenta quale è, e vuol essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri.»
Si tratta non di un ideale sociale, ma dell’opzione per il Dio del Regno che Gesù ci ha annunciato. Scriveva Gutierrez: « El motivo último del compromiso con los pobres y oprimidos no está en el análisis social que empleamos, en nuestra compasión humana o en la experiencia directa que podamos tener de la pobreza. Todas ellas son razones válidas que juegan sin duda un papel importante en nuestro compromiso, pero, en tanto que cristiano, éste se basa fundamentalmente en el Dios de nuestra fe. Es una opción teocéntrica y profética que hunde sus raíces en la gratuidad del amor de Dios, y es exigida por ella ».
Tra i frutti della teologia della liberazione Gutierrez annoverava il martirio di Oscar Romero: un martirio, mi ripeteva, che ha cambiato per sempre la teologia stessa del martirio. Non si è infatti semplicemente trattato di un martirio per la fede, ma per la carità e la giustizia.
Ci si sbaglierebbe tuttavia se si ritenesse il discorso della teologia della liberazione come un discorso da anime belle. Scriveva Gutierrez: « No se trata de de idealizar la pobreza sino, por el contrario, de asumirla como lo que es: como un mal; para protestar contra ella y esforzarse por abolirla”. “La pobreza cristiana, expresión de amor, es solidaria con los pobres y es protesta contra la pobreza ».
La natura della teologia della liberazione, amava ripetere Gutierrez, è di essere una lettera d’amore a Dio, alla chiesa e al popolo: « una carta de amor a Dios, a la Iglesia y al pueblo a los que pertenezco ».
Il messaggio profetico della teologia della liberazione è così il messaggio stesso del Vangelo: la pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo. Della diffusione di questo messaggio, da oggi siamo tutti un po’ più responsabili.

Stefano Biancu

la visione limitata di papa Francesco sulla donna

Francesco e le donne: parole infelici

di Andrea Grillo

lovanio

Poiché ormai da molto tempo si è aperto uno spazio di discussione sul ruolo della donna nella Chiesa, di recente soprattutto a partire dalla decisione di papa Francesco di istituire una prima commissione di studio sulla storia del diaconato femminile, nel discorso agli studenti tenuto sabato 28 settembre a Lovanio  sono emersi in modo chiaro alcuni limiti profondi della visione cattolica di Francesco sulla donna, lettura che si pensa di poter proporre come “dottrina”, quando è costituita solo da pregiudizi culturali verniciati da una patina di Vangelo.

Un esame più accurato di alcuni passi del discorso di ieri permette di identificare bene la radice teorica, diremmo dottrinale, di queste parole infelici. Prima cito il testo pronunciato e poi faccio seguire alcuni miei chiarimenti.

Ecologia umana ed essenzialismo

Pensare all’ecologia umana ci porta a toccare una tematica che sta a cuore a voi e prima ancora a me e ai miei Predecessori: il ruolo della donna nella Chiesa. Mi piace quello che tu hai detto. Pesano qui violenze e ingiustizie, insieme a pregiudizi ideologici. Perciò bisogna ritrovare il punto di partenza: chi è la donna e chi è la Chiesa. La Chiesa è donna, non è “il” Chiesa, è “la” Chiesa, è la sposa. La Chiesa è il popolo di Dio, non un’azienda multinazionale. La donna, nel popolo di Dio, è figlia, sorella, madre. Come io sono figlio, fratello, padre. Queste sono le relazioni, che esprimono il nostro essere a immagine di Dio, uomo e donna, insieme, non separatamente! Infatti le donne e gli uomini sono persone, non individui; sono chiamati fin dal “principio” ad amare ed essere amati. Una vocazione che è missione. E da qui viene il loro ruolo nella società e nella Chiesa (cfr S. Giovanni Paolo II, Lett. ap. Mulieris dignitatem, 1).

