una secca bacchettata di papa Francesco ai vescovi italiani – speriamo che questa volta capiscano davvero

il papa bacchetta la Cei:

“bisogna fare un sinodo”

messaggio a tradizionalisti e ultra progressisti: il Concilio va seguito

Papa Francesco

papa Francesco

La bacchettata del Papa ai vescovi è secca: in questi cinque anni la Chiesa italiana non si è mossa. Verso che cosa? Una maggiore apertura da raggiungere attraverso un sinodo. Parola, questa, indigesta a non pochi presuli al di qua del Tevere, magari abituati a gestire le proprie diocesi con modalità poco collegiali. La Conferenza episcopale italiana (Cei) da anni fa resistenza a un’assemblea, anche per il timore di tensioni, scontri e spaccature, considerate le varie anime e sensibilità che si registrano tra i prelati.

Il dibattito sull’opportunità di un’assise nelle Sacre Stanze era stato lanciato il 2 febbraio 2018 dalla rivista dei Gesuiti La Civiltà Cattolica, con un articolo del direttore padre Antonio Spadaro. E poi il 21 settembre 2019 padre Bartolomeo Sorge (scomparso a novembre), nel suo ultimo articolo per il quindicinale dei Gesuiti, aveva ragionato sul Sinodo dando le premesse storiche: uno scritto molto apprezzato da Papa Bergoglio. 

Ieri Francesco – nel discorso all’ufficio catechistico nazionale della Cei – ha lasciato trapelare il suo disappunto: i prelati non hanno messo in pratica le indicazioni da lui ricevute al Convegno nazionale di Firenze, nel novembre 2015. Messaggio forte e chiaro. «Dopo cinque anni – ha scandito Bergoglio – la Chiesa italiana deve incominciare un processo di Sinodo nazionale, comunità per comunità, diocesi per diocesi. Nel Convegno di Firenze c’è proprio l’intuizione della strada da fare in questo Sinodo», momento di confronto sui grandi temi. «Adesso, riprenderlo: è il momento. E incominciare a camminare». Dopo un promemoria del maggio 2019, sotto forma di invito, questa volta il Pontefice usa il verbo «dovere». E rinfresca la memoria sull’obiettivo più grande: «Una Chiesa sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti». La «Chiesa in uscita» che predica fin dalla prima ora.

Nell’udienza di ieri papa Francesco ha anche colto l’occasione per avvertire tradizionalisti e ultra progressisti, i due estremi del «recinto cattolico» che – rispettivamente – rifiutano le riforme del Concilio Vaticano II o al contrario promuovono «fughe in avanti» con sacerdozio femminile e preti sposati: «Il Concilio è magistero della Chiesa. Se non lo segui o l’interpreti a modo tuo, tu non stai con la Chiesa». 

papa Francesco tira le orecchie ai vescovi italiani e un monaco di rilievo li invita ad una maggiore aderenza al vangelo

con una tempestività eloquente papa Francesco invoca il Signore perché dia ‘prudenza ‘ al suo popolo e lo renda capace di ‘obbedienza’ alle disposizioni per la fine della quarantena

ai nostri vescovi non fischiano forte gli orecchi?

papa Francesco rompe il silenzio sulla fase 2 del post-coronavirus e chiede ai cattolici di obbedire alle regole del governo:

«In questo tempo, nel quale si incomincia ad avere disposizioni per uscire dalla quarantena, preghiamo il Signore perché dia al suo popolo, a tutti noi, la grazia della prudenza e della obbedienza alle disposizioni, perché la pandemia non torni»

poche parole ma eloquenti prima della messa celebrata a Santa Marta per fare capire che occorre procedere per gradi

 

 

qui sotto la lettera che un noto e stimato monaco scrive ad un vescovo per scrivere a tutti i vescovi italiani perché siano mossi meno dalla difesa di privilegi ‘cattolici’ e più da motivazioni ‘evangeliche’

lettera a un vescovo

di fr. MichaelDavide Semeraro
in “www.finesettimana.org” del 27 aprile 2020

fratel MichaelDavide Semeraro è monaco benedettino dal 1983. Dopo i primi anni di formazione monastica ha conseguito il Dottorato in Teologia Spirituale presso l’Università Gregoriana di Roma. Nel suo servizio di intelligenza della fede e di accoglienza della vita, cerca di coniugare la sua esperienza monastica con l’ascolto delle tematiche che turbano e appassionano il cuore degli uomini e delle donne del nostro tempo.

