il commento al vangelo della domenica

ECCO LO SPOSO! ANDATEGLI INCONTRO!

commento al vangelo della trentaduesima domenica del tempo ordinario (12 novembre 2017) di p. Alberto Maggi:

Mt, 25,1-13

 In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono. A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”. Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”. Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora».

Il capitolo 25 del vangelo di Matteo si apre con l’ultimo dei cinque discorsi che suddividono la sua opera, a imitazione dei cinque libri della legge ritenuti scritti da Mosè. Ebbene questo capitolo contiene l’ultimo accenno, l’ultima volta, in cui l’evangelista parla del regno dei cieli, che, va ricordato, non è un regno nei cieli, ma significa il regno di Dio. E l’evangelista lo fa ricollegando questo discorso del regno dei cieli con questa parabola, alla fine del discorso della montagna, al capitolo settimo. In particolare quando Gesù afferma che “non chi dice signore signore”, non bastano gli attestati di ortodossia per essere in comunione con lui, ma chi collabora all’azione creatrice del Padre, “chi compie la volontà del Padre mio”. E Gesù aveva concluso il discorso della montagna con l’immagine di un uomo pazzo che va a costruire la casa sulla sabbia e al primo maltempo la casa crolla, e la persona saggia, intelligente che invece la costruisce sulla roccia. Era immagine di chi ascolta la sua parola, ma poi non la mette in pratica e quindi la sua vita va in rovina, e chi invece l’ascolta e poi la pratica. Leggiamo allora il capitolo 25 di Matteo. “Allora”, l’evangelista si collega alla venuta del Signore nelle sue manifestazioni nella storia umana, “il regno dei cieli”, che ricordo significala società alternativa che Gesù è venuto a realizzare, “sarà simile a dieci vergini”, vergini s’intende ragazze ancora non sposate, quindi in età da matrimonio “che presero le loro lampade”, per lampade non si deve intendere la piccola lampada di uso domestico, ma qui si tratta di torce, “e uscirono incontro allo sposo”, una immagine di Dio, dal profeta Osea in poi, era che lui era lo sposo e il suo popolo la sposa. “Cinque di esse erano stolte”, letteralmente pazze, e qui l’evangelista adopera lo stesso termine che Gesù proibisce di usare nella sua comunità, dice “chiunque dice pazzo al proprio fratello”, e questo termine era stato usato appunto alla conclusione del discorso della montagna per il pazzo che va a costruire la sua casa sulla sabbia e va in rovina. “E cinque sagge”, sagge come l’uomo che invece costruisce sulla roccia. “Le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio. Le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono”, il tema non è quello della vigilanza perché tutte quante si addormentano, ma si tratta di avere la capacità o no di andare incontro allo sposo. “A mezzanotte si alzò un grido: ecco lo sposo! Andategli incontro”, qui Gesù non si rifa agli usi matrimoniali del tempo, ma anzi li inverte, perché non erano le ragazze che andavano incontro allo sposo, ma era la sposa che, accompagnata dalle sue amiche, entrava nella causa dello sposo. Perché questa diversità? Appunto per attirare l’attenzione dell’uditorio. “Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade”, e qui c’è il problema. “Le stolte dissero alle sagge: dateci un po’ del vostro olio perché le nostre lampade si spengono”, può sembrare strana ora la risposta negativa delle sagge che dicono “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”, ma agiscono con raziocinio perché meglio in poche con le lampade per andare incontro allo sposo, piuttosto che in tanti però al buio. Quindi quest’olio rappresenta qualcosa che tutti possono avere, però che non può essere prestato e vedremo di capirlo andando avanti. “Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo”, l’evangelista ci dà l’immagine dell’incontro nuziale, la vita del credente non è fatta di chissà quali penosi sacrifici, ma è un crescendo di gioia nel rapporto con lo sposo, “e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa”, anche questa è un’altra incongruenza. Nel matrimonio, nelle nozze tutto il paese era invitato e le porte non si chiudevano, ma l’evangelista appunto ricalca queste stranezze per attirare l’attenzione dell’uditorio, e infatti si rifà a quanto Gesù aveva espresso al termine del discorso della montagna. “Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”, esattamente come coloro che hanno gridato “signore signore” e il Signore dice io non vi conosco, e gli aveva detto “non vi conosco operatori di iniquità”, letteralmente costruttori del niente. Non basta il credere, non basta l’attestato di ortodossia, non basta la fedeltà alla dottrina, il Signore ci chiede di essere collaboratori alla sua azione creatrice e l’azione creatrice di Dio si fa comunicando vita. Ecco cos’è l’immagine di questo olio. Nel vangelo, sempre nel vangelo di Matteo, Gesù dirà “così risplenda la vostra luce davanti agli altri uomini perché vedano le vostre opere buone e rendono gloria al vostro Padre che è nei cieli”. Ecco questa luce, questo olio che dà la luce sono le opere buone e le opere buone uno non è che le può prestare all’altro, o ci sono o non ci sono. E quindi lo sposo qui risponde esattamente come Gesù agli operatori di iniquità, “Ma egli rispose: In verità io vi dico: non vi conosco”. Gesù, il Signore, non conosce chi ha una relazione con lui basata sull’ortodossia, sugli attestati di fedeltà, ma chi questa ortodossia, questi attestati di fedeltà li traduce in atteggiamenti pienamente umani, andando incontro ai bisogni e alle necessità, alle sofferenze degli altri. E poi l’invito finale “Vegliate dunque”, qui vegliare non significa restare svegli la notte perché di fatto tutti quanti dormono, ma significa essere pienamente consapevoli e attenti di quello che accade, vivere con pienezza qualunque istante della propria vita per essere capaci di collaborare all’azione creatrice del Signore.

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la teologia verso il superamento dell’idea di laicato come paternalistica concessione a dei ‘sudditi’

non laici ma cristiani testimoni

di Franco Giulio Brambilla
in “Avvenire” dell’8 novembre 2017

una riflessione del vescovo di Novara sul saggio di Vergottini dedicato al superamento dell’attuale idea di laicato

Marco Vergottini

“Il cristiano testimone. Congedo dalla teologia del laicato”

