riflessioni di p. E. Bianchi a proposito della ‘giornata della memoria

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Credenti di buona memoria

riflessioni di p. Enzo Bianchi per il ‘giorno della memoria’ :”una giornata in cui fa bene a tutti ricordare: a chi vorrebbe dimenticare perché il dolore subito è troppo grande e a chi vorrebbe farsi dimenticare perché di quel dolore è stato complice. E ricordare fa bene anche e soprattutto a chi l’inferno della Shoah non l’ha vissuto, né direttamente né attraverso persone care”:

di Enzo Bianchi

in “Avvenire” del 24 gennaio 2014

 

La Giornata della memoria è un momento privilegiato di etica condivisa, un’occasione che l’umanità si è data per esercitarsi nel discernimento tra ciò che è bene e ciò che è male, per riconoscere che anche nelle buie stagioni di barbarie la responsabilità delle proprie azioni – e dei pensieri che le muovono – è personale. Una giornata, allora, in cui fa bene a tutti ricordare: a chi vorrebbe dimenticare perché il dolore subito è troppo grande e a chi vorrebbe farsi dimenticare perché di quel dolore è stato complice. E ricordare fa bene anche e soprattutto a chi l’inferno della Shoah non l’ha vissuto, né direttamente né attraverso persone care.

Ma cosa significa in particolare questa Giornata di etica universale per ebrei e cristiani – per i credenti nel Dio biblico – e per le loro relazioni? Ebraismo e cristianesimo non solo hanno dimestichezza con la memoria, ma trovano in questa categoria del “memoriale”, del ricordo attualizzante, il cuore delle celebrazioni della loro fede. Fare memoria  dell’esodo dall’Egitto, della liberazione dalla condizione di schiavitù è l’essenza stessa della  esta della Pasqua ebraica. Il Dio di Israele è il Dio che ha liberato e libera il suo popolo da ogni condizione di estraneità: ogni comandamento donato dal Signore al Sinai prende le mosse da quel «Ricordati che eri straniero nel paese d’Egitto!». Se questa  emoria accompagnerà ogni tuo istante di vita, non potrai che comportarti come il tuo Dio misericordioso e compassionevole ti chiede di comportarti

.Ma anche per i cristiani la Pasqua è memoriale di un esodo decisivo nella storia della salvezza: ilpassaggio di Gesù di Nazareth dalla morte alla vita, il dono fatto dal Messia, Figlio di Dio, del suo corpo e del suo sangue, da celebrare osservando la sua parola: «Fate questo in memoria di me». Per questo parlare di “memoria” per ebrei e cristiani significa andare al cuore della loro fede e non solo rievocare eventi tragici perché non si ripetano più o gesti di profonda umanità perché servano da esempio.

In questo senso la Giornata della memoria è anche l’occasione perché ebrei e cristiani si chiedano quanta est nobis via?, quanto cammino ancora ci resta da compiere sulla strada del dialogo, della conoscenza reciproca, dell’obbedienza all’unico Signore? E, come sappiamo, questo cammino è fatto sì di incontri ufficiali, di dichiarazioni comuni, di studi e  appondimenti storici e scientifici, riaperture di archivi, di riletture di eventi, ma è fatto anche di persone concrete, di ascolto cordiale, di incontri cuore a cuore più ancora che faccia a faccia. In questo senso abbiamo visto come l’elezione a vescovo di Roma di un cardinale proveniente dal Paese dell’America Latina con la comunità ebraica più consistente – e nello stesso tempo in cui ha trovato rifugio un gran numero di artefici della Shoah – e legato da cordiale amicizia con il rettore del seminario rabbinico di  Buenos Aires abbia conferito agli scambi formali una connotazione di umana simpatia e solidarietà.

Ora, “fare memoria insieme” significa anche ammettere che purtroppo per oltre diciannove secoli l’atteggiamento dei cristiani verso gli ebrei è stato modellato dall’emulazione, dalla condanna, dal disprezzo, dalla persecuzione, è stato cioè un antigiudaismo perdurante, mai contraddetto in modo decisivo da parte delle istituzioni, dei magisteri, delle voci autorevoli delle diverse Chiese. Un atteggiamento, questo dell’antigiudaismo cristiano, che, pur distinto dall’antisemitismo, lo ha accompagnato producendo una ricaduta con effetti di potenziamento; antigiudaismo cristiano teologico e pratico che di fatto ha favorito il silenzio, l’indifferenza e la passività della quasi totalità dei cristiani e delle Chiese nell’ora del male assoluto, l’ora della Shoah. Ma è innegabile che papa Giovanni XXIII, il Vaticano II e il suo decreto Nostra aetate abbiano rappresentato in questo senso una svolta epocale. Dopo quella stagione primaverile, che molti ritrovano nell’ora attuale, è possibile per le due religioni essere una accanto all’altra nella forma non della loro reciproca negazione ma del riconoscimento, ammettendo che nessuna forma religiosa può esprimere pienamente la verità, né la sua unità integrale. Questo richiede però di perseverare in un lungo cammino che non si accontenta di liquidare l’antigiudaismo come “errore teologico” e di condannarne la prassi nella storia, ma che diventa anche esame critico delle sue motivazioni e ispirazioni. Cammino lungo, faticoso, che comporta un lavoro su di sé, ma cammino assolutamente necessario se non vogliamo arrestarci alla cura dei sintomi senza sanare le cause. Da almeno una dozzina d’anni, poi, è iniziata anche la ricezione della svolta da parte degli ebrei, come testimoniato sia da documenti e dichiarazioni sia da un mutato atteggiamento nel vissuto quotidiano di tante comunità. Anche questo dato non fa che accrescere la speranza di un nuovo rapporto che sia confronto e cordiale dialettica tra le due religioni. 

