il commento al vangelo della domenica

LA STANZA OSCURA
Marco 5,21-43
il commento di E. Ronchi al vangelo della tredicesima domenica del tempo ordinario
C’è una casa a Cafarnao, dove la morte ha messo il nido.
Una dimora importante, quella del capo della sinagoga, eppure impotente a garantire la vita di una bambina. Giairo ha preso il mantello ed è uscito, ha camminato in cerca di Gesù, e Gesù interrompe ciò che sta facendo e si mette a camminare con lui. Sulle frontiere tra la vita e la morte. Stare con il dolore degli altri diventa uno dei gesti cristiani più rivoluzionari.
Perché il dolore, il dolore innocente? I figli di tanti Giairo muoiono in un’età in cui invece è d’obbligo fiorire, non soccombere. Eppure Gesù non dà una risposta, dà altro: il dolore non domanda spiegazioni, ma condivisione: “e andò con lui”.
“Non temere, soltanto continua ad aver fede”, quella che ti ha fatto uscire di casa in cerca di aiuto e di ascolto. Ma come è possibile non temere, non essere nella paura quando la morte si è portata via il mio sole? Il contrario della paura non è il coraggio, è la fede, atto umanissimo che tende alla vita! Che dice: ho bisogno, mi fido, mi affido. Sulla tua parola getterò le reti, anzi: nelle tue mani getto la vita!
Giunsero alla casa e vide gente che piangeva e gridava. Disse loro: “Perché piangete? Non è morta, ma dorme”. Coloro che noi chiamiamo ‘morti’ dormono a questa vita nostra, ma in realtà sono stati presi per mano e si sono alzati, come la bimba di Giairo.
Lo deridono. Con quella derisione con cui dicono anche a noi: ma tu credi alla resurrezione? Ti illudi, non c’è niente dopo la morte. Ma la fede assicura che Dio è dei vivi e non dei morti, che dire Dio è dire risurrezione.
Gesù cacciò tutti fuori di casa. Caccia via quelli che non credono che Dio inonda di vita anche le strade della morte.
Gesù prende con sé il padre e la madre. Li prende con sé perché il tempo dell’amore è infinitamente più lungo del tempo della vita. La vita finisce ma l’amore no.
E ciò che vince la morte non è la vita, è l’amore. Ogni bambino, dice alla mamma: tu non morirai mai!
Ed entrò dove era la bambina.
E non è solo la stanzetta interna della casa, è la stanza più oscura del mondo, quella senza luce: l’esperienza della morte, dove anche Gesù entrerà, per essere come noi.
Poi la prende per mano. Dio non è un dito puntato, ma una mano che ti prende per mano. E mostra che bisogna toccare la disperazione delle persone per poterle rialzare. Toccare le loro lacrime.
E le disse: “Talità kum. Bambina alzati”. Tocca a te farlo: rimettiti in piedi, sulle tue gambe, con le tue risorse.
Qualunque sia il dolore che portiamo dentro, qualunque sia la morte che ci assedia, il Signore ripete: alzati!
E subito la bambina si alzò e camminava. Restituita all’abbraccio dei suoi, a una vita incamminata e verticale. Là dove ci siamo fermati, Dio continua a farci ripartire.
E ripete su ogni essere la benedizione delle antiche parole: Talità kum, giovane vita, alzati, rivivi, risplendi.
E aggiunge: datele da mangiare, nutrite di sogni, di carezze e di fiducia il suo rinato cuore bambino.
E ci rialzerà tutti, trascinandoci su, in alto, dentro la sua risurrezione.