Edb, pagine 302, euro 25,00

Durante il Concilio il laico è stato il convitato di pietra per un profondo ripensamento della missione della chiesa nel mondo. ‘Accelerare l’ora dei laici’: questo è stato il Leitmotiv del postconcilio, tanto retoricamente proclamato, quanto praticamente poco esplorato. La ‘teologia del laicato’ del Novecento ha cercato di custodire lo ‘spazio del laico’ all’interno dello schema della teologia dei due ordini (natura e soprannatura), rimanendone in qualche modo imbrigliata. Il lavoro di Marco Vergottini (Il cristiano testimone. Congedo dalla teologia del laicato; Edb, pagine 302, euro 25,00) disegna tale parabola per cavarne il ‘sugo della storia’. Dopo averla praticata per molto tempo, ne ha raccolto il guadagno. Bisogna dichiarare esaurita la ‘teologia del laicato’ proprio per ereditare lo ‘spazio del laico’ nella missione della Chiesa. La questione del laico cristiano ha oscillato tra la rivendicazione di uno spazio nella Chiesa accanto ai chierici e ai religiosi e la concessione di un compito nel mondo che riconosca la sua ‘indole secolare’. Pare che il laico per trovare la sua specificità nella chiesa debba traslocare nel mondo per ‘animarlo cristianamente’ o, secondo l’altra formula, per «ordinare le cose del mondo secondo Dio». In tale slittamento consiste la questione del laico, ma la sua soluzione non sta nel déplacement del laico nel mondo. Questo è il filo rosso nella ricostruzione di Vergottini lungo il secolo XX. I capitoli dispari formano come un trittico che aiuta a leggere il plesso laico-laicato-laicità con una freschezza che toglie la discussione dalle secche dei poteri e pone la questione del laico come asse per ripensare il rapporto chiesa-mondo, e più ancora radicalmente la relazione cristologiaantropologia. L’avventura della ricerca parte mettendo in discussione la polisemia del rapporto laico-laicità-laicato nella storia, dichiarando sia l’indeterminatezza della cifra linguistica (laikós, idiótes, laicus, plebeius, rispettivamente in greco e latino), sia la diversità del referente storico. Mette in guardia da ogni intelligenza teologica solo a partire dall’analisi dei campi linguistici. Per non parlare dell’utilizzo moderno e odierno della semantica laico-laicità, tra cui emerge l’uso francofono di laïcité, che significa neutralità pubblica nei confronti della religione e marginalizzazione della religione nello spazio privato. Merita una sosta nel terzo capitolo sul pensiero di alcune personalità (G.B. Montini – J. Guitton). Si tratta di due figure che promuovono lo ‘spazio del laico’ oltre la sua univoca codificazione teologica. Si legge con vero diletto questa parte che mostra come la teologia del laicato non può non considerare la mutazione storica della presenza civile del laico. Il percorso si concentra, infine, sull’episodio più rilevante del postconcilio, che porta alla riapertura del dossier sui laici intorno al Sinodo dell’87 (Christifideles Laici). Qui la discussione entra nel conflitto delle interpretazioni: a) la ‘secolarità’ come indole peculiare dei laici; b) la ‘teologia dei ministeri’ nel quadro del binomio comunità- ministeri; c) la ‘laicità’ come dimensione caratteristica di tutto il popolo di Dio; d) il superamento della figura del ‘laico’ in quella del ‘cristiano’. È un dibattito tutto italiano sulla cui scena sfilano i protagonisti del Novecento (Lazzati, Forte, Dianich, Canobbio, la ‘scuola di Milano’). È stato il momento più alto del postconcilio nella discussione ecclesiologica sul laico. I capitoli pari del racconto presentano una disamina della ‘teologia del laicato’ nel maggiore dei suoi rappresentanti (Y. Congar) e nel momento epocale del Vaticano II. Vergottini qui non fa solo un’opera di compilazione, ma esercita la sua maestria proponendo una vera decostruzione del
lavoro pionieristico di Congar e una ricostruzione della teologia conciliare. Senza la pretesa di appiattirla in una visione omogenea. Il ‘prendere congedo’ dalla teologia sui laici comporta «la ricomprensione in una prospettiva più originaria della loro identità cristiana e della condizione in cui versano». La proposta finale è secca: non bisogna parlare del cristiano laico, ma del cristiano testimone. Che ci si guadagna? Vergottini innesta il principio ‘distintivo’ del concetto di laico (l’indole secolare) nella struttura ‘unificante’ del cristiano (l’essere testimone). La ‘definizione tipologica’ conciliare del laico faticava a coordinare la necessità del suo rapporto al mondo (suo carattere secolare) e del suo riferimento a Cristo (da ordinare secondo Dio). Andando al di là di una definizione essenziale o di un compito funzionale del laico, l’essere testimoni è la modalità ‘spirituale’ con cui Cristo è donato al mondo e il mondo entra in comunione con Cristo. Ciò accade in una pluralità di figure cristiane, di cui la categoria di laico ha finora difeso lo spazio, ma non ne ha esaltata la missione. Tale definizione ha sospinto il laico in un luogo separato dalle altre figure cristiane, senza mostrare che anch’esse (chierici e religiosi) erano connotate dalla stessa dinamica della testimonianza. Liberata da questa strettoia, la testimonianza del laico si potrà attuare in una pluralità infinita di figure, così ricche per il contributo dell’immersione del credente nella storia del mondo, ma anche così diverse per la genialità dello Spirito nel ricondurre questa storia a Cristo. Alla fine resta la domanda cruciale: la riflessione sul laico può ereditare la ‘teologia del laicato’ mettendo al centro la questione del ‘cristiano testimone’? Forse è necessario abbozzare il profilo del cristiano sotto l’aspetto teologico-pratico. Solo il cimento pratico del cristiano nella storia e la configurazione a Cristo delle vicende umane nella vita di ogni battezzato possono diventare il luogo di uno scambio simbolico che accade nella carne viva della testimonianza del cristiano. La vita della Chiesa è a servizio di tale ‘meraviglioso scambio’ che brilla nella testimonianza del credente. Del cristiano testimone!

 

il cristiano testimone

 

intervista a Marco Vergottini

a cura di Redazione Azione Cattolica Ambrosiana

Marco Vergottini

“Il cristiano testimone. Congedo dalla teologia del laicato”

Il testo consiste in una vera e propria ricerca, che affonda le sue origini nell’interesse dell’autore stesso per la figura del laico, maturata in Azione Cattolica a Milano. Il volume presenta in apertura una Prefazione del vescovo di Novara, mons. Franco Giulio Brambilla, che così apre il contributo: «L’opera di Marco Vergottini, che abbiamo tra le mani, si presenta con la veste di una quaestio disputata su uno dei temi che ha maggiormente marcato l’ecclesiologia del Vaticano II ed è stato ripreso più volte nella teologia seguente. Il laico, infatti, è stato il convitato di pietra per un profondo ripensamento della dottrina del concilio sulla Chiesa, nonostante sia noto che le discussioni più accanite siano avvenute sul rapporto tra primato ed episcopato. Nel post-concilio, il Leitmotiv è stato “accelerare l’ora dei laici”, uno slogan tanto retoricamente proclamato, quanto praticamente poco esplorato».

Ne parliamo con l’autore.

Il mio primo studio sulla bibliografia dei laici è comparso in una raccolta di contributi dal titolo Laicità e vocazione dei laici nella Chiesa e nel mondo, pubblicato 30 anni fa, a cura del Centro Studi dell’Azione Cattolica milanese, coordinato da Antonietta Cargnel. Don Franco Giulio coglie puntualmente il “cuore” della proposta. Il mio intento è proprio di mettere a fuoco la figura del fedele laico ‒ categoria su cui l’Ac durante i suoi 150 anni di storia ha dedicato con passione la sua riflessione teologica e il suo apostolato. Basti pensare al contributo di Giuseppe Lazzati, Vittorio Bachelet, Alberto Monticone, Paola Bignardi, per fare solo alcuni nomi. Ebbene, la mia sollecitazione – un po’ provocatoria ‒ è che forse i molti studi sul laicato hanno privilegiato il IV capitolo della Lumen gentium, dedicato ai fedeli laici e il decreto sull’apostolato dei laici (Apostolicam actuositatem), mettendo un po’ la sordina sul capitolo II della Lumen gentium, in cui è messa a fuoco la realtà della Chiesa come popolo di Dio. In questo senso, ho cercato di mostrare come la nozione di cristiano risulti più radicale e pregnante rispetto a quella di laico.

La tua proposta provoca in positivo l’Azione Cattolica, che da sempre, fin da prima del Concilio, ha insistito con forza sulla cifra del laico e sulla sua indole secolare.