Del resto, la Giornata della memoria non ricorda solo il male assoluto e le sue vittime, ma anche la “banalità del bene” di coloro – e sono stati tanti, anche tra i cristiani – che a rischio della  ropria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati, i “Giusti fra le Nazioni”. È doveroso allora ricordare come alcuni giorni fa papa Francesco abbia ricevuto per un lungo colloquio personale uno di loro, fratello Arturo Paoli, ultracentenario prete da sempre vicino ai poveri e alle vittime della storia: un testimone del Vangelo che ha molto sofferto a causa della giustizia, anche a opera di fratelli nella fede che lo hanno emarginato. Presenze e incontri come questo sono allora un richiamo alla responsabilità personale di ciascuno: nessuno potrà più invocare a propria scusante l’ignoranza su quanto accaduto nella storia. Ciascuno di noi è e sarà responsabile in prima persona di una conferma o di una contraddizione alla svolta nel dialogo tra ebrei e cristiani. Anche questo ci ricorda la Giornata della memoria.

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riflessioni nel ‘giorno della memoria’

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nel ‘giorno della memoria’ è importante soprattutto riflettere perché la rimozione sbrigativa e superficiale del passato ci porta, senza che ce ne accorgiamo, a riprodurre atteggiamenti, insensibilità e disumanità che sono le premesse perché cio che è stato possa rivirsi ancorché in forme inedite

niente di più opportuno che riflettere su una intervista di E. Biagi a Primo Levi stesso, verrà inoltre proposto un articolo di L. Mazzetti su forme di razzismo ancora presenti fra noi nell’azione disinvolta di qualche forza politica come la Lega ed infine la reazione comprensibilmente durissima a gesti di volgare razzismo antisemita coi pacchi contenenti teste di maiale:

“Come nascono i lager? Facendo finta di niente”

 intervista a Primo Levi a cura di Enzo Biagi

in “il Fatto quotidiano” del 26 gennaio 2014

(in onda su RaiUno l’8 giugno 1982)

Levi come ricorda la promulgazione delle leggi razziali?

Non è stata una sorpresa quello che è avvenuto nell’estate del ’38. Era luglio quando uscì Il manifesto della razza, dove era scritto che gli ebrei non appartenevano alla razza italiana. Tutto questo era già nell’aria da tempo, erano già accaduti fatti antisemiti, ma nessuno si immaginava a quali conseguenze avrebbero portato le leggi razziali. Io allora ero molto giovane, ricordo che si sperò che fosse un’eresia del fascismo, fatta per accontentare Hitler. Poi si è visto che non era così. Non ci fu sorpresa, delusione sì, con grande paura sin dall’inizio mitigata dal falso istinto di conservazione: “Qui certe cose sono impossibili”. Cioè negare il pericolo.

Che cosa cambiò per lei da quel momento?

Abbastanza poco, perché una disposizione delle leggi razziali permetteva che gli studenti ebrei, già iscritti all’università, finissero il corso. Con noi c’erano studenti polacchi, cecoslovacchi, ungheresi, perfino tedeschi che, essendo già iscritti al primo anno, hanno potuto laurearsi. È esattamente quello che è accaduto al sottoscritto.

Lei si sentiva ebreo?

Mi sentivo ebreo al venti per cento perché appartenevo a una famiglia ebrea. I miei genitori non erano praticanti, andavano in sinagoga una o due volte all’anno più per ragioni sociali che religiose, per accontentare i nonni, io mai. Quanto al resto dell’ebraismo, cioè all’appartenenza a una certa cultura, da noi non era molto sentita, in famiglia si parlava sempre l’italiano, vestivamo come gli altri italiani, avevamo lo stesso aspetto fisico, eravamo perfettamente integrati, eravamo indistinguibili.

C’era una vita delle comunità ebraiche?

Sì anche perché le comunità erano numerose, molto più di ora. Una vita religiosa, naturalmente, una vita sociale e assistenziale, per quello che era possibile, fatta da un orfanotrofio, una scuola, una casa di riposo per gli anziani e per i malati. Tutto questo aggregava gli ebrei e costituiva la comunità. Per me non era molto importante.

Quando Mussolini entrò in guerra, lei come la prese?

