a proposito delle ‘apparizioni ‘ e dei ‘messaggi’ di Medjugorje

Lourdes, Fatima e Medjugorje: un cambio di paradigma teologico?

 dalle Dichiarazioni su Lourdes e Fatima a quelle su Medjugorje: sembra sia cambiato l’approccio e si sia più attenti a quello che di buono (o di cattivo) c’è nelle prassi religiose. Non più veggenti da seguire ma esperienze religiose da supportare (e su cui vigilare). E non attesa di sangue sciolto ma attenzione al sangue versato

di Umberto Rosario Del Giudice

oltre quarant’anni per una ‘Nota’

Con la Nota[1] di oggi, 19 settembre 2024, la Chiesa si è pronunciata sugli accadimenti di Medjugorje.

Il tono risulta subito diverso rispetto a DiscorsiDichiarazioniEnciclicheNote (a firma dei pontefici o delle Congregazioni varie) che hanno riguardato i fatti che coinvolgevano la piccola Bernardette e i pastorelli di Fatima (si noti che non si fanno nomi di “veggenti” nella Nota odierna).

Ma ciò che appare non è solo una diversa valutazione.

A ben vedere anche i primi approcci (cauti) ai fatti di Lourdes o di Fatima furono quanto meno misurati cui seguirono dichiarazioni graduali. Tuttavia, i fatti, sebbene nella loro complessità, furono “riconosciuti” in breve. Ci vollero dodici anni per una prima dichiarazione per i fatti riferiti da Bernardette che permetteva l’afflusso di fedeli e la venerazione a Lourdes.

Fatima ebbe una rilevanza quasi immediata: a soli due anni dagli eventi dichiarati dai pastorelli il vescovo locale, col beneplacito della Santa Sede, dichiarava «degne di credenza, le visioni dei bambini pastori della Cova da Iria, avvenute nella parrocchia di Fátima, in questa diocesi, dal 13 maggio al 13 ottobre 1917».

Ma erano anche altri tempi e altri contesti. In Francia, al tempo dei fatti di Lourdes, l’imperatore Luigi Napoleone bloccava ogni accordo con la Chiesa oltre il concordato del 1801. In Portogallo i pastorelli furono incarcerati per due giorni per ordine dell’allora sindaco di Vila Nova.

Al di là del contesto storico, potremo dire che le dichiarazioni della Santa Sede sui fatti di Lourdes e Fatima furono tempestive e riguardavano “fatti ritenuti straordinari”.

Per i fatti di Medjugorje ci sono voluti oltre quarant’anni per la pubblicazione di una Nota che ha valorizzato più l’esperienza religiosa che i dati dei messaggi (presunti).

 

ìl cambio del paradigma al di là dei pronunciamenti

Sulle motivazioni che hanno portato a un non “riconoscimento” dei fatti “presunti soprannaturali” di Medjugorje bisognerà riflettere in altra sede.

Ciò che qui però interessa non è solo il “dato della non-ufficialità” ovvero del “non-riconoscimento”, ma il cambio sostanziale di approccio e rispetto delle esperienze e del loro uso.

Da una parte, Lourdes e Fatima si mostravano alla Chiesa come “apparizioni mariane” utile alla fede vissuta nell’epoca tra XIX e XX secolo per diversi aspetti (l’ateismo, lo scontro tra Stati, le minacce belliche, le Guerre…); dall’altra Medjugorje, sebbene i fatti risalgano ai tempi dei comunismi ideologici precedenti alla sanguinosa guerra di scissione –indipendenza– dei paesi baltici, rimane un “luogo di culto” come tanti, in cui è possibile una “esperienza di fede”.

Vale la pena riprendere quanto è stato scritto nella Presentazione in occasione della pubblicazione del “segreto di Fatima”.

La Congregazione per la Dottrina della Fede, a firma dell’allora Tarcisio Bertone segretario, nel 2000 dichiarava:

«Apparizioni e segni soprannaturali punteggiano la storia, entrano nel vivo delle vicende umane e accompagnano il cammino del mondo, sorprendendo credenti e non credenti. Queste manifestazioni, che non possono contraddire il contenuto della fede, devono convergere verso l’oggetto centrale dell’annuncio di Cristo: l’amore del Padre che suscita negli uomini la conversione e dona la grazia per abbandonarsi a Lui con devozione filiale. Tale è anche il messaggio di Fatima che, con l’accorato appello alla conversione e alla penitenza, sospinge in realtà al cuore del Vangelo»[2].

L’approccio della Nota odierna non tiene conto tanto del dato dottrinale, sebbene vi sia un’analisi dei “messaggi”, ma evidenzia il “fenomeno Medjugorje” in quanto centro di esperienza religiosa, di penitenza, di unione in Cristo. È stata rilevata una «la spiritualità medjugoriana nella vita quotidiana» (Nota, 5b).

Per delineare questa spiritualità, la Nota riprende il “titolo” della “Regina della Pace” e rimanda a quella “pace che sgorga dalla carità” e a Cristo, “Re della Pace” (ci si sarebbe aspettato qui un rimando alla “pace” come “salvezza”. Ma sebbene non sia esplicitato, il dato appare sottinteso).

