la scuola della pace a Lucca chiede una tregua immediata

la scuola per la pace della provincia di Lucca:

“si lavori per una tregua immediata”

L’appello: “Indispensabile è anche l’immediata apertura di corridoi umanitari che consentano la salvaguardia dei diritti basilari per la popolazione civile”

 

“Dare voce al popolo della pace di fronte all’escalation bellica”. È questo, in strema sintesi, l’appello lanciato dalla scuola per la pace della provincia di Lucca, che scrive una lunga riflessione in seguito alle terribili notizie sul conflitto tra Hamas e Israele.

“Nel 2003 allo scoppio della guerra in Iraq il movimento pacifista occupò le piazze di tutto il mondo in modo tanto forte da meritare la definizione giornalistica di superpotenza mondiale. Preceduto nel 2001 dal Forum di Porto Alègre, a sua volta spinto dal Popolo di Seattle (1999), il movimento seppe organizzare dal basso una critica radicale della globalizzazione e una potente strategia alternativa di ampiezza mondiale. Seppero collaborare intellettuali, movimenti sociali, sindacati, minoranze di ogni genere e tipo su una piattaforma intergenerazionale, transnazionale e interculturale. Il movimento seppe condizionare i governi nazionali”.

“La guerra tra Russia e Ucraina ha definitivamente spaccato il movimento, già indebolito dalla pervasività delle forme decise dal mercato 4.0, nonché dalla destrutturazione sociale provocata dalla pandemia – proseguono -. Nel contempo è divenuto sempre più evidente che il nodo di tutti i conflitti (sociali, energetici, climatici) e dei loro effetti – che Porto Alègre denunciava già vent’anni fa – si è spostato in Europa. Bisogna riconoscere che la crisi dell’Unione Europea corrisponde alla crisi del modello politico ed economico occidentale: è la crisi dell’Occidente, la crisi della civiltà dei diritti. Ne consegue che è necessario rivedere le forme attraverso le quali si ridefiniscono il bisogno e la possibilità di politiche del pacifismo per rafforzare l’Europa e la civiltà dei diritti. L’Unione Europea non è una comunità, ma è diventata un campo da gioco per la competizione degli Stati: il primo pericolo per l’Europa sono i nazionalismi e i forti principi identitari che ormai guidano o condizionano i governi di diversi Paesi. Con la vittoria della globalizzazione economica neoliberista è fallito il progetto di estensione della liberal democrazia occidentale a livello mondiale: il mercato ha vinto sui diritti. La guerra in Ucraina ha svelato l’inconsistenza diplomatica dell’Unione Europea, un Occidente a trazione nordamericana in contrapposizione al fronte Russia-Cina. Il resto del mondo si posiziona secondo dinamiche sempre meno prevedibili, che tuttavia si innestano in contraddizioni mai sanate, come testimonia la crescente virulenza del conflitto tra Hamas e Israele: noi scegliamo di guardarlo con gli occhi delle vittime dei due opposti fanatismi integralisti che intrappolano la vita delle persone in un conflitto feroce dove pagano i civili e gli inermi. Né possiamo tacere davanti alle politiche oppressive e coercitive che dal 2007 costringono 2 milioni di palestinesi a vivere in assoluta povertà nella striscia di Gaza“.

“Il processo di decolonizzazione dell’Africa testimonia ulteriormente la debolezza dell’Unione Europea e al tempo stesso non lascia intravedere reali processi di emancipazione dei popoli – proseguono -. Sono cambiate le logiche militari: oggi è in atto una guerra tecnologica 4.0, che si affianca a una guerra reale combattuta e sofferta, fin qui limitata a un preciso scacchiere geopolitico che tuttavia si sta pericolosamente allargando. Cambiamenti climatici e guerre regionali spingono ondate migratorie sempre più imponenti, mettendo in evidenza un altro conflitto che si va inasprendo, quello tra ricchi e poveri su scala mondiale. Di fronte a tutto questo, la scuola per la pace della Provincia di Lucca si mette a disposizione per riattivare la comunicazione tra le reti associative e facilitarne le forme organizzative al fine di: rielaborare gli strumenti di analisi politica e le forme di azione in grado di influire sull’opinione pubblica e sulle istituzioni; uscire dalla pigrizia mentale e dai perimetri identitari, cercando nuove forme per mediare gli inevitabili conflitti; produrre una cultura che evita le semplificazioni e smaschera le mistificazioni – strutturare convergenze che diano corpo e spazio alla fiducia nell’azione politica per la giustizia sociale, ambientale, di genere/i e intergenerazionale”.

