un aiuto da parte di ‘web cattolici’ ad utilizzare al meglio la rete

LA RETE: COME VIVERLA?

 

L’Associazione WebCattolici propone, da gennaio a giugno, nove incontri a distanza sulle nuove tecnologie l’Associazione WebCattolici, che riunisce webmaster autori di siti di ispirazione cattolica in tutta Italia, propone per il 2014 una serie di incontri per avvicinare i più “distanti” all’utilizzo del web e far riflettere nel contempo i più “esperti” sulle implicazioni delle nuove tecnologie

social web

Impossibile ormai viverci senza. La Rete, e più in generale, le nuove tecnologie digitali, si stanno ritagliando uno spazio sempre più cospicuo all’interno delle nostre vite.

In tanti, dunque, sentono l’esigenza di un momento di approfondimento e di riflessione sul valore del web, sui rischi che comporta e sulle opportunità che può offrire. Anche come ulteriore strumento per la pastorale e l’evangelizzazione.

Per questo, accogliendo le richieste giunte negli ultimi mesi, l’Associazione WebCattolici, che riunisce webmaster autori di siti di ispirazione cattolica in tutta Italia, propone per il 2014 una serie di incontri per avvicinare i più “distanti” all’utilizzo del web e far riflettere nel contempo i più “esperti” sulle implicazioni delle nuove tecnologie. Il percorso, dal titolo “La Rete: come viverla?” andrà pure sullo specifico, trattando dagli aspetti commerciali e più economici della Rete al suo utilizzo anche in chiave pastorale.

I nove incontri, trasmessi in diretta su Youtube e sui siti www.weca.it e www.pcn.net, avranno la formula di veri e propri “talk show”. Esperti delle nuove tecnologie, testimoni e latori di buone pratiche avranno l’opportunità di interagire tra loro e con chi li seguirà in diretta web, che potranno, in ogni momento, inviare le loro domande.

Si parte mercoledì 22 gennaio, alle ore 21, con l’incontro dal titolo “L’Economia in Rete – Storie di Gratuità, Storie di Buone Pratiche”. In collegamento via Google Hangout ci saranno don Paolo Padrini, esperto di pastorale e new media, Lorenzo Mastropietro, Responsabile Tecnologie e Sicurezza Informatica, Piaggio & C. S.p.a, e Michele Crudele, ideatore del portale www.ilfiltro.it per la protezione dei minori in Rete.

«Con questi appuntamenti – spiega il presidente dell’Associazione WebCattolici, Giovanni Silvestri – vogliamo offrire spunti su un uso consapevole e maturo del web non solo agli operatori di pastorale, ai sacerdoti e agli ordini religiosi, ma anche agli educatori e ai genitori».

Il mese di febbraio, con gli incontri di mercoledì 5 e mercoledì 19, sarà invece dedicato ai Social Network, rispettivamente: “Social Network – un mondo da scoprire” e “Social Network – un mondo da vivere”. Fino a giugno, tanti gli approfondimenti, da “Cristiani e web. Con quali strumenti?” all’incontro “La Rete – Luogo di Regole” dedicato agli aspetti legali, dalla privacy alla diffamazione.

Per partecipare agli incontri non è necessaria la prenotazione, anche se è caldamente consigliato l’invio di una mail all’indirizzo incontri@webcattolici.it, al fine di ricevere, al termine di ogni incontro, il materiale bibliografico trattato.

Sul sito www.weca.it sarà possibile rivedere, in un secondo momento, la registrazione di tutti gli incontri. Maggiori informazioni sul percorso saranno via via pubblicate sempre sul sito dell’Associazione www.weca.it.

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la suora partorisce … basta sorridere?

presente-passato-futuro

facendo un po’ di autocritica pubblico volentieri questa riflessione sul caso della suora che ha partorito tenendo fino in fondo nascosto il suo problema, anche rischiando l’ironia dei più: però dopo il primo istante di reazione ironica, ha prevalso in me una immedesimazione nel dramma vissuto da questa suora e la percezione della sua sofferenza e dei problemi che queste situazioni non può non suscitare in ogni persona sensibile e credente

un grazie a ‘Riforma’ per questa opportunità di esplicita riflessione sui problemi legati a questo tipo di sofferenze:

Difendere, non deridere

di Peter Ciaccio

in “Riforma” – settimanale delle Chiese evangeliche battiste metodiste e valdesi – del 24 gennaio 2014

 

La scorsa settimana i giornali ci hanno raccontato che all’Ospedale di Rieti si è presentata una donna con forti dolori addominali. Per la precisione era una suora di 31 anni, originaria del Salvador, residente nel vicino convento di Campomoro. La donna ha dichiarato di non sospettare la causa dei suoi dolori, ma i medici non hanno messo molto a capire che stava per partorire. È infatti poi nato un bimbo. La notizia ha suscitato molta ilarità, a partire dalla gravidanza «a sua insaputa» (espressione resa ormai celebre dall’ex ministro Scajola che non sapeva di avere una casa al Colosseo), al fatto che la sessualità delle suore è un evergreen della barzelletta da bar, con la cretina allusione che magari lo Spirito Santo ne abbia combinata un’altra delle sue.

Nessuno ha parlato della paura che questa donna deve aver provato. Una paura lunga mesi, i mesi in cui teneva nascosto il suo stato, uno stato che – ricordiamo – dovrebbe essere di grazia, una condizione che trasforma il corpo di una donna in culla di un’altra esistenza. Mesi in cui non poteva ricevere assistenza dalla sua comunità, mesi in cui avrà sentito più forte la distanza di migliaia di chilometri da casa. La madre superiora ha commentato laconicamente: «Non ha saputo resistere alle tentazioni», mentre il vescovo ha detto: «Lascerà l’Istituto religioso per avere cura del piccolo».

Certo, non sia mai che l’Istituto religioso si occupi del piccolo! Probabilmente non spunterà fuori il padre. Questa donna e suo figlio vivranno una condizione analoga a quella della vedova e dell’orfano. Una nascita fuori dalle regole, rigettata anche dall’ambiente secolare, non così diverso da quello religioso, perché «queste cose una suora non le fa». Tutti che si immaginano quanto si sia divertita a concepire il figlio. Chi può saperlo? Forse una notte d’amore, o magari una relazione che ora si è interrotta, forse due solitudini che si sono incontrate o un approfittatore che la faceva sentire speciale.

Questa donna dovrebbe fare tenerezza. Anzi, andrebbe difesa e non derisa, andrebbe messa nelle condizioni di vivere una vita piena di dignità per poter crescere suo figlio nell’amore. È la nostra società, laica e al tempo stesso bacchettona, che andrebbe derisa. O peggio, come avrebbe detto qualche profeta.

«Fate giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova!» (Isaia 1, 17 )

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Papa Francesco incontra Arturo Paoli

Papa Francesco incontra Arturo Paoli, antifascista e teologo di 101 anni

Papa Francesco incontra Arturo Paoli  antifascista e teologo di 101 anni

“Vengo a sapere che papa Francesco ha ricevuto questa sera Arturo Paoli, 101 anni e padre spirituale della Teologia della liberazione”

Lo scrive su Facebook lo scrittore e filosofo Vito Mancuso precisando che “l’incontro e’ durato circa 40 minuti ed e’ stato all’insegna della piu’ cordiale sintonia”.     “Forse – ipotizza Mancuso – sta nascendo un Magistero della liberazione! Adelante Francisco!”.     Amico personale di Paolo VI, Arturo Paoli ha trascorso gran parte della sua vita in America Latina, soprattutto in Argentina e Venezuela. Sacerdote dal 1940 durante gli anni della guerra partecipo’ alla rete di protezione “Delasem” per nascondere gli ebrei perseguitati dal nazifascismo. Arrestato e poi rilasciato, rischio’ la vita per salvare un ebreo.     Per queste ragioni, nel 1999 riceve a Brasilia il riconoscimento di Giusto tra le nazioni dallo Stato di Israele e nel 2006 la medaglia d’oro al valore civile dalla Presidenza della Repubblica Italiana. Nel 1949 la Segreteria di Stato del Vaticano lo chiama a Roma come vice assistente nazionale della Gioventu’ cattolica, dove collabora con Carlo Carretto, del quale seguira’ poi la vocazione religiosa tra i figli di De Foucauld.     Nel 1954, a causa delle sue posizioni riguardo all’impegno dei cattolici in politica, viene pero’ allontanato e incaricato di imbarcarsi come cappellano in una nave di emigranti italiani in Argentina.       In quel primo viaggio matura la decisione di diventare religioso dei Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld che lo destinano prima in Sardegna tra i minatori di Iglesias e poi in Argentina, dove finisce nell’elenco dei condannati a morte dal regime.     Si salva in Venezuela, da dove nel 1985 si trasferisce in Brasile, prima a Sao Leopoldo poi a Foz do Iguacu. In tutti i paesi da lui animatore di progetti sociali e di promozione umana e contribuisce a una elaborazione in dialogo della teologia della liberazione.     Nel 2005, 93enne, decide di tornare definitivamente in Italia. Ritorna nella sua citta’ d’origine, Lucca, dove l’arcivescono monsignor Italo Castellani gli offre la chiesa di San Martino in Vignale, con annessa abitazione che Paoli intitola Casa Beato Charles de Foucauld.     Ogni giorno la sua casa e’ crocevia di persone di ogni eta’, condizione sociale, credo religioso, stato civile. La dimensione contemplativa e’ il filo sotterraneo che ha sostenuto la sua intensa azione, generatrice di ricerca, di amicizia, di speranza. (AGI) .  