Se si scorre la monumentale produzione letteraria del cardinale Martini, ci si imbatte in un uso tutto sommato parco e trattenuto dell’espressione laici, per indicare i comuni fedeli cristiani. La qual cosa – va da sé – è un segnale di una scelta intenzionale, niente affatto accidentale. In un intervento del 1969, padre Martini si poneva un duplice interrogativo «Che cosa vuol dire essere cristiani? Che cosa significa testimoniare Cristo nel mondo di oggi?», istituendo una perspicace corrispondenza fra cristiano e testimone (ora in C.M. Martini, Cristiani coraggiosi. Laici testimoni nel mondo di oggi, Milano, In Dialogo 2016, 35). In breve, si potrebbe concludere che il laico altri non è che il “cristiano testimone”.

Ritorniamo al Vaticano II. Come giustifichi il fatto che la categoria di laico possa essere inverata in quella di “cristiano testimone”, se è vero che nel Concilio il termine laico ritorna in ben 14 dei 16 testi promulgati?

Nel mio libro cerco di mostrare che l’effettivo incremento della prospettiva del Vaticano II sull’argomento non dev’essere ritrovato nel cap. IV di Lumen Gentium, laddove la “secolarità” è presentata come nota qualificante del fedele laico (un’impostazione che di fatto costituisce una ripresa mitigata delle tesi della tradizionale “teologia del laicato”) e neppure nel decreto sui laici, Apostolicam actuositatem. La vera novità del Vaticano II è costituita piuttosto dall’insistenza con cui i padri conciliari hanno inteso propiziare nei fedeli laici la consapevolezza di dover fuoriuscire da una condizione di effettiva minorità rispetto ai ministri ordinati e a quanti hanno abbracciato la vita religiosa: da un lato, infatti, col Concilio si assiste a una reintegrazione di ogni battezzato entro il quadro di un’appartenenza ecclesiastica più egualitaria e partecipata; dall’altro, in ogni momento e situazione del vivere ordinario ‒ sul piano delle relazioni familiari, professionali, civili e politiche ‒ i comuni credenti sono chiamati a riscoprire la qualità spirituale dell’esperienza di fede. Coerentemente, c’è da chiedersi se un’autentica ermeneutica della lezione conciliare ‒ il cui nocciolo è costituito dall’insegnamento del carattere storico della rivelazione, della dimensione esperienziale del credere, del processo di inculturazione che contraddistingue la realtà della fede cristiana e della Chiesa come popolo (storico) di Dio ‒ non solleciti la coscienza credente a smettere i panni di quella rappresentazione essenzialistica, fissistica, intellettualistica del dato cristiano, entro cui si origina l’illusione di poter quasi isolare in vitro la “quintessenza” del laico.

Quindi tu proponi di superare la stagione della “teologia del laicato” e “archiviare” l’espressione laico?

Precisamente! Basti solo pensare che dalla ricerca etimologica sui primi secoli del cristianesimo, emerge come il termine laikos non designi affatto il «membro del popolo di Dio», bensì il suddito, colui che è sottoposto alla gerarchia. La novità del mio studio ‒ che certo amerei potesse essere fatto oggetto di discussione non soltanto da parte della stretta cerchia degli specialisti, ma anche nell’ambito dell’Azione cattolica, di cui mi vanto di essere aderente da sempre ‒ risiede nella proposta di “storicizzare” il termine e la figura del laico, per innescare un ripensamento radicale della questione, in vista di un fattivo riassestamento della sistematica teologica e della teologia pratica, lasciando affiorare un promettente e suggestivo rilancio nella nozione teologicofondamentale di cristiano-testimone.

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la campagna dei vescovi italiani a favore dei migranti

migrazioni

al via la campagna Cei

«liberi di partire, liberi di restare»


Luca Liverani 
È online il sito dell’iniziativa della Chiesa italiana per il sostegno ai migranti nei paesi di partenza, di transito e di accoglienza, finanziato con 30 milioni di euro dell’8 per mille

Alcuni dei 304 migranti salvati il 18 agosto dalla ong maltese Moas (foto Ansa - Croce Rossa Italiana)

alcuni dei 304 migranti salvati il 18 agosto dalla ong maltese Moas

Si chiama significativamente «Liberi di partire, liberi di restare» la campagna lanciata dalla Conferenza episcopale italiana per dare una risposta concreta al fenomeno, non di rado drammatico, delle migrazioni dai paesi in via di sviluppo. Una definizione che è anche l’indirizzo web dell’omonimo sito liberidipartireliberidirestare.it realizzato per seguire lo sviluppo delle iniziative. Per finanziarle la Cei ha assegnato 30 milioni di euro dell’8xmille

L’agenzia Sir, che lancia l’iniziativa, definisce la campagna «una finestra sul mondo, lo specchio di un impegno corale che va oltre i cori da stadio e l’indifferenza». Scopo del progetto è sensibilizzare la popolazione italiana sul tema, e allo stesso tempo realizzare progetti concreti nei Paesi di partenza, di transito e di accoglienza di quanti. Nei paesi cioè da cui, specialmente bambini e donne, fuggono da guerre, fame e violenza.

Perché dire «aiutiamoli a casa loro significa solo scaricare il problema». Occorre invece dare a tutti la possibilità di decidere. È questo il senso della Campagna della Cei “Liberi di partire, liberi di restare” che ha come tema centrale il diritto alla libertà, presupposto fondamentale per la pace e la giustizia. «Nessuno deve essere costretto a stare in un posto dove non può vivere una vita dignitosa o dove c’è violenza. Nello stesso tempo ognuno ha il diritto di muoversi perché la terra è di tutti, non di alcuni sì e di altri no», afferma don Leonardo Di Mauro, responsabile del Servizio degli interventi caritativi a favore dei Paesi del Terzo Mondo, sottolineando che con questa iniziativa «vorremmo che il concetto di libertà di partire, di emigrare, valesse a 360 gradi».

Il portale accompagnerà lo svolgersi della Campagna, raccontando le storie e le testimonianze delle persone coinvolte, sia dei promotori delle attività sia dei loro beneficiari. Al momento sono 6 i paesi coinvolti attraverso 4 progetti, finanziati con 600 mila euro. La grande mappa, che campeggia sulla home page, permette di visitare virtualmente i luoghi di intervento, per scoprire cosa vi si realizza e con quante risorse. La sezione news invece aiuta ad approfondire il significato e gli ambiti di questa iniziativa straordinaria della Cei grazie alle voci dei protagonisti e di quanti – uffici Cei, associazioni, diocesi e realtà locali- vi sono impegnati. Il sito, disponibile anche in inglese e francese, raccoglie infine tutti i materiali che l’agenzia Sir, il quotidiano Avvenire, RadioinBlu e Tv2000 pubblicano a riguardo.

Tra i progetti al momento attivati c’è a Catania «Semi di accoglienza», partito a giugno con un contributo di 86 mila euro. Si tratta di un laboratorio di sartoria etnica e uno di pasta fresca per aiutare l’inserimento nel mondo del lavoro delle ragazze che hanno vissuto il dramma della tratta. Il progetto, presentato dalle suore Serve della Divina Provvidenza di Catania, ha come obiettivo la formazione professionale delle ragazze ospiti delle diverse realtà di accoglienza de “la Casa di Agata”. I fondi saranno utilizzati per potenziare le attività già in atto, migliorando la qualità delle realizzazioni di sartoria, e per creare un negozio per la vendita diretta di prodotti di pasta fresca con un canale di commercializzazione di prenotazione e consegna domiciliare.