il commento al vangelo della domenica

UN GRANELLO DI QUIETE
il commento di E. Ronchi al vangelo della dodicesima domenica del tempo ordinario
Mc 4,35-41
La nostra vita è come il mare di Galilea, a volte calmo e a volte in tempesta, ma le nostre instabili e piccole barche sono state costruite non per restare ancorate in porto, ma per prendere il largo.
Siamo tutti naviganti, non possiamo fare a meno di attraversare il lago.
“Passiamo all’altra riva” dice Gesù, e i discepoli accolgono il suo invito e si mettono in barca: e lo presero con sé, così com’era.
Gesù è talmente stanco che nella traversata si addormenta.
Improvvisa sul lago si scatena la tempesta. E Gesù dorme:, affidandosi ai suoi ragazzi, loro sì esperti di lago.
“Non ti importa che moriamo?”
La risposta, senza parole, è raccontata dai gesti “minacciò il vento, parlò al mare, che assicurano a ciascuno: mi importa di te, mi importa la tua vita, tu sei importante. Mi importano i passeri del cielo e tu vali più di molti passeri, mi importano i gigli del campo e tu sei più bello di loro. Tu mi importi al punto che ti ho contato i capelli in capo e tutta la paura che porti nel cuore.
E sono qui.
A farmi argine e confine alla tua paura. Sono qui nel riflesso più profondo delle tue lacrime.
La fede non è una assicurazione contro le burrasche della vita; le tempeste non si evitano e non si fuggono, si attraversano.
Perché avete così tanta paura?
Dio non è altrove e non dorme. È già qui, sta nelle braccia degli uomini, forti sui remi; sta nella presa sicura del timoniere; è nelle mani che svuotano l’acqua che allaga la barca; negli occhi che scrutano la riva, nell’ansia che anticipa la luce dell’aurora.
Il Signore salva attraverso persone (R. Guardini).
Dio è presente, ma a modo suo; vuole salvarmi, ma lo fa chiedendomi di mettere in campo tutte le mie capacità, tutta la forza del cuore e dell’intelligenza.
I discepoli vogliono un Dio che spazzi via le tempeste, e subito!
E invece Dio si fida di loro e li accompagna nel mezzo della burrasca. Non agisce al posto mio, ma insieme a me; non mi esenta dalla traversata, ma mi accompagna nell’oscurità. Non mi custodisce dalla paura, ma nella paura. Così come non ha salvato Gesù dalla croce, ma nella croce.
Perché avete paura? Non avete ancora fede?
I discepoli hanno fede sì, ma nel Dio che risolve i problemi, che tappa i buchi della nostra fragilità, lui invece scava pozzi di coraggio e dignità.
Non avete fede? Credere nel miracolo non è vera fede; troppo facile, troppo comodo. Quanta gente ha più fede nei miracoli che in Dio! “No, credere a Pasqua non è vera fede. Troppo bello sei a Pasqua. Fede vera è al venerdì santo….” (D. M. Turoldo).
Fede è perseverare nella burrasca.
E dopo che ha fatto tutto ciò che poteva al cristiano si apre lo spazio di un di più, un qualcosa che Lui solo ha, una pace sul mare, il miracolo imprevisto, il vento che tace, lo scintillio della fiducia negli altri.
Il di più di Dio, che non sta in riva al lago ad osservare, ma è presente nel buio, come granello di luce nella notte, granello di quiete, di fiducia, di bonaccia.
Che inonda di pace perfino le nostre tempeste.

il commento al vangelo della domenica

SULLA SOGLIA DELLA VITA
il commento di E. Ronchi al vangelo della domenica della S. Trinità
Mt 28, 16-20
Ci sono andati tutti all’appuntamento sul monte di Galilea.
Tutti, anche quelli che dubitavano ancora, tutta la comunità ferita che ha conosciuto il tradimento, la fuga e perfino il suicidio di uno di loro…
Ma il maestro non li molla, e compie uno dei suoi gesti più tipici: si avvicinò. Si fa più vicino…
Sono 40 giorni che parla del Regno e loro ancora non capiscono, eppure Gesù non si stanca di avvicinarsi e spiegare.
È Dio che bussa alla porta dell’umano, e la porta dell’umano è il cuore. E se io non apro, “lui alla porta mi lascia un fiore” (Turoldo). So che tornerà, perché non dubita di me. Loro sì, dubitano, anche di se stessi. Ma i dubbi non hanno mai raffreddato il cuore di Dio.
L’ultima, la suprema pedagogia di Gesù è così semplice: “avvicinarsi sempre, confortare e incalzare”, sussurrare al cuore, e soprattutto stare insieme a loro: io sono con voi, tutti i giorni, anche davanti alle porte chiuse, quando ti ingoia la notte e quando ti pare di volare.
E poi l’invio: andate in tutto il mondo e annunciate.
Affida la fede e la parola di vita a discepoli che hanno un peso sul cuore, eppure: andate e battezzate, immergete ogni vita nell’oceano di vita.
Fatelo “nel nome del Padre”: amore in ogni amore; “nel nome del Figlio”: il più bello tra i nati di donna; “nel nome dello Spirito”: vento che ci fa tutti vento nel suo Vento.
I nomi che Gesù sceglie per dire la Trinità sono nomi di famiglia, di affetto, nomi che abbracciano. Perché Dio non è solitudine ma abbraccio, attrazione, incontro, connessione.
Come tutti i dogmi, anche quello della Trinità non è un freddo distillato di concetti, ma contiene la sapienza del vivere, la sapienza ultima sulla vita e sulla morte. Ed è questa: in principio a tutto, nell’infinito del cosmo e nel minimo del cuore, in cielo come sulla terra, sta una comunione; all’origine, un legame.
La Trinità è Dio che genera e presiede a ogni nascita. Infatti l’essere umano non è creato solo a immagine del Padre, ma anche a immagine del Figlio, volto alto e puro dell’uomo; e a immagine dello Spirito, respiro al primo Adamo.
Non siamo semplicemente a somiglianza di Dio, ma di più, a immagine e somiglianza della Trinità, sapienza del vivere e del generare.
Allora posso finalmente capire perché sto bene quando sono con chi mi vuole bene; posso capire perché sto male quando sono isolato e senza legami: è la mia natura profonda che si esprime, è la nostra divina origine che reclama e domanda di respirare, di ritornare intera, nell’abbraccio: “ci si abbraccia per ritornare interi” (A. Merini).
Io sono con voi fino alla fine. Non dimentichiamo mai questa frase, non lasciamola avvizzire. Sarò con voi, senza condizioni e senza clausole, dentro le solitudini e dentro l’amore, nel dolore e nella felicità, a fare storia nella vostra storia. Per questo il vangelo è affidato a undici pescatori illetterati, che non hanno capito molto di Gesù, ma lo hanno molto amato. Piccoli su quel monte, ma abbracciati, dentro un calore, un respiro, un vento in cui naviga, senza più ansia alcuna, l’intero creato.