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se l’Italia è indietro coi diritti civili la colpa è anche della chiesa

diplomazia vaticana

 

Filoramo: ‘Diritti civili, Italia arretrata. Chiesa responsabile’

Paolo Barbieri intervista il docente di Storia del Cristianesimo e presidente del Centro di Scienze delle religioni presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Torino

professore ordinario di Storia del Cristianesimo presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Torino e presidente del Centro di Scienze delle religioni presso la medesima università, Giovanni Filoramo è uno dei maggiori studiosi di storia delle religioni. Dirige, per le case editrici Laterza e Dell’Orso, tre collane di scienze religiose. Tra i suoi libri: Di che Dio sei? Tante religioni un solo mondo; La croce e il potere. I cristiani da martiri a persecutori; Il sacro e il potere. Il caso cristiano; La Chiesa e le sfide della modernità.

Il pluralismo religioso ha assunto dimensioni e implicazioni inedite. L’Italia è preparata a questo fenomeno?

Occorre distinguere tra pluralità e pluralismo religioso. Oggi in Italia, per effetto dei processi di immigrazione che hanno cambiato il volto del paese, esiste una pluralità di fenomeni e tradizioni religiosi, impensabile una generazione orsono. Questa pluralità religiosa può rimanere ghettizzata (come avviene in genere nella prospettiva comunitaristica) oppure trasformarsi in un fattore dinamico. In Italia, paradossalmente, la presenza della Chiesa può essere un fattore positivo, così come è avvenuto grazie ad organizzazioni cattoliche nell’accoglienza dei migranti. Anche dal punto di vista giuridico abbiamo un quadro costituzionale “aperto” che è contrario a una forma di laicité alla francese e auspica un riconoscimento pubblico delle presenze religiose. Per sua natura, infine, il fondo cattolico tipico della cultura italiana è incline ad aperture e ibridazioni.

Il confronto che la Chiesa cattolica sta sostenendo con una serie di sfide poste dalla modernità rischia di trasformarsi in un conflitto?

Difficile dirlo. Molto dipende dalle scelte che farà il nuovo papa. Mi sembra che egli stia abbandonando la linea dottrinale (ad tuendam fidem, ”a difesa della fede”) fortemente e pericolosamente identitaria portata avanti dai due precedenti pontefici. Se così è, verrà meno una causa conflittuale di fondo: la difesa di un’identità fondata su di una concezione di legge di natura di origine divina e immutabile, che non può resistere agli attuali progressi della scienza. Il nuovo papa, poi, come dimostra l’ultima esortazione evangelica, apre alle culture locali in una prospettiva globale. In questo modo verrebbe meno, se questa politica fosse confermata, un altro motivo radicale di conflitto: l’accentramento eurocentrico e la difesa a ogni costo della tradizione.

Quanto pesa l’ingerenza delle gerarchie ecclesiali in campi, dalla politica alla indagine scientifica che la Costituzione italiana affida unicamente all’iniziativa statale?

Moltissimo: ma questo era vero per la Cei soprattutto sotto la presidenza del cardinal Ruini. Sotto Bagnasco questa linea si è oggettivamente indebolita. Anche in questo caso penso che il nuovo pontefice stia incidendo profondamente per una trasformazione in senso più pastorale e meno politicizzato della Cei.

Dopo la sconfitta al referendum sul divorzio, Aldo Moro affermò che per i cattolici iniziava il tempo della testimonianza. Bisogna rimpiangere la laicità di quella classe politica?

Temo di sì. La laicità di quella classe politica è stata in molti casi dubbi, ma in altri, meno numerosi, a cominciare da De Gasperi, significativa. Certo, oggi, mancando un analogo della Dc è più difficile fare un confronto; inoltre, il caso degli atei devoti o dei politici, a partire da Berlusconi, che hanno tentato accordi con la Chiesa a scopi politici, ha contribuito in modo determinante a cambiare le regole del gioco. Rimane il problema, che intellettuali cattolici rigorosamente laici come Pietro Scoppola avevano lucidamente posto, per un cattolico impegnato in politica, di fare della propria coscienza – e non del rapporto con la gerarchia – il luogo ultimo delle proprie scelte.

Per quanto riguarda i diritti civili siamo un paese arretrato. Pensa che il Vaticano abbia responsabilità per questa arretratezza?

Certamente. Basterebbe pensare ai diritti civili che riguardano le unioni coniugali di fatto e in genere tutti quei diritti civili che minacciano la concezione della “famiglia naturale”. Da questo punto di vista, il fatto che la Chiesa, soprattutto dopo il Concilio Vaticano II, sia diventata paladina di quei diritti umani che aveva fino ad allora aspramente combattuto, non ha cambiato la sua posizione per quanto riguarda il fatto che questa difesa si fonda su una concezione di Legge naturale oggi non difendibile.

In questi anni c’è stato un dibattito acceso su scuola pubblica e privata. Intanto la politica dei tagli ha messo in crisi il sistema scolastico statale per non parlare dell’università. Come giudica lo stato della scuola e dell’università italiane?

Purtroppo la mia risposta è pessimistica. È una situazione disastrosa sotto molteplici punti di vista, ben noti perché dovuti ad analisi impietose e convincenti. Forse il fattore più preoccupante è lo spazio sempre più esiguo che ha nell’università attuale la ricerca. Nel campo umanistico, poi, si sta distruggendo una tradizione di cui l’Italia poteva andare orgogliosa. I piccoli settori di ricerca, in cui la ricerca italiana spesso eccelleva, oggi o sono scomparsi o hanno un futuro precario. La conferma: i giovani migliori o cambiano mestiere o sono costretti ad emigrare.

La corruzione è un cancro della società italiana. Lei pensa che la chiesa abbia qualche responsabilità se in Italia non c’è una cultura del bene comune?

Questa è stata a lungo una delle accuse, a partire almeno da Machiavelli, che è stata avanzata contro una cultura ecclesiastica (e gesuitica) casuistica e strumentale, che subordinava il bene comune di tutti al bene comune della chiesa. Ma oggi mi sembra un’accusa difficilmente sostenibile per l’incidenza profonda e capillare dei processi di secolarizzazione: il potere di incidenza della chiesa nella formazione della coscienza morale degli italiani (e di conseguenza il suo eventuale grado di responsabilità) mi sembra francamente inesistente.

La politica ha perso credibilità. Che giudizio dà della protesta a volte rabbiosa che dilaga nel paese?

Ritengo, come comune cittadino, che oggi questo sia, tra i tanti mali che funestano il nostro tessuto civile, il peggiore. Alle cause strutturali di crisi della democrazia liberale e rappresentativa, a cominciare dai partiti, si è aggiunta in Italia questa crisi gravissima, ormai di dominio pubblico: la politica come carriera al servizio dei propri più meschini interessi di arraffamento (le mutande di Cota sono esemplificative). La protesta è giustificata anche se personalmente ritengo che l’unica soluzione sia politica.

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l’intolleranza ultranazionalista imbarbarisce anche il popolo ebraico

Moni Ovadia accusa la Comunità ebraica romana: fascista e stalinista

Moni Ovadia

M. Ovadia accusa, ma non è il solo, anche l’altro ebreo italiano di rilievo Gad Lerner: per loro il popolo ebraico italiano deve ormai subire una netta divisione fra ebrei democratici ed ebrei (buona parte della comunità ebraica romana) che agiscono come fascisti e stalinisti

Una buona parte della Comunità ebraica romana si comporta come i fascisti o, per chi preferisce, come gli stalinisti. La clamorosa provocazione rivolta agli ebrei del ghetto di Roma non arriva dal solito barbaro leghista in mutande verdi, ma da Salomone “Moni” Ovadia, il celebre attore teatrale e scrittore di origini bulgare e, soprattutto, ebreo e fiero di esserlo. Almeno per questa volta, dunque, nessuna strumentale accusa di antisemitismo potrà essere mossa ad una discussione che si preannuncia infuocata, visto che Ovadia si spinge ben oltre la definizione, quasi blasfema per un ebreo, di “fascista”.

