il commento al vangelo della domenica

la guerra del cuore per renderlo «unificato»

il commento di E. Ronchi al vangelo della ventiseiesima domenica del tempo ordinario – anno A

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». (…)

«Un uomo aveva due figli». E dal seguito della parabola capiamo che «ogni figlio aveva due cuori». Esperienza di tutti: abbiamo in noi un cuore che dice sì e uno che dice no. Non esiste un terzo figlio dal cuore unificato, il figlio ideale che incarna la perfetta coerenza tra il dire e il fare. Siamo persone incompiute, contradditorie: non capisco me stesso, faccio il male che non vorrei, e il bene che vorrei non riesco a farlo (Rm 7,15.19). Ma tutti in cammino verso il cuore unificato. Antonio del deserto diceva che anche nel monaco nascosto nella più sperduta grotta del monte, c’è una guerra che rimane fino alla fine: «la guerra del cuore». Il conflitto di scelte contradditorie, il misurarsi con la forza selvatica del desiderio. La parabola prende avvio da un triangolo di relazioni, padre-figli, non esemplari. La prima azione riportata è un ordine: «Figlio, va’ oggi a lavorare nella vigna». Il racconto che segue è la reazione a un comando percepito da entrambi i figli come una imposizione, un peso da scrollarsi di dosso, o a parole o coi fatti. Se portiamo la parabola sul piano della nostra vita personale, anche noi ci sentiamo spesso esecutori di ordini di un Dio sovrano che si impone come un padre-padrone; viviamo la religione come un insieme di regole e divieti, dove quasi tutto è proibito e il resto obbligatorio.Ma Dio non è un dovere, è uno stupore: in principio alla fede c’è il Vangelo, una bella, gioiosa, lieta notizia. Dio è venuto ed ha fatto risplendere la vita; è venuto ed ha messo sogni e canzoni nuove nel cuore; è venuto, maestro di orizzonti; non ha piantato ulteriori paletti, ma ci ha dato ulteriori ali. Per volare più lontano, più sicuri, per giungere più veloci alla felicità, cioè alla vita buona, bella e beata di Gesù. In principio c’è regno di Dio, ma come un vino di festa, un banchetto di condivisione; non un campo amaro di sudore ma una vigna profumata di grappoli. Nella parabola è in gioco il fondamento del nostro rapporto con Dio. Infatti: il primo figlio si pentì e andò a lavorare. Letteralmente il Vangelo dice: si convertì, cambiò mentalità, trasformò il suo modo di vedere le cose. Il tema grande non è etico, la disubbidienza iniziale diventata ubbidienza, che è poca cosa, ma teologico: il cambio di sguardo su Dio, scoprire con stupore il senso della storia. Il primo figlio ha capito che la vigna di famiglia produce un vino che è simbolo di festa e di gioia per tutta la casa. Non un campo di lavori forzati, ma un luogo dove il mondo diventa più fecondo e più bello. Allora ha fretta di andarvi, anche se nessuno lo vedrà, perché va a rendere meno arida la terra, meno sterile la storia.

(Letture: Ezechiele 18,25-28; Salmo 24; Filippesi 2,1-11; Matteo21,28-32)