“Nel vivo del nuovo fronte di guerra appena aperto, l’ente Provincia di Lucca si impegna attraverso il presidente a farsi portavoce presso le istituzioni sovraordinate dell’appello per una tregua immediata del conflitto tra Hamas ed Israele, affinché si possano porre le basi di una reale mediazione tra le parti – concludono -. Indispensabile è anche l’immediata apertura di corridoi umanitari che consentano la salvaguardia dei diritti basilari per la popolazione civile”.

il commento al vangelo della domenica

la giustizia del Padre è dare il meglio a ciascuno


La giustizia del Padre è dare il meglio a ciascuno
il commento di E. Ronchi al vangelo della  XXV domenica del tempo ordinario – anno A
«Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”»(…)
Guardo la giornata con gli occhi degli ultimi, quelli seduti in piazza con gli strumenti del loro lavoro posati giù, inutili, che sentono di avere fallito la loro missione, quella di procurare il pane: chi si sente incapace di badare ai suoi figli sta male, sta molto male. La chiamata che arriva inattesa, illogica, che basterà forse a procurare un boccone soltanto, è accolta subito, senza accampare scuse e senza chiedere dettagli, si va’ e si fa. Il proprietario che esce all’alba in cerca di braccianti, avanti e indietro dal campo alla piazza, per cinque volte fino a che c’è luce. Il padrone è solo un’immagine consolatoria della nostra vita spirituale o può dire qualcosa in termini di giustizia e solidarietà? Così gli ultimi operai che nessuno vede nessuno chiama. Siamo vigna di Dio: fatica e passione, il campo più amato. La terra intera è vigna amata, con i suoi grappoli gonfi di miele e di sole, ma anche con le sue vendemmie di sangue. Pressato da qualcosa che non è il lavoro in vigna: che senso ha reclutare lavoratori quando resta un’ora di luce? Il tempo di arrivare alla vigna, di prende-re gli ordini dal fattore, e sarà subito buio. Rivelatrici le parole del padrone: Perché ve ne state qui, tutto il giorno senza fare niente? Quegli uomini inerti producono un vuoto, provocano una mancanza di senso, il giorno attorno a loro si ammala. Questo accade perché la maturità dell’uomo si realizza sempre in tre direzioni: saper amare, saper lavorare, saper gioire. Nessuno ha pensato agli ultimi, allora ci penserà lui, non per il suo ma per il loro interesse, per i loro bambini, come virgulti d’ulivo attorno alla mensa senza pane. Quel cercatore di braccia perdute si interessi più degli uomini, e della loro dignità, che non della sua vigna; più delle persone che del profitto. Un grande. Accompagniamo questi ultimi braccianti fino a sera, al momento clou della paga. Primo gesto spiazzante: sono loro, gli ultimi arrivati, ad essere chiamati per primi, quelli che hanno lavorato di meno. Secondo gesto che stravolge la logica: loro che hanno lavorato un’ora soltanto, per una frazione di giornata ricevono la paga di una giornata intera. E capiamo che non si tratta di una paga, ma di altro modo di abitare la terra e il cuore. Quando poi arriva il turno di quelli che hanno lavorato dodici ore, portato il peso del caldo e della fatica, si aspettano, giustamente, pregustano un supplemento di paga. Ed eccoci spiazzati ancora. La paga è la stessa: «Non è giusto» protestano. È vero: non è giusto. Ma il padrone buono non sa nulla della giustizia, lui è generoso. Neppure l’amore è giusto, è di più. La giustizia non basta per essere uomini, tantomeno per essere Dio. Alla loro delusione risponde: No, amico, non ti faccio torto. Il padrone non toglie nulla ai primi, aggiunge agli ultimi. Non sottrae nulla, dona. Non è ingiusto, ma generoso. E crea una vertigine dentro il nostro modo mercantile di concepire la vita, sopra l’economia di mercato stende l’economia del dono: l’uomo più povero, senza contratto, viene messo prima del contratto di lavoro. La giustizia umana è dare a ciascuno il suo, quella di Dio è dare a ciascuno il meglio. Nessun imprenditore farebbe così. Ma Dio non lo è; non un imprenditore, non il contabile dei meriti, lui è il Donatore, che non sa far di conto, ma che sa saziarci di sorprese. Ti dispiace che io sia buono? No, Signore, non mi dispiace affatto, perché sono l’ultimo bracciante, perché so che uscirai a cercarmi ancora, anche nell’ultima luce.
(Letture: Isaia 55,6-9; Salmo 144: Filippesi 1,20c-24.27a; Matteo 20,1-16) 

il commento al vangelo della domenica

 Gesù cerca seguaci vivi e coraggiosi per seguirlo

il commento di E. Ronchi al vangelo della ventiduesima domenica del tempo ordinario anno A

In quel tempo (…). Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!». (…)