Carissimo Vescovo,

permettimi di condividere con te la riflessione di questa mattina. Penso alla reazione forte della CEI alla dichiarazione del Presidente del Consiglio circa la famigerata “fase 2”. Se ho capito bene, si invoca la “libertà di culto” per reagire alla delusione del mantenimento delle restrizioni circa le celebrazioni liturgiche con la sola eccezione per i funerali. Non ritengo assolutamente di conoscere l’insieme della questione e non penso di avere né soluzioni da proporre, né approcci più saggi di quello di chi è costituito in autorità nella Chiesa. Ma condivido con te questa suggestione che mi è salita dal cuore passando dalle “ultime notizie” all’angolo della mia cella in cui mi dedico alla Lectio divina:
Libertà di culto o libertà nel culto?
Proprio in forza del Vangelo e del mistero pasquale di Cristo Signore, ciò che ci caratterizza non è solo la libertà di culto, ma anche la libertà da un certo culto, che permette di maturare un bene cristiano prezioso: una libertà nel culto. Se con le altre religioni condividiamo la giusta rivendicazione della libertà di culto per tutti, precipuo di ciò che il Cristo ci ha “guadagnato” è che la nostra pratica di fede non si identifica con il culto. In alcuni momenti, il culto si può trascendere, senza venir meno alla fedeltà discepolare. Un miracolo che era avvenuto fin qui era la serena alleanza tra la Chiesa, lo Stato e persino la scienza. Gli unici che si sono opposti a questa serena assunzione di responsabilità sono stati i tradizionalisti e quei politici stigmatizzati da papa Francesco in Gaudete et Exsultate 102. Taluni invocano la “religio” e la “christianitas”, ma così poco conoscono del profumo sottile e sempre eccedente del Vangelo di Cristo. Mi auguro vivamente che i vescovi del nostro Paese non prestino oltre il fianco alla tentazione, in nome del culto, di perdere un appuntamento storico per rimettere al primo posto il Vangelo. Anche quando i sacramenti non possono essere celebrati, il Vangelo è sufficiente come sorgente di comunione tra i discepoli e di carità verso tutti. Spero tanto che la nostra Chiesa in Italia non ceda alla tentazione di passare dalla testimonianza appassionata, serena e creativa ad una denuncia di non riconoscimento del “diritto di culto” assumendo la postura di “perseguitata”. Questo rischia di rendere vano il grande guadagno di queste settimane difficili in cui siamo stati capaci di vivere in regime di alleanza nella consapevolezza che nessuno sa bene come comportarsi per evitare il peggio e cercare il meglio. Non penso che si possa accusare il Governo in carica della colpa di “incertezza”, quando la situazione non permette di capire l’evoluzione della pandemia. Sarebbe un peccato passare dall’accompagnamento dei fedeli a vivere serenamente le restrizioni imposte, a lanciarsi in una “crociata” sul diritto alla “libertà di culto”. Sinceramente, penso non si possa nemmeno minimamente immaginare che il nostro Governo attuale voglia calpestare la libertà di culto proprio mentre persino i nostri fratelli musulmani, nel tempo sacro del Ramadan, hanno serenamente accettato di viverlo in modo diverso. Forse è più vero che le forze politiche potrebbero approfittare di questa crepa che si è creata nelle ultime ore per far rientrare alcune pressioni tanto “cattoliche” quanto poco “evangeliche”. Penso in particolare al senso ampio della vita di fede e l’attenzione ai più poveri.

Come discepoli del Risorto possiamo andare al Tempio come facevano i primi cristiani e “spezzare il pane” a casa. Se questo non è possibile o diventa troppo pericoloso o semplicemente incerto abbiamo sempre le nostre “serene catacombe” dove con fiducia attendiamo tempi migliori senza inutili agitazioni. Il Cristo Signore ci dona, con le sue parole e i suoi gesti, di vivere il culto senza identificarci con il culto. Il dialogo magnifico tra il Signore Gesù e la Samaritana può esserci di guida, di luce, di pace. Vedo il rischio di sprecare ciò che siamo stati capaci di recuperare stupendamente in queste settimane prestando il fianco a posizioni che difendendo la religione, in realtà, hanno a cuore la preservazione di un mondo di privilegi e di egoismi.

La nostra fede in Cristo ci spinge piuttosto ad una rinuncia unilaterale ai nostri diritti per portare insieme agli ultimi i <pesi> di doveri condivisi per rendere più prossimo il Regno di Dio. Se anche fossimo gli ultimi tra gli ultimi a ritrovare la possibilità di radunarsi nelle nostre chiese, potremmo portarlo con grazia e perfino con eleganza.