il commento al vangelo della domenica

AL BALCONE DEL FUTURO

 il commento di  E. Ronchi al Vangelo della domenica di Pentecoste

 Gv 15,26-27; 16,12-15

 

Lo Spirito Santo altro non è che il Dio nomade e libero, che inventa, spalanca porte, soffia sulle vele, fa cose che non t’aspetti. Che dà a Maria un figlio fuorilegge, a Elisabetta un figlio profeta e agli apostoli il coraggio di uscire all’aperto dal luogo chiuso, dalla vita bloccata. Un Dio che non sopporta statistiche né schemi, non recinti di parole, neppure sacre: Dio in libertà.

Parola nuova che si offre al navigante come nostalgia di casa, e all’uomo chiuso in casa come nostalgia del mare aperto.

Le letture bibliche della festa raccontano lo Spirito di Dio attraverso quattro registri musicali che vanno dal mosso vivace della prima lettura al grave e profondo della seconda, ma sono semplici feritoie sul mistero.

La prima porta che lo Spirito abbatte è quella di una casa, il Cenacolo, dove l’aria è chiusa, dove manca luce. Il Libro degli Atti ci racconta di quel cinquantesimo giorno dopo Pasqua, quando gli Apostoli parlavano come “ebbri”, fuori di sé, storditi da qualcosa che li aveva presi come un capogiro, una vertigine violenta e felice.

E’ la prima chiesa, fino ad allora arroccata sulla difensiva, terrorizzata, che viene lanciata fuori, nella Gerusalemme ostile. E la nostra chiesa oggi, anch’essa amata e infedele, proprio perché al bivio di grandi cambiamenti, ancora custodisce in molti suoi figli questo slancio originario.

La seconda porta la apre il salmo, come una melodia che naviga e aleggia sul mondo: del tuo Spirito, Signore, è piena la terra (Sal 103).-

Il Vento di Dio riempie la terra della sua santità, avvolge le cose con la sua luce: e scopro la santità delle stelle e del filo d’erba, del bambino che nasce, del giovane che ama, dell’anziano che pensa. L’umile santità del bosco e della pietra.

La terza porta dello Spirito immette su altre cento: la lettera di Paolo introduce un’orchestra dove ciascuno canta la sua nota, ciascuno porta in dono l’unicità della sua vita, incalzato da uno Spirito che vuole discepoli geniali, non ripetitori di stanche melodie.

Tempo di semine, il nostro. Tempo della pazienza del seme nella terra.

Quando verrà lo Spirito, vi guiderà alla verità. Appare l’umiltà di Gesù che non pretende di avere l’ultima parola, ma parla della nostra storia con Dio, soltanto con verbi al futuro: lo Spirito verrà, annuncerà, guiderà, parlerà.

Pregare lo Spirito è come affacciarsi al balcone del futuro, che è la terra fertile e incolta della nostra speranza.

Abbiamo bisogno che ciascuno creda al proprio dono, alle proprie originalità, unicità e bellezza, che sono i bellissimi doni dello Spirito. Lui, il Vento santo che non mancherà mai al mio veliero. O alla mia piccola vela, che Dio ha fatto sorgere sul vuoto del mare:

la scuola della pace a Lucca chiede una tregua immediata

la scuola per la pace della provincia di Lucca:

“si lavori per una tregua immediata”

L’appello: “Indispensabile è anche l’immediata apertura di corridoi umanitari che consentano la salvaguardia dei diritti basilari per la popolazione civile”

 

“Dare voce al popolo della pace di fronte all’escalation bellica”. È questo, in strema sintesi, l’appello lanciato dalla scuola per la pace della provincia di Lucca, che scrive una lunga riflessione in seguito alle terribili notizie sul conflitto tra Hamas e Israele.