il commento al vangelo della domenica

la giustizia del Padre è dare il meglio a ciascuno


La giustizia del Padre è dare il meglio a ciascuno
il commento di E. Ronchi al vangelo della  XXV domenica del tempo ordinario – anno A
«Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”»(…)
Guardo la giornata con gli occhi degli ultimi, quelli seduti in piazza con gli strumenti del loro lavoro posati giù, inutili, che sentono di avere fallito la loro missione, quella di procurare il pane: chi si sente incapace di badare ai suoi figli sta male, sta molto male. La chiamata che arriva inattesa, illogica, che basterà forse a procurare un boccone soltanto, è accolta subito, senza accampare scuse e senza chiedere dettagli, si va’ e si fa. Il proprietario che esce all’alba in cerca di braccianti, avanti e indietro dal campo alla piazza, per cinque volte fino a che c’è luce. Il padrone è solo un’immagine consolatoria della nostra vita spirituale o può dire qualcosa in termini di giustizia e solidarietà? Così gli ultimi operai che nessuno vede nessuno chiama. Siamo vigna di Dio: fatica e passione, il campo più amato. La terra intera è vigna amata, con i suoi grappoli gonfi di miele e di sole, ma anche con le sue vendemmie di sangue. Pressato da qualcosa che non è il lavoro in vigna: che senso ha reclutare lavoratori quando resta un’ora di luce? Il tempo di arrivare alla vigna, di prende-re gli ordini dal fattore, e sarà subito buio. Rivelatrici le parole del padrone: Perché ve ne state qui, tutto il giorno senza fare niente? Quegli uomini inerti producono un vuoto, provocano una mancanza di senso, il giorno attorno a loro si ammala. Questo accade perché la maturità dell’uomo si realizza sempre in tre direzioni: saper amare, saper lavorare, saper gioire. Nessuno ha pensato agli ultimi, allora ci penserà lui, non per il suo ma per il loro interesse, per i loro bambini, come virgulti d’ulivo attorno alla mensa senza pane. Quel cercatore di braccia perdute si interessi più degli uomini, e della loro dignità, che non della sua vigna; più delle persone che del profitto. Un grande. Accompagniamo questi ultimi braccianti fino a sera, al momento clou della paga. Primo gesto spiazzante: sono loro, gli ultimi arrivati, ad essere chiamati per primi, quelli che hanno lavorato di meno. Secondo gesto che stravolge la logica: loro che hanno lavorato un’ora soltanto, per una frazione di giornata ricevono la paga di una giornata intera. E capiamo che non si tratta di una paga, ma di altro modo di abitare la terra e il cuore. Quando poi arriva il turno di quelli che hanno lavorato dodici ore, portato il peso del caldo e della fatica, si aspettano, giustamente, pregustano un supplemento di paga. Ed eccoci spiazzati ancora. La paga è la stessa: «Non è giusto» protestano. È vero: non è giusto. Ma il padrone buono non sa nulla della giustizia, lui è generoso. Neppure l’amore è giusto, è di più. La giustizia non basta per essere uomini, tantomeno per essere Dio. Alla loro delusione risponde: No, amico, non ti faccio torto. Il padrone non toglie nulla ai primi, aggiunge agli ultimi. Non sottrae nulla, dona. Non è ingiusto, ma generoso. E crea una vertigine dentro il nostro modo mercantile di concepire la vita, sopra l’economia di mercato stende l’economia del dono: l’uomo più povero, senza contratto, viene messo prima del contratto di lavoro. La giustizia umana è dare a ciascuno il suo, quella di Dio è dare a ciascuno il meglio. Nessun imprenditore farebbe così. Ma Dio non lo è; non un imprenditore, non il contabile dei meriti, lui è il Donatore, che non sa far di conto, ma che sa saziarci di sorprese. Ti dispiace che io sia buono? No, Signore, non mi dispiace affatto, perché sono l’ultimo bracciante, perché so che uscirai a cercarmi ancora, anche nell’ultima luce.
(Letture: Isaia 55,6-9; Salmo 144: Filippesi 1,20c-24.27a; Matteo 20,1-16) 

il ricordo di Gianni Vattimo

Gianni Vattimo e la forza debole del cristianesimo
di Francesco Tomatis

Cristianesimo ed ermeneutica, kénosis e interpretazione, libertà, amore ed emancipazione compongono la costellazione che orienta il cammino di pensiero di Gianni Vattimo, scomparso nella notte scorsa. Quando nel 1959 si laurea a Torino ‒ dove nacque il 4 gennaio 1936 da una sarta pinerolese e un poliziotto calabrese, per morire a Rivoli il 19 settembre scorso ‒ con una tesi dedicata a Il concetto di fare in Aristotele e seguito da Luigi Pareyson, il giovane filosofo ha già alle spalle una militanza in Gioventù studentesca di Azione cattolica, ispirato dal comunitarismo cattolico di Maritain e Mounier e da Bernanos, nonché l’esperienza di giornalista e conduttore televisivo nella neonata RAI di Filiberto Guala. Nel frattempo alimenta anche l’interesse per l’alpinismo, in particolare in cordata con Alberto Risso, con cui realizza diverse scalate sul Monte Bianco e le Grandes Jorasses, e per un periodo accompagna Walter Bonatti ad allenarsi a Rocca Sbarua. Passerà poi un’estate al rifugio del colle del Teodulo, alternando scalate e studio di Nietzsche, di cui diventerà fra i più autorevoli interpreti in volumi come Ipotesi su Nietzsche (1967), Il soggetto e la maschera (1974), Introduzione a Nietzsche (1985), Dialogo con Nietzsche (2000). Una bella testimonianza della passione per la vita fra ghiacci e alte cime sarà il volume Magnificat (2011).

Neolaureato, vince la prestigiosa borsa von Humboldt e per due anni (1962-1963) lavora all’Università di Heidelberg presso Hans-Georg Gadamer, pubblicando quindi queste ricerche nel libro Essere, storia, linguaggio in Heidegger (1963). Con gli studi su Heidegger, di cui sarà fra i massimi interpreti e prosecutori, e poi su Schleiermacher filosofo dell’interpretazione (1968), influenza il proprio stesso maestro Pareyson, che nel 1971 pubblica Verità e interpretazione, in parte prendendo le distanze dall’ontologia negativa heideggeriana, ma proprio in senso vattimiano, apprezzandone la concezione della verità come apertura inesauribile di senso, evento da interpretarsi personalmente. Così, si parva licet, nel 1996 Vattimo incentrerà sulla concezione cristiana di kénosis, svuotamento o abbassamento di Dio nell’incarnarsi, il proprio libro-confessione Credere di credere, dopo l’uscita nel 1994 del mio Kénosis del logos, lettura della filosofia dell’ultimo Schelling che evidenzia le kenoticità del cristianesimo e della stessa ragione umana nella sua autonomia, peraltro sulle orme dell’interpretazione pareysoniana del grande pensatore svevo.