Una “ecologia umana” non si lascia definire soltanto sul piano di “funzioni naturali”. Qui vi è una sorta di cattura del femminile nel naturale. La donna appare, inevitabilmente, come corrispondenza: figlia, sorella, madre, sposa. Si deve notare, come da almeno 200 anni si contesta con autorevolezza, che la definizione della donna accade in un rimando all’uomo. Ha senso solo se ha accanto un uomo.

Da figlia, a sposa, a madre. Proprio questo modo di pensare la cultura tardo-moderna ha saputo rielaborare con finezza, senza negare la differenza, ma non proiettandola anzitutto sul piano della autorità. La donna, come l’uomo, è definita da queste relazioni, ma anche da mille altre dimensioni, che fanno parte anch’esse della sua essenza: la donna, come l’uomo, ha una essenza aperta, storica, libera, non predefinita.

Qui sta la fragilità di questa prima proposizione. D’altra parte, il “genere femminile” della parola Chiesa, su cui insiste Francesco, non serve molto a capire la identità femminile. Ignazio di Loyola diceva che la Chiesa gerarchica, se avesse affermato che una cosa era nera, lui l’avrebbe creduto nera anche se la vedeva bianca.

Questa famosa affermazione era comprovata da un ragionamento che dovrebbe sorprendere un “figlio di Ignazio” come il papa. Egli diceva che la Chiesa gerarchica era “sposa di Cristo” e come tale non poteva sbagliare. Essendo la Chiesa gerarchica composta solo da uomini (tanto più ai tempi di Ignazio), era evidente che il genere femminile della Chiesa poteva bene adattarsi al genere maschile dei vescovi. Non si vede perché non dovrebbe adattarsi, anche meglio, al genere femminile di futuri ministri ecclesiali.

L’oblio dei “segno dei tempi”

Ciò che è caratteristico della donna, ciò che è femminile, non viene sancito dal consenso o dalle ideologie. E la dignità è assicurata da una legge originaria, non scritta sulla carta, ma nella carne. La dignità è un bene inestimabile, una qualità originaria, che nessuna legge umana può dare o togliere. A partire da questa dignità, comune e condivisa, la cultura cristiana elabora sempre nuovamente, nei diversi contesti, la missione e la vita dell’uomo e della donna e il loro reciproco essere per l’altro, nella comunione. Non l’uno contro l’altro, questo sarebbe femminismo o maschilismo, e non in opposte rivendicazioni, ma l’uomo per la donna e la donna per l’uomo, insieme.

Questo secondo passaggio costituisce un rafforzamento teorico del precedente e mostra alcuni problemi piuttosto macroscopici. Da un lato esordisce affidando al “femminile” una essenza indipendente dal consenso e dalle ideologie. Una legge originaria assicura la dignità anche della donna, al di qua e al di là di ogni legge umana.

Ma dove sta qui la ideologia? Non è forse proprio questo modo astorico di pensare il femminile ad aver nutrito, lungo i secoli, una sostanziale discriminazione ed esclusione della donna da ogni sfera di esercizio pubblico della autorità? Perché mai sarebbe ideologico scoprire che la donna può fare sport, può esercitare il diritto di voto, può concorrere a concorsi pubblici, può accedere come violinista, o oboista, alle più grandi orchestre del mondo e anche alla autorità ecclesiale?

Il riconoscimento della autonomia della donna, della sua emancipazione, non è contro la legge naturale, ma è il risultato di una nuova lettura del soggetto, del mondo e dell’ambiente. Siamo esseri storici, sia come uomini, sia come donne: il vangelo non elabora la propria cultura a partire dal pregiudizio essenzialista che blocca la donna in privato, ma contribuisce, con tutte le altre culture, alla scoperta di una dignità in cui comunità e individuo stanno in relazione.

La pretesa del maschile di essere il “punto comune” per giudicare su maschi e femmine, distorce la storia: una legittima autonomia del femminile (come del maschile) è il principio di definizione dell’umano. Perciò “la donna in generale” è un concetto vuoto, utile solo per bloccarne la identità. Come ha detto bene Rahner, che era gesuita, “la donna in generale non esiste”.