Dietro la polemica rilanciata dall’artista si nasconde una questione ancora più importante: la possibile scissione della Comunità ebraica romana, lacerata tra progressisti e quelli che, secondo Ovadia, “sostengono senza alcuna capacità o volontà critica l’attuale governo di estrema destra israeliano”.

Con un’intervista al Fatto Quotidiano, Ovadia denuncia l’assenza di democrazia all’interno della comunità diretta da Riccardo Pacifici, prendendo spunto da due fatti di cronaca accaduti all’interno del ghetto negli ultimi giorni: il pestaggio da parte di una ronda in kippah  e mazze da baseball di alcuni ragazzi, colpevoli di aver strappato un manifesto in onore del defunto Ariel Sharon; il clima da rissa che ha impedito a Giorgio Gomel (altro noto esponente della Comunità) di partecipare alla presentazione del libro Sinistra e Israele.

“È arrivato il momento di separarci e formare una comunità di ebrei tolleranti – dice Ovadia al Fatto – perché ciò che è accaduto questa settimana nel ghetto ebraico di Roma mostra il livello non più sostenibile di fascismo o, se preferite, stalinismo, a cui gran parte della Comunità romana è arrivata”. Parole affilate come rasoi che, se pronunciate dal Borghezio di turno, sarebbero valse la patente di antisemita a vita. Peccato che la resa dei conti sia un affare interno al mondo ebraico, di cui Moni Ovadia è uno dei più conosciuti esponenti. D’altronde, l’ipotesi scissione non l’ha certo formulata il drammaturgo di Plovdiv. Prima di lui era stato Gad Lerner, ebreo anche lui, a postare sul suo blog l’idea di formare “una nuova Beit Hillel, una Keillah che però potrà nascere solo dopo un atto di dissociazione collettivo rispetto all’attuale organizzazione dell’ebraismo di Roma”.

Sia Lerner che Ovadia se la prendono con la gestione Pacifici, ritenuta intollerante alle critiche. Il secondo, nell’intervista bomba al quotidiano di Padellaro, si azzarda a ribadire che “non bisogna confondere il sionismo con l’ebraismo”, una separazione storicamente accettata, venuta però meno negli ultimi anni. Ma non si ferma qui. Gli ebrei romani, a suo modo di vedere, si comportano come i governi ultranazionalisti israeliani, spietati con i palestinesi, ma anche con gli ebrei più tolleranti. “Si tratta della stessa tipologia di persone – ribadisce – che detestava e detesta Rabin e lo scherniva ritraendolo con la svastica al braccio e la kefiah in testa”.

Ovadia sogna una Comunità democratica, tollerante, basata su Torah e Talmud, ma anche sulla Costituzione italiana. E invece “qui c’è gente che pensa di avere la verità in tasca e chi ha idee diverse è da ostracizzare”. L’artista milanese di adozione non ha dubbi sul fatto che si è arrivati a questo livello di violenza perché “si è confuso il mantenimento dell’identità ebraica con il nazionalismo” praticato da Netanyahu in Israele. Ovadia non ha paura di essere additato come il traditore e di fare la fine di Rabin, neanche quando aggiunge che furono i fascisti a volere gli ebrei riuniti in un’unica Comunità e che “durante i primi anni del Ventennio gran parte del notabilato ebraico italiano era fascista”.

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la modernità sfida la chiesa a pensarsi in modo nuovo

 

diplomazia vaticana

Di fronte alle sfide della modernità, Mons. Albert Rouet invita a pensare la Chiesa diversamente  

fonte: J.B.in “www.cath.ch” del 18 gennaio 2014 (traduzione: www.finesettimana.org)

 nelle chiesa il potere è stato sacralizzato, non è più al servizio del popolo di Dio: le strutture parrocchiali  sono centripete, tutto gira attorno al prete, i laici restano spesso come dei minorenni
così mons. Rouet, l’arcivescovo emerito di Poitiers, con la chiarezza e l’incisività che lo contraddistingue, alle ‘giornate tematiche’ sull’apostolato dei laici: occorre inventare e immaginare la chiesa diversamente
 in un mondo sempre più globalizzato, di fronte ai colpi violenti della modernità che non risparmiano la Chiesa, Mons. Albert Rouet ha invitato i partecipanti alle “Giornate tematiche” della Communauté Romande de l’Apostolat dei Laïcs (CRAL) ad “inventare ed immaginare la Chiesa diversamente” 

I circa cinquanta laici che hanno partecipato all’incontro previsto per il 18 e il 19 gennaio al Foyer franciscain di Saint-Maurice, sono stati interpellati energicamente da Mons. Albert Rouet, forte personalità che non usa rimanere nell’ “ecclesiasticamente corretto”. Nulla di più stimolante per delle giornate intitolale “Il respiro della Chiesa passa attraverso la creatività dei laici. La creatività dei laici dà respiro alla Chiesa”

Nato nel 1938 in una zona agricola, specialista di pastorale sacramentale, a lungo a contatto con i giovani – come cappellano di liceo a Parigi fino al 1968, direttore di una équipe di preti con incarichi a favore dei giovani, delegato per il mondo scolastico e universitario – Mons Rouet è stato dal 1994 al 2011 a capo dell’arcidiocesi di Poitiers, nella regione francese del Centro-Ovest. Forte della sua lunga esperienza pastorale a Poitiers, dove ha tentato l’esperienza di una chiesa di comunione nel solco del Concilio Vaticano II – proponendo una struttura diversa che evita la centralizzazione ed inventa altre modalità di esercizio del ministero presbiterale – l’arcivescovo emerito è molto sollecitato per tenere conferenze in tutte le parti del mondo. “Viaggio molto, ha confidato sabato all’Apic, e vedo che la domanda del ruolo e del posto dei laici nella Chiesa si pone ovunque in tutti i continenti. Ci sono luoghi in cui la parola è soffocata. Progressivamente, le aperture del Concilio Vaticano II riguardanti i laici sono state canalizzate, anzi spesso ristrette.

Per Mons. Rouet, in questo mondo secolarizzato “in cui siamo diventati insignificanti”, è urgente ripensare la Chiesa diversamente, non sacralizzare il potere gerarchico, ma al contrario promuovere  piccole comunità fraterne, a dimensione umana, in cui tutti si conoscono. “Come possiamo  chiamare fraternità la nostra Chiesa, mentre si continua a centralizzare a tutta forza? Gli accorpamenti di parrocchie concentrano alcuni convinti in un luogo geografico dato, ma tolgono forze vive ad altre località, che ne avrebbero invece bisogno per resistere. Se si vuole essere significativi in questo mondo, bisogna invece decentralizzare per potersi parlare tra fratelli che si conoscono. C’è una misura affinché la fraternità possa esistere!” L’arcivescovo ritiene che la Chiesa debba d’ora in avanti basarsi sui battezzati. Bisogna avere fiducia dei laici e “smetterla di funzionare sulla base di una suddivisione medioevale del territorio”.

Basandosi sui Vangeli e citando san Paolo, rileva che il prete non deve essere visto in una relazione verticale, gerarchica, ma deve al contrario costituire un legame tra i credenti, creare la comunione, la comunità. “Le strutture parrocchiali sono centripete, tutto gira attorno al prete… Il prete è visto come un capo. Si è copiata l’organizzazione civile. Se vi introducete un laico, è come se ci fossero  due coccodrilli in un pantano: il conflitto è sicuro, questione di potere! Il potere è stato sacralizzato, da qui la guerra per il potere tra clero e laici!”

Se i laici restano dei minorenni, la Chiesa non è credibile, insiste Mons. Rouet. A suo avviso bisogna quindi cambiare la logica, uscire dallo schema di potere, passare dai laici come aiutanti di un prete al centro di tutto, a delle comunità locali responsabili, costituite da un’équipe di base animatrice, con un prete a servizio delle relazioni tra i fedeli. Essendo segno di comunione, il prete è a servizio della comunione, nello specifico presiedendo l’eucaristia e i sacramenti. “La comunione non richiede che lui faccia tutto. Lo pone al punto di incontro. Per questo, le strutture devono cambiare.”

L’arcivescovo emerito constata che il problema deriva dalle strutture ereditate dalla storia: la parrocchia, nel passato, era vista come un territorio, un feudo, e il parroco vi restava fino alla morte. Prima, il numero dei preti era alto in Europa o in Canada, mentre ne mancavano in altre parti del mondo.

“Oggi, da noi, mancano preti, e la Chiesa vorrebbe mantenere le stesse strutture… Allora, si fa appello a preti che vengono da paesi sufficientemente poveri per avere un numero sufficiente di vocazioni, tutto questo per non cambiare la sacralizzazione del potere”.