Poi c’è «Il diritto a non fuggire», avviato a maggio con 420 mila euro, che ha come obiettivo la formazione in Italia di giovani per sviluppare in Mali progetti che possano incidere nella realtà locale, innescando un cambiamento sociale, economico e politico. Grazie al progetto promosso dall’Associazione Rondine Cittadella della Pace, sei giovani maliani frequenteranno un master di primo livello o una scuola di alta professionalizzazione sui temi della gestione dei conflitti, della riconciliazione e delle abilità di comunicazione. Per dare un contributo concreto al processo di pace in Mali, un Paese ancora caratterizzato da instabilità e insicurezza.

Con 66 mila euro infine è stato lanciato a Pozzallo in Sicilia il progetto «Tutori volontari per minori non accompagnati». L’inixiativa nasce dalla constatazione che sono stati oltre 17 mila i minori non accompagnati arrivati in Italia nel 2016. Si tratta di bambini e ragazzi vulnerabili che, per essere tutelati, hanno bisogno di un adulto che possa accompagnarli e rappresentarli legalmente negli adempimenti amministrativi. Per questo la cooperativa sociale Fo.Co, che coordina il Centro Mediterraneo di Studi e Formazione Giorgio La Pira di Pozzallo, promuove in Sicilia un progetto per sensibilizzare, informare e formare 300 tutori volontari per minori non accompagnati.

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papa Francesco non è eretico – parola dei professori della Gregoriana

“dal chiodo alla chiave: la teologia fondamentale di Papa Francesco”

un libro scritto da nove professori della Gregoriana che hanno accolto la sfida del Pontefice: fare questa disciplina insieme, nella chiesa e per il mondo

la copertina del libro

di marco roncalli

Di quale teologia ha bisogno oggi la Chiesa? Di teologi che si compiacciono di un pensiero completo e concluso? No. Perché il teologo deve «trasmettere il sapere e offrirne una chiave di comprensione vitale, non un cumulo di nozioni non collegate tra loro». Perché alla Chiesa oggi non serve «una sintesi», ma «una atmosfera spirituale di ricerca e certezza basata sulle verità di ragione e di fede». E, in quest’atmosfera, anche la teologia è chiamata a fare proprio «un movimento evangelico» che va dal centro alla periferia e viceversa «secondo la logica di Dio che giunge al centro partendo dalla periferia e per tornare alla periferia». Da qui anche un’ immagine di teologo, tanto più «fecondo ed efficace quanto più sarà animato dall’ amore a Cristo e alla Chiesa, quanto più sarà solida e armoniosa la relazione tra studio e preghiera».

Così Papa Francesco il 10 aprile 2014 rivolgendosi alla comunità della Pontificia Università Gregoriana, sede della facoltà teologica con il più alto numero di studenti, da secoli fucina di teologi per tutti i continenti. Parole che ora aprono  il volume

«Dal chiodo alla chiave. La teologia fondamentale di Papa Francesco» (LEV, pagg. 160, 10 euro)

curato da Michelina Tenace, con il contributo di nove professori del Dipartimento di Teologia Fondamentale

della Gregoriana: un libro che, raccogliendo le provocazioni lanciate ai teologi dal pontefice in questa università, ne recupera nel titolo la parola «chiodo»: pronunciata da Francesco quando il gesuita François- Xavier Dumortier, allora Rettore della Gregoriana – nell’incontro ricordato – gli presentò il Direttore del Dipartimento di teologia fondamentale. «Teologia fondamentale! È come succhiare un chiodo!», disse Bergoglio per descrivere questa disciplina spesso declinata nella presunzione di un sapere teologico chiuso su sé stesso (e magari dedotto a priori da enunciati metacronici o predizioni, per dirla con Karl Rahner), o talmente sigillato da favorire quell’aridità del cuore sempre dannosa (e fuori luogo in qualsiasi riflessione su Dio). Un’uscita estemporanea, non dimentica della propria esperienza di studente, chino su manuali dove la morale era fatta di «si può» e «non si può», «fin qui sì» e «fin qui no», alquanto estranea al discernimento. Un modo di fare teologia, avrebbe ricordato in un’altra occasione, che «ha provocato l’atteggiamento casuistico» per risolvere i problemi. «Ciò che c’era nei libri era più reale di ciò che succedeva nella vita ». E tuttavia: «La “grande scolastica”, quella del “grande Tommaso” è quella che “tiene conto della vita”…». E ancora «Quando un’espressione del pensiero non è valida? Quando il pensiero perde di vista l’umano», così Papa Francesco nel colloquio spontaneo con i Gesuiti il 24 ottobre scorso durante la loro ultima Congregazione Generale, affrontando temi diversi: dal coraggio profetico al clericalismo, dalla pace alla crisi delle vocazioni, dalla politica al discernimento delle situazioni morali in alcune delle quali solo nella preghiera si ha luce sufficiente. In realtà, come coglie nell’introduzione Michelina Tenace, «quando Francesco descrive il vero teologo, in realtà, senza volerlo, rivela sé stesso». «Perciò» – aggiunge – «osiamo dire che, oggi, la teologia fondamentale ha un maestro e un testimone affascinante: il Papa Francesco, che è il papa della teologia fondamentale per il terzo millennio». Beninteso, una volta capito che anche la teologia fondamentale va integrata con l’impegno missionario, la carità fraterna, la condivisione con i poveri, la cura della vita interiore nel rapporto con il Signore; e che – diversamente dal passato in cui si mettevano in opposizione i teologi che si occupavano di dottrina e quelli dediti alla pastorale – in realtà «l’incontro tra dottrina e pastorale non è opzionale [ma] è costitutivo di una teologia che intende essere ecclesiale» (così nel videomessaggio papale al Congresso Internazionale di Teologia presso la Pontificia Università Cattolica Argentina all’inizio del settembre 2015). E allora la teologia fondamentale ha in questo anche un suo statuto chiaro. «Si occupa di aprire un passaggio dentro alla Chiesa, fra più realtà in contatto fra di loro: fede, credenza e non credenza; credenze varie a confronto; mondi e culture in dialogo, passato e futuro in ricerca di un senso in Cristo», sintetizza Tenace. Cristo, comunque – detto con von Balthasar – chiave ermeneutica anche di tutte le esperienze dell’umano. Insomma la teologia che non ha legame con la vita e la preghiera è una scienza su Dio che rischia di diventare ideologia: che porta a vedere anche la Chiesa in modo ideologico. Ben diversa la teologia fondamentale delineata nelle pagine di questa raccolta di saggi, che diventa luogo di incontro e di dialogo. Così chiedono a gran voce i nove professori – sei gesuiti e tre professoresse – coautori di questo libro.  

Vediamoli qui in sintesi.  

L’indiano Joseph Xavier, nel suo saggio, dato risalto alla riflessione di Francesco collocandola nel solco dei predecessori, testimonia nell’esperienza di Jorge Bergoglio l’importanza del suo incontro personale con Gesù. Notando poi come Papa Francesco insista sul fatto che la fede cristiana derivi dal principio fondamentale che Dio ci ha amati per primo e che, appreso ciò, lo stile di vita del cristiano cambia, nella consapevolezza che lo Spirito Santo continua a fare da guida negli eventi quotidiani. È, a ben guardare, l’invito a un continuo discernimento. Una volta che una persona è divenuta vero discepolo di Cristo, si rende conto che la sua fede non è una teoria prestabilita, ma una prassi. La fede è un invito ad agire come Cristo. Tra i temi più ricorrenti nei testi papali Xavier si sofferma inoltre su due in particolare: la nozione di cammino e l’incapacità di farsi guidare da Dio. In tal caso, Dio è solo un’idea convenzionale, non una realtà vivente che tocca la vita d’ogni giorno. Seguendo le dinamiche di fede nel pensiero del pontefice, Xavier evidenzia infine come per Francesco quando la fede si riduce ad un bandolo di principi e dottrine senza interruzioni, può degenerare in un sistema schiavistico di regole e come essa non possa mai esistere in un assoluto isolamento, ma debba essere condivisa.. Insomma «La fede diventa realtà solo nella vita del popolo» (e qui come non riconoscere con Xavier l’influenza che arriva dalla «teologia del popolo» degli argentini Lucio Gera e Rafael Tello o delle riflessioni della Conferenza Episcopale dell’America Latina?).  