Con un po’ di paura, ma senza rendermi conto, come del resto molti miei coetanei. Non avevamo un’educazione politica. Il fascismo aveva funzionato soprattutto come anestetico, cioè privandoci della sensibilità. C’era la convinzione che la guerra l’Italia l’avrebbe vinta velocemente e in modo indolore. Ma quando abbiamo cominciato a vedere come erano messe le truppe che andavano al fronte occidentale, abbiamo capito che finiva male.

Sapevate quello che stava accadendo in Germania?

Abbastanza poco, anche per la stupidità, che è intrinseca nell’uomo che è in pericolo. La maggior parte delle persone quando sono in pericolo invece di provvedere, ignorano, chiudono gli occhi, come hanno fatto tanti ebrei italiani, nonostante certe notizie che arrivavano da studenti profughi, che venivano dall’Ungheria, dalla Polonia: raccontavano cose spaventose. Era uscito allora un libro bianco, fatto dagli inglesi, girava clandestinamente, su cosa stava accadendo in Germania, sulle atrocità tedesche, lo tradussi io. Avevo vent’anni e pensavo che, quando si è in guerra, si è portati a ingigantire le atrocità dell’avversario. Ci siamo costruiti intorno una falsa difesa, abbiamo chiuso gli occhi e in tanti hanno pagato per questo.

Come ha vissuto quel tempo fino alla caduta del fascismo?

Abbastanza tranquillo, studiando, andando in montagna. Avevo un vago presentimento che l’andare in montagna mi sarebbe servito. È stato un allenamento alla fatica, alla fame e al freddo.

E quando è arrivato l’8 settembre?

Io stavo a Milano, lavoravo regolarmente per una ditta svizzera, ritornai a Torino e raggiunsi i miei che erano sfollati in collina per decidere il da farsi.

La situazione con l’avvento della Repubblica sociale peggiorò?

Sì, certo, peggiorò quando il Duce, nel dicembre ’43, disse esplicitamente, attraverso un manifesto, che tutti gli ebrei dovevano presentarsi per essere internati nei campi di concentramento.

Cosa fece?

Nel dicembre ’43 ero già in montagna: da sfollato diventai partigiano in Val d’Aosta. Fui arrestato nel marzo del ’44 e poi deportato.

Lei è stato deportato perché era partigiano o perché era ebreo?

Mi hanno catturato perché ero partigiano, che fossi ebreo, stupidamente, l’ho detto io. Ma i fascisti che mi hanno catturato lo sospettavano già, perché qualcuno glielo aveva detto, nella valle ero abbastanza conosciuto. Mi hanno detto: “Se sei ebreo ti mandiamo a Carpi, nel campo di concentramento di Fossoli, se sei partigiano ti mettiamo al muro”. Decisi di dire che ero ebreo, sarebbe venuto fuori lo stesso, avevo dei documenti falsi che erano mal fatti.

Che cos’è un lager?

Lager in tedesco vuol dire almeno otto cose diverse, compreso i cuscinetti a sfera. Lager vuol dire giaciglio,vuol dire accampamento, vuol dire luogo in cui si riposa, vuol dire magazzino, ma nella terminologia attuale lager significa solo campo di concentramento, è il campo di distruzione.

Lei ricorda il viaggio verso Auschwitz?

Lo ricordo come il momento peggiore. Ero in un vagone con cinquanta persone, c’erano anche bambini e un neonato che avrebbe dovuto prendere il latte, ma la madre non ne aveva più, perché non si poteva bere, non c’era acqua. Eravamo tutti pigiati. Fu atroce. Abbiamo percepito la volontà precisa, malvagia, maligna, che volevano farci del male. Avrebbero potuto darci un po’ d’acqua, non gli costava niente. Questo non è accaduto per tutti i cinque giorni di viaggio. Era un atto persecutorio. Volevano farci soffrire il più possibile.

Come ricorda la vita ad Auschwitz?

L’ho descritta in Se questo è un uomo. La notte, sotto i fari, era qualcosa di irreale. Era uno sbarco in un mondo imprevisto in cui tutti urlavano. I tedeschi creavano il fracasso a scopo intimidatorio. Questo l’ho capito dopo, serviva a far soffrire, a spaventare per troncare l’eventuale resistenza, anche quella passiva. Siamo stati privati di tutto, dei bagagli prima, degli abiti poi, delle famiglie subito.

Esistono lager tedeschi e russi. C’è qualche differenza?

Per mia fortuna non ho visto i lager russi, se non in condizioni molto diverse, cioè in transito durante il viaggio di ritorno, che ho raccontato nel libro La tregua. Non posso fare un confronto. Ma per quello che ho letto non si possono lodare quelli russi: hanno avuto un numero di vittime paragonabile a quelle dei lager tedeschi, ma per conto mio una differenza c’era, ed è fondamentale: in quelli tedeschi si cercava la morte, era lo scopo principale, erano stati costruiti per sterminare un popolo, quelli russi sterminavano ugualmente ma lo scopo era diverso, era quello di stroncare una resistenza politica, un avversario politico.

Che cosa l’ha aiutata a resistere nel campo di concentramento?