“Ma è questo che ha voluto Cristo, è questo che ci dice il Vangelo?”, si chiede Mons. Rouet. E cita la Costituzione dogmatica Lumen Gentium, promulgata dal Concilio Vaticano II, che dice che non c’è “nessuna ineguaglianza quindi in Cristo e nella Chiesa per riguardo alla stirpe o nazione, alla condizione sociale o al sesso, poiché « non c’è né Giudeo né Gentile, non c’è né schiavo né libero, non c’è né uomo né donna: tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28 gr.; cfr. Col 3,11). Mons. Rouet difende l’idea di una chiesa costituita fraternamente”.

I 2500 vescovi convenuti a Roma per il Concilio con l’idea di una Chiesa come “società gerarchica sacra” sono ripartiti “convertiti”, con l’idea di una “Chiesa sacramento del Regno”, sottolinea l’arcivescovo emerito di Poitiers. “Questa conversione dovrebbe trovare oggi la sua realizzazione sul terreno, ma ne siamo ancora lontani! Siamo davvero pronti ad attuare le intuizioni del Concilio?”. “Finché avremo ancora i mezzi, le cose non cambieranno, c’è la forza dell’abitudine, l’incapacità di pensare qualcosa di diverso da quello che si conosce. Quando, ad esempio, avremo una diocesi con solo 3 parrocchie e 5 preti, quando ciò toccherà direttamente il borsellino, allora bisognerà ben dirsi che si può fare diversamente”.

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Raniero La Valle e la chiesa italiana odierna

diplomazia vaticana

papa Francesco rappresenta una radicale e feconda novità anche per la chiesa italiana che il papa vorrebbe meno burocratica, meno separata dalla vita del mondo soprattutto nei suoi pastori, più capace di condivisione e misericordia verso i più marginali … ma non sembra a R. La Valle che essa si muova convintamente in tal senso, tranne delle poche e apprezzabili eccezioni

quella che segue è un’analisi realisticamente triste della realtà ecclesiale italiana rappresentata dai suoi vescovi che sembrano sottovalutare molto l’invito papale a diffondere capillarmente il ‘questionario’ per il sinodo straordinario sulla famiglia e a trasformarlo in un’opportunità di grande dialogo e partecipazione del popolo di Dio:

SE LA CHIESA RISPONDE

 

Era stato mons. Lorenzo Baldisseri, di fresco nominato segretario del Sinodo dei vescovi, a rompere gli indugi e gli autismi curiali e a direurbi et orbi che tutti potevano liberamente mandare testi di riflessioni e suggerimenti al Sinodo straordinario sulla famiglia, anche senza passare attraverso il canale canonico dei vescovi. Ora quel monsignore è stato fatto cardinale, segno che non ha preso una cantonata, che il papa è d’accordo con lui e che a dare la parola alla Chiesa non si è redarguiti ma si è promossi.  

Del resto c’è una coerenza: che senso avrebbe l’insistenza di papa Francesco sulle periferie, se il rapporto della Chiesa con le periferie fosse un rapporto discendente, paternalistico, di una Chiesa che scende dalle pedane e dai pulpiti per andare a ispezionare le periferie, e non invece un rapporto per cui la Chiesa riconosce tutta se stessa come periferia, e ascolta, e perciò dà la parola, alle periferie?

 

Il riconoscimento delle Comunità di base

 

Negli stessi giorni in cui le periferie erano chiamate a dire la loro sulla pastorale (ma anche sulla teologia) delle famiglie, il papa mandava un messaggio alle Comunità di base del Brasile riunite per il loro XIII incontro interecclesiale nello Stato del Cearà, richiamando la legittimazione data a tali Comunità dall’assemblea episcopale di Aparecida e riproponendo loro il dovere della evangelizzazione; e siccome questo è il “dovere di tutta la Chiesa e di tutto il popolo di Dio”, per il papa ciò equivaleva a dire che le Comunità di base, a differenza di ciò che si è ritenuto altrove, sono parte integrante e legittima della Chiesa.

Dunque questa è una Chiesa in movimento, cui la riforma in corso del papato sta dando nuova vita; farà pure degli errori, ma questo è il prezzo di ogni riforma, tanto che il papa ha detto ai giovani in Brasile di fare confusione, chiasso, “casino”, e nella “Evangelii Gaudium” ha scritto di preferire “una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per le chiusure e le comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze”.

Così incoraggiate, molte Comunità di base, associazioni ecclesiale, scuole di ricerca, aggregazioni spontanee hanno preso carta e penna e hanno scritto a Roma per rispondere a tutte o ad alcune delle 38 domande di cui consisteva il questionario messo in rete dalla segreteria del Sinodo. Molte risposte sono state severe, perché hanno criticato le domande stesse, che spesso della domanda avevano solo la veste retorica, ed in realtà erano tradizionalissimi enunciati sul matrimonio e la famiglia. Altre risposte sono state costruttive; ma in ogni caso della natura e della quantità dei documenti venuti direttamente dalla base si potrà sapere solo in seguito, quando qualcuno ne farà la ricognizione.

 

Molto cammino ancora da fare

 

Quello che invece si può rilevare fin da ora è che la Chiesa italiana, nelle sue strutture diocesane, ha accusato una difficoltà nel dare riscontro all’iniziativa del Sinodo. Non sembra che essa si sia messa in movimento, che abbia sollecitato interventi, veicolato proposte, si sia fatta eco di sofferenze e preghiere dei fedeli; si sconta ora il fatto che da cinquant’anni ormai, uscita in stato confusionale dal Concilio, la Chiesa italiana abbia imposto il silenzio ai fedeli e si sia fatta silenzio essa stessa, fino ai livelli di vertice della conferenza episcopale, priva com’è stata di ogni altra parola che non fosse quella del suo presidente.

Così la Chiesa italiana è giunta a questo appuntamento in stato di torpore, non si è fatta scuotere dalla novità di un organismo sinodale che prima di impartire direttive e insegnamenti chiedeva informazioni, pareri e proposte; essa non sembra essere uscita, almeno questa volta, dalle “abitudini – come dice il papa – in cui ci sentiamo tranquilli”.

Ma è solo la Chiesa italiana? Vedremo. Quello che intanto già si può dire è che la difficoltà a rispondere alla sollecitazione romana di una consultazione estesa a tutto il popolo di Dio, rivela un problema che non è solo di qualche comparto ecclesiale, ma è di tutta la Chiesa. Essa non è pronta a questo passo. Non è pronta a pensarsi veramente come popolo di Dio, né del resto le era necessario finché il Concilio, che ne aveva posto le premesse teologiche, era rimasto inattuato nelle sue conseguenze istituzionali e pastorali. Di fatto era rimasta vigente nella Chiesa romana la teologia del laicato, inteso come un esercito di riserva della gerarchia, anche se ormai in disarmo e pressoché inutilizzabile, come avevano dimostrato i velleitari tentativi politici alla “Todi 1” e “Todi 2”; era rimasta l’idea che l’unico vero apostolato fosse quello dei vescovi, a cui laici selezionati erano cooptati a collaborare; era rimasta l’idea  dei “duo genera christianorum”, giustapposti così che il ministero dei fedeli e quello dei chierici “differiscano essenzialmente e non solo di grado”; era rimasta l’idea che l’unica successione dall’evento fondatore della Chiesa fosse la successione apostolica e non anche la successione nella fede dell’universalità dei discepoli e del mondo più prossimo a Gesù; né erano state tratte tutte le conseguenze dall’aver identificato la Chiesa con la nuova figura o immagine di “popolo di Dio”,  che è una figura antropologica ulteriore e dirompente rispetto alla figura biblica di popolo di Dio riservata al popolo d’Israele. E la prima conseguenza di questo mutamento di paradigma rispetto alle immagini bibliche più tradizionali come quelle di gregge, di ovile, di tempio, di edificio di Dio, è quella per cui essere un popolo significa avere la parola, e godere dei diritti innati – ossia di origine divina – alla libertà e all’eguaglianza nel pluralismo di una comunità universale.