Altre opere successive come Dopo la cristianità (2002) e Nichilismo ed emancipazione (2003) svilupperanno significativamente questo ritorno di Vattimo al cristianesimo, dopo una parentesi (almeno apparentemente) di mancanza di trattazione di esso nei suoi scritti: Le avventure della differenza (1980), Al di là del soggetto (1981), La fine della modernità (1985), La società trasparente (1989), Etica dell’interpretazione (1989). Invero Vattimo interpreta la post-modernità, soprattutto nei suoi aspetti più positivi, come frutto del cristianesimo, inteso come esso stesso secolarizzante una religiosità sacrale e vittimaria in una fede emancipatoria, interpretante, caritatevole, poiché, come chiarirà in seguito, appunto kenotica. La concezione cristiana dell’incarnazione è essa stessa secolarizzante, mostrando come un rapporto con Dio sia possibile solo interpretativamente, incarnandone storicamente e sempre in prima persona il messaggio, la parola, la verità.

Il punto di passaggio a questa ultima concezione di Vattimo è il pensiero debole, formula di grande successo benché assai ambigua e tutto sommato non emblematica della filosofia di Vattimo. Come ebbe egli stesso a precisare ‒ in particolare in Oltre l’interpretazione (1994) ‒, pensiero debole significa pensiero antifondazionalista, post-metafisico, ma non in senso relativista, cosa che comporterebbe un nuovo assolutismo, a rovescio, bensì inteso in modo ermeneutico e di un’ermeneutica che non si riduce a interpretazione di interpretazione di interpretazione, in una serialità infinita e svilente, ma espone se stessa alla medesima interpretatività proclamata, essendo storico e interpretativo anche lo stesso personale orizzonte interpretante, lasciando sempre aperta un’ulteriorità di senso, anche di possibile religiosità. Quindi, dirà Vattimo, il pensiero debole più che un pensiero relativizzato e relativizzante è un pensiero per i deboli e che pensa alla debolezza dell’essere. L’essere si dà sempre indirettamente, come storicità, evento, svuotamento, mancanza, non come piena presenza e oggettività fondante, base giustificativa perentoria di ogni pensiero omologante e azione violenta. Quindi alla kénosis o svuotamento o debolezza dell’essere corrisponde una maggiore valorizzazione dei deboli, delle singole persone nella loro debolezza, comprensibile ed emancipabile solo attraverso la caritas, l’amore conseguente a una concezione interpretativa della realtà, nonviolenta, dialogica.

Siamo alle ultime opere pubblicate dal filosofo: Addio alla verità (2009), Della realtà (2012), Essere e dintorni (2018), Scritti filosofici e politici (2021). L’attenzione per i deboli della storia e della società si evince anche dall’impegno di Vattimo, come cristiano e dichiarato omosessuale, a lungo nel Partito radicale, poi in varie formazioni politiche, che lo portano per due legislature al Parlamento europeo (1999-2004 e 2009-2014). Frutto anche di queste esperienze i volumi: Il socialismo ossia l’Europa (2004), La vita dell’altro (2006) e Ecce comu (2007). Ma quello di Vattimo è un incarnare personalmente la debolezza, aiutando in silenzio il prossimo, gli umili, i piccoli, gli ultimi, sino a svuotarsi di sé e dei propri possessi, soffrendo anche diverse perdite di familiari e compagni di cammino, come il padre a un anno di età, la sorella ancora giovane, il primo e il secondo compagno della sua vita per gravi malattie.

Sicuramente Vattimo è il filosofo italiano più noto all’estero, avendo tenuto corsi e conferenze in tutto il mondo, in particolare negli Stati Uniti e in America latina, oltre naturalmente che in Europa, ed essendo tradotte in più lingue quasi tutte le sue opere. Il prezioso suo archivio personale di scritti e appunti è ora conservato presso l’Università Pompeu Fabra di Barcellona, non avendo trovato posto in quella di Torino, dove ha insegnato dal 1964 estetica e poi dal 1982 al 2008 filosofia teoretica, preside anche della facoltà di Lettere e filosofia.