La spiritualità medjugoriana poi è declinata attraverso alcune categorie espresse secondo alcune locuzioni: “soltanto Dio”, “incontrare Dio che è sempre presente nella vita di ogni giorno”. E si sottolinea al tempo stesso il cristocentrismo e il rimando all’azione dello Spirito Santo che chiama alla conversione e al ricorso alla preghiera e alla centralità della “Messa”, apice della preghiera dei fedeli raccolti in comunione fraterna. Una spiritualità che richiede e rimanda alla dimensione ecclesiale e alla “gioia e gratitudine”, alla “testimonianza dei fedeli”, all’attenzione alla “vita eterna”.

A partire da queste evidenze della vita “quotidiana” cristiana promossa dalla spiritualità medjugoriana la Nota evidenzia i rischi: «Alcuni pochi messaggi si allontanano da questi contenuti così positivi ed edificanti e sembra persino che arrivino a contraddirli. È conveniente stare attenti perché questi pochi elementi confusi non mettano in ombra la bellezza dell’insieme» (Nota 27).

Da qui la Nota evidenzia ambiguità tra cui “rimproveri e minacce”, “messaggi alla parrocchia”, “autoesaltazione della Madonna” (in alcuni messaggi direbbe “il mio piano”, “il mio progetto”…, cfr. Nota 37).

 

dall’attenzione dottrinale alla valorizzazione attenta dell’esperienza religiosa

La valutazione della Nota non riconosce il carattere soprannaturale dei fenomeni di Medjugorje ma riconosce l’esperienza religiosa lì proposta utile per l’esperienza cristiana. La Nota assume l’onere di valutare la congruità di alcuni messaggi e dichiara soprattutto che la percezione dei sedicenti veggenti può interferire (se c’è) con l’esperienza del Dio di Gesù.

Esaminando poi i “messaggi” (tutti ritenuti presunti, come la Nota specifica fin dalla sua premessa, cfr. Nota 2) altro non fa che rimandare ai metodi e alla prassi delle sane tradizioni cristiane e, in continuità con quelle, non ostacola l’esperienza medjugorjana.

Cosa resta?

Il fenomeno Medjugorje non ha avuto un “riconoscimento ufficiale”; è chiaro anche che sono state date due indicazioni preziose che appaiono come un “cambio di paradigma teologico valutativo” dei “fatti soprannaturali”, della “pietà popolare”:

  1. la “percezione” dei singoli gioca sempre un ruolo determinante anche nella “percezione di Dio”;
  2. la “esperienza religiosa” può condurre a buoni frutti al di là di una “dottrina ambigua” presente in alcuni gruppi. La Nota chiede ai vari vescovi di vigilare sulle esperienze religiose dei singoli e dei gruppi; al tempo stesso, richiamando le norme, chiede di «apprezzare il valore pastorale e a promuovere pure la diffusione di questa proposta spirituale».

La Nota non è solo mossa a pronunciarsi sulla ambiguità del fenomeno ma è preoccupata che si possa utilizzare «inadeguatamente questo fenomeno spirituale».

Credo che sia questo un elemento essenziale di tutta la dichiarazione del Dicastero: attenzione al dato in sé (valutazione dottrinale) ma con la promozione dell’esperienza religiosa (tutela dell’esperienza spirituale).

Una preoccupazione che si potrebbe estendere ad ogni realtà ecclesialepercezione e utilizzo non adeguato sono gli elementi essenziali su cui, non solo a Medjugorje, bisogna vigilare.

“Falsa percezione” e “utilizzo non adeguato” si possono nascondere anche nelle assemblee domenicali, nelle prassi penitenziali, nelle parole omiletiche, nelle lezioni di teologia, nelle catechesi, durante le trasmissioni televisive o radiofoniche…

Le esperienze vanno guidate, non imposte e non bloccate. Anche per questo credo che sia giusto riprendere le parole di mons. Battaglia che oggi ha tenuto l’omelia in occasione della solennità di San Gennaro (patrono della diocesi di Napoli) e in riferimento al fenomeno della “liquefazione del sangue”. Credo che sia un bello esempio di come guidare la percezione e l’utilizzo adeguato delle devozioni che accompagnano le esperienze religiose.

Don Mimmo ha dichiarato:

«Vi prego: non dobbiamo preoccupiamoci se il sangue di questa reliquia si scioglie o no. Ma dobbiamo preoccuparci se a scorrere tra le nostre strade e nel nostro mondo è il sangue dei diseredati, degli emarginati, degli ultimi, degli innocenti» (Cfr min. 44,55: URL: https://www.youtube.com/watch?v=fE35gcv2I4c&feature=youtu.be ).

Non i “segni soprannaturali” ma “l’esperienza della e nella fede”.

Ai pastori dunque il dovere di vigilare.

Al magistero teologico, se corretto, il dovere di promuovere questa vigilanza.