Un avvio così leggero e liberante: se vuoi venire dietro a me. Se vuoi: farai come vorrai, andrai o non andrai con lui, il maestro degli uomini liberi, nessuna imposizione. Ma le condizioni sono da vertigine. La prima: rinnegare se stessi. Un verbo pericoloso se capito male. Non significa annullarsi, diventare sbiadito o incolore. Il maestro non vuole dei frustrati al suo seguito, ma gente dai talenti realizzati, seguaci vivi e coraggiosi. Lo Spirito cerca e crea discepoli geniali. Rinnegare se stesso significa: non sei tu il centro dell’universo, della famiglia, della comunità, e tutti a servirti per darti le gratificazioni di cui hai bisogno. Rinnega la concupiscenza di essere un Narciso allo specchio: tu sei il filo di un meraviglioso arazzo, piccolo, unico, insostituibile. Martin Buber riassume così il cammino dell’uomo: “a partire da me, ma non per me”. Perché chi guarda solo a se stesso non si illumina mai. La seconda condizione: prendere la propria croce. Immagine che abita gli occhi di tutti, che pende al collo di molti, che segna vette di monti, incroci, campanili, ambulanze, che abita i discorsi come sinonimo di disgrazie e di morte. Ma il suo senso profondo è altro. Per Gesù, è il luogo del dolore e dell’amore, incrocio delle più grandi passioni, nel doppio significato di appassionarsi e di patire. Sostituiamo la parola ‘croce’ con la parola ‘amo-re’, e la frase diventa: chi vuole venire con me, prenda tutto il “suo” amore, tutto quello di cui è capace, e mi segua. Viva e ami, come me, quelle cose che meritano di non morire, a partire da sé ma non per sé, e troverà una vita indistruttibile. Prendi su di te tutto l’amore di cui sei capace e poi prendi anche il dolore che ogni amore comporta, perché dove metti il tuo cuore, là troverai anche le tue ferite e le tue spine. Trasforma la ferita in benedizione. Gesù non sogna uno sterminato corteo di gente con la croce addosso, ma l’immenso pellegrinaggio verso più vita. Chi vuole salvare la propria vita…. La vita si salva come si salva un tesoro, spendendolo. Se chiudi le porte, la tristezza non può uscire e la gioia non può entrare. La vita ama le porte aperte, non la puoi possedere o fermare, deve scorrere; tutto scorre nell’universo, astri, pianeti, fiumi, uccelli migratori, sangue, nessun filo spinato può fermare il vento. La vita se si ferma, si ammala. Allora cammina la vita con me. Gesù riesce a far sentire le persone più grandi e più preziose e feconde di quello che gli altri pensano, di quello che loro stesse pensano; libera le forze imprigionate dentro, le ricchezze addormentate in loro, è il risvegliatore della vita profonda, come nessun altro sa fare.

(Letture: Geremia 20,7-9; Salmo 62; Romani 12,1-2; Matteo 16,21-27)

la fede e il ‘catechismo femminista’ di Michela Murgia

la ricerca e la fede

 Michela Murgia e quella sete di assoluto


di Alessandro Zaccuri 

Era credente, e non ne aveva mai fatto mistero. Non le dispiaceva definirsi “teologa”. La sua simpatia per papa Francesco non aveva niente di ideologico. Il ricordo di chi l’ha conosciuta da vicino

La scrittrice Michela Murgia

L’ultima volta che ci siamo visti, Michela Murgia aveva appena donato a papa Francesco una copia della rivista di cui era stata direttrice per un solo numero. In copertina c’era lei, elegantissima e sorridente come sempre appariva da quando, nel maggio scorso, aveva deciso di rendere pubblica la fase terminale della sua malattia. “Aspetta, ho bisogno di appoggiarmi un attimo”, aveva detto mentre cercava uno sgabello. Era affaticata ma orgogliosa: di quel giornale che era diventato un manifesto delle sue convinzioni (“La famiglia è di tutti”, annunciava il titolo principale) e del fatto di averlo potuto consegnare nelle mani del Papa che proprio lei, conosciuta come iconoclasta, aveva difeso dalle accuse piovutegli addosso all’indomani dell’elezione (a proposito di titoli, quel “Bergoglio e pregiudizio” scelto per sintetizzare le sue posizioni resta memorabile).

Michela Murgia era credente e non ne aveva mai fatto mistero. Fin dal suo libro di esordio, Il mondo deve sapere del 2006, non le dispiaceva definirsi teologa, una qualifica poi rivendicata in modo militante attraverso i suoi saggi, in particolare Ave Mary del 2011 e il controverso “catechismo femminista” God Save The Queer del 2022. Non erano mere provocazioni, anche se come tali si è cercato di farle passare. Tutto sommato, anche a Michela Murgia sarebbe convenuto metterla sul piano del paradosso intellettuale, dell’esagerazione argomentativa. Alla peggio, la si poteva buttare in politica, che in certi casi è il modo migliore per chiudere il discorso. Il punto è che la narratrice di Accabadora (il suo libro più celebre e compiuto, pervaso da un’incombenza del sacro per la quale è difficile trovare corrispettivi nella recente letteratura italiana) non si limitava a essere orgogliosa. Era anche una persona esigente, con gli altri e con sé stessa, con la propria scrittura e con le proprie convinzioni, sempre messe alla prova. Prendeva sul serio la fede e proprio per questo si aspettava molto dalla Chiesa.  

La sua simpatia nei confronti di Francesco non aveva niente di ideologico. Era la condivisione intima e istintiva di una dottrina della misericordia dalla quale nessuno, per nessun motivo, può sentirsi escluso. Su questi, che erano i temi che più le stavano a cuore, sapeva essere polemica come sono a volte gli adolescenti, che alzano la voce e sbattono le porte solo per essere sicuri di essere amati nonostante tutto, senza condizioni. A volte esagerano, d’accordo, ma hanno dalla loro la certezza che un amore che ponga condizioni semplicemente non è amore.