Principalmente la fortuna. Non c’era una regola precisa, visibile, che faceva sopravvivere il più colto o il più ignorante, il più religioso o il più incredulo. Prima di tutto la fortuna, poi a molta distanza la salute e proseguendo ancora, la mia curiosità verso il mondo intero, che mi ha permesso di non cadere nell’atrofia, nell’indifferenza. Perdere l’interesse per il mondo era mortale, voleva dire cadere, voleva dire rassegnarsi alla morte.

Come ha vissuto ad Auschwitz?

Ero nel campo centrale, quello più grande, eravamo in dieci-dodici mila prigionieri. Il campo era incorporato nell’industria chimica, per me è stato provvidenziale perché io sono laureato in Chimica. Ero non Primo Levi ma il chimico n. 4517, questo mi ha permesso di lavorare negli ultimi due mesi, quelli più freddi, dentro a un laboratorio. Questo mi ha aiutato a sopravvivere. C’erano due allarmi al giorno: quando suonava la prima sirena, dovevo portare tutta l’apparecchiatura in cantina, poi, quando suonava quella di cessato allarme, dovevo riportare di nuovo tutto su.

Lei ha scritto che sopravvivevano più facilmente quelli che avevano fede.

Sì, questa è una constatazione che ho fatto e che in molti mi hanno confermato. Qualunque fede religiosa, cattolica, ebraica o protestante, o fede politica. È il percepire se stessi non più come individui ma come membri di un gruppo: “Anche se muoio io qualcosa sopravvive e la mia sofferenza non è vana”. Io, questo fattore di sopravvivenza non lo avevo.

È vero che cadevano più facilmente i più robusti?

È vero. È anche spiegabile fisiologicamente: un uomo di quaranta-cinquanta chili mangia la metà di un uomo di novanta, ha bisogno di metà calorie, e siccome le calorie erano sempre quelle, ed erano molto poche, un uomo robusto rischiava di più la vita. Quando sono entrato nel lager pesavo 49 chili, ero molto magro, non ero malato. Molti contadini ebrei ungheresi, pur essendo dei colossi, morivano di fame in sei o sette giorni.

Che cosa mancava di più: la facoltà di decidere?

In primo luogo il cibo. Questa era l’ossessione di tutti. Quando uno aveva mangiato un pezzo di pane allora venivano a galla le altre mancanze, il freddo, la mancanza di contatti umani, la lontananza da casa…

La nostalgia, pesava di più?

Pesava soltanto quando i bisogni elementari erano soddisfatti. La nostalgia è un dolore umano, un dolore al di sopra della cintola, diciamo, che riguarda l’essere pensante, che gli animali non conoscono. La vita del lager era animalesca e le sofferenze che prevalevano erano quelle delle bestie. Poi venivamo picchiati, quasi tutti i giorni, a qualsiasi ora. Anche un asino soffre per le botte, per la fame, per il gelo e quando, nei rari momenti, in cui capitava che le sofferenze primarie, accadeva molto di rado, erano per un momento soddisfatte, allora affiorava la nostalgia della famiglia perduta. La paura della morte era relegata in secondo ordine. Ho raccontato nei miei libri la storia di un compagno di prigionia condannato alla camera gas. Sapeva che per usanza, a chi stava per morire, davano una seconda razione di zuppa, siccome avevano dimenticato di dargliela, ha protestato: “Ma signor capo baracca io vado nella camera a gas quindi devo avere un’altra porzione di minestra”.

Lei ha raccontato che nei lager si verificavano pochi suicidi: la disperazione non arrivava che raramente alla autodistruzione.

Sì, è vero, ed è stato poi studiato da sociologi, psicologi e filosofi. Il suicidio era raro nei campi, le ragioni erano molte, una per me è la più credibile: gli animali non si suicidano e noi eravamo animali intenti per la maggior parte del tempo a far passare la fame. Il calcolo che quel vivere era peggiore della morte era al di là della nostra portata.

Quando ha saputo dell’esistenza dei forni?

Per gradi, ma la parola crematorio è una delle prime che ho imparato appena arrivato nel campo, ma non gli ho dato molta importanza perché non ero lucido, eravamo tutti molto depressi. Crematorio, gas, sono parole che sono entrate subito nelle nostra testa, raccontate da chi aveva più esperienza. Sapevamo dell’esistenza degli impianti con i forni a tre o quattro chilometri da noi. Io mi sono esattamente comportato come allora quando ho saputo delle leggi razziali: credendoci e poi dimenticando. Questo per necessità, le reazioni d’ira erano impossibili, era meglio calare il sipario e non occuparsene.

Poi arrivarono i russi e fu la libertà. Come ricorda quel giorno?

Il giorno della liberazione non è stato un giorno lieto perché per noi è avvenuto in mezzo ai cadaveri. Per nostra fortuna i tedeschi erano scappati senza mitragliarci, come hanno fatto in altri lager. I sani sono stati ri-deportati. Da noi sono rimasti solo gli ammalati e io ero ammalato. Siamo stati abbandonati, per dieci giorni, a noi stessi, al gelo, abbiamo mangiato solo quelle poche patate che trovavamo in giro. Eravamo in ottocento, in quei dieci giorni seicento sono morti di fame e freddo, quindi, i russi mi hanno trovato vivo in mezzo a tanti morti.