[1] Dicastero per la Dottrina della Fede, “La Regina della Pace”. Nota circa l’esperienza spirituale legata a Medjugorje. URL: “La Regina della Pace”. Nota circa l’esperienza spirituale legata a Medjugorje (19 settembre 2024) (vatican.va)

[2] URL: https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_20000626_message-fatima_it.html

il commento al vangelo della domenica

PANE SFIORITO?
il commento di E. Ronchi al vangelo della ventunesima domenica del tempo ordinario
Gv 6,61-69
Da un mese stiamo leggendo il lungo sesto capitolo di Giovanni, quando Gesù passa, forse in due ore, dall’essere incoronato re, all’essere abbandonato.
Siamo alla resa dei conti, tra guarigioni miracolose e pane che non finisce, ma che, all’improvviso, sembra stancamente sfiorire.
E molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui.
E lo spiegano anche: questa parola è dura.
Dura lo è, perché rovescia i potenti e disperde i superbi, perché chiama a pensare in grande.
E poi la domanda seria, che guarda in faccia la realtà: volete andarvene anche voi?
Se ne vanno in tanti, e Gesù non tenta di fermarli. Nessun ricatto emotivo, nessuna pressione. E lo senti proprio tutto, quel velo di tristezza.
Ma più forte ancora è l’appello alla libertà di ciascuno: andate o restate, siete liberi, ma decidetevi e scegliete! Questa non è roba per gente tiepida.
E dice: Io voglio vita per te, voglio libertà. Per te voglio stelle in cuore, per camminare, correre, volare.
Dio è così: accetta anche di essere abbandonato. Nel momento dell’insuccesso si gira verso i suoi: ve ne andate anche voi?
A noi così attenti ai like, a non dire cose che possono disturbare, a contare quante persone c’erano a messa…
Davanti a noi presi dalla concupiscenza dei risultati (E. Cioran) e dei numeri sta Lui, disposto a ricominciare da zero. Ma i numeri non sono mai un criterio evangelico. Mai.
Pietro poteva tornarsene a Betsaida, alla piccola azienda di pesca e alla barca, ma quello sarebbe stato solo sopravvivere, uno sterile pescare, mangiare, dormire e poi di nuovo pescare, mangiare, dormire.
Tutto qui?
Non sarebbe stato vivere, non di una vita piena e indistruttibile. Non c’è barca che valga o trasporti l’eternità del cuore.
Risposta bellissima e spiazzante, quella di Pietro: ma da chi mai potremmo andare? Chi ti lascia più? Tu sprigioni vita!
E spezziamola come pane, questa risposta, parola per parola.
“Tu solo”. Dio solo. Non ho altro, nessun altro di meglio a cui affidare la vita.
Tu solo “hai parole”: Dio parla, il cielo non è muto, e la sua parola apre strade e nuvole, carezze e incendi.
Le tue sono “parole di vita” che mi accendono, che danno vita alla mente, perché la mente vive di verità, e la tua verità rende liberi.
Parole che dicono “la vita eterna”, che donano eternità a tutto ciò che di più bello abbiamo nel cuore, che ci fanno viva la vita.
E la domanda per uscire dal mio credere a metà, è questa: Gesù sprigiona in me un ‘di più’ di vita?
Questione che rimane aperta, con l’unica certezza che ho: ma dove vuoi che vada, se non da te?
Io non me ne vado, non ti lascio. Tu fai viva la mia vita!

il commento al vangelo della domenica

LA CARNE DI DIO
Gv 6,41-51
il commento di E. Ronchi al vangelo della sedicesima domenica del tempo ordinario
Elia, il profeta guerriero, inseguito dai sicari della regina, alla fine si arrende: Basta, meglio morire.
Troppo cammino, troppo deserto, troppo dolore. Voglia solo di restare accucciato, sotto il cespuglio di ginestre.
Ed ecco un angelo, un profumo di pane cotto e acqua fresca di pozzo. Niente parole dure, di giudizio, di accusa, ma solo: Elia, mangia.
Dio non fa trovare al profeta stanco un cavallo che divori le distanze assolate del deserto, ma solo un po’ di pane e acqua, una carezza e una parola. Il quasi niente, che però risveglia la sua forza. E il profeta cammina sulle sue gambe, e non su mani d’angeli, con le forze che non sapeva di avere, fino al monte di Dio.
La prima lettura ci introduce al tema del pane, con il vangelo passiamo dal deserto alla sinagoga di Cafarnao, seguendo tre parole centrali:
1. Io sono il pane disceso dal cielo.
In una sola frase si intrecciano tre metafore: pane, cielo, e un movimento di discesa. Il pane è tutto ciò che fa vivere. Io sono pane: io faccio vivere. Il lavoro di Dio è alimentare la vita. Il nostro, semplicemente accoglierlo. Uno diventa ciò che accoglie, uno diventa ciò che lo abita.
Cielo che discende: Dio in cammino. Scende Dio, ed entra in me come pane. Dio sotto la mia pelle, sopra la mia povertà, come un re sul trono.
Prendiamo nota di questa azione descritta da Gesù: discende per mille strade, in cento modi, discende verso di me e lo fa adesso, in questo momento, e continuamente. Mi avvolge, io sono immerso in lui. Lui immerso in me.
2. Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre.
Un Dio attraente! Finalmente: non un dito puntato, ma una forza di attrazione cosmica. Io sono cristiano per attrazione, da parte non di un Dio onnipotente, ma di un Dio che tutto abbraccia(K. Jaaspers). Dentro tutte le creature è al lavoro una forza di attrazione divina verso la bellezza e la bontà, verso quelle cose che fanno star bene.
3. Chi mangia la mia carne.
Mangiare. Verbo così semplice, quotidiano, vitale. Che indica cento cose, ma la prima è vivere di ciò che mangi. Vivere di Dio è il senso ultimo del tempo e dell’eterno. Dio dentro, che mi trasforma nel cuore, nel corpo, nell’anima.
La mia carne, dice Gesù, e non il mio corpo. La carne, cioè l’umanità originaria e fragile: “Prendete la mia umanità come misura alta del vivere”: racconti, gesti e parole, croce e pasqua.
Sta a me respirare la sua aria limpida e fresca, muovermi in quel mare d’amore che ci avvolge e ci nutre, sognare i suoi sogni.
Del tuo Spirito è piena la terra: è piena, è colma, ne trabocca;
il Pane non sta sull’altare della chiesa, ma sulla tavola di casa…dolce carne è quella di chi ti ama; dolente carne di Cristo è il povero; e tutta la gente insieme è la carne santa di Dio.