Fra i maggiori esponenti dell’ermeneutica filosofica contemporanea, Vattimo ha rivendicato la vocazione ontologica dell’ermeneutica, intendendo l’essere come evento, apertura veritativa nella storia, trasmissione interpretativa. In tal modo ha salvaguardato l’ermeneutica dal relativismo storicista e prassista, evidenziando le derive assolutiste, dogmatiche, totalizzanti sia del razionalismo moderno, del giusnaturalismo, del colonialismo, sia dei loro detrattori globalisti, tecnocrati, relativisti, che omologano ogni differenza, sia fra persone diverse, sia fra finito e infinito. Rifacendosi all’autentico spirito evangelico, che intende la kénosis come incarnazione storica, ricerca personale di una verità impossedibile, eppure interpretabile nelle più umili fattezze umane, mortali, il pensiero e l’esempio di Vattimo restano una preziosa voce, tenace nella sua debolezza, a difendere ciascuna differente creatura da violenze totalitarie, imposizioni tecnocratiche, riduzionismi culturali che permeano, oggi ancora, ogni tipo di società.

il commento al vangelo della domenica

perdonare l’altro, perché perdonati dal Padre

il commento di E. Ronchi al vangelo della ventiquattresima domenica del tempo ordinario – anno A

In quel tempo, Pietro si avvicinò̀ a Gesù̀ e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò̀ perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù̀ gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette». (…) «Così anche il Padre mio celeste farà̀ con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».

Bellissimo questo stupore per l’illogico perdono: fino a settanta volte sette. Dio che rompe i nostri bilancini, che rimette i debiti sempre, che libera non come uno smemorato che dimentica il male, ma con la casta follia della croce che si prende gioco della logica e degli equilibri umani e anche delle mie morti quotidiane. Lui è l’Innamorato che vede primavere dentro i miei inverni. Il servo, appena uscito, appena visto quanto sia grande un cuore di re, appena liberato, preso il suo compagno per il collo lo strangolava: ridammi i miei centesimi! Lui, perdonato di milioni. Quel servo non è ingiusto, è senza cuore. Tecnicamente non è disonesto, è crudele. Davvero è possibile essere onesti e spietati. Non dovevi anche tu aver pietà? Non dovevi anche tu agire come agisco io? Tu come me, io come Dio, la creatura come il creatore… Chiave di volta di tutta la morale biblica. Perché avere pietà? Semplice: per un battito all’unisono con il battito di Dio. Nella Bibbia ogni indicativo divino (ogni azione riferita a Dio) diventa un imperativo umano, per la pienezza e lo sconfinamento in alto. Un istinto in noi ci fa credere che il male si possa “riparare” mediante un altro male, ferendo chi ci ha ferito. Occhio per occhio. Non più una, ma due ferite che sanguinano. Il perdono invece, che forse non guarirà la ferita, ci aiuta a sentire che non tutto il mondo impugna un’arma. Che ci sono anche mani che accarezzano oltre a quelle che mi hanno schiaffeggiato. Ci libera dallo sguardo torvo che vede nemici dovunque: lo sconosciuto in fila con te o un barcone di migranti. Il perdono è de-creazione del male, lo blocca, gli impedisce di proliferare; ci concede il lusso di non trascinarci dietro all’infinito i nostri errori e i nostri dolori, come patiboli interiori su cui inchiodiamo noi stessi e gli altri. “Il perdono ci strappa dai circoli viziosi, spezza le coazioni a ripetere su altri il male subìto, rompe la catena della colpa e della vendetta, spezza le simmetrie dell’odio” (Hanna Arendt). Il tempo del perdono è il coraggio dell’anticipo, senza aspettare che tutto sia a posto; il coraggio degli inizi e delle ripartenze; non un colpo di spugna sulla vita, ma un colpo d’ali che non libera il passato, libera il futuro; un colpo di vento sulla mia barca: Io la vela. Dio il vento. Dio perdona per un atto di fede nell’uomo, perché vede noi oltre noi, vede la luce prima dell’ombra, il santo prima del peccatore, le spighe di buon grano prima della zizzania. Vede che ogni vita è grembo pronto a un di più. E il perdonante ha gli stessi occhi di Dio. Scandalo per la giustizia, follia per l’intelligenza, ma consolazione per noi debitori.

(Letture: Siracide 27,33 – 28,9 (NV), Salmo 102, Romani 14,7-9; Matteo 18,21-35)

il commento al vangelo della domenica

far crescere la fraternità è il tesoro della storia

il commento di E. Ronchi al vangelo della ventitreesima domenica – del tempo ordinario – anno A

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità (….)».