Quando parla un Vescovo si esprime il Collegio dei vescovi, successori degli apostoli. Quando si parla ad un Vescovo, ci si rivolge al Collegio dei vescovi, successori degli apostoli. E’ quello che sto facendo all’alba di questo giorno nel tempo che dedico abitualmente alla Lectio divina: attraverso di te chiedo ai Vescovi della Chiesa che è in Italia di non rendere vana la libertà che Cristo ci ha conquistato con la sua morte in croce. Di questo mistero l’Eucaristia è memoria irrinunciabile. Eppure, la nostra vita di battezzati – anche senza Eucaristia – è incarnazione nella realtà che rimane più grande di ogni idea dogmatica e di pratica anche cultuale. In ultimo, mi sento di rammentare che sempre si debba vigilare nel purificare ogni presa di posizione sugli ideali e i principi, dalla nostra paura di aprirci all’inedito e al nuovo accettando anche di rinunciare alla nostra influenza e, persino, al nostro potere religioso. Ti chiedo scusa di importunarti così presto al mattino e spero tu possa accogliere la confidenza di un monaco che spera di morire cristiano. Ti chiedo di benedirmi e di correggermi se ti sembra necessario.
fr MichaelDavide

 

 

i vescovi italiani chiamati da papa Francesco ad assumersi le loro responsabilità pastorali

 il tempo del Sinodo

di Alberto Melloni

Il caso 
Il tempo del Sinodo 
di Alberto Melloni
Pubblicato su “La Repubblica”
il 23 settembre 2019
dopo l’ età ‘ruiniana’ di deresponsabilizzazione dei vescovi, il convegno di Firenze del 2015 aveva aperto un cammino – interrotto però di nuovo: papa Francesco chiama i vescovi italiani ad assumersi le loro responsabilità pastorali
Il «probabile Sinodo della Chiesa italiana» – definito così dal Papa – è a uno snodo decisivo.
Il Consiglio di presidenza della Cei che si riunisce oggi dovrà decidere se avviare almeno un pensiero su questo tema e farlo «sparire» (cito il Papa), come ha fatto col discorso bergogliano del 2015 a Firenze: «Entrato nell’ alambicco delle distillazioni intellettuali» e «finito senza forza, come un ricordo».
Da maggio la Cei sa che non potrà rimettersi ai voleri del Papa.
Quando Francesco ha capito che i vescovi, per ossequio e malavoglia, lo potevano seguire ha reagito con una bacchettata severissima. Con un gelido comunicato il Papa ha fatto intendere che se si trattava di fare un Sinodo per conformismo, lui – primate d’ Italia – preferiva “frenare”.
E da una settimana sanno che il tema non è cancellato dalla loro agenda.
Giovedì scorso La Civiltà Cattolica (le cui bozze si leggono in Segreteria di Stato) è tornata sul Sinodo con un saggio di padre Bartolomeo Sorge.
L’ anziano gesuita ha evocato il primo convegno della Chiesa italiana su “Evangelizzazione e promozione umana”, che nel 1976 fu molto partecipato e vivo: però, proprio perché fatto al posto di un Sinodo, risultò incapace di impedire una lacerante politicizzazione della fede; e ha scritto che, dopo l’ età ruiniana di deresponsabilizzazione dei vescovi, il convegno di Firenze del 2015 aveva aperto un cammino – interrotto però di nuovo.
Cammino – chioso io – che se non diventerà sinodale, non saprà resistere alla divisione della Chiesa che è l’ obiettivo delle destre palesi e occulte; con ricadute che non riguardano il “voto cattolico”, ma la democrazia.
Non si tratta infatti di decidere se chiamare Sinodo un convegno, se metterci “più laici e più donne” per decorare il nulla. Si tratta del modo di dire la fede delle chiese locali e della responsabilità “pastorale” (nel senso di Papa Giovanni) dei vescovi.
I quali vescovi da anni si accontentano di rinviare la questione Sinodo come fosse un pallino gesuita o la leva per migliorare gli incassi politici alla prossima crisi o riscrivere liste di valori su cui riaggregare le destre confuse o cantare in coro la lisa canzone del “bene comune”.
Senza un atto di responsabilità sulla “sinodalità dall’ alto e dal basso” i vescovi perderanno autorevolezza: e di vescovi autorevoli hanno bisogno la Chiesa e il Paese. Lo si è capito quando mezz’ Italia ha visto che Giuseppe Conte era stato più severo dei vescovi davanti all’ abuso blasfemo delle devozioni cattoliche più dolci.
O quando Andrea Orlando, annunciando la sua scelta di lavorare nel partito, li ha surclassati nell’ indicare nella società il luogo in cui stare, per una lotta al cancro dell’ odio e della paura che deve ancora iniziare.
Il “probabile Sinodo per la Chiesa italiana” ne è parte perché è lo snodo liturgico in cui il rinnovamento interiore della Chiesa cattolica nella fedeltà al Vangelo può annaffiare le tante radici della democrazia italiana. E Dio sa se non son secche

“i vecovi ci aiutino a combattere il razzismo”

l’appello degli operatori della chiesa alla Cei:

aiutateci a sconfiggere il razzismo

prelati, suore, capi di associazioni, tutti uniti contro il razzismo:

“non si può essere cristiani e maltrattare i migranti. Fate chiarezza su questo punto”

Vescovi della Cei

vescovi della Cei

Centodieci operatori della Chiesa hanno scritto una lettera aperta alla Conferenza episcopale italiana, con possibilità di essere sottoscritta anche da altri, in cui si esprime preoccupazione per la dilagante “cultura del rifiuto, paura degli stranieri, razzismo e xenofobia, una cultura avallata e diffusa persino da rappresentanti delle istituzioni”.