necessario recuperare spazi di silenzio anche in tempo di vacanze

 

l’uomo è diventato un’appendice al rumore”

Max Picard

di ENZO BIANCHI

Siamo nel tempo delle vacanze, il tempo che vorremmo dedicare al riposo, ma facilmente dimentichiamo che per riposare occorre soprattutto il silenzio. Nella nostra società, come scrive Max Picard, “l’uomo è diventato un’appendice al rumore”, non conosce quel silenzio di cui ha assolutamente bisogno per ritrovare la propria umanità. Più che mai si deve riscoprire l’antichissima arte di “ascoltare il silenzio”: impresa certo non semplice se già Eraclito diceva dei propri simili che erano “incapaci di ascoltare e quindi di parlare”. Da allora ci illudiamo di aver compiuto passi in avanti nella capacità di parlare, ma in realtà la nostra parola ha perso autorità e forse proprio per la mancanza del silenzio da cui deve essere generata.

Abbiamo bisogno di una pedagogia all’ascolto autentico e alla comprensione di ciò che sentiamo e quindi è innanzitutto necessario ascoltare il silenzio. È significativo che nella tradizione spirituale dell’occidente sia attestato che l’arte oratoria ha per madre il silenzio e per padre la solitudine. Solo il silenzio, infatti, rende possibile l’ascolto, l’accoglienza non solo delle parole pronunciate ma anche della presenza di colui che parla. Il silenzio è linguaggio che esprime l’autorevolezza di chi prende la parola, è abilitato ad essere il linguaggio dell’amore, accompagna la parola conferendole una grande capacità di penetrazione.
Purtroppo oggi il silenzio è raro, è forse la realtà maggiormente assente nella nostra giornata: siamo bombardati da messaggi sonori e visivi, i rumori ci derubano della nostra interiorità e le parole stesse vengono immiserite dal loro essere urlate, ridotte a invettive o slogan ripetuti inutilmente. Ormai è diventato insopportabile assistere a quello che in teoria dovrebbe essere un “dialogo” o un “confronto” televisivo: prevale l’abitudine di alzare la voce per sopraffare, addirittura per coprire la parola dell’interlocutore. E così il necessario ed elementare ritmo che comprende silenzi alternati alla parola viene stravolto, occupato da parole urlate. E, per chi assiste, il programma che dovrebbe offrire occasioni per pensare, conoscere opinioni e visioni diverse della realtà, diventa un’intollerabile esibizione urlata.

Sì, il silenzio è più che mai necessario e nel tempo delle vacanze può essere più facile che si presentino occasioni per viverlo: in passeggiate nei boschi, sui sentieri delle montagne, o in riva al mare, al mattino o al tramonto. La natura silenziosa ci accompagna a praticare un silenzio che sa ascoltare le voci di ogni creatura e in quei momenti è anche possibile percepire il “non detto” che, come “parola degli altri”, ci risuona nel cuore come un’eco delle nostre relazioni.

So bene che il silenzio, come la solitudine, a chi non lo pratica può fare inizialmente paura e ispirare angoscia, ma occorre dare tempo anche al silenzio di diventare una realtà che possediamo e della quale disponiamo per la nostra umanizzazione.

È certamente cosa triste – e non ne comprendo il motivo – che venga ignorato dalla maggior parte delle persone che oggi ci sono ancora “uomini e donne del silenzio” nelle certose, nelle trappe e negli eremi, esseri umani che vivono in continuità l’esperienza umanissima di ascoltare il silenzio. Incontrando costoro forse capiremmo di più che il silenzio è linguaggio, non è mutismo, ed è relazione, comunione che non conosce barriere.