Questa esperienza ha cambiato la sua visione del mondo?

Penso di sì, anche se non ho ben chiara quale sarebbe stata la mia visione del mondo se non fossi stato deportato, se non fossi ebreo, se non fossi italiano e così via. Questa esperienza mi ha insegnato molte cose, è stata la mia seconda università, quella vera. Il lager mi ha maturato, non durante ma dopo, pensando a tutto quello che ho vissuto. Ho capito che non esiste né la felicità, né l’infelicità perfetta. Ho imparato che non bisogna mai nascondersi per non guardare in faccia la realtà e sempre bisogna trovare la forza per pensare.

Grazie, Levi. Biagi, grazie a lei.

Ma i razzisti ci sono ancora: vedi la Lega

di Loris Mazzetti

in “il Fatto quotidiano” del 26 gennaio 2014

divieto ai nomadi

Il 27 gennaio 1945 le truppe dell’Armata Rossa entrarono nella città polacca di Oswiecim e scoprirono il campo di concentramento più tristemente noto con il nome di Auschwitz. I soldati sovietici trovarono una montagna di cadaveri, ma anche qualche superstite, la cui testimonianza fece scoprire al mondo, per la prima volta, l’orrore del genocidio nazista, strumenti di tortura e di annientamento: i forni crematori. È importante non dimenticare il passato ma i fatti ci dimostrano invece che dimenticare è molto facile. Nella “Bell’Italia” esiste un partito, la Lega, che senza giri di parole mette alla gogna il ministro della Repubblica Kyenge, prima paragonandola a un orango tango per il colore della pelle, poi pubblicando su La Padania i suoi impegni pubblici perché i “padani” sappiano dove poterla contestare; il poco onorevole Bonanno dà dell’ebreo a Gad Lerner perché aveva definito il suo gesto di presentarsi in Parlamento con il volto dipinto di nero, un atto nazista; il segretario Salvini annuncia che alle Europee di maggio la Lega sarà alleata con il partito xenofobo di estrema destra Front National di Marine Le Pen. L’intervista di Enzo Biagi che il Fatto Quotidiano pubblica alla vigilia del “Giorno della Memoria” – istituito per non dimenticare le vittime dell’Olocausto e in onore di coloro che, rischiando la propria vita, hanno protetto i perseguitati – è allo scrittore Primo Levi, uno dei pochi sopravvissuti ad Auschwitz. L’intervista andò in onda su RaiUno l’8 giugno 1982 nel programma Questo secolo: 1935 e dintorni, viaggio negli anni che contano. Quando Mussolini cambiò idea e gli italiani divennero ariani Levi, nato a Torino nel ’19, fu partigiano nel Partito d’Azione in Val d’Aosta. Nel dicembre del 1943, insieme a due compagni, venne preso dai fascisti. Prima deportato nel campo di concentramento di Fossoli, a Carpi, poi, il 22 febbraio del ’44, insieme ad altri 650 ebrei, fu sbattuto dentro un treno merci con destinazione Auschwitz. Solo in 22 si salvarono. “L’esperienza del  campo di concentramento può venire superata e resa indolore, addirittura resa utile come tutte le esperienze della vita. Ma non si cancella mai”, scrisse Levi. L’esperienza vissuta ad Auschwitz la raccontò nel libro Se questo è un uomo, pubblicato per la prima volta nel 1947. Biagi e Levi si conobbero quando lo scrittore piemontese con La tregua, in cui raccontò il viaggio di ritorno dal lager nazista, vinse, nel 1963, la prima edizione del Premio Campiello. Biagi lo volle conoscere perché aveva letto Se questo è un uomo, ed era stato molto colpito per la narrazione asciutta, piena di particolari, realista. Il libro, ripubblicato da Einaudi nel 1956, aveva avuto un grande successo.