“Sono diversi a pensare” continua la lettera, “che sia possibile essere cristiani e, al tempo stesso, rifiutare o maltrattare gli immigrati: un vostro intervento, in sintonia con il magistero di Papa Francesco, potrebbe dissipare i dubbi e chiarire da che parte il cristiano deve stare, sempre e comunque”.

A firmare la lettera sono decine di persone tra prelati, religiosi e religiose, ma anche laici, impegnate nella pastorale della Chiesa, da parroci a direttori delle Caritas, da docenti delle università pontificie a responsabili scout, da congregazioni religiose a operatori delle diocesi. La lettera è stata inviata al Presidente della Conferenza Episcopale Italiana e a tutti i vescovi singolarmente.

“Vi scriviamo per riflettere con voi – si legge nella lettera – su quanto sta attraversando, dal punto di vista culturale, il nostro Paese e l’intera Europa”. Si rileva il dilagare di “razzismo e xenofobia” ma anche “le strumentalizzazioni della fede cristiana con l’uso di simboli religiosi come il crocifisso o il rosario o versetti della Scrittura, a volte blasfemo o offensivo. I recenti richiami, in primis dei cardinali Parolin e Bassetti, al tema dell’accoglienza sono il punto di partenza; ma restano ancora poche le voci di Pastori – sottolineano i firmatari dell’appello – che ricordano profeticamente cosa vuol dire essere fedeli al Signore nel nostro contesto culturale, iniziando dall’inconciliabilità profonda tra razzismo e cristianesimo. Un vostro intervento, in materia, chiaro e in sintonia con il magistero di papa Francesco, potrebbe servire a dissipare i dubbi e a chiarire da che parte il cristiano deve essere, sempre e comunque, come il Vangelo ricorda”.

Nella lettera si evidenzia che nulla

“può fermare in questo impegno profetico: né la paura di essere fraintesi o collocati politicamente, né la paura di perdere privilegi economici o subire forme di rifiuto o esclusione ecclesiale e civile”. “Oggi riteniamo che l’urgenza non sia solo quella degli interventi concreti ma anche l’annunciare, con i mezzi di cui disponiamo, che la dignità degli immigrati, dei poveri e degli ultimi per noi è sacrosanta”.

 

papa Francesco vuole una chiesa italiana più ‘libera’

“ciò che ci fa più liberi”

il cammino della Chiesa italiana


Umberto Folena 

Viva la libertà. La libertà di chi non accumula freneticamente denaro e potere, fino a far soffocare la propria anima. La libertà del Vangelo. E la libertà di Pietro, il primo, il prescelto, che incontrando lo storpio allarga le braccia e gli dice: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!» (Atti 3, 6).

È la maggior libertà a cui ieri Francesco ha invitato, con dolcezza e con nettezza la Chiesa italiana. Siate più liberi per «fare presto e bene». Le vocazioni sacerdotali calano? Ci sono cause esterne, come la «cultura del provvisorio» e l’«idolatria del denaro»; ma anche cause interne, come una «testimonianza a volte tiepida» e gli «scandali»: fosse anche uno solo, sarebbe uno di troppo la cui ricaduta negativa non è misurabile. Veleni che penetrano dall’esterno, veleni generati dall’interno. Risultato: un tempo sterile, almeno all’apparenza. Come reagire? Innanzitutto con la generosità: chi ha più preti, ne doni a chi ne ha di meno, perché nella Chiesa non possono esserci “ricchi” e “poveri” di alcun genere.

Reagire anche, e soprattutto, tornando a innamorarsi della «povertà evangelica». Facile proclamarla, assai più difficile viverla perché tutti abbiamo, almeno un poco, paura. Tutti avvertiamo il bisogno di qualche garanzia. La precarietà spaventa. Eppure un prete dovrebbe saperlo, quando decide di diventare prete. Tanto tempo fa gliel’ha ricordato il Concilio: i preti «non trattino dunque l’ufficio ecclesiastico come occasione di guadagno», avverte Presbiterorum ordinis (17), che invita ad «abbracciare la povertà volontaria». Volontaria, non subita di malagrazia.

Un invito al pauperismo? Alla rinuncia alle risorse? No. L’invito è a considerare le risorse per ciò che sono: semplici strumenti, non fini. La Chiesa sceglie la povertà evangelica «non perché rinuncia alle risorse, ma non tiene nulla per sé»: e questa è la lettera (Sostenere la Chiesa per servire tutti) che dieci anni fa i vescovi italiani scrissero nell’anniversario di Sovvenire alle necessità della Chiesa (1988), dove solidarietà, corresponsabilità e trasparenza erano le parole d’ordine. Si ricordava, allora, l’importanza di tenere due portafogli ben distinti: uno con i propri soldi, l’altro con quelli della comunità. Il vescovo che offre il pranzo, ricordato ieri da Francesco, mette mano al portafoglio numero uno. Ma si ricordava anche a ogni parroco il dovere di fare testamento, affinché sia chiaro che nulla è suo, ma tutto è della comunità.