Riduzione privata del femminile

Ricordiamo che la donna si trova al cuore dell’evento salvifico. È dal “sì” di Maria che Dio in persona viene nel mondo. Donna è accoglienza feconda, cura, dedizione vitale. Per questo è più importante la donna dell’uomo, ma è brutto quando la donna vuol fare l’uomo: no, è donna, e questo è “pesante”, è importante. Apriamo gli occhi sui tanti esempi quotidiani di amore, dall’amicizia al lavoro, dallo studio alla responsabilità sociale ed ecclesiale, dalla sponsalità alla maternità, alla verginità per il Regno di Dio e per il servizio. Non dimentichiamo, lo ripeto: la Chiesa è donna, non è maschio, è donna.

Anche la terza parte del discorso che consideriamo appare segnata pesantemente da pregiudizi culturali, che la tradizione teologica ha assunto acriticamente e che vengono ripetuti come se fossero parte del “depositum fidei”.

Maria non è “principio mariano”. Maria non è “una donna per tutte”. Maria è esclusa dalla pubblica autorità, esattamente come tutte le altre donne, prima e dopo di lei. La sua esemplarità e santità non parla del sesso, ma della fede. Una parte di quello che proiettiamo su Maria, come se fosse santo, è solo il pregiudizio di un mondo maschile, che vuole tenere la donna chiusa nella sfera privata. Così abbiamo riflettuto per secoli.

Abbiamo anche riconosciuto una autorità alle donne in materia sacramentale, purché fosse delimitata dalla camera da letto, dalla sala da parto, dalla casa. Fuori le donne non potevano né agire sacramentalmente, né fare catechesi. L’essenzialismo che domina molti discorsi ecclesiali proietta sulle donne questo modello limitato a tal punto, da arrivare, come fa Francesco, a pensare che la donna che si sente chiamata all’esercizio di autorità in pubblico “vuole fare l’uomo”.

Questa è forse la frase più infelice di tutte. Perché confonde un modello culturale tradizionale e borghese con la verità del vangelo. La donna non è solo “accoglienza feconda, cura, dedizione vitale”: se non usciamo da questo modello naturalistico ed essenzialistico, e lo confondiamo con la rivelazione, non parliamo più del vangelo, ma solo dei nostri pregiudizi. Soprattutto agli studenti questo dovrebbe essere risparmiato, da parte di tutti i cristiani, e a maggior ragione dai papi.

una preghiera nella disperazione

lettera-preghiera

 il parroco libanese: “che colpa abbiamo per meritarci tanto odio?”


padre Toufic Bou Mehri, che nel suo convento di Tiro ospita famiglie in fuga dalla devastazione e dalla morte, in questa toccante invocazione si rivolge direttamente alla “carissima bomba”

Una famiglia in fuga

una famiglia in fuga

La sua è una testimonianza di solidarietà e accoglienza. Nel convento di Tiro, città libanese di cui è parroco, padre Toufic Bou Mehri, ospita le famiglie in fuga dall’orrore e dalla devastazione. Però non si rassegna alla logica dell’odio e della violenza ma anzi crede ancora nella forza della preghiera. Come dimostra questa invocazione, in cui si rivolge direttamente alle armi, ai macabri strumenti della morte e della distruzione. Il testo della preghiera è stato raccolto da Nello Scavo.  