porraimos

Il Giorno della Memoria ci riporta alla mattina del 1938, quando in Italia tutto iniziò. Allora Biagi, diciottenne, lavorava già in una redazione. I quotidiani, ha ricordato più volte il grande giornalista, per disposizioni ricevute dal regime uscirono con questo titolo: “Le leggi per la difesa della Razza”. Il fascismo voleva mettersi al passo con i camerati di Berlino. Gli italiani furono invitati, inizialmente attraverso la stampa, a considerare, che tranne una piccola minoranza, appartenevano alla razza ariana. “Era un privilegio, per la verità, del quale nessuno si era mai preoccupato, Mussolini compreso”, disse Biagi nella presentazione dell’intervista. Nel 1934 ricevendo uno dei capi del sionismo internazionale, alla presenza del rabbino di Roma, parlando del Führer, il Duce affermò, a proposito degli ebrei: “Il signor Hitler è un imbecille e un cialtrone fanatico, ascoltarlo parlare è una tortura, un giorno non ci sarà più traccia di lui, gli ebrei saranno sempre un grande popolo, Hitler è una cosa da ridere non lo temete e dite alla vostra gente di non averne paura”. Mussolini che aveva amato una ragazza ebrea, Margherita Sarfatti, non era, inizialmente, frenato da pregiudizi, cambiò per convenienza, come tante altre volte, opinione. La sopravvivenza vissuta come colpa e il suicidio Il 6 ottobre 1938, i 60 mila cittadini italiani di religione ebraica seppero che per loro stava cominciando una nuova persecuzione. Il Gran Consiglio stabilì che erano proibiti i matrimoni misti, gli ebrei non dovevano avere industrie con più di 100 dipendenti, né terreni che superassero un certo valore, né domestici ariani, niente servizio militare, niente radio, niente nome sull’elenco del telefono, niente annunci funebri. Li ributtarono ancora una volta nel ghetto. In Italia 200 professori persero la cattedra, 23 mila professionisti perdettero il lavoro, 150 tra ufficiali e sottufficiali vennero congedati, chiusi i portoni delle scuole, che erano di tutti, per 6 mila studenti. Venne diffuso il Manifesto della Razza a firma di dieci illustri scienziati nel quale si affermava: “Gli ebrei non appartengono alla Razza italiana”. L’11 aprile 1987 Levi morì suicida. Ferdinando Camon nel libro Conversazione con Primo Levi ha scritto: “Dopo Auschwitz lui non viveva ma sopravviveva, che vivere ancora per lui è una colpa, che sulla Terra non c’è spazio per le vittime dello Sterminio e per chi lo nega

macellai delle coscienze

di Gad Lerner

in “la Repubblica” del 26 gennaio 2014

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Sono poche le specie animali di cui la Bibbia consente, e solo a determinate condizioni, l’utilizzo per alimentazione. Il maiale non rientra fra di esse in quanto, pur avendo l’unghia bipartita come i bovini e gli ovini, non è un ruminante.

Il Libro sacro non fa alcun riferimento all’impurità del maiale, creatura di Dio come le altre. Solo nella tradizione postuma e nella secolare contrapposizione alle altrui usanze, la carne suina è assurta a simbolo di cibo proibito. Per gli ebrei così come per i musulmani.

Naturalmente gli antisemiti che hanno voluto infliggere un’offesa blasfema agli ebrei, non a caso alla vigilia della Giornata della Memoria, recapitando teste di maiale al tempio Maggiore di Roma, ll’ambasciata d’Israele e al Museo della Storia di Trastevere dov’è in corso una mostra sulla Shoah, nulla sanno riguardo alle leggi alimentari della Kashrut. Il loro scopo era solo quello di intimidire gli ebrei con una minaccia tipica del linguaggio mafioso, e nel contempo di perpetrare l’ennesima umiliazione al popolo sterminato settant’anni or sono.

Analoga ignoranza manifestano purtroppo da tempo certi esponenti politici che hanno condotto dei maiali, o hanno cosparso la loro urina, nei luoghi destinati alla costruzione di edifici di culto islamico. Anche lì, in verità, basta una preghiera per purificare l’area; ma è lo sfregio quello che si vuole perpetrare. Il dileggio di una fede religiosa. L’ostentazione razzista. Da alcuni anni, purtroppo, le celebrazioni della Giornata della Memoria, in coincidenza con la liberazione del lager di Auschwitz Birkenau in cui furono uccisi oltre un milione di deportati, vengono utilizzate anche come palcoscenico di scellerate provocazioni. L’anno scorso Berlusconi colse l’occasione di una cerimonia al Binario 21 della Stazione Centrale di Milano, da cui partirono venti convogli di prigionieri destinati alla morte, per un pubblico elogio di Mussolini.Ma è il negazionismo l’insidia più velenosa. Quello che si è manifestato di nuovo ieri con le scritte vergate, sempre a Roma, per sostenere che l’Olocausto sarebbe una “menzogna” e Anna Frank una “bugiardona”. È l’arma più crudele con cui si rinnova la sofferenza dei sopravvissuti e dei parenti delle vittime. Liquidare come un’abile invenzione propagandistica il genocidio degli ebrei d’Europa è la modalità prescelta per additarli nuovamente come popolo subdolo e dominatore, meritevole quindi di essere perseguitato. Non a caso il negazionismo ha fatto tanti proseliti nel mondo arabo e musulmano in guerra con lo Stato d’Israele. Ma più in generale minimizzare l’esito delle leggi razziali e delle deportazioni novecentesche, sostenendo che la Soluzione Finale non rientrasse nei piani del regime nazista, serve anche a addormentare le coscienze di fronte al ritorno delle pulsioni razziste e delle legislazioni discriminatorie alimentate dal fenomeno migratorio e dalla sofferenza sociale.