Libertà significa saper distinguere i mezzi dai fini. Il fine è uno solo, l’annuncio del Vangelo. Il bene è uno solo: Gesù Cristo. I mezzi vanno messi a disposizione di quel fine e quel bene. Anche le diocesi sono strumenti, creati per meglio annunciare Gesù Cristo e servire la causa del Vangelo. Essendo strumenti, nascono e possono trasformarsi, confluendo e unendosi. Le diocesi in Italia sono 226. Tantissime, anche dopo il primo accorpamento di un terzo di secolo fa. Francesco chiede alla Chiesa italiana di snellirsi, in nome della sobrietà e dell’incisività evangeliche.

Già, ma le tradizioni? Ogni diocesi ha la sua, e ne è orgogliosa. Ora il problema è semplice e “duro” al tempo stesso: una tradizione può tramutarsi lentamente, inesorabilmente in una gabbia che si stringe fino a soffocarti; oppure evolversi in un’occasione per coniugare il nuovo e l’antico rinunciando a qualcosa per conquistare qualcos’altro. Libertà è quella dei figli di Dio che hanno lo sguardo lungo e vivono le tradizioni con fedeltà creativa.

Viva la libertà, dunque. È questa che Francesco offre e chiede alla Chiesa italiana. La libertà di chi si scrolla di dosso ciò che forse pensava fosse indispensabile, ma non lo è. Di chi si libera del tragico mantra: «Abbiamo sempre fatto così». Di chi sa farsi come Pietro che davanti allo storpio allarga le braccia: ho finito quel poco oro e argento che avevo, ma erano semplici strumenti, roba che passa e si corrompe. Invece posso donarti l’unica cosa che conta, Gesù. Alzati e cammina, Chiesa che sei in Italia!

la campagna dei vescovi italiani a favore dei migranti

migrazioni

al via la campagna Cei

«liberi di partire, liberi di restare»


Luca Liverani 
È online il sito dell’iniziativa della Chiesa italiana per il sostegno ai migranti nei paesi di partenza, di transito e di accoglienza, finanziato con 30 milioni di euro dell’8 per mille

Alcuni dei 304 migranti salvati il 18 agosto dalla ong maltese Moas (foto Ansa - Croce Rossa Italiana)

alcuni dei 304 migranti salvati il 18 agosto dalla ong maltese Moas

Si chiama significativamente «Liberi di partire, liberi di restare» la campagna lanciata dalla Conferenza episcopale italiana per dare una risposta concreta al fenomeno, non di rado drammatico, delle migrazioni dai paesi in via di sviluppo. Una definizione che è anche l’indirizzo web dell’omonimo sito liberidipartireliberidirestare.it realizzato per seguire lo sviluppo delle iniziative. Per finanziarle la Cei ha assegnato 30 milioni di euro dell’8xmille

L’agenzia Sir, che lancia l’iniziativa, definisce la campagna «una finestra sul mondo, lo specchio di un impegno corale che va oltre i cori da stadio e l’indifferenza». Scopo del progetto è sensibilizzare la popolazione italiana sul tema, e allo stesso tempo realizzare progetti concreti nei Paesi di partenza, di transito e di accoglienza di quanti. Nei paesi cioè da cui, specialmente bambini e donne, fuggono da guerre, fame e violenza.

Perché dire «aiutiamoli a casa loro significa solo scaricare il problema». Occorre invece dare a tutti la possibilità di decidere. È questo il senso della Campagna della Cei “Liberi di partire, liberi di restare” che ha come tema centrale il diritto alla libertà, presupposto fondamentale per la pace e la giustizia. «Nessuno deve essere costretto a stare in un posto dove non può vivere una vita dignitosa o dove c’è violenza. Nello stesso tempo ognuno ha il diritto di muoversi perché la terra è di tutti, non di alcuni sì e di altri no», afferma don Leonardo Di Mauro, responsabile del Servizio degli interventi caritativi a favore dei Paesi del Terzo Mondo, sottolineando che con questa iniziativa «vorremmo che il concetto di libertà di partire, di emigrare, valesse a 360 gradi».