 

Che significa essere “popolo di Dio”

 

Non può essere infatti senza conseguenze che, nell’intento di rappresentare la fede e la Chiesa nel linguaggio e nelle forme del pensiero moderno “nel modo che la nostra età esige”, secondo quello che era il compito del Concilio, esso abbia privilegiato l’immagine del popolo di Dio rispetto a quella, finora dominante, del gregge. E’ chiaro che nel linguaggio dell’allegoria, che è uno dei sensi dell’interpretazione delle Scritture, le caratteristiche a cui allude l’immagine del popolo sono ben diverse da quelle cui allude l’immagine del gregge (che ha fiuto, ma non ha la parola, non ha l’autodeterminazione, non ha la libertà). Ed è molto interessante che nella Costituzione dogmatica del Concilio, il passaggio dall’idea del gregge all’idea del popolo è collegata al passaggio da una certa struttura di Chiesa, fondata sull’autorità di un solo capo, a un’altra struttura di Chiesa fondata sull’autorità del collegio apostolico (s’intende, con il suo capo); dice infatti la Lumen Gentium, al n. 22: “Questo collegio (degli apostoli), in quanto composto da molti, esprime la varietà e l’universalità del popolo di Dio; in quanto poi è raccolto sotto un solo capo, significa l’unità del gregge di Cristo”; dunque la diversità e universalità nel popolo e nella Chiesa sono legate alla sinodalità e collegialità, l’unità e uniformità del gregge sono legate al ruolo preminente di Pietro: e le due cose devono stare insieme.

Sta qui allora il valore dell’operazione avviata con il questionario diffuso per il Sinodo. La Chiesa collegiale, col suo capo, domanda, il popolo, nella sua varietà e universalità, risponde. E non è affatto detto che allargandosi l’interlocuzione non ci siano da aspettarsi delle sorprese. Ci sono delle risposte che hanno cambiato il mondo. A cominciare dalle risposte che si trovano nei vangeli. E’ quando Gesù chiede: “chi dice la gente che io sia?” che viene la professione di fede di Pietro: “Tu sei il Cristo”. E’ quando Gesù chiede ai discepoli di Emmaus che cosa era successo a Gerusalemme, che viene svelato il senso delle Scritture che avevano parlato del messia. È quando Gesù chiede a Marta se crede nella resurrezione, che Marta risponde: “Si, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo”. È quando Gesù chiede a Tommaso di mettere la mano nelle sue piaghe, che Tommaso risponde: “Mio Signore e mio Dio”; è quando i farisei chiedono al cieco nato di proclamare che Gesù era un peccatore, perché guariva di sabato, che  il cieco risponde con una delle più belle professioni di fede che ci sono nei vangeli: “se sia un peccatore non lo so, quello che so è che prima non ci vedevo ed ora ci vedo”. Ed è quando la donna torna in città per raccontare l’incontro con Gesù al pozzo di Giacobbe, che i samaritani andati a loro volta da lui le rispondono: “non è più per la tua parola che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo”.

Dunque c’è un ministero della risposta, del rispondere, nella Chiesa, che non è dei letterati, dei sapienti, dei chierici, dei consacrati, ma è dei discepoli, dei semplici testimoni, della gente comune. Nei vangeli, prima che nella predicazione degli apostoli, lo svelamento di Gesù come Signore, come Messia, come figlio di Dio, sta nelle risposte dei discepoli, delle donne, dei mendicanti, degli stranieri.

Ma questo ministero della risposta non si può esercitare se non c’è chi interroghi. Se nessuno chiede niente, non c’è nessuno che risponda. E la Chiesa allora resta muta, è la Chiesa del silenzio.

Per molto tempo nella Chiesa,  e per lo meno fino al Concilio, ai discepoli, ai fedeli, nessuno ha chiesto niente; è stata chiesta obbedienza, è stato chiesto di ascoltare, è stato chiesto di partecipare ai sacramenti, alle novene, ai catechismi e di dare l’8 per mille. Ma nessuno finora aveva chiesto che cosa pensano di Dio, del Cristo, dell’uomo, della Chiesa, dell’amore, del matrimonio, nessuno aveva chiesto come pensassero di poter  rispondere oggi della speranza che è in loro.

Perciò è una così grande novità che ora queste domande siano state poste. E se la Chiesa non è ancora pronta, l’importante è cominciare; l’importante è far crescere questo ministero del chiedere e del rispondere, perché maturi un nuovo modo di essere Chiesa, e anche un nuovo modo di essere mondo, perché finché si domanda e si risponde c’è dialogo, c’è comunicazione, c’è insegnamento e c’è apprendimento, ci può essere comunione, non c’è il fragore della guerra e il silenzio dei cimiteri.

  Raniero La Valle

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il monoteismo cristiano è ‘violento’ o possibile generatore di violenza?

 

riflessioni politico-religiose indotte dalla morte di Andreotti

   

 

un corposo documento dei cosiddetti ‘teologi del papa’ (fra cui anche l’italiano P. Sequeri – di cui si riproduce qui sotto una  apprezzabile riflessione -) ha visto la luce in questi giorni con lo scopo di rigettare la critica che troppo spesso viene fatta, soprattutto negli ultimi tempi, alla concezione cristiana di Dio e al monoteismo come possibile fonte di violenza essendo radicalmente violento, in quanto tale, il concetto stesso di monoteismo

di seguito l’articolo illustrativo di M. Burini e la riflessione di P. Sequeri che, al contrario, scorge nella concezione cristiana di Dio l’antidoto stesso alla violenza:

Il monoteismo dei cristiani non è violento. Lo dicono i teologi del Papa

 

di Marco Burini

in “Il Foglio” del 17 gennaio 2014

 

Che monoteismo sia sinonimo di violenza è una di quelle ipotesi di scuola diventate col tempo luogo comune, luogo comune assorbito senza troppi patemi dagli stessi credenti. Per confutare l’equazione, perciò, ci vuole gente attrezzata e piuttosto temeraria. I teologi, stando all’identikit  ne ha fatto Francesco, il 6 dicembre scorso: “Pionieri del dialogo della chiesa con le culture” che non restano nelle retrovie, “in caserma”, ma “in frontiera”.

Bergoglio aveva davanti per la prima volta la Commissione teologica internazionale (Cti), una sorta di selezione mondiale di teologi e teologhe voluta dal Papa (l’idea è di Paolo VI, 1969) per sostenerlo scientificamente nel suo magistero, che in questi giorni pubblica “Dio Trinità, unità  uomini. Il monoteismo cristiano contro la violenza”, dopo cinque anni di studi e confronto. Un documento corposo ma tutt’altro che illeggibile – il che non è poco, visto il genere letterario – firmato da un gruppo ristretto in cui spicca Pierangelo Sequeri, non tanto perché l’unico italiano ma perché la redazione finale del testo è, per chi lo conosce, di sua mano.

La sostanza del ragionamento è chiara: la chiesa non ci sta più a subire una comunicazione pubblica che identifica come intollerante e tendenzialmente violento chi crede nell’unico Dio: ebrei, musulmani e cristiani. Accusa che colpisce specialmente questi ultimi, però, dato che gli ebrei non conoscono il proselitismo (parola detestata da Bergoglio stesso perché fuorviante), mentre dell’islam si ragiona quasi sempre (tranne a Ratisbona) in termini geopolitici e non teologici.

Restano i cristiani, meglio ancora i cattolici – i più numerosi e pittoreschi – soggetti poco affidabili in una democrazia che veste meglio un politeismo sinonimo di tolleranza.

Tramontata l’epoca dell’unico re in nome dell’unico Dio, siamo nell’èra del pluralismo dei  sotto un cielo piuttosto affollato. Eppure la storia ci ricorda che i politeisti non sono affatto teneri.

Proprio Francesco, l’altroieri nell’udienza in piazza San Pietro, ha evocato la persecuzione dei cristiani in Giappone nel XVII secolo; anche una religione porosa e per niente dogmatica come lo shintoismo ha benedetto massacri.

Mentre il dogma fondante del cristianesimo – la morte e resurrezione di Gesù – espelle la violenza che, René Girard insegna, sempre si mescola al sacro. “Il principio di questa verità cristologica di Dio non si è mai perso – ricorda il documento della Cti – a costo di mettere il cristianesimo in contraddizione fra la sua prassi storica e la sua autentica ispirazione”. Insomma, i cristiani sono stati spesso violenti non perché cristiani ma perché tali solo di nome, traditori del dogma originale, ama Dio e ama il prossimo, incarnato in Gesù di Nazaret.

Certo, è dura scalfire la crosta di ignoranza, più o meno in malafede, che riveste una parola come dogma: un pesante macigno che incombe sulla testa di gente inadatta a pensare. Come se oggi la verità non potesse darsi che in maniera dispotica, “una minaccia radicale per l’autonomia del soggetto e per l’apertura della libertà”, notano Sequeri&Co. Proprio mentre si assiste a un “indebolimento, nel costume occidentale, del rispetto per la vita, dell’intimità della coscienza, della tutela dell’uguaglianza, della razionale passione per un impegno etico condiviso e per il rispetto dell’autentica coscienza religiosa”. Insomma, liquidato – anzi pervertito per dirla con Illich – il cristianesimo, la nostra cultura non ha trovato qualcosa di meglio, anzi è ancora lì curva a picconare il simulacro. Certo, c’è voluto “un lungo cammino storico di ascolto della Parola e dello Spirito per purificare la fede cristiana da ogni ambigua contaminazione con le potenze del conflitto dell’assoggettamento”, ma questo potrebbe essere il punto di svolta.

