i partigiani della resistenza rom e sinti, una storia poco nota

la storia segreta dei partigiani rom e sinti

di Giulia Boero in “la Repubblica” del 22 aprile 2024

C’è una storia poco nota. Di giovani rom e sinti, partigiani della Resistenza. Dimenticati, non riconosciuti. Tenuti ai margini, anche dopo la Liberazione e nella democrazia restaurata. Di loro restano i ricordi narrati dagli eredi. Di loro, ne sopravvive soltanto una. Erasma Pevarello è l’ultima staffetta sinta rimasta. Novantasei anni, conosciuta con il nome di Vincenzina, oggi vive nella camera da letto della sua roulotte a pochi chilometri da Castelfranco Veneto, in un piccolo campo fatto di qualche casa mobile, verande di legno e molta tranquillità. Aveva 17 anni quando nel 1944, incinta del suo primo marito – Renato Zulin Mastini, anche lui partigiano sinto – scappò dai soldati fascisti, mentre lui veniva catturato. «Mi buttai in un fosso ricoprendomi di foglie secche. Prima di scappare, un fascista che chiamavano gamba di legno mi colpì nel fianco con il calcio del fucile. Sento ancora quel dolore, non è mai passato del tutto». Mirka è l’unica figlia di quell’unione. Nata in carovana al chiaro di candela, mentre fuori igagi (i non-rom) mitragliavano la kumpania delle famiglie sinte itineranti. Oggi ha ottant’anni. Apre la porta della roulotte, attraversata a metà pomeriggio da fitti raggi di luce invernale. Fa segno di entrare con la mano, Erasma aspetta seduta sul letto. È la sola rimasta tra quindici fratelli: «La radice della stirpe dei Pevarello» dice di sé sorridendo. Famiglia dedita allo “spettacolo viaggiante”, di artisti e saltimbanchi, suonatori di violino e partigiani. Racconta, fa un salto indietro nel tempo. Erasma cercherà invano il marito per giorni. A piedi, un comando di polizia alla volta. Da Vicenza a Padova e ritorno. Verrà fermata da un uomo coperto in volto: «Mi mise qualcosa in mano e mi chiese di andare a San Giorgio. Lì, all’altezza del campanile, avrei trovato qualcuno a cui consegnare ciò che mi aveva dato. E lo feci». Una storia che si ripeterà più volte. «Avevo paura, fare la staffetta era pericoloso. Se i fascisti mi avessero trovato, sarei stata la prima a essere uccisa. Ancora oggi non so dire perché l’abbia fatto. Sentivo solo che era la cosagiusta, che dovevo». Renato Mastini verrà fatto prigioniero nel carcere di Camposampiero, vicino a Padova. Fucilato l’11 novembre di quell’anno durante “l’eccidio del Ponte dei marmi”.