Il portale accompagnerà lo svolgersi della Campagna, raccontando le storie e le testimonianze delle persone coinvolte, sia dei promotori delle attività sia dei loro beneficiari. Al momento sono 6 i paesi coinvolti attraverso 4 progetti, finanziati con 600 mila euro. La grande mappa, che campeggia sulla home page, permette di visitare virtualmente i luoghi di intervento, per scoprire cosa vi si realizza e con quante risorse. La sezione news invece aiuta ad approfondire il significato e gli ambiti di questa iniziativa straordinaria della Cei grazie alle voci dei protagonisti e di quanti – uffici Cei, associazioni, diocesi e realtà locali- vi sono impegnati. Il sito, disponibile anche in inglese e francese, raccoglie infine tutti i materiali che l’agenzia Sir, il quotidiano Avvenire, RadioinBlu e Tv2000 pubblicano a riguardo.

Tra i progetti al momento attivati c’è a Catania «Semi di accoglienza», partito a giugno con un contributo di 86 mila euro. Si tratta di un laboratorio di sartoria etnica e uno di pasta fresca per aiutare l’inserimento nel mondo del lavoro delle ragazze che hanno vissuto il dramma della tratta. Il progetto, presentato dalle suore Serve della Divina Provvidenza di Catania, ha come obiettivo la formazione professionale delle ragazze ospiti delle diverse realtà di accoglienza de “la Casa di Agata”. I fondi saranno utilizzati per potenziare le attività già in atto, migliorando la qualità delle realizzazioni di sartoria, e per creare un negozio per la vendita diretta di prodotti di pasta fresca con un canale di commercializzazione di prenotazione e consegna domiciliare.

Poi c’è «Il diritto a non fuggire», avviato a maggio con 420 mila euro, che ha come obiettivo la formazione in Italia di giovani per sviluppare in Mali progetti che possano incidere nella realtà locale, innescando un cambiamento sociale, economico e politico. Grazie al progetto promosso dall’Associazione Rondine Cittadella della Pace, sei giovani maliani frequenteranno un master di primo livello o una scuola di alta professionalizzazione sui temi della gestione dei conflitti, della riconciliazione e delle abilità di comunicazione. Per dare un contributo concreto al processo di pace in Mali, un Paese ancora caratterizzato da instabilità e insicurezza.

Con 66 mila euro infine è stato lanciato a Pozzallo in Sicilia il progetto «Tutori volontari per minori non accompagnati». L’inixiativa nasce dalla constatazione che sono stati oltre 17 mila i minori non accompagnati arrivati in Italia nel 2016. Si tratta di bambini e ragazzi vulnerabili che, per essere tutelati, hanno bisogno di un adulto che possa accompagnarli e rappresentarli legalmente negli adempimenti amministrativi. Per questo la cooperativa sociale Fo.Co, che coordina il Centro Mediterraneo di Studi e Formazione Giorgio La Pira di Pozzallo, promuove in Sicilia un progetto per sensibilizzare, informare e formare 300 tutori volontari per minori non accompagnati.

il papa tira le orecchie ai vescovi italiani e loro … mormorano in diretta

 

cei

 

 

una vera sferzata quella di papa Francesco ai vescovi italiani presiedendo (è la prima volta, non era mai successo) la loro assemblea generale

rivolge loro una forte chiamata a scuotersi e un monito a farsi più vicini al loro popolo, a entrare nel ‘vissuto della gente’, aiutandolo a “non cedere al catastrofismo e alla rassegnazione” e sostenendo con ogni forma di ‘solidarietà creativa’ disoccupati, cassintegrati, disoccupati, precari, imprenditori, migranti e rifugiati

dice chiaramente a loro: “non restate seduti ai piedi del campanile, lasciando che il mondo vada per la sua strada”, mentre  ascoltano con visibile imbarazzo, tanti colpi di tosse e scarsa convinzione la lunga lista delle ‘tentazioni’ che i vescovi devono evitare

qui sotto riporto tre dei vari articoli (dalla preziosa rassegna di ‘finesettimana’) apparsi sulla stampa odierna (di M. Politi, di L. Accattoli e di G. G. Vecchi) che fanno il punto sulla nuova linea che papa Francesco indica ai vescovi italiani, non proprio in continuità con quella portata avanti (non senza durezze ideologiche) fino ad ora, anzi ribaltandola, indicando altri … valori ‘non negoziabili’, anzi l’unica cosa non negoziabile, la realtà stessa:

Il Papa sferza la Cei. “Non restate seduti ai piedi del campanile, lasciando che il mondo vada per la sua strada”, esclama rivolto ad un’assemblea, che non è mai stata accompagnata da tanti colpi di tosse durante un discorso papale e che ascolta imbarazzata la lunga lista delle “tentazioni” che i vescovi devono evitare. Alla fine l’applauso parte esitante, si allarga crescendo ma non coinvolge convintamente tutto l’emiciclo.
Una forte chiamata a scuotersi e a non cedere al sentimento della crisi è venuto ieri da papa Francesco che ha rivolto un doppio monito ai vescovi italiani riuniti in assemblea: perché reagiscano alla tentazione della «tristezza», entrino nel «vissuto della gente» e aiutino la società a «non cedere al catastrofismo e alla rassegnazione», sostenendo con ogni forma di «solidarietà creativa» disoccupati, cassintegrati, precari, imprenditori, migranti e rifugiati.
C’è un’immagine che dice tutto, quando Francesco ricorda ai vescovi italiani la tentazione distinguere «tra “noi” e “gli altri”» e mette in guardia dalle «chiusure» e dall’«attesa sterile di chi non esce dal proprio recinto e non attraversa la piazza, ma rimane a sedere ai piedi del campanile, lasciando che il mondo vada per la sua strada». La stessa crisi è una «emergenza storica» che «interpella la responsabilità sociale di tutti», dice: «Come Chiesa, aiutiamo a non cedere al catastrofismo e alla rassegnazione».