I teologi, che Bergoglio sprona ad assecondare il fiuto del popolo di Dio (sensus fidelium, in gergo), segnalano il grado di maturazione ecclesiale. Si riparte dunque dai fondamentali, recuperando la più genuina tradizione biblica e respingendo la “rozza semplificazione” fra “un Dio cattivo dell’Antico testamento e un Dio buono del Nuovo testamento”, che “ancor oggi continua a essere utilizzata all’interno di certa apologetica popolare (e persino cultura alta)”, buon ultimo Scalfari. Il tesoro della rivelazione sta lì dentro e non ha smesso di sprigionare la sua energia, quel dinamismo divino che prende il nome di Trinità. Ed è nel suo nome che il monoteismo viene riscattato dalla violenza in favore dell’amore (che “non va confuso con la mancanza di coraggio né indicato come irresponsabile ingenuità”) e della giustizia (quella divina, però, che “mette definitivamente al riparo la vittima delle potenze mondane dalla violenza che ha subìto”). E’ un dramma, la storia, e cristiani non ignorano la dialettica tra lo Spirito e la forza. Proprio per questo non ci stanno a essere ridotti a quel monoteismo intollerante che è un dogma dell’opinione pubblica. Ma anche per i dogmi, è meglio diffidare delle imitazioni.

croce

 

Nel monoteismo cristiano c’è l’antidoto alla violenza

di Pierangelo Sequeri

in “Avvenire” del 17 gennaio 2014

Fino all’altro ieri, ‘monoteismo’ era una categoria d’uso corrente, soprattutto fra i dotti studiosi di storia delle religioni, per indicare un grado di alta perfezione dell’idea di ‘Dio’: di fatto, la concezione del divino più coerente con la filosofia occidentale della ragione, e anche la più degna del pensiero umano del trascendente. In una manciata di anni, ‘monoteismo’ sembra essere diventato il nome in codice dell’oscurantismo religioso, il peggiore che sia immaginabile. Di fatto, esso è individuato come la minaccia essenziale al progresso di una civiltà della ragione e della tolleranza.

Le tre religioni monoteistiche dell’area mediterranea (giudaismo, cristianesimo, islam) appaiono così, essenzialmente in virtù di questo presupposto, come il seme radicale della violenza fra gli uomini.

La compulsiva diffusione della formula, che interpreta il monoteismo religioso come l’ideologia radicale della volontà di potenza, è certamente frutto dell’ignoranza. Ma anche una semplificazione grave. La formula è culturalmente nobilitata dagli effetti della nuova recezione progressista di Nietzsche, la cui ossessione antireligiosa ha indotto la tradizionale critica occidentale (greca e cristiana) nei confronti della violenza a rivolgersi contro la verità e il bene: che sarebbero le sue più insidiose coperture. Una parte dell’intellighenzia occidentale si è così applicata con metodo alla denuncia totale della religione, della metafisica, della spiritualità e della morale: indicando il cristianesimo come regista e garante dell’alleanza dispotica che le abita. La critica smantella così, con metodico puntiglio, anche tutti i presìdi del logos che ha storicamente cercato il contenimento della violenza, distraendo la nostra attenzione dalla violenza vera e propria. Questa irresponsabile deriva della cultura chiede nervi saldi e senso critico. È certo che esiste, storicamente, un oscuro rapporto fra le umane tradizioni del sacro e l’oscura pulsione della violenza, che ritorna di generazione in generazione (e la Bibbia spiega anche la ragione dell’umana corruzione del sacro, che sta all’origine di ogni peccato). La violenza è un tema cruciale dell’intera storia umana proprio perché essa è in grado di contaminare anche ogni presidio religioso e razionale del suo contenimento culturale. In questo senso, contrastarla è problema comune e dovere sacro di tutte le culture umane. Le guerre di religione, come la guerra alla religione, sono due forme dell’identica perversione.

La testimonianza riflessiva della fede cristiana nell’unico Dio deve dunque tenere seriamente conto del disorientamento prodotto dalla semplificazione ideologica associata al concetto di monoteismo (insieme con la generale intimidazione nei confronti della religione, che vi si accomoda).

Il nuovo documento della Commissione teologica internazionale, intitolato Dio Trinità, unità degli uomini. Il monoteismo cristiano contro la violenza, indica esplicitamente questa consapevolezza (come appare chiaramente dal primo capitolo, che ne istruisce i termini). Nondimeno, lo svolgimento del testo è guidato da una convinzione propositiva: la riflessione teologica può e deve trarre dalla migliore conoscenza e intelligenza della Parola di Dio i princìpi della decostruzione di questo pregiudizio. L’inedito assoluto della fede cristiana, infatti, è proprio nella smentita del valore di rivelazione della violenza omicida in nome di Dio, come fosse il sigillo della vittoria della verità e dell’eroismo della fede. Il successivo sviluppo della riflessione, che illustra le premesse e le implicazioni del nucleo cristiano della rivelazione non-violenta di Dio, è dunque ispirato da una duplice attenzione, la quale marca anche l’attualità della sua istruzione e della sua offerta di sintesi. Da un lato è mantenuta una puntuale attenzione all’articolazione della rivelazione di Dio con l’umanesimo non violento della sua attestazione. Dall’altro lato, speciale cura è dedicata al fatto che la rivelazione dell’intimità e della comunicazione trinitaria dell’unico Dio, lungi dal violarla, custodisce intatta l’unità e semplicità dell’essere divino, sigillandola come perfezione della vita e dell’amore. Il documento Dio Trinità, unità degli uomini non è reticente sul fatto che le molte luci dell’ininterrotta tradizione cristiana di questo principio sono state intercettate dalle molte ombre di una storia che le ha gravemente oscurate. Esprime nondimeno la convinzione che proprio questo sia un tempo particolarmente favorevole al disinnesco definitivo di antiche ambivalenze. Il cristianesimo ora ha maturato anche storicamente – ai livelli più alti e autorevoli della coscienza di sé, e della forma del suo annuncio – la serietà irrevocabile dell’interdetto evangelico nei confronti di ogni contaminazione fra religione e violenza. Inoltre, chiunque parli in questi termini, oggi – nelle sedi degli incontri interreligiosi, come nelle aule del consesso mondiale dei popoli – parla un linguaggio obiettivamente cristiano. Il compito di essere all’altezza di questo kairòs, anche mediante una teologia più trasparente della sua intrinseca verità cristiana, è un impegno dal quale il cristianesimo, per primo, non potrà più regredire.

Il testo dei 30 teologi, che vengono da ogni parte del mondo, non si limita a incoraggiare gli adoratori di Dio a far seriamente lievitare la testimonianza della religione verso la compiuta separazione dall’anti-umanesimo della violenza. Il loro discorso, non senza un tratto di garbata audacia, si spinge anche a suggerire alla filosofia critica e alla cultura politica dell’epoca di riprendere coraggio, per riscattarsi dalla decostruzione alla quale, mestamente o imperativamente, ci esorta. In altri termini, sembra venuta l’ora di chiudere i conti con il lavoro distruttivo del caos, per riprendere fiducia nel lavoro costruttivo del logos. In ogni modo, ognuno esamini se stesso e risponda onestamente all’appello dei popoli. La teologia cattolica ha fatto la sua mossa

 

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il commento di p. Maggi

p. Maggi

ECCO L’AGNELLO DI DIO, COLUI CHE TOGLIE IL PECCATO DEL MONDO

Commento al Vangelo della seconda domenica del tempo ordinario (19 gennaio 2013) di p. Alberto Maggi, giornata  – la centesima – dedicata alla riflessione sulle migrazioni (segno che non si tratta di una casuale emergenza ma di una realtà strutturale che va cambiando gli assetti mondiali) : dopo il commento di p. Maggi mi piace inserire una breve riflessione su questa centesima giornata di Tonio dell’Olio di ‘pax christi’:

Gv 1,29-34

In quel tempo, Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fossemanifestato a Israele». Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una   colomba dal cielo e rimanere su di lui. Io non lo conoscevo, ma proprio colui chemi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».

Giovanni cadenza il suo vangelo seguendo il ritmo della creazione secondo il libro della Genesi. E’’ per questo che il brano di oggi inizia con l’espressione “Il giorno dopo”. E’ il secondo giorno e l’evangelista cadenzerà questi giorni fino ad arrivare al settimo giorno, il giorno della completezza della creazione, con le nozze di Cana, dove sarà annunziata la nuova alleanza.