Di tutto il resto si può discutere, ma a questo desiderio di assolutezza non si può né si deve aggiungere nulla. “Ho bisogno di appoggiarmi un attimo”, diceva Michela Murgia l’ultima volta che ci siamo visti. Ne abbiamo bisogno tutti, sempre, solo che spesso non abbiamo il coraggio di ammetterlo. Lei, invece, non ha voluto nascondere la sua fragilità finale. “Voglio andare avanti così, fino alla fine”, ripeteva. “Riesco a scrivere solo quando mi sento minacciata, quando il cuore mi impazzisce per la paura”, aveva confidato in un’altra occasione. Non so se fosse intenzionale, ma stava citando san Paolo, Seconda lettera ai Corinzi, “quando sono debole, è allora che sono forte”. È una bella definizione della fede. Senz’altro, è la definizione migliore per la fede di Michela Murgia, che sorrideva al Papa e si aspettava tanto – tutto – dalla Chiesa.

il commento al vangelo della domenica

trasfigurazione del Signore
il commento di don Pietro Guzzetti  al vangelo della domenica 6 agosto 2023

Il Vangelo di questa domenica ci racconta del momento in cui Gesù si è trasfigurato davanti a tre dei suoi discepoli: Pietro, Giacomo e Giovanni. Questi tre amici del Signore sono gli stessi che sono stati invitati a restare al suo fianco in altri passaggi forti della vita di Gesù, pensiamo al tempo doloroso e difficile nel Getsemani poco prima della Passione. Questo dettaglio ci fa comprendere l’importanza di ciò a cui assistono i tre discepoli e la difficoltà di comprendere correttamente la Trasfigurazione stessa. La scena si svolge in disparte e con un ristretto gruppo di discepoli, gli amici più intimi.

L’aspetto del Signore cambia, il suo volto diventa luminoso e appaiono al suo fianco Mosè ed Elia. Di fronte a questi grandi segni possiamo solo immaginare lo stupore dei discepoli, che come inebetiti restano muti, solo Pietro – forse senza rendersi conto delle sue stesse parole – dice: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Di fronte a questa proposta si oppongono le parole di Gesù: «Alzatevi e non temete». Non è possibile né corretto restare isolati in contemplazione di questa visione straordinaria, bisogna tornare in mezzo agli altri, proseguire il cammino, anche quando tutto ciò vuol dire affrontare la propria Passione e morte.

Fermiamoci a riflettere su questo aspetto: ci sono momenti nel cammino di ciascuno di noi, in cui si vivono forti esperienze a livello spirituale o di fede, penso a pellegrinaggio oppure ritiri o esercizi spirituali. Lo stare bene e in pace in quei giorni non deve diventare giustificazione per cercare di protrarre il più a lungo possibile quei contesti straordinari; bisogna piuttosto far tesoro di ciò che si è vissuto per cambiare e rafforzare il nostro impegno di cristiani nel cammino quotidiano, nelle situazioni ordinarie, nelle relazioni che viviamo tutti i giorni. La grazia da parte di Dio di farci sentire in maniera forte la sua presenza in alcune tappe della vita, deve essere occasione di trasfigurare la nostra per avvicinarla al modello di suo Figlio.

Nel passo della Trasfigurazione, una voce dal cielo rivela l’identità di Gesù: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». Ciò che i discepoli avevano solo intuito, senza comprenderlo appieno, viene rivelato da Dio stesso: essi sono chiamati ad ascoltare Gesù, lo avevano già seguito, eppure gli viene chiesto di rinnovare il loro ascolto, di vivere un ascolto nuovo, vero, attento. Solo attraverso questo nuovo ascolto i discepoli avranno la capacità di comprendere cosa di lì a poco sarebbe accaduto, il manifestarsi della regalità di Cristo e della sua vittoria sulla morte, passandoci attraverso. Anche noi abbiamo bisogno di migliorare sempre più il nostro ascolto del Signore: col tempo può capitare di appiattire la Parola allo stesso livello delle parole che ci sommergono, di travisare le sue parole in base alle nostre aspettative e desideri.

Questa festa della Trasfigurazione sia occasione per trasformare la nostra persona, lasciandoci illuminare dalla luce di Cristo che salva e conduce a Lui.

i lager a cielo aperto dei nostri tempi con l’avallo dell’Europa

TUNISI

Seduto in prima fila in uno degli scranni dell’Assemblea dei rappresentanti del popolo, il ministro degli Interni tunisino Kamel Feki ha il volto sereno ed è pronto a rispondere alle domande del parlamento sulla situazione migratoria nel Paese. È il 27 luglio scorso e al centro dell’attenzione ci sono le immagini provenienti dal confine con la Libia e l’Algeria, dove da quasi un mese si registrano deportazioni di massa nei confronti della popolazione subsahariana e del Sudan. Persone che vengono arrestate a Sfax, seconda città della Tunisia e uno dei punti principali delle partenze lungo il Mediterraneo, e lasciate a loro stesse senza acqua e cibo in zone militari e inaccessibili dopo essere state picchiate o avere subito violenze di ogni tipo da parte delle forze di sicurezza locali. Le ricostruzioni più recenti parlano di 1200 persone espulse verso la frontiera algerina e libica

Soprannominato Stalin in patria solo per una netta somiglianza fisica con l’ex Segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica, le parole del ministro sono precise e puntuali: «Quelle immagini sono false. Lo dico e lo ripeto perché abbiamo le prove. È stato tutto fabbricato a monte e gli autori di quelle foto sono sorvegliati con audio e video».