Basterebbe l’orribile episodio di ieri per confermare l’importanza di un buon uso della memoria storica come insegnamento per il presente, oltre che come omaggio alle vittime. Sicché la miglior risposta alla barbarie culturale della testa di maiale spedita in sinagoga saranno le migliaia di manifestazioni già organizzate nelle scuole italiane per la Giornata di domani. Resta però la speciale offesa di cui è stata fatta oggetto la Comunità romana, la più antica della diaspora ebraica. Nel corso degli ultimi vent’anni abbiamo assistito a una straordinaria rivitalizzazione culturale del quartiere ebraico della capitale che sorge sulla sponda sinistra del Tevere. Non solo luoghi di culto ma anche centri studi, scuole, negozi e ristoranti kasher. Qualcuno vorrebbe ridurre tale luogo, affascinante per chiunque voglia confrontarsi con la vicenda millenaria dell’ebraismo, di nuovo a Ghetto chiuso in se stesso e assediato. Come fu prima del 1870. Bene ha fatto, dunque, il presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, Renzo Gattegna, a elogiare la costante opera di prevenzione e vigilanza delle forze dell’ordine, scattata anche di fronte alla provocazione di ieri. Spetta allo Stato difendere l’incolumità dei cittadini e il patrimonio culturale ebraico. Vincendo così la tentazione di ricorrere a impropri strumenti di autodifesa che la diffusione dell’odio antisemita rischia di far degenerare. Gli ebrei italiani, per fortuna, non sono soli contro tutti. Purché la coscienza democratica non abbassi la guardia, ora che si affacciano di nuovo tempi bui. È un sinistro avvertimento questo ricorso a un animale che si pretende impuro. Contro gli ebrei, così come prima contro i musulmani. Ma in realtà contro la nostra democrazia. Viene davvero da dire: poveri maiali innocenti, vittime dei macellai delle coscienze 

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i figli in vendita in internet:il dramma di una madre

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vent’anni, single e affetta da depressione post partum: questa è la drammatica situazione di una mamma di Bradford, in Inghilterra, che il giorno di Santo Stefano ha scritto un annuncio su Internet per mettere in vendita suo figlio di soli 4 mesi. L’annuncio, comparso su una delle più grandi piattaforme di compravendite esistenti, ha messo in allerta molti utenti del sito che hanno chiamato la polizia e i servizi sociali. La donna è stata immediatamente rintracciata e a nulla sono valse le sue proteste e le sue giustificazioni, i bambini sono stati dati in affido temporaneo ad altre famiglie

  Pietro Vernizzi de IL SUSSIDIARIO  ha chiesto un parere a Costanza Miriano:

“E’ giusto togliere il bambino alla madre inglese che ha scritto un annuncio online per metterlo all’asta, ma è un paradosso che nello stesso tempo sugli embrioni sia consentito fare di tutto, dalla sperimentazione scientifica alla selezione prenatale”. Lo rimarca la giornalista Costanza Miriano, autrice dei libri “Sposala e muori per lei” e “Sposati e sii sottomessa”, commentando la notizia della madre inglese di Bradford che ha pubblicato un annuncio sul portale Gumtree per vendere il suo figlio di quattro mesi per 150mila sterline. La polizia e le assistenti sociali hanno deciso di togliere il neonato alla madre, che soffriva a quanto pare di depressione post partum.

Miriano, in che senso ritiene che dietro a questa notizia ci sia un paradosso?

E’ giusto togliere il bambino a una madre che lo mette all’asta, anche se non conosco nello specifico tutti i dettagli di questa storia. Ma se fosse una madre che sceglie di affidare il figlio a chi se ne può occupare meglio di lei, purché non per un guadagno, in fondo non sarebbe una decisione così folle. Anche questa notizia di cronaca dovrebbe però farci riflettere sul fatto che la vita dei bambini è sacra fin dal concepimento. Se si considera solo l’Italia, le cifre sull’aborto e sulla pillola del giorno dopo sono comunque impressionanti. Nel corso della trasmissione “La Zanzara” su Radio 24 ho detto che una madre che ha concepito deve tenere il suo bambino perché è una persona. Sono rimasta stupita per le polemiche che ne sono seguite, in quanto mi sembrava di avere detto una cosa ovvia: che la libertà di una persona finisce dove incomincia quella di un’altra.

All’origine tanto del fatto della madre inglese quanto dell’aborto c’è innanzitutto un problema di solitudine da parte delle donne?

Sicuramente. Infatti la vera sottolineatura non è che le madri che concepiscono vadano costrette a tenere il bambino, quanto piuttosto che la società sia costretta ad aiutarle. Bisogna veicolare la consapevolezza che quel bambino è un bene per tutta la società, anche da un punto di vista soltanto economico perché sarà quello che pagherà le nostre pensioni. E magari, chissà, quell’embrione potrebbe diventare un grande pittore o un medico che scoprirà un rimedio contro il cancro.

E’ questo ciò che ci dimentica?

Sì, passa l’idea che se una donna resta incinta è soltanto un problema suo e che deve quindi vedersela da sola. Dunque c’è certamente una grande solitudine della quale siamo tutti responsabili. Forse in parte con la rivoluzione sessuale le donne hanno ottenuto questa libertà in cambio di solitudine. Vogliamo autodeterminarci in ogni scelta e questo comporta inevitabilmente un po’ di isolamento.

In Cina la politica del figlio unico ha prodotto 400 milioni di aborti e quasi 200 milioni di sterilizzazioni forzate. Una società come quella cinese è davvero diversa dalla nostra?