«Carissima bomba, ti prego, lasciaci in pace. Carissimo razzo, non esplodere. Non obbedite alla mano dell’odio. Vi esorto perché le altre orecchie si sono tappate, e i cuori dei responsabili si sono induriti, e la brutalità nel trattare tra le persone si è diffusa, quindi, ascoltatemi voi vi supplico Vi chiamano bombe intelligenti, siate più intelligenti di quelli che vi stanno usando. Non è rimasto chi ammazzare. Famiglie sterminate. Sila, bambina di sei ani, non le è rimasto nessuno: né il babbo, né la mamma, né la sorellina di un anno e mezzo, né il nonno, né la nonna, né lo zio con la sua famiglia. L’hanno lasciata in questo mondo così crudele. Così abbiamo terminato la giornata ieri. Un razzo ha distrutto nove case nel povero quartiere di Tiro, a 50 metri dal convento. Le pietre sono cadute nel cortile dove si trovano gli sfollati. Terrore, grida, pianti, paura si sono mescolati con il sangue dei feriti. Così abbiamo accolto chi è rimasto della famiglia massacrata. Basta, basta! Ma a chi grido? Al Signore? Lui non c’entra con l’odio, Lui ha creato l’amore, ma l’uomo l’ha rifiutato per il suo simile. Quale sia il nostro peccato, che meriti una punizione così grave? Forse l’unico nostro peccato è questa terra benedetta dal Signore e profanata dall’uomo. La nostra colpa è essere nati in questo Paese che soffre da oltre 50 anni, pagando il prezzo per gli altri. Cosa rispondo agli sfollati che mi chiedono della buona colazione promessa da Abbas? La mia bocca è rimasta paralizzata e le mie parole vuote. Una lacrima è venuta in mio soccorso per dir loro che Abbas, dal cuore grande e generoso, è partito…».

le beatitudini per un mondi nuovo

LE BEATITUDINI PER NOI …
la versione di E. Ronchi
Beati i poveri in spirito, sono loro i re di domani
Beati quelli che scelgono di stare con i piccoli e gli ultimi della fila
Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia
Beati quelli che hanno fame e sete di dignità e di diritti per tutti
Beati quelli che scelgono sempre l’umano contro il disumano
Beati quelli che salvano vite, dalla morte, da ogni forma di morte
Beati quelli che costruiscono ponti e non muri
Beati quelli che: avevo fame e mi avete dato da mangiare
ero straniero e mi avete accolto
ero senza terra e mi avete dato un paese buono
Beati quelli che hanno il cuore dolce, perché saranno i signori di domani
Beati quelli che sanno ancora piangere,
che provano dolore per il dolore di un bimbo, una donna, un figlio della terra…
Beati quelli che sanno provare stupore e rabbia di fronte agli orrori del mondo
Beati quelli che si prendono cura di una esistenza con la loro esistenza
Beati quelli che sentono il morso del più: più passione, più umanità, più diritti
Beati i coraggiosi: quelli che “meglio trasgressivi che complici”
Beati quelli che non sono muti e inerti
Beati gli oppositori, che si oppongono alla legge
quando la legge si oppone all’umanità
Beati quelli che sono in minoranza, controcorrente,
che non si accodano al pensiero dei più
Beati quelli che la vita non la vedono in funzione del loro io,
ma il loro io in funzione della vita.
Loro hanno in dono la vita indistruttibile
Ermes Ronchi

il messaggio di papa Francesco per la giornata mondiale del migrante

papa Francesco:

«Nei migranti assetati e provati incontriamo il Signore»


di Mimmo Muolo 

 il testo per la Giornata del Mondiale del Migrante e del Rifugiato del prossimo 29 settembre

«Anche la Chiesa è migrante verso il Regno. Preghiamo per chi deve lasciare la sua terra»

Il Papa con un gruppo di migranti, durante un'udienza generale

il papa con un gruppo di migranti, durante un’udienza generale 

Vedere nei migranti Cristo stesso e farsi buoni samaritani nei loro confronti. È questo l’invito che il Papa ripete nel Messaggio per la 110a Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, che sarà celebrata domenica 29 settembre 2024, sul tema: “Dio cammina con il suo popolo”. «L’incontro con il migrante, come con ogni fratello e sorella che è nel bisogno – scrive infatti Francesco -, «è anche incontro con Cristo. Ce l’ha detto Lui stesso. È Lui che bussa alla nostra porta affamato, assetato, forestiero, nudo, malato, carcerato, chiedendo di essere incontrato e assistito».