L’ungherese Ferenc Patsch descrivendo la situazione mondiale come un «tempo di transizione», dall’era industriale all’era post-industriale, indica la teologia di Francesco come la risposta più adeguata alle sfide che ne conseguono e tra le cifre del Magistero attuale sottolinea il costante riconoscimento della contestualità e della storicità («il modo di dirsi e la condizionatezza socio-culturale della verità, anche quella teologica»). A tal proposito elabora tre applicazioni concrete – la teologia morale, la missiologia, la teologia ecumenica -mostrando come si manifestano i principi individuati nel lavoro concreto del «teologare». Infine individua la vera novità del Magistero di Papa Francesco nell’«autocoscienza dei limiti», nel coraggio con cui esprime «la situazionalità storico-culturale della teologia», nella «convinzione dell’inopportunità di sostituirsi agli episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche sui loro territori». È questo il contributo in cui si dilata anche il confronto con il testo di «Amoris Laetitia», nel quale per Patsch Francesco ha dimostrato un grande realismo e un atteggiamento eminentemente pastorale affrontando «in modo compassionevole» la condizione di coloro che vivono in «diverse situazioni dette “irregolari”», e pur «mantenendo il depositum fidei, ovvero salvaguardando l’indissolubilità del matrimonio voluto dallo stesso Cristo» introducendo «una nuova regolazione disciplinare (nota bene: non dottrinale!), concernente la possibilità di ammettere alla comunione eucaristica “in certi casi” i divorziati risposati, dopo un necessario discernimento personale e pastorale e senza più esigere in ogni caso l’impegno alla continenza sessuale».  

Per l’americano Andrew Downing i testi di Francesco, in particolare le encicliche sviluppano diversi aspetti di un’unica credenza di base: la fede cristiana affonda le radici nell’incontro storico con Dio; il suo compito nella situazione storica attuale e la sua speranza sono da scoprire in un futuro che Dio e il suo popolo costruiscono insieme. In questo modo, il pontefice palesa come lo stile della sua riflessione teologica sia modellato da una consapevolezza storica della realtà del presente e del passato, anche quando questa rimane aperta all’orizzonte del futuro.  

Decisamente originale il contributo del francese Nicolas Steeves che tratteggia il profilo di Francesco quale Papa tifoso delle immagini (difficile persino contare le tante metafore usate nei suoi discorsi, come pure i tanti gesti simbolici sapientemente diffusi ai media, materiale sovente motivo di critiche), interrogandosi sulla relazione di questa «tattica immaginifica» con la teologia che diviene per Francesco un vero «locus theologicus». E non a caso Steeves richiama quale prima fonte della teologia fondamentale immaginale di Francesco il pensatore Romano Guardini. Non a caso nota che questo ruolo dato alle immagini e all’immaginazione, porta inevitabilmente Francesco ad apprezzare e accogliere, nel rispetto della coerenza della Rivelazione, una certa pluralità nell’ermeneutica della Rivelazione stessa (non consentita da una teologia meramente concettuale). Conclude il gesuita: «Ovviamente, per alcuni, dalla forma mentis più nozionale o sistematica, un tale modus procedendi può disturbare. Tuttavia, bisogna notare che lo stesso Gesù di Nazareth parlava quasi sempre in parabole o con metafore…».  

Sul «metodo teologico» di Papa Francesco, tanto induttivo quanto esistenzialista, tanto lontano da visioni astratte e garantiste quanto vicino a visioni più rischiose, e segnate da consapevolezza storica, interviene l’irlandese Gerard Whelan. Pronto a ricordarci – con il cardinale Walter Kasper – la non appartenenza di Bergoglio al mondo accademico (a differenza di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI), il gesuita suggerisce di guardare in ogni caso alle tre principali caratteristiche del metodo con cui Francesco fa teologia. Un metodo che affonda le sue radici nella nozione di discernimento (desunta dagli «Esercizi Spirituali » di Sant’Ignazio); adotta lo stile induttivo del metodo «Vedere-Giudicare-Agire»; mostra un’ opzione preferenziale per i poveri. Secondo Whelan dall’uso di tale metodo derivano tre conseguenze: la critica a quanto ritiene pensiero astratto o ideologico, l’appello alla cultura dell’incontro, l’opposizione nei suoi confronti da parte di alcuni ambienti. Ne emerge in sintesi, un invito a cambiare orizzonte, a considerare novità che i teologi stessi hanno il compito di spiegare ad un uditorio accademico, magari beneficiando delle indicazioni del teologo canadese Bernard Lonergan, familiare alla tesi per cui la sfida nella moderna teologia consiste nel trasformare «una mentalità classica in una consapevolezza storica». Ciò comporta, innanzitutto, una trasformazione nell’orizzonte dei teologi da «una consapevolezza differenziata teoricamente» a una «consapevolezza differenziata interiormente». Nella lettura lonerganiana, questa trasformazione era una delle vere novità del Vaticano II.   

A Papa Francesco, erede – cioè ricettore di una tradizione, e innovatore – ovvero persona che risponde creativamente a ciò che ha ricevuto, guarda da vicino lo scritto dell’irlandese James Corkery. E pur certo che del papa si possa parlare in tanti modi come è stato fatto sino ad oggi, rammentato che trattasi del primo Papa dall’America Latina, del primo gesuita, quindi del primo religioso, sottolinea il dato che Bergoglio non ha preso parte al Concilio, ha studiato teologia dopo la sua chiusura, dunque… è il primo vero Papa post-conciliare che dal suo immediato antecessore si differenzia nel metodo, nel linguaggio e nello stile specie quanto a innovazione. In cosa consista questa innovazione Corkery lo spiega così. «Per primo, si è registrato un cambiamento nell’ecclesiologia; poi, il recupero di prospettive ormai dimenticate: quella dei poveri e quella di una Chiesa in dialogo con il mondo; terzo, si è dato maggiore equilibrio alle due Costituzioni del Concilio Vaticano II sulla Chiesa, Lumen Gentium e Gaudium et Spes; quarto, operando da gesuita, ha governato in maniera innovativa e ha richiamato l’attenzione al principio che “la fede opera la giustizia”; quinto, ha fatto teologia in modo nuovo». Come? Meno esigente dal punto di vista accademico, gesuita già alla scuola della teologia kerygmatica, nella sua teologia contestuale afferma che i nostri pensieri devono avere sempre qualcosa di incompiuto. Torna il leit motiv del sistema chiuso, che, oggi, può essere considerato tutt’al più una caricatura della teologia.  