il commento al vangelo della domenica

LA STANZA OSCURA
Marco 5,21-43
il commento di E. Ronchi al vangelo della tredicesima domenica del tempo ordinario
C’è una casa a Cafarnao, dove la morte ha messo il nido.
Una dimora importante, quella del capo della sinagoga, eppure impotente a garantire la vita di una bambina. Giairo ha preso il mantello ed è uscito, ha camminato in cerca di Gesù, e Gesù interrompe ciò che sta facendo e si mette a camminare con lui. Sulle frontiere tra la vita e la morte. Stare con il dolore degli altri diventa uno dei gesti cristiani più rivoluzionari.
Perché il dolore, il dolore innocente? I figli di tanti Giairo muoiono in un’età in cui invece è d’obbligo fiorire, non soccombere. Eppure Gesù non dà una risposta, dà altro: il dolore non domanda spiegazioni, ma condivisione: “e andò con lui”.
“Non temere, soltanto continua ad aver fede”, quella che ti ha fatto uscire di casa in cerca di aiuto e di ascolto. Ma come è possibile non temere, non essere nella paura quando la morte si è portata via il mio sole? Il contrario della paura non è il coraggio, è la fede, atto umanissimo che tende alla vita! Che dice: ho bisogno, mi fido, mi affido. Sulla tua parola getterò le reti, anzi: nelle tue mani getto la vita!
Giunsero alla casa e vide gente che piangeva e gridava. Disse loro: “Perché piangete? Non è morta, ma dorme”. Coloro che noi chiamiamo ‘morti’ dormono a questa vita nostra, ma in realtà sono stati presi per mano e si sono alzati, come la bimba di Giairo.
Lo deridono. Con quella derisione con cui dicono anche a noi: ma tu credi alla resurrezione? Ti illudi, non c’è niente dopo la morte. Ma la fede assicura che Dio è dei vivi e non dei morti, che dire Dio è dire risurrezione.
Gesù cacciò tutti fuori di casa. Caccia via quelli che non credono che Dio inonda di vita anche le strade della morte.
Gesù prende con sé il padre e la madre. Li prende con sé perché il tempo dell’amore è infinitamente più lungo del tempo della vita. La vita finisce ma l’amore no.
E ciò che vince la morte non è la vita, è l’amore. Ogni bambino, dice alla mamma: tu non morirai mai!
Ed entrò dove era la bambina.
E non è solo la stanzetta interna della casa, è la stanza più oscura del mondo, quella senza luce: l’esperienza della morte, dove anche Gesù entrerà, per essere come noi.
Poi la prende per mano. Dio non è un dito puntato, ma una mano che ti prende per mano. E mostra che bisogna toccare la disperazione delle persone per poterle rialzare. Toccare le loro lacrime.
E le disse: “Talità kum. Bambina alzati”. Tocca a te farlo: rimettiti in piedi, sulle tue gambe, con le tue risorse.
Qualunque sia il dolore che portiamo dentro, qualunque sia la morte che ci assedia, il Signore ripete: alzati!
E subito la bambina si alzò e camminava. Restituita all’abbraccio dei suoi, a una vita incamminata e verticale. Là dove ci siamo fermati, Dio continua a farci ripartire.
E ripete su ogni essere la benedizione delle antiche parole: Talità kum, giovane vita, alzati, rivivi, risplendi.
E aggiunge: datele da mangiare, nutrite di sogni, di carezze e di fiducia il suo rinato cuore bambino.
E ci rialzerà tutti, trascinandoci su, in alto, dentro la sua risurrezione.

il commento al vangelo della domenica

UN GRANELLO DI QUIETE
il commento di E. Ronchi al vangelo della dodicesima domenica del tempo ordinario
Mc 4,35-41
La nostra vita è come il mare di Galilea, a volte calmo e a volte in tempesta, ma le nostre instabili e piccole barche sono state costruite non per restare ancorate in porto, ma per prendere il largo.
Siamo tutti naviganti, non possiamo fare a meno di attraversare il lago.
“Passiamo all’altra riva” dice Gesù, e i discepoli accolgono il suo invito e si mettono in barca: e lo presero con sé, così com’era.
Gesù è talmente stanco che nella traversata si addormenta.
Improvvisa sul lago si scatena la tempesta. E Gesù dorme:, affidandosi ai suoi ragazzi, loro sì esperti di lago.
“Non ti importa che moriamo?”
La risposta, senza parole, è raccontata dai gesti “minacciò il vento, parlò al mare, che assicurano a ciascuno: mi importa di te, mi importa la tua vita, tu sei importante. Mi importano i passeri del cielo e tu vali più di molti passeri, mi importano i gigli del campo e tu sei più bello di loro. Tu mi importi al punto che ti ho contato i capelli in capo e tutta la paura che porti nel cuore.
E sono qui.
A farmi argine e confine alla tua paura. Sono qui nel riflesso più profondo delle tue lacrime.
La fede non è una assicurazione contro le burrasche della vita; le tempeste non si evitano e non si fuggono, si attraversano.
Perché avete così tanta paura?
Dio non è altrove e non dorme. È già qui, sta nelle braccia degli uomini, forti sui remi; sta nella presa sicura del timoniere; è nelle mani che svuotano l’acqua che allaga la barca; negli occhi che scrutano la riva, nell’ansia che anticipa la luce dell’aurora.
Il Signore salva attraverso persone (R. Guardini).
Dio è presente, ma a modo suo; vuole salvarmi, ma lo fa chiedendomi di mettere in campo tutte le mie capacità, tutta la forza del cuore e dell’intelligenza.
I discepoli vogliono un Dio che spazzi via le tempeste, e subito!
E invece Dio si fida di loro e li accompagna nel mezzo della burrasca. Non agisce al posto mio, ma insieme a me; non mi esenta dalla traversata, ma mi accompagna nell’oscurità. Non mi custodisce dalla paura, ma nella paura. Così come non ha salvato Gesù dalla croce, ma nella croce.
Perché avete paura? Non avete ancora fede?
I discepoli hanno fede sì, ma nel Dio che risolve i problemi, che tappa i buchi della nostra fragilità, lui invece scava pozzi di coraggio e dignità.
Non avete fede? Credere nel miracolo non è vera fede; troppo facile, troppo comodo. Quanta gente ha più fede nei miracoli che in Dio! “No, credere a Pasqua non è vera fede. Troppo bello sei a Pasqua. Fede vera è al venerdì santo….” (D. M. Turoldo).
Fede è perseverare nella burrasca.
E dopo che ha fatto tutto ciò che poteva al cristiano si apre lo spazio di un di più, un qualcosa che Lui solo ha, una pace sul mare, il miracolo imprevisto, il vento che tace, lo scintillio della fiducia negli altri.
Il di più di Dio, che non sta in riva al lago ad osservare, ma è presente nel buio, come granello di luce nella notte, granello di quiete, di fiducia, di bonaccia.
Che inonda di pace perfino le nostre tempeste.