Ebbene, Giovanni Battista “il giorno dopo, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio ”.

Giovanni Battista identifica in Gesù l’agnello di Dio, cosa si intende con questo agnello? E’ l’agnello pasquale, quell’agnello che Mosè ordinò al suo popolo di mangiare la notte della Pasqua, perché la carne avrebbe dato la forza per compiere questo cammino verso la liberazione e il sangue di questo agnello avrebbe privato gli ebrei della morte che l’angelo distruttore quella notte avrebbe portato su tutto l’Egitto.

Quindi carne per avere la forza di camminare verso la libertà, e sangue che libera dalla morte.

Ebbene Giovanni l’evangelista vede in Gesù l’agnello di Dio. Sono numerosi i riferimenti nel vangelo su Gesù come agnello pasquale, per esempio la sua morte che sarà la stessa dell’ora nella quale nel tempio venivano sacrificati gli agnelli per la Pasqua, il fatto che a Gesù non sarà spezzato alcun osso, come era stato stabilito per questo agnello pasquale al quale non dovevano essere spezzate le ossa. Quindi Giovanni vede in Gesù l’agnello di Dio, colui la cui carne darà la capacità e la forza di iniziare il cammino verso la libertà, la liberazione e l’esodo, e il sangue, che non salverà dalla morte fisica, ma salverà dalla morte definitiva. Consentirà a chi accoglie questo sangue una vita di una qualità tale capace di superare la morte.

Ebbene, la funzione dell’agnello di Dio, secondo Giovanni, è “colui che toglie il peccato del mondo”.

Non si tratta dei peccati del mondo, che darebbe il significato dei peccati degli uomini, ma il peccato del mondo. C’è un peccato che precede la venuta di Gesù e rappresenta un ostacolo alla comunicazione tra Dio e l’umanità. Questo peccato è il rifiuto dell’offerta di pienezza di vita che Dio offre all’umanità, causato dall’adesione a un sistema ideologico, religioso che è contrario alla volontà di Dio. E Giovanni Battista definisce Gesù come “colui del quale ho detto «Dopo di me viene un uomo ”, quindi per adesso viene presentato soltanto come uomo. Dice che non lo conosceva, ma è venuto “a battezzare nell’acqua perché Gesù fosse manifestato a Israele” Israele sarà stato sempre un piccolo gruppo che è rimasto fedele al Signore, all’alleanza, alle sue promesse, e nel libro del profeta Sofonia si legge “Farò restare in mezzo a te un popolo umile e povero, un resto di Israele che confiderà nel nome del Signore”

E a questo resto la promessa del Signore. Ma questa promessa che adesso è per Israele dopo con Gesù si rivolgerà da Israele a tutta l’umanità. “Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito»”, l’articolo determinativo indica la totalità dello Spirito, cioè l’energia divina, la pienezza della forza di Dio, cioè l’amore, «Discendere come una colomba dal cielo»”,  ricordiamo che la colomba rimanda sia allo Spirito che aleggiava sulla creazione nel racconto del Genesi, sia all’affetto della colomba per il suo nido «E rimanere su di lui»”. E’ importante come l’evangelista sottolinei non soltanto il fatto che lo Spirito discenda su Gesù, ma che rimanga. Cosa vuol dire? L’esperienza dello Spirito è possibile a molti, ma solo colui sul quale questo Spirito rimane, questi lo può comunicare all’altro; questa sarà infatti l’attività di Gesù che adesso vedremo «Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse ‘Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito’ »” …  ecco di nuovo l’evangelista sottolinea che, non solo lo Spirito, cioè la forza, la potenza di Dio scende su Gesù, ma su lui rimane. Prosegue letteralmente «’… è colui che battezza nello Spirito Santo’»”.

L’evangelista pone in parallelo l’espressione usata “colui che toglie il peccato del mondo” con “colui che battezza nello Spirito Santo”. Questo peccato non deve essere espiato ma deve essere estirpato. Come? Non attraverso una lotta, non attraverso una violenza. Giovanni ha già scritto nel suo prologo che la luce splende tra le tenebre, la luce non combatte contro le tenebre; la luce si limita a brillare e le tenebre se ne vanno.

L’azione di Gesù è di battezzare nello Spirito Santo. Mentre il battesimo nell’acqua significava immergersi in un liquido che era esterno all’uomo, il battesimo nello Spirito Santo significa lasciarsi impregnare, inzuppare con la pienezza della potenza divina che viene da Dio attraverso Gesù. Quindi l’azione di Gesù è comunicare ad ogni persona la sua stessa vita divina.

Mentre su Gesù scende la forza di Dio, lo Spirito, l’azione di Gesù è quella di battezzare in Spirito Santo; ‘Santo’ indica non solo la qualità, la santità di questo Spirito, ma la sua attività di santificare, cioè separare quanti accolgono questo Spirito, dalla sfera del male, dalla sfera delle tenebre. Quindi l’azione di Gesù è quella di comunicare il suo stesso Spirito.

Una volta che questo Spirito è accolto nella persona, questo diventa una sorgente zampillante che comunica, in maniera crescente, continua e traboccante, la vita divina. E conclude il brano, “«E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio»”. Colui che era stato annunziato semplicemente come un uomo , “dopo di me viene un uomo che è davanti a me”, ora viene rivelato come il figlio di Dio.

Una volta che è discesa la pienezza dello Spirito Santo, in Gesù c’è la pienezza della condizione divina e Gesù manifesta pienamente la realtà di Dio.

migranti

Il sesto continente 

Tonio Dell’Olio

Domenica prossima in tutte le chiese cattoliche del mondo sarà celebrata la centesima giornata mondiale del migrante e del rifugiato. Centesima. Segno che non può essere emergenziale l’attenzione per coloro che sono costretti ad abbandonare la propria terra. Che a buon ragione quello dei migranti deve essere considerato ormai il sesto continente. E che lo sguardo va oltre Lampedusa e si sposta ai mille confini del mondo in cui tanta povera gente gioca a dadi col proprio destino. Per cercare una vita dignitosa per sė e per la propria famiglia. Segno che le migrazioni dei popoli cambiano lingua e rotte, modalità e origine, ma sono endemiche. Ce ne dobbiamo fare una ragione. Al contrario la stragrande maggioranza dei soldi del capitolo immigrazione nel nostro Paese vengono destinati per la gestione dei CIE e per i respingimenti. Briciole, solo briciole, per scuola e servizi sanitari che sono i luoghi in cui si costruisce sicurezza sociale. Una politica miope che non riesce nemmeno ad affrontare il tema in senso planetario, ovvero con accordi internazionali e politiche di cooperazione. E intanto il carico delle vittime si fa insostenibile per le nostre coscienze da Prato a Lampedusa, ma anche dai confini messicani a quelli asiatici. Mi dice padre Giovani La Manna: “Per strappare all’anonimato i morti della notte del 3 ottobre a Lampedusa ho deciso di celebrare ogni giorno una messa per ciascuno di loro e mi sono accorto che sono 368 i morti ufficiali. Non mi basteranno tutti i giorni dell’anno”.

 

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celebrazioni per don Baroni

Autorità civili e religiose celebrano Don Baroni, il prete di rom e circensi. E gli intitolano un parcheggio a Segromigno

Da sinistra: Gianfranco Perego della Fondazione Emigrantes, il sindaco di Lucca Tambellini, Michelangelo Giannotti dell'Arcidiocesi di Lucca e l'assessore comunale Vietina

una giornata tutta dedicata a don Baroni nel 29° anno dalla sua morte e in un contesto di grande polemica scatenata dalla destra supportata da ‘la Nazione’ per un progetto di risistemazione di un’area di sosta nei pressi del cimitero urbano (polemica cui risponde in modo vibrato il sindaco Tambellini)
così il giornalista Stefano Giuntini ricostruisce la giornata su ‘lo Schermo’:

 

Sono passati 29 anni dalla morte di Don Franco Baroni e gli immigrati in Italia sono passati da 250mila a circa 5 milioni, provenienti da 200 diverse nazioni e che saranno celebrati domenica prossima nel corso della centesima edizione della “Giornata mondiale del migrante e del rifugiato”. Fra questi i rom e sinti – ovvero una comunità particolarmente cara a Don Baroni – sono circa 170mila (di cui 100mila bambini), ossia il numero più basso d’Europa.

In un recente sondaggio in cui si chiedeva “Chi non vorreste mai come vicini di casa?” il 90 per cento degli italiani ha risposto proprio questi ultimi, già oggetto di persecuzione sotto il nazismo (500mila morti) e priorità per quanto riguarda le leggi razziali fasciste (i primi a essere colpiti furono 2500 bambini rom).

