salvare vite in mare non è reato …

la nave delle Ong

giustizia per chi soccorre i migranti: salvare vite non è reato

di Diego Motta

Una sentenza non può cambiare il corso della storia, ma può aiutare a riscriverla. Un fatto di sette anni fa, l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina con relativo sequestro di una nave impegnata nei soccorsi, si è trasformato ieri, dopo la decisione dei giudici di Trapani, in un clamoroso proscioglimento di massa: tutti assolti, il fatto non sussiste. Perché salvare vite non è un reato.

Non è vero, però, che nel frattempo non sia successo nulla. Il caso della Iuventa, dal nome dell’imbarcazione della Ong tedesca rimasta ferma dal 2017 a oggi nel porto di Napoli, svela molto in realtà di quello che siamo diventati in questi anni: eravamo un popolo di santi, navigatori e poeti, ora di quell’anima profonda cosa è rimasto?

Basta andare a rileggersi le copertine dei principali giornali dell’epoca per ritrovare i titoli sui “taxi del mare” e sull’alleanza “tra Ong e scafisti”. Questo giornale, voce abbastanza isolata nel panorama di allora, parlò invece di “reato umanitario”. Iniziava una stagione nuova, con nuove parole d’ordine: basta con la solidarietà a buon mercato, via all’offensiva mediatica contro il Terzo settore e la società civile impegnata. All’eccesso di buonismo, che c’era, così come c’erano storture che andavano combattute (più in terra che in mare, basti pensare al caso “Mafia capitale”) si sostituiva silenziosamente il sentimento del cinismo, pronto a speculare sulle paure crescenti dell’opinione pubblica. In un contesto del genere, non potevano mancare, in perfetto stile italico, le “manine” degli 007, i veleni dei servizi e più in generale quella robusta dose di complottismo richiesta dallo spirito del tempo, emersa a tal punto nell’inchiesta da portare la Procura stessa a chiedere due mesi fa di archiviare il caso.

Cosa ha portato tutto questo? A un incattivimento complessivo del Paese, alla stigmatizzazione del povero in quanto tale, al ribaltamento dei ruoli con la criminalizzazione della solidarietà. Non c’è alcun assolto, in questo caso. Non è un dettaglio che quella fase, apertasi in Italia con il giro di vite anti-organizzazioni non governative voluto dal governo di Paolo Gentiloni, con Marco Minniti ministro dell’Interno, abbia raggiunto l’apice due anni dopo con la guida di Matteo Salvini al Viminale (e Giuseppe Conte premier) e continui ancora oggi, con provvedimenti di sequestro per le navi “colpevoli” di aver prestato soccorsi ripetuti (o non concordati) in mare, con viaggi della speranza che durano settimane avendo per destinazione i porti del nord Italia, con accordi fragilissimi stretti con i Paesi di frontiera. La disumanità, spiace dirlo, sembra essere divenuta la regola e non l’eccezione, mentre assistiamo a un governo dell’immigrazione affidato più a militari e forze dell’ordine che a sindaci e volontari.

C’è come la sensazione che qualcosa si sia rotto, in questo periodo, e che il tempo della ricucitura e del rammendo, davvero cruciale, non sia ancora arrivato: troppo profonda è la frattura che si è creata nel Paese, troppo pochi sono coloro che si stanno impegnando per far prevalere legalità, sicurezza e integrazione. Certamente, la sentenza Iuventa può essere un’occasione per ripensare a un sistema più a misura d’uomo, quando si parla di migranti. Questo non vuol dire non essere rigorosi con chi tenta di entrare illegalmente nel nostro Paese, né abbassare la guardia (ci mancherebbe) nei confronti degli spregiudicati trafficanti di uomini.

Basterebbe ripartire dall’osservazione del fenomeno, riconoscendo che avere più occhi in mare per salvare vite – negli ultimi dieci anni più di sei persone al giorno sono morte o disperse nel Mediterraneo – fa gioco anche alle autorità pubbliche preposte al controllo, mentre le intese con i discussi guardacoste nordafricani non stanno dando risultati. Lasciare in panchina la solidarietà per altro tempo, adesso, sarebbe un controsenso.

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