Insieme ai sei gesuiti intervengono qui tre professoresse della Gregoriana. La spagnola Carmen Aparicio Valls, autrice del saggio sulla significatività della Parola negli scritti di Francesco, ne sottolinea il costante richiamo a lasciarsi illuminare da essa «oltre le nostre previsioni e i nostri schemi». «Parlare della Parola negli scritti di Papa Francesco ha un nome: Gesù Cristo. È Lui la Parola definitiva di Dio, il compimento delle sue promesse; è la Parola che si è fatta carne e che, assumendo la nostra condizione, con il nostro linguaggio, ci dice che Dio è Padre, Figlio e Spirito». Interessante constatare in che modo la Parola di Dio chiede il nostro ascolto più fecondo: sollecitando l’abbandono dei nostri meri interessi, l’uscita dalla autoreferenzialità, invitandoci a correre il rischio dell’incontro senza discriminazioni. Scritti e gesti del pontificato inducono a riconoscere che tale rischio va corso, che è necessario tornare alla radice della fraternità. Anche questo contributo torna poi sul metodo induttivo del pontefice che – continuando una modalità inaugurata dal Concilio – prende come punto di partenza la realtà storica per leggervi «i segni dei tempi» e cercare, alla luce della Rivelazione e della Tradizione, una soluzione cristiana ai problemi in questione. Esplicitato con alcuni esempi il magistero di Bergoglio, Aparicio Valls conclude che «la teologia del Magistero di Papa Francesco non ha solo la particolarità di aggiornare la Chiesa, ma, prendendo l’iniziativa, anche di portarci a una teologia e ad una prassi cristiana che risultino appropriate per la nostra  epoca post-industriale». 

E arriviamo all’altra italiana coautrice del volume – Stella Morra – che individua nel pontefice la costante recezione creativa del principio della pastoralità della dottrina, inaugurato dal Vaticano II, e la scandaglia in chiave ecclesiologica. Quanto basta per mostrarci ancora come per Francesco la soggettività del Popolo di Dio costituisca qualcosa in più di «un riconoscimento di partecipazione da parte di un soggetto di potere verso un altro soggetto», ovvero «l’assunzione del punto di vista necessario e indispensabile per ripensare e interpretare l’esperienza stessa della Chiesa». Il punto visibile e discriminante per l’unità del popolo di Dio in quanto tale è l’atteggiamento verso i poveri. Attenzione: non si tratta tanto o solo di «aiutare i poveri», ma di «riconoscere che i poveri ci evangelizzano, cioè ci mostrano con la loro vita, che ne siano consapevoli o no, la misura della conformazione a Cristo».  

 

«Dal chiodo alla chiave: la teologia fondamentale di Papa Francesco», a cura di Michelina Tenace insieme ai professori del Dipartimento di Teologia Fondamentale della Pontificia Università Gregoriana, Libreria Editrice Vaticana, pagg. 160, euro 10  

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da un’economia incentrata sul denaro a un’economia incentrata sulla persona

per restare in salute

di Francesco Gesualdi
in “Avvenire”

 “La prima sfida da vincere per riuscire a costruire una società al servizio della persona è convertirci a un’altra idea di benessere”

La salute non è semplice assenza di malattia, avverte l’Organizzazione mondiale della sanità. La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale. È la capacità di mantenere il nostro corpo in condizioni ottimali perché possiamo respirare una buona aria, abbiamo i mezzi per nutrirci, lavarci, proteggerci, abbiamo il sapere che ci serve per condurre uno stile di vita equilibrato. È la capacità di sentirsi appagati sotto il profilo affettivo perché diamo giusto spazio ai rapporti umani e familiari, viviamo secondo ritmi di vita compatibili con il nostro orologio biologico ed emotivo, viviamo in contesti urbani e abitativi che facilitano l’incontro e la condivisione. È la capacità di mantenere il proprio equilibrio psichico perché viviamo in contesti familiari, culturali, sociali, economici, dove ci si sente accolti, rispettati, valorizzati, incoraggiati. La ‘salute’, dunque, non è solo riconducibile alla quantità di risorse che riusciamo a destinare ai servizi medici e ospedalieri. La salute è un progetto di società. E con essa c’entra molto il passaggio da un’economia incentrata sul denaro a un’economia incentrata sulla persona. La prima sfida da vincere per riuscire a costruire una società al servizio della persona è convertirci a un’altra idea di benessere. Il dominante sistema materialista si sforza di convincerci che la sola cosa che conta è la ricchezza, e ci impone la crescita veicolata dal mercato come unico indicatore di benessere e sviluppo. Ma sappiamo che questa impostazione ci sta procurando molti danni non solo sul piano ambientale e sociale, ma anche su quello esistenziale. Molti di noi sono ricchi, questo è vero, ma nel contempo infelici e impauriti. Infelici perché la corsa al benavere non ci lascia tempo per le relazioni affettive, umane, sociali. Impauriti perché sappiamo che la nostra esistenza dipende dalle bizzarrie del mercato che quando meno te lo aspetti può metterti alla porta trasformandoti in scarto. Fino a oggi abbiamo accettato di vivere in un sistema economico che garantisce il superfluo a pochi e nega il necessario a molti, nella devastazione ambientale. Ora dobbiamo costruire la società dell’armonia che garantisce una vita dignitosa a tutti, nel rispetto dei limiti del pianeta. Gli originari abitanti delle Ande, le popolazioni che definiamo indios, chiamano questo stato di grazia benvivere ed è più una filosofia di vita che una concezione economica. È la convinzione che la buona vita non dipende tanto dalla ricchezza e che il vero benessere è uno stato di armonia in tre direzioni: con se stessi, con gli altri, con la natura. Altrimenti esiste opulenza, abbondanza, lusso, ma non letizia. Il benvivere ci richiede grandi cambiamenti per conciliare produzione e salvaguardia del pianeta, soddisfacimento dei nostri bisogni e bassa produzione di rifiuti, tempo per il lavoro e tempo per la famiglia. Ma solo avviandoci lungo questo percorso potremo trovare la salute che poi diventa sinonimo di felicità. Poi, certo, la malattia è sempre in agguato e la sfida che si pone di fronte a essa è permettere a tutti di curarsi. Un passaggio possibile solo se eleviamo la cura al rango di diritto, a un bisogno, cioè, che tutti devono avere la possibilità di soddisfare indipendentemente se ricchi o poveri, uomini o donne, giovani o vecchi, ma per il solo fatto di esistere. Il riconoscimento dei diritti è lo spartiacque fra civiltà e barbarie. Purtroppo non tutti i popoli hanno interiorizzato questo valore e continuano a pensare che la cura sia un privilegio che spetta solo a chi ha soldi e pertanto un servizio da affidare al mercato affinché possa lucrarci. Negli Stati Uniti la protezione sanitaria è affidata alle assicurazioni private che elargiscono prestazioni in base al premio pagato. In Italia abbiamo ancora un buona sanità pubblica, tra le migliori al mondo, ma c’è il rischio che taglio dopo taglio, spreco su spreco, inefficienza su inefficienza gradatamente si sgretoli e diventi talmente inadeguato da spingere un numero crescente di italiani a buttarsi nelle braccia della sanità privata che opera al di fuori del Servizio sanitario nazionale.
La Corte dei Conti segnala che fra il 2009 e il 2015 la spesa pubblica per sanità si è ridotta dell’1,1% all’anno in termini reali procapite, nello stesso periodo in Francia è aumentata dello 0,8% e in Germania del 2% all’anno. E intanto, fra ticket, ricorso a prestazioni private e riduzione della copertura farmaceutica, la spesa sostenuta dalle famiglie per curarsi cresce sempre di più fino ad avere toccato quota 35 miliardi nel 2016. La conclusione è che nel 2016 sono stati 13 milioni gli italiani che hanno sperimentato difficoltà economiche e una riduzione del tenore di vita per far fronte a spese sanitarie di tasca propria, 7,8 milioni hanno dovuto utilizzare tutti i propri risparmi o indebitarsi con parenti, amici o con le banche, e 1,8 milioni sono entrati nell’area della povertà. È quanto emerge dal Rapporto Censis-Rbm pubblicato nel 2017. Rafforzamento della solidarietà collettiva per la cura di tutti e ripensamento del modello economico sono le strade maestre per tutelare la salute.