Tuttavia sono parole che oggi possono essere smentite facilmente. In collaborazione con PlaceMarks, un progetto specializzato in ricerca e analisi di immagini satellitari, La Stampa ha ricostruito quanto sta avvenendo al confine con la Libia grazie a una serie di foto risalenti al 14 luglio. Due giorni prima della firma del memorandum d’intesa da un miliardo di euro tra Tunisia e Unione europea alla presenza della Commissaria Ue Ursula von der Leyen, la premier Giorgia Meloni e il primo ministro olandese Mark Rutte. Nelle stesse ore in cui in vista della visita del 16 luglio a Tunisi la portavoce di Bruxelles Dana Spinant affermava che «la gestione dei migranti deve essere sempre svolta nel rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani».

Le immagini parlano chiaro. Si vedono almeno tre accampamenti di fortuna, di cui uno sembra essere costruito con una gabbia di ferro per gli allevamenti ittici, e un grande assembramento di persone, almeno 300, controllate a vista da alcuni mezzi militari tunisini e libici. A poche centinaia di metri di distanza si possono notare altri quattro mezzi della guardia di frontiera tunisina. Posizionati lungo un fossato costruito fra il 2014 e il 2018 per delimitare in maniera ancora più netta il confine, uno di questi è dotato di un mitragliatore o un cannone. «Da un’analisi storica dell’area si può affermare che lo scenario al confine tra Tunisia e Libia è qualcosa di completamente nuovo. Gli assembramenti e gli accampamenti prima non esistevano, mentre la presenza di militari in assetto di pattugliamento non è mai stata registrata in nessuna delle immagini disponibili, dal 2006 a marzo 2023», spiega Federico Monica di Placemarks.

Da queste istantanee prendono ancora più forza le testimonianze di chi in quella terra di nessuno ha vissuto per giorni senza acqua e cibo. Un limbo accessibile solo alla Croce rossa tunisina, impegnata in questi giorni a prelevare le persone per portarle in altri luoghi della Tunisia. Altri salvataggi sono stati compiuti dalle cosiddette autorità libiche, interessate a mostrare il volto più accogliente al netto di numerose denunce internazionali sul mancato rispetto dei diritti umani.

Sono testimonianze che raccontano di migranti, studenti, lavoratori, donne incinte, bambini e neonati che si sono visti privare tutto con la violenza; picchiati dalle autorità con mazze di ferro e bastoni, caricati su dei pullman e gettati senza risposte verso la Libia e l’Algeria. Per chi tentava di rientrare in Tunisia, ad attenderlo c’erano gas lacrimogeni e proiettili.Se l’Oim e l’Unhcr hanno emanato un comunicato per sollecitare un intervento a tutela di queste persone, Bruxelles sembra più concentrata sui numeri dei migranti in arrivo dal piccolo Stato nordafricano.

il commento al vangelo della domenica

da occhi d’ombra a occhi di mattino

il commento di E. Ronchi al vangelo della sedicesima domenica del tempo ordinario – anno A


 In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò (…).

Una parabola leggera e potente che, accolta, può cambiare il nostro rapporto con Dio, portandoci dal negativo al positivo, dallo sguardo giudicante a quello abbracciante, da occhi d’ombra a occhi di mattino. È successo anche a me, tanti anni fa: mi ha fatto uscire dalla fede intesa come un’aula di tribunale, e mi sono felicemente perso in un campo di grano. Questione di sguardo: gli occhi dei servi si fissano sulla zizzania, sul negativo, quelli del padrone riposano sul buon grano. Questione di priorità: vuoi che andiamo a strapparla via? La risposta è netta: no, perché mettete a rischio il grano, che viene prima e vale di più.
Questione di metodo: vuoi che sradichiamo? Il Dio dalla pazienza contadina usa altri modi. Lui non è distruttivo, semina; non distrugge, crea. La voce dell’istinto mi suggerisce di seguire il modo dei servi: sradica subito i tuoi difetti, il puerile, sbagliato, immaturo, difettoso che è in te. Strappa e starai bene. Il vangelo parla con un’altra voce: abbi pazienza, non avere fretta, non demolire. Tu non sei i tuoi difetti, ma le tue maturazioni; non coincidi con la zizzania che hai nel cuore, ma con le tue spighe buone. Abbi venerazione per tutte le energie positive, i semi di vita, di generosità, di bellezza, di pace, di giustizia che Dio ha seminato in te. Fa che emergano in tutta la loro carica, e vedrai la zizzania decrescere. Il padrone del campo è un grande: non teme che la zizzania prevalga, ha fiducia che sarà il grano a vincere. Non si consulta con le sue paure ma con i sogni: il grano che arriva ad altezza del cuore, profumo di pane sulla tavola, profezia di fame saziata. Prospettiva solare, fiduciosa, divina: il male non revoca il bene; è invece il bene che revoca il male nella tua vita. Dobbiamo agire verso noi stessi come Dio verso la creazione: per vincere il buio della notte accende ogni giorno il suo mattino; per vincere l’inverno invia il sole della primavera; per far fiorire la steppa fa volare nell’aria milioni di semi. Così il nostro spirito è capace di cose grandi soltanto se ha forti passioni positive, non grandi reazioni istintive. Ciascuno di noi può adottare verso il campo del cuore questo sguardo positivo e vitale, liberandosi dai falsi esami di coscienza negativi. La nostra coscienza matura, chiara e sincera deve mettere a fuoco non tanto i difetti, ma il bene e il bello che è stato seminato in noi. Poi, il nostro lavoro religioso di fondo sarà far maturare, in noi e negli altri, i semi divini, i talenti, le potenzialità, i germi di cielo. Facciamo che erompano in tutta la loro potenza, in tutta la loro bellezza e vedremo le forze buone spingere la notte più in là.