i primi segni di una chiesa italiana che cambia?

 

altare

Lavoro e diritti, pace e disarmo, mafia e antimafia: su questi temi sociali, nelle ultime settimane, i vescovi di diverse diocesi italiane si sono schierati pubblicamente, assumendo posizioni coraggiose e “di frontiera”.

Mons. Depalma: dalla parte dei lavoratori

Il caso più noto, che ha trovato ampio spazio anche nelle cronache nazionali, è stato quello che ha avuto come protagonista il vescovo di Nola, mons. Beniamino Depalma, che lo scorso 15 giugno ha partecipato ad una manifestazione degli operai dello stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco (Na) – da anni alle prese con la cassa integrazione – per contestare i sabati lavorativi di “recupero produttivo”.

Il vescovo si è collocato «dalla parte dei violenti e dei prevaricatori», ha affermato il responsabile dello stabilimento di Pomigliano, Giuseppe Figliuolo, in una lettera indirizzata al vescovo nel giorni successivi alla manifestazione. Nella missiva Figliuolo ha criticato la presenza del vescovo davanti ai cancelli dello stabilimento «per portare la sua solidarietà ad alcuni manifestanti che con azioni violente e minacce hanno tentato di impedire l’ingresso in fabbrica ai lavoratori della Fiat». «La sua scelta di essere dalla parte dei violenti e prevaricatori – aggiunge – è stata involontaria e causata dalle mistificazioni veicolate da alcuni organi di informazione che hanno volutamente travisato la realtà dei fatti», omettendo che «era stato sottoscritto un accordo sindacale tra azienda e legittimi rappresentanti dei lavoratori».

«No, dottor Figliuolo, io non sto dalla parte dei violenti, né volontariamente né, come dice lei, “involontariamente”», ha replicato il vescovo – che più volte, in passato, è intervenuto su questioni sociali che riguardavano il suo territorio, dalle lotte degli operai della Fiat al problema rifiuti e discariche abusive (v. Adista nn. 5/08; 34 e 52/09) – in una lettera pubblicata dal quotidiano napoletano Il Mattino (7/7). «Bisogna provare in ogni circostanza, anche la più burrascosa, a mettere le persone intorno allo stesso tavolo. Un vescovo, un pastore, non è un dirigente di un’azienda: quando vede e sente uomini gridare, ha l’obbligo morale di andare a vedere e sentire con i suoi occhi e con le sue orecchie. Credo che oggi, in questo tempo così difficile, i complici dei violenti siano tutti coloro che stanno rinchiusi nei loro fortini sperando che la burrasca passi senza bagnarli. Opera davvero violenza chi nega la speranza negando prospettive di futuro alle persone e alle famiglie. La Chiesa ha una sola preoccupazione: che le famiglie non perdano il salario». «Ha difeso i deboli, ha parlato in favore del diritto al lavoro. La sua è stata l’espressione di un pastore e non dovrebbe essere sindacata, e tantomeno censurata da parte di un’azienda», difende il suo vescovo don Peppino Gambardella, parroco di San Felice in Pincis a Pomigliano, anche lui da sempre schierato accanto agli operai della Fiat (v. Adista n. 25/09). «Ancora una volta i vertici Fiat hanno dimostrato arroganza e anche poco rispetto della dignità del pastore della Chiesa. Probabilmente a loro, che vivono una vita staccata dalla gente, sfugge il valore morale che il vescovo rappresenta per i lavoratori. A lui arriva il grido di aiuto dei poveri, la loro disperazione. Tutto questo purtroppo sfugge ai dirigenti della Fiat. Forse sono abituati a comandare e ad avere gente che deve solo obbedire. Sono poco adusi alla democrazia».

Intanto Depalma ha fatto sapere di aver accettato l’invito di Figliuolo a visitare lo stabilimento di Pomigliano: mi pare un modo «per avere l’opportunità di un confronto franco e diretto», ha motivato la sua decisione il vescovo.