Sinto tra i “dieci martiri di Vicenza”, come sinti erano Walter Catternato, Lino Festini e Silvio Paina. Anche loro musicisti, circensi, giostrai. Un impegno partigiano comune a molte famiglie rom e sinte italiane che i discendenti tengono a rivendicare. Il contributo delle comunità romanès alla resistenza al nazifascismo assunse diverse forme. Staffette e combattenti attivi, scappati soprattutto dai campi di concentramento italiani dopo l’armistizio dell’ 8 settembre 1943. Uniti aiciriklè ( i passeri, i partigiani), dopo aver trovato rifugio nelle campagne e sulle montagne. Costretti alla macchia nei boschi contro i fascisti, ikashtengere , quelli con il manganello. Per molti era un modo per non essere catturati di nuovo e deportati in Germania. Altri speravano di liberare i propri familiari ancora prigionieri. Per alcuni era il modo di contribuire alla liberazione d’Italia e partecipare alla costruzione di uno stato democratico. Tutti combattevano per imulé ,i propri morti. I partigiani erano gli unici a garantire loro protezione. Nessuno conosceva i luoghi meglio dei sinti. Nessuno meglio di loro sapeva orientarsi senza mappe, bussole o cartine. Spesso staffette, perché in grado di correre più velocemente di chiunque altro (come Osiride Tarzan Pevarello, fratello di Erasma, scelto da Tina Anselmi, partigiana con il nome di Gabriella). In questa storia sommersa, soltanto uno negli anni ’80 riceverà dal presidente Pertini, suo compagno d’armi, il Diploma d’Onore di Combattente per la Libertà d’Italia: Amilcare Taro Debar. Prima come vedetta, corriere e addetto all’approvvigionamento di armi nel cuneese. Poi, combattente attivo nelle Langhe con il nome di Corsaro, contribuendo alla liberazione di Torino nel ’45. C’erano i partigiani sinti e c’era l’intera comunità, le storie di chi durante la guerra venne considerato “inferiore” alla razza ariana, gli Untermenschen. Si stima che tra il ’40 e il ’43 furono deportati nei campi di sterminio più di mezzo milione tra rom e sinti europei. Accusati di «comportamenti antinazionali» e «implicazioni in gravi reati». Segnalati come «asociali» o «vagabondi» e quindi difficili oggi da individuare nelle liste dei deportati. «Eterni randagi privi di senso morale e socialmente pericolosi» verranno etichettati sulla rivista La difesa della razza . Dei 25 mila rom presenti in Italia tra gli anni ’20 e gli anni ’30, circa seimila vennero internati nei campi di reclusione italiani. Lo chiamano Samudaripen (tutti morti) o Porrajmos (grande divoramento). Un genocidio ancora oggi non riconosciuto, nemmeno nella legge del 2000 che istituì la Giornata della Memoria in ricordo delle vittime dell’Olocausto. La famiglia Lucchesi vive a due passi da Reggio Emilia. Giostrai, anche in tempo di guerra. Seduti attorno al tavolo della loro roulotte, i fratelli Massimo, Bruno (Cino) e Ivos (Popunino) raccontano tessere della vita del padre Fioravante. Partigiano a 16 anni, il più giovane d’Italia tra i sinti. «Era contento del contributo dato da combattente per la Resistenza. Ma tornato dalla guerra si svegliava di notte, impugnava la scopa o quello che trovava come se volesse sparare. Una volta ci buttò giù dal letto, in mezzo alla neve. Avevaancora paura». «La guerra che facevano all’epoca non ci apparteneva», spiega Manolo De Bar, sfogliando alcune foto di famiglia. «Oggi farei la stessa scelta di mio nonno Armando, a cui diedero del disertore. Non porterei quella divisa ». Manolo e suo fratello Johnny sono i figli di Giacomo Gnugo De Bar, sinto di professione saltimbanco come amava definirsi. Rinchiuso da bambino nel campo di Prignano sulla Secchia, nel modenese. Ma sono anche i discendenti dei Leoni di Breda Solini, battaglione sinto attivo al confine tra l’Emilia e la Lombardia. Considerati eroi, per il fatto di usare la violenza solo se necessario. Il disinteresse per la deportazione di rom e sinti, e per la loro presenza nella Resistenza, fu culturale e istituzionale. Durò decenni e le loro testimonianze (per la maggior parte orali) non vennero ascoltate. Quello che rimane è una «conoscenza “mutilata” di nomi e azioni di molti partigiani rom e sinti rimasti sconosciuti » scrive Angelo Arlati inRom e sinti nella resistenza europea (Upre). Una condizione che resta di esclusione. «La nostra cultura è parte del tessuto italiano ben prima che l’Italia esistesse come concetto» sottolinea Santino Spinelli, musicista, docente, autore di Le verità negate(Meltemi). «Siamo ancora condannati a nascondere la nostra differenza culturale. Dopo ottant’anni per i rom è cambiato poco o niente». Nemmeno per chi, come Virgilio De Bar (fratello di Armando) riuscirà a tornare dopo essere stato deportato ad Auschwitz, con la colpa di essere sinto. Lavoratore di giorno, saltimbanco per il divertimento dei nazisti la sera. Soprannominato “uomo- gomma”. Segnato per sempre dall’esperienza del campo di concentramento. A casa tornerà a fare il giostraio. A volte, ubriaco, si travestirà da Hitler. Per raccontare, finto nazista tra i luna park, la sua storia. Quella di un popolo tenuto in disparte, non solo ieri. In questa vicenda sommersa, solo uno negli anni ’80 riceverà dal presidente Pertini il Diploma d’Onore di Combattente

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