Tutto comincia quando ci sentiamo debitori, dice Paolo; quando ci sentiamo custodi dell’altro, dice il Profeta; debitori senza pretese e custodi attenti: sono i due nomi belli di ogni persona in relazione. E il terzo è offerto dal Vangelo: restauratori di legami, coloro che incessantemente rammendano il tessuto continuamente lacerato delle relazioni. Se tuo fratello commetterà una colpa contro di te, vai e ammoniscilo. Tu fa il primo passo, ricomincia il dialogo, sospinto dal vento di comunione che è Dio, “cemento del cosmo, forza di coesione della materia, collante delle vite” (Turoldo). Quando un io e un tu ricompongono un noi, quando riparano l’alleanza, il legame che si ri-crea è il mattone elementare della casa comune, il sentiero del Regno, la porta di Dio.
Ma che cosa mi autorizza a intervenire nella vita di una persona? Nient’altro che la parola fratello, percepire l’altro come fratello o sorella… non l’impalcarsi a difesa della verità, non il credersi i raddrizzatori dei torti del mondo, ciò che ci autorizza è la custodia direbbe Ezechiele, è l’I care di don Milani: mi stai a cuore e mi prendo cura. Solo chi ci ama sa prendersi cura e ammonirci nel modo giusto, gli altri sanno solo ferire o adulare. Dopo aver così interrogato il tuo cuore, tu va’ e parla, tu fa il primo passo, prova tu a riallacciare la relazione. Lontano dalle apparenze, nel cuore della vita, tutto inizia dal mattoncino elementare della realtà, il rapporto io-tu. Se ti ascolta, avrai guadagnato tuo fratello. Verbo stupendo: guadagnare un fratello. C’è gente che accumula denaro, gente che guadagna prestigio o potere, e poi c’è gente che guadagna fratelli. Il crescere della fraternità è il tesoro della storia, dobbiamo investire tutto nel capitale relazionale, l’unico investimento che produce vera crescita. E alla fine del percorso di ricomposizione tracciato da Gesù, il Vangelo riporta una frase da capire bene: se non ascolta neppure i testimoni, neppure la comunità, quel fratello sia per te come il pagano e il pubblicano. Lo considererai un escluso, uno scarto, un rifiuto? No. Con lui ti comporterai come Gesù, che siede a mensa con Matteo e i pubblicani di Cafarnao, che discute di figli, di briciole e cagnolini con una donna pagana. Questo percorso mi fa sentir bene dentro la prima espressione del Vangelo di oggi: quando due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro. Parola che scavalca la liturgia: “Non nell’io, non nel tu, lo Spirito risiede nell’io-tu” (M. Buber). Il Signore respira meglio quando è catturato dentro quei nostri abbracci che, qualche volta almeno, ci hanno fatto meravigliosamente perdere il fiato.

(Letture: Ezechiele 33, 1.7-9; Salmo 94; Romani 13, 8-10; Matteo 18, 15-20)

il commento al vangelo della domenica

 Gesù cerca seguaci vivi e coraggiosi per seguirlo

il commento di E. Ronchi al vangelo della ventiduesima domenica del tempo ordinario anno A

In quel tempo (…). Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!». (…)

Un avvio così leggero e liberante: se vuoi venire dietro a me. Se vuoi: farai come vorrai, andrai o non andrai con lui, il maestro degli uomini liberi, nessuna imposizione. Ma le condizioni sono da vertigine. La prima: rinnegare se stessi. Un verbo pericoloso se capito male. Non significa annullarsi, diventare sbiadito o incolore. Il maestro non vuole dei frustrati al suo seguito, ma gente dai talenti realizzati, seguaci vivi e coraggiosi. Lo Spirito cerca e crea discepoli geniali. Rinnegare se stesso significa: non sei tu il centro dell’universo, della famiglia, della comunità, e tutti a servirti per darti le gratificazioni di cui hai bisogno. Rinnega la concupiscenza di essere un Narciso allo specchio: tu sei il filo di un meraviglioso arazzo, piccolo, unico, insostituibile. Martin Buber riassume così il cammino dell’uomo: “a partire da me, ma non per me”. Perché chi guarda solo a se stesso non si illumina mai. La seconda condizione: prendere la propria croce. Immagine che abita gli occhi di tutti, che pende al collo di molti, che segna vette di monti, incroci, campanili, ambulanze, che abita i discorsi come sinonimo di disgrazie e di morte. Ma il suo senso profondo è altro. Per Gesù, è il luogo del dolore e dell’amore, incrocio delle più grandi passioni, nel doppio significato di appassionarsi e di patire. Sostituiamo la parola ‘croce’ con la parola ‘amo-re’, e la frase diventa: chi vuole venire con me, prenda tutto il “suo” amore, tutto quello di cui è capace, e mi segua. Viva e ami, come me, quelle cose che meritano di non morire, a partire da sé ma non per sé, e troverà una vita indistruttibile. Prendi su di te tutto l’amore di cui sei capace e poi prendi anche il dolore che ogni amore comporta, perché dove metti il tuo cuore, là troverai anche le tue ferite e le tue spine. Trasforma la ferita in benedizione. Gesù non sogna uno sterminato corteo di gente con la croce addosso, ma l’immenso pellegrinaggio verso più vita. Chi vuole salvare la propria vita…. La vita si salva come si salva un tesoro, spendendolo. Se chiudi le porte, la tristezza non può uscire e la gioia non può entrare. La vita ama le porte aperte, non la puoi possedere o fermare, deve scorrere; tutto scorre nell’universo, astri, pianeti, fiumi, uccelli migratori, sangue, nessun filo spinato può fermare il vento. La vita se si ferma, si ammala. Allora cammina la vita con me. Gesù riesce a far sentire le persone più grandi e più preziose e feconde di quello che gli altri pensano, di quello che loro stesse pensano; libera le forze imprigionate dentro, le ricchezze addormentate in loro, è il risvegliatore della vita profonda, come nessun altro sa fare.