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gli ‘zingari’ sono troppo parassiti e ladri per fare i poliziotti – parola del sindacato di polizia

assumere ‘zingari’ in Polizia? No, grazie

per la Consap sono tutti ladri e parassiti

Assumere ‘zingari’ in Polizia? No, grazie. Per la Consap sono tutti ladri e parassiti
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Presidente Associazione 21 luglio

Gli “zingari”? Parassiti, ladri, culturalmente lontani dalla legalità. A dirlo non è il solito sondaggio somministrato a un gruppo anonimo di cittadini esasperati, ma nientemeno che la Confederazione sindacale autonoma di Polizia (Consap) che, in virtù delle diverse migliaia di aderenti in tutta Italia è una delle organizzazioni maggiormente rappresentative della Polizia di Stato con strutture in ogni città e rappresentanti in tutti gli uffici di polizia. La sede nazionale dell’organizzazione è a Roma, città dove la Consap è, per numero di iscritti, il secondo sindacato di Polizia. La Consap fa anche parte della più grande associazione europea di Polizia, rappresentativa di oltre 500mila operatori della sicurezza.

Tutto nasce nei giorni scorsi, quando il Parlamento europeo ha emesso un documento per combattere il fenomeno dell’antigitanismo nel nostro Continente. Il testo raccomanda alla Commissione europea e agli Stati membri di compiere sforzi concreti verso una reale inclusione delle comunità rom in condizione di emarginazione sociale. Tra le misure indicate c’è quella di

“garantire che tutti i cittadini siano uguali davanti alla legge, assicurando un uguale accesso alla giustizia e ai diritti; di fornire una formazione sui diritti umani ai dipendenti pubblici e del sistema giudiziario nazionale; di perseguire i crimini d’odio fornendo strumenti per combatterli nella maniera più adeguata; istituire all’interno del corpo di Polizia delle unità che, formate sull’antiziganismo, sappiano combattere in maniera efficace i crimini d’odio; di favorire l’accesso alle giustizia da parte delle donne rom”; “incoraggiare l’assunzione di persone rom all’interno dei Corpi di Polizia”.

Raccomandazioni di buon senso visto che si tratta di misure già adottate con successo in diversi Paesi. In Italia l’unica a commentare la notizia è stata la Consap che, in un comunicato stampa, ha definito quest’ultima raccomandazione “una priorità delirante”. Il motivo è facilmente spiegato: 

“Il concetto di integrazione dei rom è un controsenso, infatti la loro cultura è da sempre quella di vivere ai margini della società per esaltare il loro parassitismo. Buttandola in metafora disneyana, come ha già detto qualcuno, non si rischierebbe di far sorvegliare alla Banda Bassotti il deposito di Paperone? Immaginiamo che le stesse nostre perplessità le potrebbero avere anche i zigani, che vedono, nelle divise, persone da evitare assolutamente e che questa cultura del “lontani dalla Polizia” se la tramandano da generazione in generazione, fin dalla tenera età dove il poliziotto potrebbe impedire loro di chiedere l’elemosina” 

Insomma, “zingari in Polizia?”. No, grazie, perché per il sindacato

“rimane assodato che in polizia può entrare chiunque, a patto che abbia requisiti morali, personali e generazionali per difendere la libertà e la democrazia

e quindi, secondo la Consap, chi ha sangue rom resta fuori.

Eppure la storia, come sempre racconta una verità diversa. Ho conosciuto funzionari rom della polizia bulgara e rumena addetti alla formazione dei loro colleghi. Così come in Abruzzo e Molise ci sono persone di origini rom arruolate in diversi corpi delle forze dell’ordine, qualcuno destinato anche alle missioni all’estero. Pochi lo sanno, visto che generalmente quando si indossa una divisa, non c’è la necessità di dovere sbandierare le proprie origini ai quattro venti. Soprattutto poi, quando a causa di pregiudizi e stereotipi, si potrebbe incorrere in sgradite conseguenze. D’altronde, anche nel Corpo di Polizia romano è da segnalare la presenza di agenti che, senza divisa, sarebbero annoverati tra gli “zingari parassiti, ladri e sfruttatori“.

Non ce lo possiamo nascondere: questi ragazzi, come tanti altri, sono il futuro del nostro Paese, i costruttori del ponte che ci proietta nel futuro di un’Italia ormai irrimediabilmente “contaminata“ dalla multietnicità. Lasciamo tranquillamente a questi giovani con il sogno della divisa – che siano rom o che non lo siano – la responsabilità di difendere la nostra “libertà e democrazia”, messa a rischio non certo da loro ma da prese di posizione offensive e ridicole. Che da un parte preoccupano ma dall’altra fanno sorridere benevolmente per il livello di un comunicato stampa che – per forma e contenuto – si pone sullo stesso piano delle barzellette indecorose sulle forze dell’ordine raccontate anche all’interno delle comunità rom.

Ma quando si è infarciti di pregiudizi reciproci, ognuno combatte la propria battaglia tra “guardie e ladri” (o riprendendo la metafora disneyana tra il commissario Basettoni e la banda Bassotti) utilizzando le armi che sa usare, a colpi di infelici comunicati stampa o di storielle irrispettose

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una giornata mondiale dei poveri voluta da papa Francesco

verso la I Giornata Mondiale dei Poveri

In chiusura del Giubileo della Misericordia Papa Francesco ha voluto indire la Giornata Mondiale dei Poveri, con l’intenzione di aiutare le comunità  cristiane, ma anche i singoli cristiani, ad essere più  vicini agli ultimi, alle “vittime dello scarto della società”.
Come stabilito nella sua Lettera Apostolica “Misericordia et misera”, Francesco spiega che “L’evento verrà celebrato ogni anno nella XXXIII Domenica del Tempo Ordinario, che quest’anno cade il 19 novembre”.
Il pontefice, ricordando l’esempio di Francesco d’Assisi, perché la Giornata non sia solo un evento “una tantum”, dice:
 “Non pensiamo ai poveri solo come destinatori di una buona pratica di volontariato da fare una volta alla settimana o, tanto meno, di gesti estemporanei di buona volontà per mettere in pace la coscienza. Queste esperienze pur validi e utili (…) dovrebbero introdurre ad un vero incontro con i poveri e dare luogo ad una condivisione che diventi stile di vita”.
Siamo invitati, in questa particolare occasione, a tendere la mano ai poveri, a incontrarli, guardarli negli occhi, pure ad abbracciarli,
“per far sentire loro il calore dell’amore che spezza il cerchio della solitudine”,
aggiunge ancora il Papa.
Le persone che ci capita di incontrare o vedere nelle piazze o ai bordi delle strade, spesso, hanno
“la loro mano tesa verso di noi, ed è un invito ad uscire dalle nostre certezze e comodità, e a riconoscere il valore che la povertà in sé stessa costituisce”.
Poi, il papa, più concretamente, suggerisce cosa fare in questa giornata: 
“Invito la Chiesa, gli uomini e le donne di buona volontà a tenere fisso lo sguardo su quanti tendono le loro nani gridando aiuto e chiedendo la nostra solidarietà”.
Si chiede quindi una reazione alla “cultura dello scarto” che vorrebbe dominare nella società e nei cuori delle persone, indicando la strada della condivisione coni poveri in ogni forma di solidarietà, come segno concreto di solidarietà.
Infatti, in conclusione del suo messaggio, Francesco suggerisce:
 “Se nel nostro quartiere vivono dei poveri che cercano protezione e aiuto, avviciniamoci a loro: sarà un momento propizio per incontrare il Dio che cerchiamo. Invitiamoli a pranzo: potranno essere maestri che ci aiutano a vivere la fede in modo più coerente”.
 