il commento al vangelo della domenica

SULLA SOGLIA DELLA VITA
il commento di E. Ronchi al vangelo della domenica della S. Trinità
Mt 28, 16-20
Ci sono andati tutti all’appuntamento sul monte di Galilea.
Tutti, anche quelli che dubitavano ancora, tutta la comunità ferita che ha conosciuto il tradimento, la fuga e perfino il suicidio di uno di loro…
Ma il maestro non li molla, e compie uno dei suoi gesti più tipici: si avvicinò. Si fa più vicino…
Sono 40 giorni che parla del Regno e loro ancora non capiscono, eppure Gesù non si stanca di avvicinarsi e spiegare.
È Dio che bussa alla porta dell’umano, e la porta dell’umano è il cuore. E se io non apro, “lui alla porta mi lascia un fiore” (Turoldo). So che tornerà, perché non dubita di me. Loro sì, dubitano, anche di se stessi. Ma i dubbi non hanno mai raffreddato il cuore di Dio.
L’ultima, la suprema pedagogia di Gesù è così semplice: “avvicinarsi sempre, confortare e incalzare”, sussurrare al cuore, e soprattutto stare insieme a loro: io sono con voi, tutti i giorni, anche davanti alle porte chiuse, quando ti ingoia la notte e quando ti pare di volare.
E poi l’invio: andate in tutto il mondo e annunciate.
Affida la fede e la parola di vita a discepoli che hanno un peso sul cuore, eppure: andate e battezzate, immergete ogni vita nell’oceano di vita.
Fatelo “nel nome del Padre”: amore in ogni amore; “nel nome del Figlio”: il più bello tra i nati di donna; “nel nome dello Spirito”: vento che ci fa tutti vento nel suo Vento.
I nomi che Gesù sceglie per dire la Trinità sono nomi di famiglia, di affetto, nomi che abbracciano. Perché Dio non è solitudine ma abbraccio, attrazione, incontro, connessione.
Come tutti i dogmi, anche quello della Trinità non è un freddo distillato di concetti, ma contiene la sapienza del vivere, la sapienza ultima sulla vita e sulla morte. Ed è questa: in principio a tutto, nell’infinito del cosmo e nel minimo del cuore, in cielo come sulla terra, sta una comunione; all’origine, un legame.
La Trinità è Dio che genera e presiede a ogni nascita. Infatti l’essere umano non è creato solo a immagine del Padre, ma anche a immagine del Figlio, volto alto e puro dell’uomo; e a immagine dello Spirito, respiro al primo Adamo.
Non siamo semplicemente a somiglianza di Dio, ma di più, a immagine e somiglianza della Trinità, sapienza del vivere e del generare.
Allora posso finalmente capire perché sto bene quando sono con chi mi vuole bene; posso capire perché sto male quando sono isolato e senza legami: è la mia natura profonda che si esprime, è la nostra divina origine che reclama e domanda di respirare, di ritornare intera, nell’abbraccio: “ci si abbraccia per ritornare interi” (A. Merini).
Io sono con voi fino alla fine. Non dimentichiamo mai questa frase, non lasciamola avvizzire. Sarò con voi, senza condizioni e senza clausole, dentro le solitudini e dentro l’amore, nel dolore e nella felicità, a fare storia nella vostra storia. Per questo il vangelo è affidato a undici pescatori illetterati, che non hanno capito molto di Gesù, ma lo hanno molto amato. Piccoli su quel monte, ma abbracciati, dentro un calore, un respiro, un vento in cui naviga, senza più ansia alcuna, l’intero creato.

il commento al vangelo della domenica

AL BALCONE DEL FUTURO

 il commento di  E. Ronchi al Vangelo della domenica di Pentecoste

 Gv 15,26-27; 16,12-15

 

Lo Spirito Santo altro non è che il Dio nomade e libero, che inventa, spalanca porte, soffia sulle vele, fa cose che non t’aspetti. Che dà a Maria un figlio fuorilegge, a Elisabetta un figlio profeta e agli apostoli il coraggio di uscire all’aperto dal luogo chiuso, dalla vita bloccata. Un Dio che non sopporta statistiche né schemi, non recinti di parole, neppure sacre: Dio in libertà.

Parola nuova che si offre al navigante come nostalgia di casa, e all’uomo chiuso in casa come nostalgia del mare aperto.

Le letture bibliche della festa raccontano lo Spirito di Dio attraverso quattro registri musicali che vanno dal mosso vivace della prima lettura al grave e profondo della seconda, ma sono semplici feritoie sul mistero.

La prima porta che lo Spirito abbatte è quella di una casa, il Cenacolo, dove l’aria è chiusa, dove manca luce. Il Libro degli Atti ci racconta di quel cinquantesimo giorno dopo Pasqua, quando gli Apostoli parlavano come “ebbri”, fuori di sé, storditi da qualcosa che li aveva presi come un capogiro, una vertigine violenta e felice.