“Nel 2003 allo scoppio della guerra in Iraq il movimento pacifista occupò le piazze di tutto il mondo in modo tanto forte da meritare la definizione giornalistica di superpotenza mondiale. Preceduto nel 2001 dal Forum di Porto Alègre, a sua volta spinto dal Popolo di Seattle (1999), il movimento seppe organizzare dal basso una critica radicale della globalizzazione e una potente strategia alternativa di ampiezza mondiale. Seppero collaborare intellettuali, movimenti sociali, sindacati, minoranze di ogni genere e tipo su una piattaforma intergenerazionale, transnazionale e interculturale. Il movimento seppe condizionare i governi nazionali”.

“La guerra tra Russia e Ucraina ha definitivamente spaccato il movimento, già indebolito dalla pervasività delle forme decise dal mercato 4.0, nonché dalla destrutturazione sociale provocata dalla pandemia – proseguono -. Nel contempo è divenuto sempre più evidente che il nodo di tutti i conflitti (sociali, energetici, climatici) e dei loro effetti – che Porto Alègre denunciava già vent’anni fa – si è spostato in Europa. Bisogna riconoscere che la crisi dell’Unione Europea corrisponde alla crisi del modello politico ed economico occidentale: è la crisi dell’Occidente, la crisi della civiltà dei diritti. Ne consegue che è necessario rivedere le forme attraverso le quali si ridefiniscono il bisogno e la possibilità di politiche del pacifismo per rafforzare l’Europa e la civiltà dei diritti. L’Unione Europea non è una comunità, ma è diventata un campo da gioco per la competizione degli Stati: il primo pericolo per l’Europa sono i nazionalismi e i forti principi identitari che ormai guidano o condizionano i governi di diversi Paesi. Con la vittoria della globalizzazione economica neoliberista è fallito il progetto di estensione della liberal democrazia occidentale a livello mondiale: il mercato ha vinto sui diritti. La guerra in Ucraina ha svelato l’inconsistenza diplomatica dell’Unione Europea, un Occidente a trazione nordamericana in contrapposizione al fronte Russia-Cina. Il resto del mondo si posiziona secondo dinamiche sempre meno prevedibili, che tuttavia si innestano in contraddizioni mai sanate, come testimonia la crescente virulenza del conflitto tra Hamas e Israele: noi scegliamo di guardarlo con gli occhi delle vittime dei due opposti fanatismi integralisti che intrappolano la vita delle persone in un conflitto feroce dove pagano i civili e gli inermi. Né possiamo tacere davanti alle politiche oppressive e coercitive che dal 2007 costringono 2 milioni di palestinesi a vivere in assoluta povertà nella striscia di Gaza“.

“Il processo di decolonizzazione dell’Africa testimonia ulteriormente la debolezza dell’Unione Europea e al tempo stesso non lascia intravedere reali processi di emancipazione dei popoli – proseguono -. Sono cambiate le logiche militari: oggi è in atto una guerra tecnologica 4.0, che si affianca a una guerra reale combattuta e sofferta, fin qui limitata a un preciso scacchiere geopolitico che tuttavia si sta pericolosamente allargando. Cambiamenti climatici e guerre regionali spingono ondate migratorie sempre più imponenti, mettendo in evidenza un altro conflitto che si va inasprendo, quello tra ricchi e poveri su scala mondiale. Di fronte a tutto questo, la scuola per la pace della Provincia di Lucca si mette a disposizione per riattivare la comunicazione tra le reti associative e facilitarne le forme organizzative al fine di: rielaborare gli strumenti di analisi politica e le forme di azione in grado di influire sull’opinione pubblica e sulle istituzioni; uscire dalla pigrizia mentale e dai perimetri identitari, cercando nuove forme per mediare gli inevitabili conflitti; produrre una cultura che evita le semplificazioni e smaschera le mistificazioni – strutturare convergenze che diano corpo e spazio alla fiducia nell’azione politica per la giustizia sociale, ambientale, di genere/i e intergenerazionale”.