Il Pontefice ricorda anche che ogni cristiano può essere considerato un migrante, perché in viaggio verso la Patria celeste. E facendo riferimento al Sinodo di ottobre prossimo ricorda. «L’accento posto sulla sua dimensione sinodale permette alla Chiesa di riscoprire la propria natura itinerante, di popolo di Dio in cammino nella storia, peregrinante, diremmo “migrante” verso il Regno dei cieli. Viene spontaneo il riferimento alla narrazione biblica dell’Esodo, che presenta il popolo d’Israele in cammino verso la terra promessa: un lungo viaggio dalla schiavitù alla libertà che prefigura quello della Chiesa verso l’incontro finale con il Signore«. Il parallelo tra l’Esodo e i viaggi odierni dei migranti è infatti uno dei punti forti del Messaggio. «Le due immagini – quella dell’esodo biblico e quella dei migranti – presentano diverse analogie – spiega Francesco -. Come il popolo d’Israele al tempo di Mosè, i migranti spesso fuggono da situazioni di oppressione e sopruso, di insicurezza e discriminazione, di mancanza di prospettive di sviluppo. Come gli ebrei nel deserto, i migranti trovano molti ostacoli nel loro cammino: sono provati dalla sete e dalla fame; sono sfiniti dalle fatiche e dalle malattie; sono tentati dalla disperazione». 

Ma il Papa ricorda anche che «Dio precede e accompagna il cammino del suo popolo e di tutti i suoi figli di ogni tempo e luogo. La presenza di Dio in mezzo al popolo è una certezza della storia della salvezza». Dio dunque cammina con i migranti. E molti di loro «fanno esperienza del Dio compagno di viaggio, guida e ancora di salvezza. A Lui si affidano prima di partire e a Lui ricorrono nelle situazioni di bisogno. In Lui cercano consolazione nei momenti di sconforto. Grazie a Lui, ci sono buoni samaritani lungo la via. A Lui, nella preghiera, confidano le loro speranze. Quante bibbie, vangeli, libri di preghiere e rosari – nota ancora il Papa accompagnano i migranti nei loro viaggi attraverso i deserti, i fiumi e i mari e i confini di ogni continente».

Ma non solo Dio è compagno di viaggio. Egli si identifica con loro. «Dio non solo cammina con il suo popolo, ma anche nel suo popolo, nel senso che si identifica con gli uomini e le donne in cammino attraverso la storia – in particolare con gli ultimi, i poveri, gli emarginati –, come prolungando il mistero dell’Incarnazione». In questo senso «ogni incontro, lungo il cammino – prosegue il Messaggio -, rappresenta un’occasione per incontrare il Signore; ed è un’occasione carica di salvezza, perché nella sorella o nel fratello bisognoso del nostro aiuto è presente Gesù. In questo senso, i poveri ci salvano, perché ci permettono di incontrare il volto del Signore». Di qui l’invito del Pontefice a unirsi «in preghiera per tutti coloro che hanno dovuto abbandonare la loro terra in cerca di condizioni di vita degne. Sentiamoci in cammino insieme a loro, facciamo “sinodo” insieme, e affidiamoli tutti, come pure la prossima Assemblea sinodale, all’intercessione della Beata Vergine Maria, segno di sicura speranza e di consolazione nel cammino del Popolo fedele di Dio».

Il testo si conclude poi con una preghiera scritta dal Papa che qui riportiamo integralmente:

Dio, Padre onnipotente,
noi siamo la tua Chiesa pellegrina
in cammino verso il Regno dei Cieli.
Abitiamo ognuno nella sua patria,
ma come fossimo stranieri.
Ogni regione straniera è la nostra patria,
eppure ogni patria per noi è terra straniera.
Viviamo sulla terra,
ma abbiamo la nostra cittadinanza in cielo.
Non permettere che diventiamo padroni
di quella porzione del mondo
che ci hai donato come dimora temporanea.
Aiutaci a non smettere mai di camminare,
assieme ai nostri fratelli e sorelle migranti,
verso la dimora eterna che tu ci hai preparato.
Apri i nostri occhi e il nostro cuore
affinché ogni incontro con chi è nel bisogno,
diventi un incontro con Gesù, tuo Figlio e nostro Signore.
Amen.

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