papa Francesco invoca la sospensione della pena di morte

sospendere pena di morte durante Giubileo

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Il Giubileo straordinario della Misericordia è un’occasione propizia per promuovere nel mondo forme sempre più mature di rispetto della vita e della dignità di ogni persona. Anche il criminale mantiene l’inviolabile diritto alla vita, dono di Dio. Faccio appello alla coscienza dei governanti, affinché si giunga ad un consenso internazionale per l’abolizione della pena di morte. E propongo a quanti tra loro sono cattolici di compiere un gesto coraggioso ed esemplare: che nessuna condanna venga eseguita in questo Anno Santo della Misericordia.

Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono chiamati oggi ad operare non solo per l’abolizione della pena di morte, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà.

Angelus piazza San Pietro, 21/2/2016.

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il compito del teologo secondo V. Mancuso

la missione del teologo

ridare a Dio la giusta immagine

Vito Mancuso è il teologo italiano di maggior successo editoriale da oltre dieci anni. Presenta una scrittura limpida e inquieta, chiara e documentata in modo rigoroso e pungente

Vito Mancuso è il teologo italiano di maggior successo editoriale da oltre dieci anni. Presenta una scrittura limpida e inquieta, chiara e documentata in modo rigoroso e pungente.

Utilizza una vasta e aggiornata cultura anche nel campo delle scienze della natura che, accanto alla lezione dei grandi filosofi, stanno alla base della sua scelta teologica ed esistenziale.

La sua dissidenza ha ricevuto una spinta iniziale e continuamente ricorrente a contatto con il dolore innocente, in particolare dei bambini colpiti da una malattia genetica. Verso di loro, così come verso gli altri umani, il Dio della dottrina cattolica non mostra nella realtà alcuna attenzione personale. Non se ne cura affatto. La Provvidenza divina non funziona né per gli individui, né per la storia.

Il teologo brianzolo, ma di origini siciliane, ha avvertito quindi il bisogno e l’impegno di rifondare la fede facendo seguire, con regolare ritmo biennale, importanti saggi di ricerca: nel 2007 “L’anima e il suo destino”; nel 2009 “Disputa su Dio e dintorni”, con Corrado Augias; nel 2011 “Io e Dio”; nel 2013 “Il principio passione”; a novembre del 2015 “Dio e il suo destino”. Ho letto tutte le opere di Mancuso, ne ho rilevate le progressioni, persino le molte ripetizioni, accanto tuttavia ad ardite e originali rielaborazioni e sistematizzazioni.

Ciò si avverte soprattutto nei tre ultimi e ponderosi volumi, di circa 500 pagine ciascuno. Ricordo che “Io e Dio” fu stampato alla vigilia del Festivaletteratura. Mancuso venne a presentarlo nel gremitissimo cortile del Palazzo San Sebastiano. Per il commento apparso sulla Gazzetta di Mantova, Vito mi inviò un fin troppo generoso messaggio di posta elettronica:

“Caro Egidio, ho letto con molto interesse la tua recensione. Un caro saluto e complimenti!”. Mentre la suddetta opera costituisce, tecnicamente, un lavoro di teologia fondamentale che tratta delle condizioni del discorso su Dio, quella più recente appartiene alla teologia sistematica riguardante la dottrina su Dio. Nell’intervallo si colloca “Il principio passione”, pure di teologia sistematica, ma intorno all’Universo e al rapporto tra Dio e il mondo, tra logos e il caos, in una dinamica drammatica che produce, in chi la vive, pathos-passione. Infine, nel recente “Dio e il suo destino” Mancuso ha puntato a un’impresa ambiziosa e temeraria: liberare Dio, nel quale lui (come me) continua a credere, dalla fallimentare immagine denominata Deus, così come viene identificata in molte pagine della Bibbia, del Nuovo Testamento e della dottrina della Chiesa cattolica, sostanzialmente simile a quella delle Chiese protestanti e ortodosse. Vi regna l’ambiguità: accanto ad aspetti positivi di Dio (spirito, luce, amore), si trovano raffigurazioni costruite con sconvolgenti tratti umani e terrificanti: violenza, ira, arbitrio (come nel Corano), vendetta. Il punto estremo si raggiunge con la tremenda punizione del peccato originale, inflitto a tutta la massa umana dannata e per la riparazione del quale Deus pretese il sacrificio del Figlio, la vittima immolata, l’agnello predestinato “che doveva morire affinché con il suo sangue egli potesse placare la propria ira e perdonare”.

È significativo che il libro sia dedicato a chi ha perso Dio a causa di Deus e alla memoria di don Andrea Gallo che credeva in un Dio antifascista.

Cogliendo il senso liberatorio della metafora, Mancuso ha inteso smascherare le tesi che hanno ridotto Dio a un imbarazzante “grande dittatore”.

Non onnipotente né buono nei confronti dei mali del mondo e degli umani, presenta il volto del padrone assoluto, disegnato dal potere religioso e funzionale ai poteri terreni.

Sembra quindi venuto il tempo, preceduto e preparato da grandi spiriti dell’umanità di varie religioni e filosofie, per “iniziare a dire Dio in modo finalmente libero”. Perché, ha concluso Mancuso, “Dio è amore, anzi l’amore è Dio”.