“Nel vivo del nuovo fronte di guerra appena aperto, l’ente Provincia di Lucca si impegna attraverso il presidente a farsi portavoce presso le istituzioni sovraordinate dell’appello per una tregua immediata del conflitto tra Hamas ed Israele, affinché si possano porre le basi di una reale mediazione tra le parti – concludono -. Indispensabile è anche l’immediata apertura di corridoi umanitari che consentano la salvaguardia dei diritti basilari per la popolazione civile”.

il commento al vangelo della domenica

la giustizia del Padre è dare il meglio a ciascuno


La giustizia del Padre è dare il meglio a ciascuno
il commento di E. Ronchi al vangelo della  XXV domenica del tempo ordinario – anno A
«Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”»(…)
Guardo la giornata con gli occhi degli ultimi, quelli seduti in piazza con gli strumenti del loro lavoro posati giù, inutili, che sentono di avere fallito la loro missione, quella di procurare il pane: chi si sente incapace di badare ai suoi figli sta male, sta molto male. La chiamata che arriva inattesa, illogica, che basterà forse a procurare un boccone soltanto, è accolta subito, senza accampare scuse e senza chiedere dettagli, si va’ e si fa. Il proprietario che esce all’alba in cerca di braccianti, avanti e indietro dal campo alla piazza, per cinque volte fino a che c’è luce. Il padrone è solo un’immagine consolatoria della nostra vita spirituale o può dire qualcosa in termini di giustizia e solidarietà? Così gli ultimi operai che nessuno vede nessuno chiama. Siamo vigna di Dio: fatica e passione, il campo più amato. La terra intera è vigna amata, con i suoi grappoli gonfi di miele e di sole, ma anche con le sue vendemmie di sangue. Pressato da qualcosa che non è il lavoro in vigna: che senso ha reclutare lavoratori quando resta un’ora di luce? Il tempo di arrivare alla vigna, di prende-re gli ordini dal fattore, e sarà subito buio. Rivelatrici le parole del padrone: Perché ve ne state qui, tutto il giorno senza fare niente? Quegli uomini inerti producono un vuoto, provocano una mancanza di senso, il giorno attorno a loro si ammala. Questo accade perché la maturità dell’uomo si realizza sempre in tre direzioni: saper amare, saper lavorare, saper gioire. Nessuno ha pensato agli ultimi, allora ci penserà lui, non per il suo ma per il loro interesse, per i loro bambini, come virgulti d’ulivo attorno alla mensa senza pane. Quel cercatore di braccia perdute si interessi più degli uomini, e della loro dignità, che non della sua vigna; più delle persone che del profitto. Un grande. Accompagniamo questi ultimi braccianti fino a sera, al momento clou della paga. Primo gesto spiazzante: sono loro, gli ultimi arrivati, ad essere chiamati per primi, quelli che hanno lavorato di meno. Secondo gesto che stravolge la logica: loro che hanno lavorato un’ora soltanto, per una frazione di giornata ricevono la paga di una giornata intera. E capiamo che non si tratta di una paga, ma di altro modo di abitare la terra e il cuore. Quando poi arriva il turno di quelli che hanno lavorato dodici ore, portato il peso del caldo e della fatica, si aspettano, giustamente, pregustano un supplemento di paga. Ed eccoci spiazzati ancora. La paga è la stessa: «Non è giusto» protestano. È vero: non è giusto. Ma il padrone buono non sa nulla della giustizia, lui è generoso. Neppure l’amore è giusto, è di più. La giustizia non basta per essere uomini, tantomeno per essere Dio. Alla loro delusione risponde: No, amico, non ti faccio torto. Il padrone non toglie nulla ai primi, aggiunge agli ultimi. Non sottrae nulla, dona. Non è ingiusto, ma generoso. E crea una vertigine dentro il nostro modo mercantile di concepire la vita, sopra l’economia di mercato stende l’economia del dono: l’uomo più povero, senza contratto, viene messo prima del contratto di lavoro. La giustizia umana è dare a ciascuno il suo, quella di Dio è dare a ciascuno il meglio. Nessun imprenditore farebbe così. Ma Dio non lo è; non un imprenditore, non il contabile dei meriti, lui è il Donatore, che non sa far di conto, ma che sa saziarci di sorprese. Ti dispiace che io sia buono? No, Signore, non mi dispiace affatto, perché sono l’ultimo bracciante, perché so che uscirai a cercarmi ancora, anche nell’ultima luce.
(Letture: Isaia 55,6-9; Salmo 144: Filippesi 1,20c-24.27a; Matteo 20,1-16) 

il commento al vangelo della domenica

 Gesù cerca seguaci vivi e coraggiosi per seguirlo

il commento di E. Ronchi al vangelo della ventiduesima domenica del tempo ordinario anno A

In quel tempo (…). Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!». (…)