Ed è proprio l’impegno di Don Baroni nei confronti di queste persone – come pure dei circensi e, più in generale, degli emarginati – che sono state dedicate le celebrazioni di oggi (16 gennaio), nel giorno dell’ottantesimo anniversario della sua nascita organizzato dall’associazione che porta il nome del prete e articolato in sue momenti: l’intitolazione a Don Baroni del parcheggio di Segromigno nei pressi della sua casa Natale e un pranzo conviviale sotto il tendone della Croce Rossa di via delle Tagliate.

Insomma, un’intera mattinata di celebrazioni, a cui hanno partecipato, assieme alla sorella Piera Baroni, autorità – politiche, religiose e legate al mondo del volontariato – come il sindaco di Lucca Alessandro Tambellini (Leggi l’intervento cliccando qua), quello di Capannori Giorgio del Ghingaro, il presidente della Provincia Stefano Baccelli, l’assessore del Comune di Lucca Ilaria Vietina, il vicario generale dell’Arcidiocesi di Lucca Michelangelo Giannotti, il presidente e il vicepresidente del Centro nazionale del volontariato – rispettivamente Eduardo Patriarca e Andrea Bicocchi -, oltre a monsignor Gianfranco Perego della Fondazione Migrantes della Cei.

Ma andiamo con ordine, partendo dalla prima parte della giornata, svoltasi presso la scuola elementare Don Franco Baroni (appunto) e che ha visto il sindaco di Capannori fare gli onori di casa.

“Abbiamo scelto di intitolare proprio un parcheggio a Don Franco perché rappresenta un luogo di passaggio – ha detto il primo cittadino –, quindi significativo di colui che per tutta la vita si è occupato dei nomadi, ossia di portare l’attenzione verso persone che di solito non la ricevono. Il fatto che questo parcheggio si trovi di fronte a una scuola rientra nell’opera di sensibilizzazione dei bambini nei confronti delle categorie più deboli della società, tanto care a Don Baroni. Un riconoscimento dovuto dal Comune di Capannori”.

E mentre Michelangelo Giannoni ha ricordato l’importanza della figura di Don Baroni nella “nell’allargamento dell’azione della Chiesa territoriale al mondo tramite l’attenzione al mondo dei nomadi, dei circensi e delle missioni”, Stefano Baccelli ha espresso la sua gratitudine nei confronti del prete celebrato, nonché di tutti gli altri prelati che “nella storia hanno testimoniato il messaggio cristiano più semplice e concreto: essere vicini agli ultimi”.

Il presidente della Provincia, parlando di Don Baroni, ha ricordato anche Don Aldo Mei e le figure religiose che dalla guerra in poi hanno servito la comunità: “E’ proprio nel loro nome che alcuni anni fa abbiamo consegnato la Pantera d’oro, ossia il più alto riconoscimento della Provincia, al Vescovo di Lucca”.

Concetti come “progettare per la comunità costruire sostegno”, “vicinanza e urgenza” e “sensibilizzazione dello Stato nei confronti di chi ha bisogno” sono invece stati la chiave dell’intervendo di Patriarca, che ha asserito come “sia impossibile parlare di ripresa della nazione, se tale crescita non riguarda tutta la popolazione”. Secondo il presidente del Cnv “finchè ci saranno 18 milioni di cittadini che arrivano a stento infondo al mese ciò non accadrà mai, per questo gli interventi sociali sono tutt’altro che marginali per rialzare economicamente l’Italia”.

Andrea Bicocchi ha invece ripercorso la storia di Baroni ricordando in particolare la vicenda legata ai popoli migranti, ossia “uno dei punti dove la sensibilità di Don Franco e Maria Eletta Martini, fondatrice del Cnv, si incontrò, con il fondamentale apporto di Maria Eletta alla convenzione fra diversi soggetti, in primis il Ministero della Pubblica Istruzione e l’Ente Circhi, per realizzare le scuole nei circhi. Sembra un dettaglio della storia, ma è invece un esempio di come le battaglie per la civiltà e li sviluppo umano integrale passino da ogni luogo, soprattutto da quelli che sono ritenuti ‘periferici’ o marginali”.

Un concetto, questo, allargato dall’assessore Vietina nel suo intervento, in cui ha descritto ai presenti le differenze fra una società chiusa e una aperta attraverso la messa da parte di termini come “stranieri” e “ospiti” a favore di quello di “concittadini”, ponendo così l’accento sull'”inclusività” per arrivare a parlare della sua idea di Lucca: “La nostra città – ha dichiarato – non deve avere periferie o persone che vivono in periferia, ma tutti i cittadini devono essere ugualmente al centro della vita sociale”.

Stefano Giuntini

 

“Questione nomadi”, Tambellini tuona alle celebrazioni di Don Baroni: “Fieri del coraggio affrontarla in un contesto ostile”

Un momento del discorso del sindaco di Lucca

 

“Siamo fieri di aver il coraggio di affrontare il tema dell’integrazione in un contesto ostile”. Queste sono le parole, pronunciate con determinazione e fermezza dal primo cittadino Alessandro Tambellini oggi, in occasione della commemorazione di Don Franco Baroni (presso il tendone della Croce Rossa di via delle Tagliate), dove ha presenziato assieme ad altri esponenti politici e del mondo del volontariato lucchese.

Parole che si riferiscono, neanche a dirlo, alla “questione rom”, una polemica legata ai finanziamenti al campo nomadi che da settimane infuria su tutte le testate giornalistiche e che ha attirato sulla maggioranza un vero e proprio tsunami di critiche, che però – a quanto pare – hanno tutt’altro che demotivato il sindaco dalla sua linea politica.

Anzi.

“Ricordo volentieri Don Franco Baroni in un momento come questo – ha ribadito al microfono il primo cittadino – in un momento in cui siamo costantemente sulle pagine dei giornali solo per aver presentato un progetto sui nomadi, ma crediamo che non si debba indulgere a certe istanze che fanno capo alla peggiore interiorità umana sono il segno di una concezione diversa alla nostra del concetto di convivenza civile”.

Secondo il sindaco, infatti, è necessario partire dalla figura di Don Baroni – “che è stato cappellano di nomadi e circensi, vivendo il Concilio e la nuova aura che esso ha portato alla Chiesa cattolica” – per tradurre il suo impegno al servizio di “coloro che sono ritenuti ai margini della società civile, sulla base del puro insegnamento cristiano: la necessità di stare vicini a tutti, soprattutto a chi ha di meno”.

Alessandro Tambellini, a riguardo, ha ricordato al pubblico “l’importanza del concetto di fratellanza, non solo a Lucca, ma in tutta Italia, in un momento storico come questo in cui qualcuno si permette addirittura di paragonare un ministro della Repubblica a una scimmia solo sulla base del colore della pelle”.

Per il primo cittadino la risposta a questo degrado “non può essere basata su idee che si riferiscono all’esclusione e al razzismo”.

Insomma, l’intervento del sindaco è stato prettamente basato sull’evidente conflitto d’interesse fra i dettami religiosi – “nonostante ci vantiamo di essere la città delle cento chiese” – e la loro applicazione pratica, quando si chiede di applicare la solidarietà a certe etnie, rispetto ad altre.

Un vero cortocircuito.

E infatti a pensarci bene qualcuno, in tempi non sospetti e prima delle leggi regionali incriminate, aveva detto “sono tutti uguali agli occhi del Signore”, “ama il tuo prossimo come te stesso”, ma anche e soprattutto (per i possibili “falchi cattolici” che lamentano una condotta lesiva da parte dei rom nei confronti della comunità ospitante) “porgi l’altra guancia”.

Certo – e non è per fare la morale -, nella città delle contraddizioni si può anche essere cristiani e massoni allo stesso tempo, oppure andare ogni domenica alla Santa Messa e poi non ricordarsì né tutti Dieci Comandamenti, né i nomi di ognuno dei sette nani.

Capita.

Ma tant’è: la fede non è prescritta dal dottore e d’altronde non tutti i lucchesi sono religiosi. Però, come dicevano i Monty Python ne “Il senso della vita” (film premiato a Cannes nel 1983), “se avete scelto di aderire alla religione più quotata del pianeta ci sono certe regole a cui attenersi”.

Al di là di questo – sempre per parlare di coerenza – il sindaco ha fatto presente che “ricordare un personaggio come Don Baroni significa ribadire i suoi principi e il senso dei suoi insegnamenti all’interno dell’idea cristiana, altrimenti otteniamo solo una sterile celebrazione. Ricordarlo significa riportare alla memoria ciò che ha testimoniato con la sua vita”.

A proposito: la biografia di Don Franco Baroni la trovate direttamente a questo link. Oggi sarebbe stato il suo ottantesimo compleanno.

Stefano Giuntini

 vedi anche: in memoria di don Baroni

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