Germano Baldazzi
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le idiozie del ‘sacro cuore di Gesù’ della veggente di Varese

LA VEGGENTE DI VARESE

“A Gesù non piace Papa Francesco, me l’ha detto Lui: tutta colpa di Amoris Laetitia”

una signora del varesotto sposata con un ex sacerdote dal 1991 riceve messaggi da parte di Gesù, dice lei. Che ultimamente si sta scagliando contro papa Francesco

Papa Francescopapa Francesco

 

Non bastavano i dubia, le lettere di pseudo teologi, gli editoriali del giornalista “esperto”: anche Gesù ce l’ha contro papa Francesco. A questo punto dovrà proprio dimettersi, perché se al “principale” non piace il suo operato, ogni bravo “amministratore delegato” lascia il posto, magari con una liquidazione principesca, Anzi, papale. Vabbè questa volta siamo al delirio, i veggenti de noiartri, i profeti con il conto in banca, gli sfruttatori di anime semplici (e ignoranti). Dal 1991, secondo quando dichiara la signora Sabrina Luraschi, sposata dal 2000 con un ex sacerdote, Angelo Corbetta, residente del varesotto, dice di essere in linea diretta con Gesù. Altro che veggenti di Medjugorje. I due hanno inaugurato ben due siti online, “Il Sacro Cuore di Gesù” dove riportano le locuzioni, e l’Associazione riparazione eucaristica Sacro Cuore tramite la quale ricevono donazioni che, pare, vadano alla mensa dei poveri delle suore Vincenziane di Como. Esclusivamente tramite bonifico bancario. I seguaci non mancano. Il più entusiasta dei quali sarebbe proprio nostro Signore Gesù Cristo che incita la signora a usare il web.

D’altro canto bisogna essere aggiornati coi tempi. Dice che i messaggi di Gesù le arrivano per la maggior parte dei casi durante le adorazioni al Santissimo Sacramento, in altri casi le vengono dettati mentre i fedeli della congregazione recitano il rosario o discutono nei loro gruppetti. Ed ecco un paio di esempi di messaggi:

«Devi dire, o Sabrina, eletta Mia – sul Mio Sito, esso prezioso, amen – alle anime elette e non, che da qui in avanti esse, se vogliono continuare ad esserMi fedeli e grate, più non devono seguire gli insegnamenti di padre Bergoglio, poiché nella Amoris laetitia egli, purtroppo – con immenso dolore oggi Io te lo dico, amen – è andato fuori strada. Amen» (…) «Figli cari, vescovi e presbiteri della Chiesa Cattolica, Io vi scongiuro: non abbandonate la legge morale oggettiva per seguire questo – devastante ed eretico – multisoggettivismo pseudo-gesuitico. Amen».

Precisissimo Gesù, anche ad usare il linguaggio dei teologi dubbiosi e degli editorialisti di moda. Il più bello è questo, un invito allo scisma:

«In merito a Jorge Mario Bergoglio – quest’uomo che, a breve, porterà ancor più alla deriva la Mia Santa Chiesa in terra, ossia una larga parte di Essa, amen – riguardo a quest’uomo, adunque, sono a dirti che, giunti a questo punto, egli è, ai Miei occhi santi e divini, il papa canonicamente e validamente eletto, ma egli non è più da considerarsi – dai cattolici, figli e figlie della vera Mia Chiesa, amen – come il Mio Vicario sulla terra; e questo in quanto egli non sta più – nella sostanza – ministrando per Me, ma per altri. Amen».

Ci sarebbe da ridere se non ci fosse gente che dà credito a queste idiozie

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va bene tradizionalisti e ultracattolici ma così non è da delirio?

quando la bussola perde l’orientamento

gli ultratradizionalisti, la tradizione e la Chiesa

di  

Allibito. !

Non trovo termine migliore per esprimere il mio sentimento di fronte a quanto riportato da certi siti di ultra-tradizionalisti “cattolici”. Una accozzaglia di espressioni colme di presunzione di possesso esclusivo (escludente!) della verità, di arroganza e di malcelata cattiveria. È decisamente interessante che autori che si pongono come difensori della fede cattolica autentica si permettano certe affermazioni.

Una visione esclusiva, escludente di verità

Lascio qualche assaggio di cotanta “saggezza”: Monsignor Mario Delpini, arcivescovo di Milano, definito “ambro-luterano” per aver affermato la necessità, dal mio punto di vista sacrosanta, di diminuire il numero delle Messe a favore di un maggior ascolto della Parola. Poi, a proposito del dialogo ecumenico nel quinto centenario della riforma luterana, uno studioso, riferendosi a Lutero, dice: “le cui letture spirituali protestanti declamate in una basilica cattolica farebbero il pari della lettura del Mein Kampf in una sinagoga”.

Alla faccia del dialogo ecumenico alla luce del Concilio! Poi, diversi attacchi a vescovi e studiosi, tra i quali stimati docenti nelle facoltà pontificie, tacciati di essere persone “a favore delle innovazioni che si battono contro la tradizione”.

Permettete, egregi signori. Io voglio bene alla Chiesa

Ora, signori “difensori della tradizione”, mi permetto il mio parere da semplice curato: non sono uno studioso eccelso; non ho nemmeno la licenza in Teologia… avevo quella da pesca ma è scaduta pure quella. Ma voglio bene alla Chiesa, pur con tutti i miei limiti e i tanti peccati! Non offendetevi, ma credo sia la Chiesa che ha disperato bisogno di difendersi da voi!

Perché se la tradizione è il “si è sempre fatto così”, se i vescovi da difendere perché paladini della tradizione autentica sono quelli che vanno vestiti da alberi di Natale, con chiroteche e mantelli purpurei lunghi metri e metri con tanto di chierici in tricorno che li sostengono, c’è qualcosa che non va.

La nostra non è la Tradizione

Non mi soffermo poi, anche se avrei molto da dire (e da ridire) sulle esternazioni riguardanti Amoris Laetitia e il suo tentativo di aprire mente e cuore alle ferite di molti fratelli e sorelle: un concentrato di fariseismo contemporaneo. No, signori, la vostra non è la tradizione autentica. La Tradizione è la trasmissione di quel Vangelo che sa parlare alle donne e agli uomini di ogni tempo, con l’aiuto dello Spirito del Signore. La Tradizione della Chiesa è viva e richiede un cuore aperto, non rigido.

Certo, per comprendere questo, abbiamo bisogno di una continua e quotidiana conversione, che ci permetta di ricordare e credere alle parole di Gesù: “io sono la via, la Verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”. È il Signore che dobbiamo seguire, non una bussola che ha perso l’orientamento. Le chiroteche, guanti preziosi utilizzati dai vescovi molti decenni fa, lasciamole nei musei: noi sporchiamoci le mani nella storia dell’uomo, che è anche storia di Dio.

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