Un avvio così leggero e liberante: se vuoi venire dietro a me. Se vuoi: farai come vorrai, andrai o non andrai con lui, il maestro degli uomini liberi, nessuna imposizione. Ma le condizioni sono da vertigine. La prima: rinnegare se stessi. Un verbo pericoloso se capito male. Non significa annullarsi, diventare sbiadito o incolore. Il maestro non vuole dei frustrati al suo seguito, ma gente dai talenti realizzati, seguaci vivi e coraggiosi. Lo Spirito cerca e crea discepoli geniali. Rinnegare se stesso significa: non sei tu il centro dell’universo, della famiglia, della comunità, e tutti a servirti per darti le gratificazioni di cui hai bisogno. Rinnega la concupiscenza di essere un Narciso allo specchio: tu sei il filo di un meraviglioso arazzo, piccolo, unico, insostituibile. Martin Buber riassume così il cammino dell’uomo: “a partire da me, ma non per me”. Perché chi guarda solo a se stesso non si illumina mai. La seconda condizione: prendere la propria croce. Immagine che abita gli occhi di tutti, che pende al collo di molti, che segna vette di monti, incroci, campanili, ambulanze, che abita i discorsi come sinonimo di disgrazie e di morte. Ma il suo senso profondo è altro. Per Gesù, è il luogo del dolore e dell’amore, incrocio delle più grandi passioni, nel doppio significato di appassionarsi e di patire. Sostituiamo la parola ‘croce’ con la parola ‘amo-re’, e la frase diventa: chi vuole venire con me, prenda tutto il “suo” amore, tutto quello di cui è capace, e mi segua. Viva e ami, come me, quelle cose che meritano di non morire, a partire da sé ma non per sé, e troverà una vita indistruttibile. Prendi su di te tutto l’amore di cui sei capace e poi prendi anche il dolore che ogni amore comporta, perché dove metti il tuo cuore, là troverai anche le tue ferite e le tue spine. Trasforma la ferita in benedizione. Gesù non sogna uno sterminato corteo di gente con la croce addosso, ma l’immenso pellegrinaggio verso più vita. Chi vuole salvare la propria vita…. La vita si salva come si salva un tesoro, spendendolo. Se chiudi le porte, la tristezza non può uscire e la gioia non può entrare. La vita ama le porte aperte, non la puoi possedere o fermare, deve scorrere; tutto scorre nell’universo, astri, pianeti, fiumi, uccelli migratori, sangue, nessun filo spinato può fermare il vento. La vita se si ferma, si ammala. Allora cammina la vita con me. Gesù riesce a far sentire le persone più grandi e più preziose e feconde di quello che gli altri pensano, di quello che loro stesse pensano; libera le forze imprigionate dentro, le ricchezze addormentate in loro, è il risvegliatore della vita profonda, come nessun altro sa fare.

(Letture: Geremia 20,7-9; Salmo 62; Romani 12,1-2; Matteo 16,21-27)

la fede e il ‘catechismo femminista’ di Michela Murgia

la ricerca e la fede

 Michela Murgia e quella sete di assoluto


di Alessandro Zaccuri 

Era credente, e non ne aveva mai fatto mistero. Non le dispiaceva definirsi “teologa”. La sua simpatia per papa Francesco non aveva niente di ideologico. Il ricordo di chi l’ha conosciuta da vicino

La scrittrice Michela Murgia

L’ultima volta che ci siamo visti, Michela Murgia aveva appena donato a papa Francesco una copia della rivista di cui era stata direttrice per un solo numero. In copertina c’era lei, elegantissima e sorridente come sempre appariva da quando, nel maggio scorso, aveva deciso di rendere pubblica la fase terminale della sua malattia. “Aspetta, ho bisogno di appoggiarmi un attimo”, aveva detto mentre cercava uno sgabello. Era affaticata ma orgogliosa: di quel giornale che era diventato un manifesto delle sue convinzioni (“La famiglia è di tutti”, annunciava il titolo principale) e del fatto di averlo potuto consegnare nelle mani del Papa che proprio lei, conosciuta come iconoclasta, aveva difeso dalle accuse piovutegli addosso all’indomani dell’elezione (a proposito di titoli, quel “Bergoglio e pregiudizio” scelto per sintetizzare le sue posizioni resta memorabile).

Michela Murgia era credente e non ne aveva mai fatto mistero. Fin dal suo libro di esordio, Il mondo deve sapere del 2006, non le dispiaceva definirsi teologa, una qualifica poi rivendicata in modo militante attraverso i suoi saggi, in particolare Ave Mary del 2011 e il controverso “catechismo femminista” God Save The Queer del 2022. Non erano mere provocazioni, anche se come tali si è cercato di farle passare. Tutto sommato, anche a Michela Murgia sarebbe convenuto metterla sul piano del paradosso intellettuale, dell’esagerazione argomentativa. Alla peggio, la si poteva buttare in politica, che in certi casi è il modo migliore per chiudere il discorso. Il punto è che la narratrice di Accabadora (il suo libro più celebre e compiuto, pervaso da un’incombenza del sacro per la quale è difficile trovare corrispettivi nella recente letteratura italiana) non si limitava a essere orgogliosa. Era anche una persona esigente, con gli altri e con sé stessa, con la propria scrittura e con le proprie convinzioni, sempre messe alla prova. Prendeva sul serio la fede e proprio per questo si aspettava molto dalla Chiesa.  