(Letture: Sapienza 12, 13.16-19; Salmo 85; Rom,ani 8, 26-27; Matteo 13, 24-43).

la religione berlusconizzata

il berlusconismo e la sua religione

LA PARABOLA DELL’ATEO DEVOTO CHE CREDEVA SOLO NEL SUO IO

Il berlusconismo ha stabilito il primato del successo personale su qualsiasi tensione verso l’altro. L’applauso è diventato la misura del valore di tutto e i cittadini si sono trasformati in spettatori.

BR

Insegna l’antico proverbio: “De mortuis nihil nisi bonum”, vale a dire: “Di chi è appena morto, o si tace o si parla bene”. Di Silvio Berlusconi io non avrei scritto nulla, non avendo per parte mia molto di buono da riconoscergli, laddove “buono” lo intendo nel senso radicale del termine che rimanda al Bene in quanto sommo valore che coincide con la Giustizia e la Verità (concetti che scrivo al maiuscolo per indicare la loro superiorità rispetto al mero interesse privato). Se però, ciononostante, ne scrivo, è per cercare di mettere a fuoco la frase del cantautore Gian Piero Alloisio, talora attribuita a Gaber (cito a memoria): “Non temo Berlusconi in sé, ma il Berlusconi che è in me”. Non parlerò quindi di Berlusconi in sé, bensì del Berlusconi in noi, convinto come sono che quanto dichiarato da Alloisio valga per milioni di italiani, forse per tutti noi, che portiamo al nostro interno, qualcuno con gioia, qualcun altro con fastidio o addirittura con vergogna, quella infezione che è, a mio avviso, il “berlusconismo” …  

Cosa infetta precisamente il berlusconismo? Risponderò presto, prima però voglio ricordare questa frase di Hegel: “La filosofia è il proprio tempo colto nei pensieri”. Io penso che quello che vale per la filosofia, valga, a maggior ragione, per l’economia e la politica: il loro successo dipende strettamente dalla capacità di saper cogliere e soddisfare il desiderio del proprio tempo. Berlusconi è stato molto abile in questo. Con le sue antenne personali (al lavoro ben prima che installasse a Cologno Monzese le antenne delle sue tv) egli seppe cogliere il desiderio profondo del nostro tempo, ne riconobbe l’anima leggera e se ne mise alla caccia esercitando tutte le arti della sua sorridente e persistente seduzione. Si trasformò in questo modo in una specie di sommo sacerdote della nuova religione che ormai da tempo aveva preso il posto dell’antica, essendo la religione del nostro tempo non più liturgia di Dio ma culto ossessivo e ossessionante dell’Io. Il berlusconismo rappresenta nel modo più splendido e seducente lo spodestamento dell’antica religione di Dio e la sua sostituzione con la religione dell’Io. E il nostro tempo se ne sentì interpretato in sommo grado, assegnando al fondatore i più grandi onori e costituendolo tra gli uomini più ricchi e più potenti non solo d’Italia.

Ho parlato del berlusconismo come di un’infezione, ma cosa infetta precisamente? Non è difficile rispondere: la coscienza morale. Il berlusconismo rappresenta la fine plateale del primato dell’etica e il trionfo del primato del successo. Successo attestato mediante la certificazione dell’applauso e del conseguente inarrestabile guadagno.

Vedete, Dio, prima, lo si poteva intendere in vari modi: nel senso classico del cattolicesimo e delle altre religioni, nel senso socialista e comunista della società futura senza classi e finalmente giusta, nel senso liberale e repubblicano di uno stato etico quale per esempio lo stato prussiano celebrato da Hegel, nel senso della retta e incorruttibile coscienza individuale della filosofia morale di Kant, e in altri modi ancora, tutti comunque accomunati dalla convinzione che esistesse qualcosa più importante dell’Io, di fronte a cui l’Io si dovesse fermare e mettere al servizio. Fin dai primordi dell’umanità il concetto di Dio rappresentò esattamente l’emozione vitale secondo cui esiste qualcosa di più importante del mio Io, del mio potere, del mio piacere (a prescindere se questo “qualcosa” sia il Dio unico, o gli Dei, o l’Urbe, la Polis, lo Stato, la Scienza, l’Arte o altro ancora).