E’ la prima chiesa, fino ad allora arroccata sulla difensiva, terrorizzata, che viene lanciata fuori, nella Gerusalemme ostile. E la nostra chiesa oggi, anch’essa amata e infedele, proprio perché al bivio di grandi cambiamenti, ancora custodisce in molti suoi figli questo slancio originario.

La seconda porta la apre il salmo, come una melodia che naviga e aleggia sul mondo: del tuo Spirito, Signore, è piena la terra (Sal 103).-

Il Vento di Dio riempie la terra della sua santità, avvolge le cose con la sua luce: e scopro la santità delle stelle e del filo d’erba, del bambino che nasce, del giovane che ama, dell’anziano che pensa. L’umile santità del bosco e della pietra.

La terza porta dello Spirito immette su altre cento: la lettera di Paolo introduce un’orchestra dove ciascuno canta la sua nota, ciascuno porta in dono l’unicità della sua vita, incalzato da uno Spirito che vuole discepoli geniali, non ripetitori di stanche melodie.

Tempo di semine, il nostro. Tempo della pazienza del seme nella terra.

Quando verrà lo Spirito, vi guiderà alla verità. Appare l’umiltà di Gesù che non pretende di avere l’ultima parola, ma parla della nostra storia con Dio, soltanto con verbi al futuro: lo Spirito verrà, annuncerà, guiderà, parlerà.

Pregare lo Spirito è come affacciarsi al balcone del futuro, che è la terra fertile e incolta della nostra speranza.

Abbiamo bisogno che ciascuno creda al proprio dono, alle proprie originalità, unicità e bellezza, che sono i bellissimi doni dello Spirito. Lui, il Vento santo che non mancherà mai al mio veliero. O alla mia piccola vela, che Dio ha fatto sorgere sul vuoto del mare:

la scuola della pace a Lucca chiede una tregua immediata

la scuola per la pace della provincia di Lucca:

“si lavori per una tregua immediata”

L’appello: “Indispensabile è anche l’immediata apertura di corridoi umanitari che consentano la salvaguardia dei diritti basilari per la popolazione civile”

 

“Dare voce al popolo della pace di fronte all’escalation bellica”. È questo, in strema sintesi, l’appello lanciato dalla scuola per la pace della provincia di Lucca, che scrive una lunga riflessione in seguito alle terribili notizie sul conflitto tra Hamas e Israele.

“Nel 2003 allo scoppio della guerra in Iraq il movimento pacifista occupò le piazze di tutto il mondo in modo tanto forte da meritare la definizione giornalistica di superpotenza mondiale. Preceduto nel 2001 dal Forum di Porto Alègre, a sua volta spinto dal Popolo di Seattle (1999), il movimento seppe organizzare dal basso una critica radicale della globalizzazione e una potente strategia alternativa di ampiezza mondiale. Seppero collaborare intellettuali, movimenti sociali, sindacati, minoranze di ogni genere e tipo su una piattaforma intergenerazionale, transnazionale e interculturale. Il movimento seppe condizionare i governi nazionali”.

“La guerra tra Russia e Ucraina ha definitivamente spaccato il movimento, già indebolito dalla pervasività delle forme decise dal mercato 4.0, nonché dalla destrutturazione sociale provocata dalla pandemia – proseguono -. Nel contempo è divenuto sempre più evidente che il nodo di tutti i conflitti (sociali, energetici, climatici) e dei loro effetti – che Porto Alègre denunciava già vent’anni fa – si è spostato in Europa. Bisogna riconoscere che la crisi dell’Unione Europea corrisponde alla crisi del modello politico ed economico occidentale: è la crisi dell’Occidente, la crisi della civiltà dei diritti. Ne consegue che è necessario rivedere le forme attraverso le quali si ridefiniscono il bisogno e la possibilità di politiche del pacifismo per rafforzare l’Europa e la civiltà dei diritti. L’Unione Europea non è una comunità, ma è diventata un campo da gioco per la competizione degli Stati: il primo pericolo per l’Europa sono i nazionalismi e i forti principi identitari che ormai guidano o condizionano i governi di diversi Paesi. Con la vittoria della globalizzazione economica neoliberista è fallito il progetto di estensione della liberal democrazia occidentale a livello mondiale: il mercato ha vinto sui diritti. La guerra in Ucraina ha svelato l’inconsistenza diplomatica dell’Unione Europea, un Occidente a trazione nordamericana in contrapposizione al fronte Russia-Cina. Il resto del mondo si posiziona secondo dinamiche sempre meno prevedibili, che tuttavia si innestano in contraddizioni mai sanate, come testimonia la crescente virulenza del conflitto tra Hamas e Israele: noi scegliamo di guardarlo con gli occhi delle vittime dei due opposti fanatismi integralisti che intrappolano la vita delle persone in un conflitto feroce dove pagano i civili e gli inermi. Né possiamo tacere davanti alle politiche oppressive e coercitive che dal 2007 costringono 2 milioni di palestinesi a vivere in assoluta povertà nella striscia di Gaza“.