La sua simpatia nei confronti di Francesco non aveva niente di ideologico. Era la condivisione intima e istintiva di una dottrina della misericordia dalla quale nessuno, per nessun motivo, può sentirsi escluso. Su questi, che erano i temi che più le stavano a cuore, sapeva essere polemica come sono a volte gli adolescenti, che alzano la voce e sbattono le porte solo per essere sicuri di essere amati nonostante tutto, senza condizioni. A volte esagerano, d’accordo, ma hanno dalla loro la certezza che un amore che ponga condizioni semplicemente non è amore.

Di tutto il resto si può discutere, ma a questo desiderio di assolutezza non si può né si deve aggiungere nulla. “Ho bisogno di appoggiarmi un attimo”, diceva Michela Murgia l’ultima volta che ci siamo visti. Ne abbiamo bisogno tutti, sempre, solo che spesso non abbiamo il coraggio di ammetterlo. Lei, invece, non ha voluto nascondere la sua fragilità finale. “Voglio andare avanti così, fino alla fine”, ripeteva. “Riesco a scrivere solo quando mi sento minacciata, quando il cuore mi impazzisce per la paura”, aveva confidato in un’altra occasione. Non so se fosse intenzionale, ma stava citando san Paolo, Seconda lettera ai Corinzi, “quando sono debole, è allora che sono forte”. È una bella definizione della fede. Senz’altro, è la definizione migliore per la fede di Michela Murgia, che sorrideva al Papa e si aspettava tanto – tutto – dalla Chiesa.

il commento al vangelo della domenica

trasfigurazione del Signore
il commento di don Pietro Guzzetti  al vangelo della domenica 6 agosto 2023

Il Vangelo di questa domenica ci racconta del momento in cui Gesù si è trasfigurato davanti a tre dei suoi discepoli: Pietro, Giacomo e Giovanni. Questi tre amici del Signore sono gli stessi che sono stati invitati a restare al suo fianco in altri passaggi forti della vita di Gesù, pensiamo al tempo doloroso e difficile nel Getsemani poco prima della Passione. Questo dettaglio ci fa comprendere l’importanza di ciò a cui assistono i tre discepoli e la difficoltà di comprendere correttamente la Trasfigurazione stessa. La scena si svolge in disparte e con un ristretto gruppo di discepoli, gli amici più intimi.

L’aspetto del Signore cambia, il suo volto diventa luminoso e appaiono al suo fianco Mosè ed Elia. Di fronte a questi grandi segni possiamo solo immaginare lo stupore dei discepoli, che come inebetiti restano muti, solo Pietro – forse senza rendersi conto delle sue stesse parole – dice: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Di fronte a questa proposta si oppongono le parole di Gesù: «Alzatevi e non temete». Non è possibile né corretto restare isolati in contemplazione di questa visione straordinaria, bisogna tornare in mezzo agli altri, proseguire il cammino, anche quando tutto ciò vuol dire affrontare la propria Passione e morte.

Fermiamoci a riflettere su questo aspetto: ci sono momenti nel cammino di ciascuno di noi, in cui si vivono forti esperienze a livello spirituale o di fede, penso a pellegrinaggio oppure ritiri o esercizi spirituali. Lo stare bene e in pace in quei giorni non deve diventare giustificazione per cercare di protrarre il più a lungo possibile quei contesti straordinari; bisogna piuttosto far tesoro di ciò che si è vissuto per cambiare e rafforzare il nostro impegno di cristiani nel cammino quotidiano, nelle situazioni ordinarie, nelle relazioni che viviamo tutti i giorni. La grazia da parte di Dio di farci sentire in maniera forte la sua presenza in alcune tappe della vita, deve essere occasione di trasfigurare la nostra per avvicinarla al modello di suo Figlio.

Nel passo della Trasfigurazione, una voce dal cielo rivela l’identità di Gesù: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». Ciò che i discepoli avevano solo intuito, senza comprenderlo appieno, viene rivelato da Dio stesso: essi sono chiamati ad ascoltare Gesù, lo avevano già seguito, eppure gli viene chiesto di rinnovare il loro ascolto, di vivere un ascolto nuovo, vero, attento. Solo attraverso questo nuovo ascolto i discepoli avranno la capacità di comprendere cosa di lì a poco sarebbe accaduto, il manifestarsi della regalità di Cristo e della sua vittoria sulla morte, passandoci attraverso. Anche noi abbiamo bisogno di migliorare sempre più il nostro ascolto del Signore: col tempo può capitare di appiattire la Parola allo stesso livello delle parole che ci sommergono, di travisare le sue parole in base alle nostre aspettative e desideri.