Mons. Pizziol: l’unico valore è la pace

Ha invece declinato l’invito a partecipare all’inaugurazione della nuova base militare Usa all’aeroporto Dal Molin di Vicenza il vescovo della città, mons. Beniamino Pizziol, come peraltro gli aveva chiesto il Coordinamento cristiani per la pace di Vicenza e altre associazioni (v. Adista Notizie n. 23/13), evidenziando quindi un atteggiamento ben diverso da quello del suo predecessore, mons. Cesare Nosiglia, sempre piuttosto disponibile verso il Dal Molin.

«La decisione se presenziare o meno a detta inaugurazione – scrive il vescovo al colonnello David W. Buckingham, comandante della guarnigione dell’esercito Usa a Vicenza – è stata fonte di un sereno e condiviso discernimento sul significato della presenza di un vescovo in questa struttura che, al di là della buona coscienza delle persone che vi operano, resta il segno che siamo ancora lontani dalla realizzazione di quel progetto di pace, che tutti portiamo nel cuore come un “anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi” (Giovanni XXIII, Pacem in Terris, n. 1)».

La lettera del vescovo al colonnello Usa si conclude con una «speranza», che però pare piuttosto un auspicio di improbabile realizzazione: che la base di Vicenza – dove verranno collocate alcune attività di Africom, il comando militare Usa per l’Africa – «possa essere trasformata in un centro di formazione e di azione per promuovere lo sviluppo del Continente africano, a servizio della vera libertà e della democrazia».

Mons. Morosini: via i condannati dalle associazioni ecclesiali

Tornando a sud, il vescovo di Locri, mons. Giuseppe Morosini (nel frattempo nominato nuovo arcivescovo metropolita di Reggio Calabria), ha emanato un decreto molto severo nei confronti di chi è stato rinviato a giudizio in un procedimento penale: non può far parte delle associazioni ecclesiali presenti nella diocesi, compresi i Consigli pastorali parrocchiali. Morosini parla in generale dei rinviati a giudizio, ma è abbastanza chiaro – data la specificità del territorio della Locride – che il provvedimento sia diretto ad escludere dalla vita delle associazioni ecclesiali le persone coinvolte in indagini sulla ‘ndrangheta.Gli indagati, è scritto nel decreto, devono subito informare il responsabile dell’associazione del procedimento aperto a loro carico e autosospendersi dall’associazione. Se non lo fanno, interviene d’ufficio il capo dell’associazione o il vescovo. Il quale può anche sciogliere l’associazione nel momento in cui ravvisasse che è stata messa in atto una copertura dell’associato sotto indagine. L’esclusione dall’associazione resta in vigore fino alla fine del procedimento penale ed è definitiva in caso di condanna.

Il provvedimento del vescovo Morosini segue di qualche giorno quello del vescovo di Acireale, mons. Antonino Raspanti, che ha vietato, nel territorio della sua diocesi, i funerali ai condannati per mafia (v. Adista Notizie n. 25/13).
Don Diana: laurea post mortem

A Napoli, la Facoltà teologica dell’Italia meridionale – la sezione San Luigi, quella gestita dai gesuiti – ha deliberato di concedere la licenza in Teologia biblica a don Peppe Diana, il parroco di Casal di Principe ucciso dalla camorra nel 1994, come peraltro era stato proposto da diversi docenti e studenti della facoltà nel 2011, al termine della Giornata di studio “Martiri per la giustizia, martiri per il Sud. Livatino, Puglisi, Diana, uccisi non per errore” (v. Adista n. 35/11).

«Alcuni anni fa – spiega Sergio Tanzarella, docente di Storia del cristianesimo alla Facolta teologica, fra i principali promotori dell’iniziativa – ricostruendo la carriera universitaria di don Peppe, si è deciso di riconoscere il titolo che il parroco di Casale non aveva potuto conseguire. Don Diana era arrivato quasi alla fine dei suoi studi teologici, ma non riuscì a completarli perché fu ucciso dalla camorra il 19 marzo del 1994. Era una persona che amava studiare. Si era laureato in filosofia, ed era quasi arrivato alla conclusione degli studi in teologia biblica quando fu assassinato. Così il Consiglio di Facoltà ha deciso di riconoscere a don Diana la laurea nonostante non abbia concluso il corso di studi. Nel mese di ottobre avrà luogo la cerimonia di assegnazione». Sul fronte del processo di beatificazione di don Diana – anche su questo punto, in occasione della stessa Giornata di studio, era stata inviata una sollecitazione al vescovo di Aversa, mons. Angelo Spinillo – invece, nulla di fatto. «In diocesi non è presente nessuna forma di culto nei confronti del parroco di Casal di Principe», dicono ad Adista fonti vicine alla Curia aversana. Un appello a proclamare martiri anche dei laici che si sono impegnati fino alla fine per la giustizia arriva invece dal vescovo emerito di Caserta, mons. Raffaele Nogaro, che propone la beatificazione del magistrato ucciso dalla mafia Rosario Livatino: «Mi piace una Chiesa che ricosce anche la laicità della santità”, perché “i santi non sono quelli con l’aureola”».

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