(Letture: Geremia 20,7-9; Salmo 62; Romani 12,1-2; Matteo 16,21-27)

il commento al vangelo della domenica

è solo Cristo che rende appassionata la mia vita

il commento di E. Ronchi al vangelo della ventunesima domenica del tempo ordinario

In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti».Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». (…)

Dopo due anni e mezzo passati con Gesù, in cammino per sentieri e villaggi, i discepoli vengono coinvolti in una sorta di sondaggio d’opinione: cosa si dice in giro di me? L’opinione della gente è bella: Rabbi, sei uno che allarga i cuori, uno bravo, un innamorato di Dio, uno che guarisce la vita. Gesù lancia una seconda provocazione, stringe il cerchio: ma voi, voi dalle barche abbandonate, voi dei cammini con me, voi amici che ho scelto a uno a uno, che cosa sono io per voi? Le sue domande assomigliano a quelle degli innamorati: quanto conto per te? Che posto ho, che importanza ho nella tua vita? Gesù non ha bisogno della risposta dei discepoli per sapere se è più bravo degli altri rabbini, ma per sapere se si sono innamorati di una almeno delle sue parole, se Pietro gli ha aperto il cuore. Non è facile rispondere: il primo passo è quello di chiudere i libri e i catechismi, e di guardare dentro le mie esperienze. Come dire chi tu sia per me Signore? Sei il mio rimorso, la mia dolce rovina; voce che sale, dice e ridice, e non tace mai, vento nelle mie vele, disarmato amore. Sei un maestro d’ali. Il secondo passo per una risposta vera è uscire dall’ovile rassicurante e immobile delle frasi fatte; via dal prontuario delle affermazioni non sofferte, che sono la rovina della comunicazione della fede. Perdersi invece nei campi della vita: “in Lui era la vita e la vita era la luce degli uomini” (Gv 1,4). La Vita è teologa, è la prima catechista. Pietro risponde: Tu sei il Messia, la mano di Dio, il suo progetto di libertà. Sei il figlio del Dio vivente, Colui che fa viva la mia vita, il miracolo che la fa potente, inesauribile e illimitata. La domanda adesso rimbalza fino a me: perché io gli vado dietro? La risposta è semplice: per essere felice. Cristo è stato l’affare migliore della mia vita. Che non vuol dire avere una vita senza problemi o ferite, ma più piena, accesa, appassionata, vibrante, proiettata: in avanti, attorno, in alto.Nella seconda parte del brano Gesù capovolge la domanda, in un bellissimo contrappasso: “Pietro adesso sta a me dire chi sei tu per me: sei pietra e su questa pietra…. La beatitudine di Pietro (beato te, Simone!) raggiunge noi tutti. Forse anch’io sono nella lingua di Gesù “kefà”, piccola pietra. Non certo una macina da mulino, ma una pietruzza solamente. Eppure, per lui, nessuna piccola pietra è inutile, nessun coccio è da buttare. Dio non adopera macine da mulino, ma pietre scartate; non ha scelto l’oro per fare le sue creature, ma la creta. Le sue sono mani di vasaio che premono per dare alla mia argilla la forma migliore, mani di orafo che preparano una carezza di luce da posare sulle mie ferite.

(Letture: Isaia 22,19-23; Salmo 137; Romani 11,33-36; Matteo 16,13-20)

il commento al vangelo della domenica

quel dolore della madre che è fonte della sua fede

il commento di E. Ronchi al vangelo della ventesima domenica del tempo ordinario – anno A

 In quel tempo, partito di là, Gesù si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidòne. Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse neppure una parola. […]