Una differenza fondamentale esiste, ed è la mancanza di libertà delle famiglie cinesi. Per fortuna in Occidente nessuno impedisce a una coppia di avere quanti figli vuole. Di sicuro però neanche in Italia esiste una cultura favorevole alla vita. La stessa Cina sta valutando di modificare la politica del figlio unico, perché si è resa conto che sta andando verso il suicidio demografico e quindi anche economico. Esistono Paesi sui quali pesa la condanna internazionale, mentre poiché non si può rinunciare a fare affari con la Cina, nessuno osa alzare la voce o minacciare sanzioni economiche contro Pechino. Alla fine ciò che muove le prese di posizione della comunità internazionale è una valutazione economica, non morale.

Secondo il demografo Gian Carlo Blangiardo, se si considera la vita dal concepimento anziché dalla nascita, nelle società occidentali l’aspettativa di vita cala drasticamente. Lei che cosa ne pensa?

Esseri che si affacciano alla vita non hanno poi il privilegio di viverla. Bisogna lottare per difendere il valore della vita e avere il coraggio di diffonderla. Le prime vere vittime dell’aborto sono le donne, anche se l’arma che si usa sempre per difendere l’interruzione di gravidanza è l’autodeterminazione. Si censurano così le sindromi post-aborto e le ferite che questo dramma lascia. Le teorie del genere, dell’emancipazione sessuale e della liberazione dimenticano completamente qual è il vero bene della donna, che è accogliere la vita.

(Pietro Vernizzi)

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27 gennaio: la nostra memoria troppo insenbile

Noi, incapaci di sentire davvero quel dolore

per ricordare e riflettere significativamente nel ‘giorno della memoria’ riporto qui sotto l’articolo di fondo di Ferruccio Sansa su ‘il Fattoquotidiano’ odierno:

Il giorno della memoria

Olocausto, la memoria sia parte della vita

Così un giorno ti ritrovi a un bivio. Sei andato a Monaco, per vedere la cattedrale, le birrerie, i musei. Poi uscendo dalla città, tra distese di fabbriche e capannoni, a un incrocio vedi un cartello giallo con quella scritta: DACHAU.

Non te lo aspettavi, quasi disturba la spensieratezza del viaggio. Quel segnale scompiglia i pensieri. Ma senti di dover svoltare. Quasi più per dovere che per convinzione. Senza quasi accorgertene ti trovi in un grande spiazzo. I rumori della città non ci sono più. Eppure non sai cosa fare, non sei pronto. Indugi nell’oltrepassare quel cancello di ferro battuto che senza aver mai visto già conosci così bene: “Arbeit Macht Frei”, il lavoro rende liberi.

Cosa dirò ai bambini?, ti chiedi. E io, come reagirò?, quasi temi di non essere all’altezza. Di non capire. Di non soffrire abbastanza. Eccolo dunque il campo di concentramento. Ecco i camini, le baracche. Avanzi sulla ghiaia, in un silenzio di cattedrale. Leggi i pannelli: “Dachau fu il primo campo di concentramento nazista, fu inaugurato nel 1933. Qui trovarono subito posto cinquemila internati”. Cinquemila uomini, donne e bambini. Provi a immaginarteli uno per uno, gente come te, come tua moglie, come i bambini cui chiudi la giacca perché non prendano freddo.

Ti sforzi di capire, di soffrire perfino, ma non ti senti adeguato. Non ci riesci davvero.

Leggi quei numeri spaventosi, diecimila, centomila morti, così grandi che invece di accrescere lo sgomento ti fanno quasi perdere di vista ogni singola vita, confusa nella cifra immensa.

Ebrei, polacchi, nomadi. Arrivi davanti al monumento dedicato ai bambini. Ti volti verso i tuoi, così misteriosamente silenziosi, quasi avessero capito, lo avessero sentito sulla pelle senza bisogno di tante spiegazioni. Proprio Giovanni e Nino, che vanno alla scuola germanica, che conoscono la grandezza di questa civiltà. E, però, provi a spiegare, a ricordare l’orrore che questo popolo, ogni popolo, ogni uomo a volte trova dentro di sé.

É quasi finito. Hai fatto il tuo dovere, puoi tornare a casa. Mancano le baracche ai margini del campo. La “Barache X”. Entri. Ti trovi in una stanza spoglia, in un buio che si infittisce procedendo verso una porta: le docce. Quindi è successo qui. Oltre quella soglia. Rimani fermo, non riesci a entrare. Ti guardi intorno. Non ci avevi ancora fatto caso: subito prima di superare l’ultima porta, lo sguardo incontra una piccola finestra quadrata. Di sicuro, sì, certamente è successo anche a loro in quegli ultimi istanti. Si vede solo un frammento di prato, il verde acceso dalla pioggia appena caduta. La vita. Lo vedi e d’improvviso ti metti a piangere, non riesci a fermarti, singhiozzi come non ti accadeva da quando eri bambino.

Da Il Fatto Quotidiano del 27/01/2014.

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