Ecco, il trionfo del berlusconismo rappresenta la sconfitta di questa tensione spirituale e morale. In quanto religione dell’Io, esso proclama esattamente il contrario: non c’è nulla più importante di me. Non è certo un caso che il partito-azienda del berlusconismo non ha mai avuto un successore, e ora, morto il fondatore, è probabile che non faccia una bella fine.

Naturalmente questa religione dell’Io suppone quale condizione imprescindibile ciò che consente all’Io di affermare il suo primato di fronte al mondo, vale a dire il denaro. Il denaro era per il berlusconismo ciò che la Bibbia è per il cristianesimo, il Corano per l’islam, la Torah per l’ebraismo: il vero e proprio libro sacro, l’unico Verbo su cui giurare e in cui credere. Il berlusconismo è stato una religione neopagana secondo cui tutto si compra, perché tutto è in vendita: aziende, ville, politici, magistrati, uomini, donne, calciatori, cardinali, corpi, parole, anime. Tutti hanno un prezzo, e bastano fiuto e denaro per pagare e ottenere i migliori per sé. Chi infatti (secondo la dottrina del berlusconismo) non desidera essere comprato?

Il berlusconismo ha rappresentato un tale abbassamento del livello di indignazione etica della nostra nazione da coincidere con la morte stessa dell’etica nelle coscienze degli italiani. La quale infatti ai nostri giorni è in coma, soprattutto nei palazzi del potere politico. Ma cosa significa la morte dell’etica? Significa lo spadroneggiare della volgarità, termine da intendersi non tanto come uso di linguaggio sconveniente, quanto nel senso etimologico che rimanda a volgo, plebe, plebaglia, ovvero al populismo in quanto procedimento che misura tutto in base agli applausi, in quanto applausometro permanente che trasforma i cittadini da esseri pensanti in spettatori che battono le mani. Ovvero: non è giusto ciò che è giusto, ma quanto riceve più applausi. Ecco la morte dell’etica, ecco il trionfo di ciò che politicamente si chiama populismo e che rappresenta la degenerazione della democrazia in oclocrazia (in greco antico “demos” significa popolo, “oclos” significa plebaglia).

Tutto questo ha avuto e continuerà ad avere delle conseguenze devastanti. In primo luogo  penso all’immagine dell’Italia all’estero, che neppure dieci Mario Draghi avrebbero potuto ripulire dal fango e dalla sporcizia del cosiddetto Bunga-Bunga.  Ma ancora più grave è lo stato della coscienza morale dei nostri concittadini: eravamo già un paese corrotto e di evasori, ora siamo ai vertici europei; eravamo già tra gli ultimi come indice di lettura, ora siamo in fondo alla classifica.

Ricordo che una volta mi trovavo con un imprenditore all’autodromo di Monza per una convention aziendale e, forse per la vicinanza di Arcore, forse chissà per quale altro motivo, egli prese a parlarmi di Berlusconi. Mi disse che molti anni prima gli aveva indicato una massa di gente lì accanto e poi gli si era rivolto così: “Secondo Lei, quanti sono gli intelligenti là dentro? Il 10 percento? Ecco, io mi occupo del restante 90 percento”. Questa è stata la politica editoriale delle sue tv che hanno portato alla ribalta personaggi fatui ed equivoci e hanno fatto strazio della vera cultura. Il berlusconismo ha di fatto affossato nella mente della gran parte degli italiani il valore della cultura, riducendo tutto a spettacolo, a divertimento, a simpatia falsa e spudoratamente superficiale, a seduzione. Seduzione da intendere nel senso etimologico di sé-duzione, cioè riconduzione a sé di ogni cosa, secondo quella religione dell’Io che è stato il vero credo di Silvio Berlusconi e da cui non sarà facile liberare e purificare la nostra “povera patria” (come la designava, proprio pensando al berlusconismo, Franco Battiato).

il commento al vangelo della domenica

 il Corpo di Cristo «lievito di vita»


Il Corpo di Cristo «lievito di vita»

il commento di E.Ronchi al vangelo del Corpus Domini Anno A
In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo. (…) Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».
«Ricordati del cammino», sussurra la prima Lettura. Ricordati! Perché l’oblio è la radice di tutti i mali. Ricorda il deserto e il monte, il vento delle piste, la bellezza dell’anima affaticata dal richiamo di cose lontane. E poi la manna scesa all’improvviso, quando non l’aspettavi più.Ricordati del tuo deserto tra scorpioni e serpenti, ma soprattutto dell’acqua giunta sotto forma di una risposta, un amore bello, un amico, una musica. Improvvisi squarci si sono aperti a dirti che non sei solo, che non sei smarrito tra le dune del deserto.