La donna delle briciole, questa cananea intelligente e indomita, che non si arrende alle risposte brusche di Gesù, è uno dei personaggi più simpatici del Vangelo: riesce perfino a far cambiare idea a Gesù. Una donna pagana lo “converte” da maestro di Israele a pastore di tutto il dolore del mondo. Infatti non si esce indenni dall’incontro con il fuoco, con la splendida arroganza di un amore di madre. La donna nel racconto parla tre volte. La prima parola contiene la più antica di tutte le preghiere cristiane: Kyrie eleison, Signore pietà. Ma non dei peccati della mia bambina, bensì del suo dolore. E Gesù non le rivolse neppure una parola. Come ogni madre la donna non si arrende, dice e ridice il suo dolore, alza la voce fino a che provoca una risposta, ma scostante e brusca: sono venuto per quelli di Israele, non per te e tua figlia. La donna invece di abbandonare, rilancia. Sbarra il passo a Gesù, si butta a terra davanti a lui, e dal cuore erompe la seconda parola, tutta passione: Signore, aiutami!
Ancora una volta la risposta è dura: il pane dei figli non lo si getta ai cani. E qui sboccia la genialità della madre, nella sua terza parola: è vero, Signore, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola. Fai una briciola di miracolo, per noi, i cagnolini del mondo! Per il mio cucciolo, per mia figlia. È la svolta del racconto. Potente, la madre crede con tutta se stessa, che non ci sono cani e figli, uomini e cagnolini. Ma solo fame e creature da saziare; che il Dio di tutti è più attento al dolore dei figli che alla loro religione. La madre non conosce la teologia eppure conosce Dio dal di dentro, lo sente pulsare nel profondo delle ferite di sua figlia. Può sembrare una briciola, può sembrare poca cosa, ma le briciole di Dio sono grandi come Dio stesso. Gesù è come folgorato da questa immagine, si commuove: Donna, grande è la tua fede! Lei che non va al tempio, che non legge i Profeti, che prega gli idoli cananei, è proclamata grande nella fede. Lei sa che il dolore è sacro, che le lacrime convocano tutta la compassione di Dio; che la persona, con la sua sofferenza, viene prima della religione. Nel giorno in cui avremo poca fede o troppo dolore, quando verrà, dal fondo dell’essere, solo un gemito senza parole «Ho paura, aiutami, sto affondando», in quel momento Dio si farà vicino come pane per i figli, come briciole per ogni cucciolo d’uomo. «Grande è la tua fede». Grande è ancora la fede sulla terra, perché grande è il numero delle madri, donne di Tiro, di Sidone, di dovunque, che non sanno il Credo o il catechismo, ma sanno il cuore di Dio. Sanno che Dio ama con cuore di carne, con cuore di madre.

(Letture: Isaia 56,1.6-7; Salmo 66; Romani 11,13-15.29-32; Matteo 15,21-28)

la fede e il ‘catechismo femminista’ di Michela Murgia

la ricerca e la fede

 Michela Murgia e quella sete di assoluto


di Alessandro Zaccuri 

Era credente, e non ne aveva mai fatto mistero. Non le dispiaceva definirsi “teologa”. La sua simpatia per papa Francesco non aveva niente di ideologico. Il ricordo di chi l’ha conosciuta da vicino

La scrittrice Michela Murgia

L’ultima volta che ci siamo visti, Michela Murgia aveva appena donato a papa Francesco una copia della rivista di cui era stata direttrice per un solo numero. In copertina c’era lei, elegantissima e sorridente come sempre appariva da quando, nel maggio scorso, aveva deciso di rendere pubblica la fase terminale della sua malattia. “Aspetta, ho bisogno di appoggiarmi un attimo”, aveva detto mentre cercava uno sgabello. Era affaticata ma orgogliosa: di quel giornale che era diventato un manifesto delle sue convinzioni (“La famiglia è di tutti”, annunciava il titolo principale) e del fatto di averlo potuto consegnare nelle mani del Papa che proprio lei, conosciuta come iconoclasta, aveva difeso dalle accuse piovutegli addosso all’indomani dell’elezione (a proposito di titoli, quel “Bergoglio e pregiudizio” scelto per sintetizzare le sue posizioni resta memorabile).

Michela Murgia era credente e non ne aveva mai fatto mistero. Fin dal suo libro di esordio, Il mondo deve sapere del 2006, non le dispiaceva definirsi teologa, una qualifica poi rivendicata in modo militante attraverso i suoi saggi, in particolare Ave Mary del 2011 e il controverso “catechismo femminista” God Save The Queer del 2022. Non erano mere provocazioni, anche se come tali si è cercato di farle passare. Tutto sommato, anche a Michela Murgia sarebbe convenuto metterla sul piano del paradosso intellettuale, dell’esagerazione argomentativa. Alla peggio, la si poteva buttare in politica, che in certi casi è il modo migliore per chiudere il discorso. Il punto è che la narratrice di Accabadora (il suo libro più celebre e compiuto, pervaso da un’incombenza del sacro per la quale è difficile trovare corrispettivi nella recente letteratura italiana) non si limitava a essere orgogliosa. Era anche una persona esigente, con gli altri e con sé stessa, con la propria scrittura e con le proprie convinzioni, sempre messe alla prova. Prendeva sul serio la fede e proprio per questo si aspettava molto dalla Chiesa.  