“Il processo di decolonizzazione dell’Africa testimonia ulteriormente la debolezza dell’Unione Europea e al tempo stesso non lascia intravedere reali processi di emancipazione dei popoli – proseguono -. Sono cambiate le logiche militari: oggi è in atto una guerra tecnologica 4.0, che si affianca a una guerra reale combattuta e sofferta, fin qui limitata a un preciso scacchiere geopolitico che tuttavia si sta pericolosamente allargando. Cambiamenti climatici e guerre regionali spingono ondate migratorie sempre più imponenti, mettendo in evidenza un altro conflitto che si va inasprendo, quello tra ricchi e poveri su scala mondiale. Di fronte a tutto questo, la scuola per la pace della Provincia di Lucca si mette a disposizione per riattivare la comunicazione tra le reti associative e facilitarne le forme organizzative al fine di: rielaborare gli strumenti di analisi politica e le forme di azione in grado di influire sull’opinione pubblica e sulle istituzioni; uscire dalla pigrizia mentale e dai perimetri identitari, cercando nuove forme per mediare gli inevitabili conflitti; produrre una cultura che evita le semplificazioni e smaschera le mistificazioni – strutturare convergenze che diano corpo e spazio alla fiducia nell’azione politica per la giustizia sociale, ambientale, di genere/i e intergenerazionale”.

“Nel vivo del nuovo fronte di guerra appena aperto, l’ente Provincia di Lucca si impegna attraverso il presidente a farsi portavoce presso le istituzioni sovraordinate dell’appello per una tregua immediata del conflitto tra Hamas ed Israele, affinché si possano porre le basi di una reale mediazione tra le parti – concludono -. Indispensabile è anche l’immediata apertura di corridoi umanitari che consentano la salvaguardia dei diritti basilari per la popolazione civile”.

il commento al vangelo della domenica

la giustizia del Padre è dare il meglio a ciascuno


La giustizia del Padre è dare il meglio a ciascuno
il commento di E. Ronchi al vangelo della  XXV domenica del tempo ordinario – anno A
«Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”»(…)
Guardo la giornata con gli occhi degli ultimi, quelli seduti in piazza con gli strumenti del loro lavoro posati giù, inutili, che sentono di avere fallito la loro missione, quella di procurare il pane: chi si sente incapace di badare ai suoi figli sta male, sta molto male. La chiamata che arriva inattesa, illogica, che basterà forse a procurare un boccone soltanto, è accolta subito, senza accampare scuse e senza chiedere dettagli, si va’ e si fa. Il proprietario che esce all’alba in cerca di braccianti, avanti e indietro dal campo alla piazza, per cinque volte fino a che c’è luce. Il padrone è solo un’immagine consolatoria della nostra vita spirituale o può dire qualcosa in termini di giustizia e solidarietà? Così gli ultimi operai che nessuno vede nessuno chiama. Siamo vigna di Dio: fatica e passione, il campo più amato. La terra intera è vigna amata, con i suoi grappoli gonfi di miele e di sole, ma anche con le sue vendemmie di sangue. Pressato da qualcosa che non è il lavoro in vigna: che senso ha reclutare lavoratori quando resta un’ora di luce? Il tempo di arrivare alla vigna, di prende-re gli ordini dal fattore, e sarà subito buio. Rivelatrici le parole del padrone: Perché ve ne state qui, tutto il giorno senza fare niente? Quegli uomini inerti producono un vuoto, provocano una mancanza di senso, il giorno attorno a loro si ammala. Questo accade perché la maturità dell’uomo si realizza sempre in tre direzioni: saper amare, saper lavorare, saper gioire. Nessuno ha pensato agli ultimi, allora ci penserà lui, non per il suo ma per il loro interesse, per i loro bambini, come virgulti d’ulivo attorno alla mensa senza pane. Quel cercatore di braccia perdute si interessi più degli uomini, e della loro dignità, che non della sua vigna; più delle persone che del profitto. Un grande. Accompagniamo questi ultimi braccianti fino a sera, al momento clou della paga. Primo gesto spiazzante: sono loro, gli ultimi arrivati, ad essere chiamati per primi, quelli che hanno lavorato di meno. Secondo gesto che stravolge la logica: loro che hanno lavorato un’ora soltanto, per una frazione di giornata ricevono la paga di una giornata intera. E capiamo che non si tratta di una paga, ma di altro modo di abitare la terra e il cuore. Quando poi arriva il turno di quelli che hanno lavorato dodici ore, portato il peso del caldo e della fatica, si aspettano, giustamente, pregustano un supplemento di paga. Ed eccoci spiazzati ancora. La paga è la stessa: «Non è giusto» protestano. È vero: non è giusto. Ma il padrone buono non sa nulla della giustizia, lui è generoso. Neppure l’amore è giusto, è di più. La giustizia non basta per essere uomini, tantomeno per essere Dio. Alla loro delusione risponde: No, amico, non ti faccio torto. Il padrone non toglie nulla ai primi, aggiunge agli ultimi. Non sottrae nulla, dona. Non è ingiusto, ma generoso. E crea una vertigine dentro il nostro modo mercantile di concepire la vita, sopra l’economia di mercato stende l’economia del dono: l’uomo più povero, senza contratto, viene messo prima del contratto di lavoro. La giustizia umana è dare a ciascuno il suo, quella di Dio è dare a ciascuno il meglio. Nessun imprenditore farebbe così. Ma Dio non lo è; non un imprenditore, non il contabile dei meriti, lui è il Donatore, che non sa far di conto, ma che sa saziarci di sorprese. Ti dispiace che io sia buono? No, Signore, non mi dispiace affatto, perché sono l’ultimo bracciante, perché so che uscirai a cercarmi ancora, anche nell’ultima luce.
(Letture: Isaia 55,6-9; Salmo 144: Filippesi 1,20c-24.27a; Matteo 20,1-16) 
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