Che Dio è acqua e pane incamminati verso la tua fame. La mia forza è sapermi cercato, con la mia vita distratta e le risposte che non do; sapermi desiderato è tutta la mia pace. Io vivo di Dio. Ricordati del cammino: dialoga con la storia della tua vita, rimani nella tua sorgente limpida. Il Vangelo oggi ha solo otto versetti, e Gesù a ripetere per otto volte: Chi mangia la mia carne vivrà in eterno. Quasi un ritmo incantatorio, una divina monotonia, nello stile di Giovanni, che avanza per cerchi concentrici e ascendenti, come una spirale; come un sasso che getti nell’acqua e vedi i cerchi delle onde che si allargano sempre più. È il discorso più dirompente di Gesù: mangiate la mia carne e bevete il mio sangue. Un invito che sconcerta amici e avversari, e lui che ostinatamente ne ribadisce, per otto volte, come in otto cerchi, la motivazione, sempre più chiara e diretta: per vivere, semplicemente vivere, per vivere davvero. Altro è vivere, altro è lasciarsi vivere. È l’incalzante convinzione di Gesù di possedere qualcosa che cambia la direzione e la qualità della vita. È il dono di Dio. Il dono di Dio è Dio che si dona: si dona e si perde dentro le sue creature come lievito dentro il pane, come pane dentro il corpo.

«Carne, sangue, pane di cielo» indicano la totalità della sua vicenda umana e divina, le sue mani di carpentiere con il profumo del legno, le sue lacrime, le sue passioni, la polvere delle strade, la casa che si riempie di profumo, la pietra che rotola via. E Dio in ogni fibra. Un pezzo di Dio in me perché io salvi un pezzetto di Dio nel mondo. Il suo invito pressante significa: mangia e bevi ogni goccia e ogni fibra di me. Vivi di me. Prendi la mia vita come misura alta del vivere, come lievito del tuo pane, seme del tuo campo, sangue delle tue vene, allora conoscerai cosa sia vivere davvero. Mangiare e bere Cristo significa più che «fare la comunione» eucaristica, è «farmi comunione con Lui». Il Verbo si è fatto carne perché la carne si faccia Spirito. L’Eterno cerca la nostra setacciata briciola di cielo; per poi ridarcela, luminosa e serena.

(Letture: Deuteronòmio8,2-3.14b-16a; Salmo 147; 1 Corinzi 10,16-17; Giovanni6,51-58)

il commento al vangelo della domenica

Pentecoste
la sinfonia di linguaggi dello Spirito

il commento di E. Ronchi  al vangelo della domenica di Pentecoste, Anno A

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». 

Lo Spirito Santo è Dio in libertà. Rifiuto della monotonia. Scelta della sinfonia. Ultima parola, che si offre sempre come nuova, come altra: alla nave come costa, alla terra come nave; al navigante come nostalgia di casa, all’uomo di casa come nostalgia del mare. Dio in libertà. Che fa cose che non t’aspetti. Che dà a Maria un figlio “fuorilegge’”, a Elisabetta un figlio profeta. E a noi dona tutto ciò di cui abbiamo bisogno per dare, a nostra volta, vita, o meglio ancora: per dare alla vita.

La Parola di Dio oggi prova una sinfonia di linguaggi per tentare di dire qualcosa della vastità dello Spirito: non sono che semplici fessure, feritoie aperte sul mistero.

1. La prima lettura (Atti 2,1-11) racconta di Apostoli come “ubriachi”, inebriati da qualcosa che li ha storditi di gioia, come un capogiro, una divina seduzione, violenta e felice. E la prima Chiesa, arroccata sulla difensiva, viene lanciata fuori e in avanti. La nostra Chiesa tentata, oggi come allora, di arroccarsi e chiudersi, perché in crisi di numeri, perché aumentano coloro che si dichiarano indifferenti o infastiditi, questa Chiesa, amata e infedele, può ancora attingere a quello slancio originario.

2. Il salmo tra le letture (Sal 104,30) apre la seconda fessura: “Mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra”. Una delle affermazioni più belle e rivoluzionarie della nostra fede è offerta dalla Prece eucaristica III, quando il presidente proclama: “Tu, che per mezzo di Cristo e per opera dello Spirito fai vivere e santifichi l’universo”. Non solo l’uomo, ma tutto ciò che esiste; non solo doni vita, ma semini santità nell’universo, santità della luce, l’umile santità del bosco, del bambino che nasce, del cuore che ama, dell’anziano che pensa. Una divina liturgia santifica l’universo.

3. La terza finestra sulla Pentecoste la apre Paolo nella seconda lettura (1Cor 12,5). Lo Spirito dà a ciascuno una manifestazione particolare per il bene comune. Sposa vite diverse, consacra vocazioni differenti, benedice la genialità e l’unicità di ogni vita. Lo Spirito non vuole banali ripetitori, ma discepoli geniali, edificatori di una Chiesa che trova unità attorno alla croce, varietà e creatività attorno allo Spirito.4. Infine il Vangelo racconta la Pentecoste come un incontro leggero nella sera di Pasqua: “soffiò su di loro e disse: ricevete lo Spirito santo” (Gv 20,22).

In quella stanza chiusa e dall’aria stagnante, entra il grande, ampio e profondo ossigeno del cielo. Entra il respiro di Dio che non sopporta schemi e chiusure, che viene per farci vivi, sottile e profondo come il respiro, umile e testardo come il battito del cuore.

(Letture: Atti 2,1-11; Salmo 104; Prima Lettera ai Corinzi 12,3b-7.12-13; Giovanni 20,19-23)

image_pdfimage_print

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fonire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o clicchi su "Accetta" permetti al loro utilizzo.

Chiudi