La sua simpatia nei confronti di Francesco non aveva niente di ideologico. Era la condivisione intima e istintiva di una dottrina della misericordia dalla quale nessuno, per nessun motivo, può sentirsi escluso. Su questi, che erano i temi che più le stavano a cuore, sapeva essere polemica come sono a volte gli adolescenti, che alzano la voce e sbattono le porte solo per essere sicuri di essere amati nonostante tutto, senza condizioni. A volte esagerano, d’accordo, ma hanno dalla loro la certezza che un amore che ponga condizioni semplicemente non è amore.

Di tutto il resto si può discutere, ma a questo desiderio di assolutezza non si può né si deve aggiungere nulla. “Ho bisogno di appoggiarmi un attimo”, diceva Michela Murgia l’ultima volta che ci siamo visti. Ne abbiamo bisogno tutti, sempre, solo che spesso non abbiamo il coraggio di ammetterlo. Lei, invece, non ha voluto nascondere la sua fragilità finale. “Voglio andare avanti così, fino alla fine”, ripeteva. “Riesco a scrivere solo quando mi sento minacciata, quando il cuore mi impazzisce per la paura”, aveva confidato in un’altra occasione. Non so se fosse intenzionale, ma stava citando san Paolo, Seconda lettera ai Corinzi, “quando sono debole, è allora che sono forte”. È una bella definizione della fede. Senz’altro, è la definizione migliore per la fede di Michela Murgia, che sorrideva al Papa e si aspettava tanto – tutto – dalla Chiesa.

il commento al vangelo della domenica

nella bufera Dio stende la sua mano verso di noi


Nella bufera Dio stende la sua mano verso di noi
il commento di E.  Ronchi al vangelo della diciannovesima domenica del tempo ordinario

(…) La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò ve rso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!». (…)

Lago di Galilea, il paesaggio che Gesù più amava, l’ambiente che a Pietro era più familiare. Mi piace questo pescatore che mi assomiglia, uomo d’acque e di roccia. Mi piace per questo suo umanissimo pendolo tra fede grande, bambina e un po’ folle, che lo spinge fuori dalla barca, e quella fede corta e contratta che lo fa affondare; per la capacità di sognare che fa germogliare miracoli, e l’improvvisa paura che lo fa affondare. Uomo di fede piccola, perché hai dubitato? Pietro fa passi di miracolo sul lago, dentro la bufera, e nel pieno del prodigio la sua fede va in crisi: “Signore affondo!”. Il miracolo non produce fede. Non servono miracoli per andare verso Gesù. Vedendo che il vento era forte, s’impaurì: il vento non lo puoi vedere, ma Pietro adesso ha occhi non più per Gesù, ma solo per le onde, la bufera, il caos. “Non consultarti con le tue paure, ma con le tue speranze e i tuoi sogni” (Giovanni XXIII). Pietro invece chiede consiglio alla paura e affonda. Nel pieno del miracolo dubita, mentre è preda del dubbio crede: “Signore, salvami!”. Dio salva, questa è la fede. Che se ne fa Pietro del catechismo mentre affonda? Radice inalienabile della fede è un grido che ci rimane in cuore: Signore ho bisogno, salvami. Niente lo cancella, neppure nell’uomo più perduto o distratto, neppure nel non credente. Viene il momento dell’affondamento, della paura, viene per tutti. Il primo gradino della fede è un grido. O anche il gemito di un dolore senza parole: ho bisogno! Abbiamo tutti provato un principio di discesa nelle acque della disperazione, un fallimento nei rapporti umani, una malattia grave, e forse proprio lì abbiamo trovato la forza di gridare a Lui, senza nessun merito, il coraggio di fidarci e di affidarci. E Lui ha allungato ancora un po’ quella mano che non ha mai cessato di tenderci. E ci siamo aggrappati, ce l’abbiamo fatta. Quante volte siamo stati tirati fuori! Perché i miracoli ci sono, sono perfino troppi, solo che non bastano mai alla fede piccola. Ed è per questo, perché non convertono nessuno che “Dio compie i miracoli a malincuore” (Giovanni della Croce). Perché io sono prete e credente? Perché ho affrontato le mie tempeste e non sono scappato; ho guardato negli occhi le onde e il vento e la paura e ho gridato. E le mie ferite, le ferite che mi sono anche inferto da solo, Dio le ha attraversate con una carezza. E mi ha detto: ci sono qua io, non temere. Proprio là il Signore ci raggiunge, al centro della nostra fede piccola. Ci raggiunge e non punta il dito per accusarci ma stende la mano per afferrarci. E allora la bufera diventa carezza, il grido nella tempesta diventa abbraccio tra l’uomo e il suo Dio.

(Letture: Prima Lettera Re 19,9a.11-13a; Salmo 84; Romani 9,1-5; Matteo 14,22-33)

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