Questa festa della Trasfigurazione sia occasione per trasformare la nostra persona, lasciandoci illuminare dalla luce di Cristo che salva e conduce a Lui.

i lager a cielo aperto dei nostri tempi con l’avallo dell’Europa

TUNISI

Seduto in prima fila in uno degli scranni dell’Assemblea dei rappresentanti del popolo, il ministro degli Interni tunisino Kamel Feki ha il volto sereno ed è pronto a rispondere alle domande del parlamento sulla situazione migratoria nel Paese. È il 27 luglio scorso e al centro dell’attenzione ci sono le immagini provenienti dal confine con la Libia e l’Algeria, dove da quasi un mese si registrano deportazioni di massa nei confronti della popolazione subsahariana e del Sudan. Persone che vengono arrestate a Sfax, seconda città della Tunisia e uno dei punti principali delle partenze lungo il Mediterraneo, e lasciate a loro stesse senza acqua e cibo in zone militari e inaccessibili dopo essere state picchiate o avere subito violenze di ogni tipo da parte delle forze di sicurezza locali. Le ricostruzioni più recenti parlano di 1200 persone espulse verso la frontiera algerina e libica

Soprannominato Stalin in patria solo per una netta somiglianza fisica con l’ex Segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica, le parole del ministro sono precise e puntuali: «Quelle immagini sono false. Lo dico e lo ripeto perché abbiamo le prove. È stato tutto fabbricato a monte e gli autori di quelle foto sono sorvegliati con audio e video».

Tuttavia sono parole che oggi possono essere smentite facilmente. In collaborazione con PlaceMarks, un progetto specializzato in ricerca e analisi di immagini satellitari, La Stampa ha ricostruito quanto sta avvenendo al confine con la Libia grazie a una serie di foto risalenti al 14 luglio. Due giorni prima della firma del memorandum d’intesa da un miliardo di euro tra Tunisia e Unione europea alla presenza della Commissaria Ue Ursula von der Leyen, la premier Giorgia Meloni e il primo ministro olandese Mark Rutte. Nelle stesse ore in cui in vista della visita del 16 luglio a Tunisi la portavoce di Bruxelles Dana Spinant affermava che «la gestione dei migranti deve essere sempre svolta nel rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani».

Le immagini parlano chiaro. Si vedono almeno tre accampamenti di fortuna, di cui uno sembra essere costruito con una gabbia di ferro per gli allevamenti ittici, e un grande assembramento di persone, almeno 300, controllate a vista da alcuni mezzi militari tunisini e libici. A poche centinaia di metri di distanza si possono notare altri quattro mezzi della guardia di frontiera tunisina. Posizionati lungo un fossato costruito fra il 2014 e il 2018 per delimitare in maniera ancora più netta il confine, uno di questi è dotato di un mitragliatore o un cannone. «Da un’analisi storica dell’area si può affermare che lo scenario al confine tra Tunisia e Libia è qualcosa di completamente nuovo. Gli assembramenti e gli accampamenti prima non esistevano, mentre la presenza di militari in assetto di pattugliamento non è mai stata registrata in nessuna delle immagini disponibili, dal 2006 a marzo 2023», spiega Federico Monica di Placemarks.

Da queste istantanee prendono ancora più forza le testimonianze di chi in quella terra di nessuno ha vissuto per giorni senza acqua e cibo. Un limbo accessibile solo alla Croce rossa tunisina, impegnata in questi giorni a prelevare le persone per portarle in altri luoghi della Tunisia. Altri salvataggi sono stati compiuti dalle cosiddette autorità libiche, interessate a mostrare il volto più accogliente al netto di numerose denunce internazionali sul mancato rispetto dei diritti umani.

Sono testimonianze che raccontano di migranti, studenti, lavoratori, donne incinte, bambini e neonati che si sono visti privare tutto con la violenza; picchiati dalle autorità con mazze di ferro e bastoni, caricati su dei pullman e gettati senza risposte verso la Libia e l’Algeria. Per chi tentava di rientrare in Tunisia, ad attenderlo c’erano gas lacrimogeni e proiettili.Se l’Oim e l’Unhcr hanno emanato un comunicato per sollecitare un intervento a tutela di queste persone, Bruxelles sembra più concentrata sui numeri dei migranti in arrivo dal piccolo Stato nordafricano.

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