Da notare la finezza dell’inversione, che sembra condurre ai limiti del panteismo: “Dio in tutte le cose, tutte le cose in Dio”. E però fatte salve le reciproche autonomie e dando così luogo alla coesistenza di unità e dualità tra Dio e mondo, con evidente contraddizione.

Ma tutto, nella realtà e nella vita, è contraddizione.

 
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in morte di padre Cardenal

morto gesuita eroe del Nicaragua

Fernando Cardenal

Fernando Cardenal

 

Fu uno degli eroi della rivoluzione sandinista, premiato a livello internazionale perché, da ministro e anche prima, condusse una delle più grandi campagne di alfabetizzazione che l’America Latina ricordi. Ma c’era un problema: era un padre gesuita e il papa di allora, Giovanni Paolo II, giammai avrebbe voluto un consacrato in un governo “comunista” e lo fece sospendere dai gesuiti. Ma Fernando Cardenal è morto ieri ancora da prete con tutti i crismi, perché la “scomunica” di Wojtyla fu annullata nel 1997.

Cardenal fa parte di un “trio” di preti che furono nominati ministri nel governo del Nicaragua dopo la rivoluzione sandinista. Gli altri sono il fratello Ernesto, poeta e a sua volta sacerdote, e soprattutto Miguel d’Escoto Brockmann, uno dei maggiori portavoce della Teologia della Liberazione, nominato ministro degli Esteri, mentre Fernando era ministro dell’istruzione ed Ernesto dell’educazione.

Fernando e gli altri due presbiteri negli anni ’80 sfidarono l’ordine rivolto dal Vaticano di lasciare il governo rivoluzionario sandinista. E’ morto ieri a Managua all’età di 82 anni senza aver mai tradito i propri ideali, come invece si può tranquillamente affermare per la maggiore figura della rivoluzione, Daniel Ortega, disposto a tutto pur di non lasciare il potere. All’epoca del primo governo Ortega, Fernando Cardenal affermò – ricorda la Bbc – che avrebbe «commesso un grave peccato» se avesse lasciato il governo sandinista. «Non posso concepire che Dio mi chieda di abbandonare il mio impegno per la gente», disse in un’intervista.

 

Personalità notissima al tempo della guerra civile in Nicaragua, Fernando Cardenal fu sospeso `a divinis´ assieme al fratello per aver abbracciato la lotta armata con la quale il Comandante e poi presidente sandinista Daniel Ortega mise fine alla dittatura del dittatore Anastasio Somoza. Già durante la fase sandinista, prima di essere ministro dell’istruzione tra il 1984 e il 1990, Cardenal aveva promosso e coordinato una grande campagna di alfabetizzazione, che gli valse un riconoscimento mondiale da parte dell’Unesco.

Fernando fu il primo dei tre ex ministri a essere riaccolto nella Chiesa: nel 1997, dopo aver ripetuto un anno di noviziato tra i diseredati del Salvador, a 63 anni Cardenal fu riammesso a pieno titolo nell’ordine dei gesuiti, da cui era stato espulso nel 1984 proprio per aver fatto parte del governo sandinista. Nel 2014 papa Bergoglio annullò la sospensione a divinis a carico di d’Escoto e del fratello Ernesto, suscitando le ire dei cattolici tradizionalisti.

Una fotografia è un po’ il simbolo di quello che accadeva negli anni 80. Si vede Giovanni Paolo II all’aeroporto di Managua ammonire severamente Ernesto Cardenal.

Padre Ernesto Cardenal si inginocchia davanti a papa Wojtyla, che lo ammonisce severamente

Lo stesso Ernesto Cardenal, che oggi ha 91 anni, ricostruì inquesto modo l’accaduto in un’intervista a Vita del 2004: «Dopo i saluti di protocollo, compresi quelli della guardia d’onore e della bandiera, il papa chiese al presidente Daniel Ortega, se poteva salutare anche i ministri. Naturalmente gli fu detto di sì; così il Papa si diresse verso di noi. Affiancato da Daniel e dal cardinal Casaroli cominciò a dare la mano ai ministri e, quando si avvicinò a me, io feci quello che, anche su consiglio del Nunzio, avevo previsto di fare se si fosse verificato questo caso: togliermi il basco e inginocchiarmi per baciargli l’anello. Ma egli non permise che glielo baciassi e, brandendo il dito come fosse un bastone, mi disse in tono di rimprovero: “Lei deve regolarizzare la sua situazione”. Siccome io non risposi, tornò a ripetere la brusca ammonizione. E questo mentre eravamo inquadrati da tutte le telecamere del mondo. Ho l’impressione che tutto questo fu ben premeditato dal papa. E che le televisioni fossero avvisate. In realtà, era ingiusta la reprimenda del Papa perché io avevo regolarizzato la mia situazione con la Chiesa. Noi sacerdoti che avevamo incarichi nel governo eravamo stati autorizzati dai vescovi, che avevano reso pubblica la loro autorizzazione (fino a quando il Vaticano ci proibì di mantenere tali incarichi). E la verità è che ciò che più disgustava il papa della Rivoluzione del Nicaragua era che fosse una Rivoluzione che non perseguitava la Chiesa. Avrebbe voluto un regime come quello della Polonia, che era anticattolico in un Paese a maggioranza cattolica, e pertanto impopolare. Quello che neanche lontanamente avrebbe voluto era una Rivoluzione appoggiata massicciamente dai cristiani come era la nostra, in un Paese cristiano, e dunque una Rivoluzione molto popolare. E peggio ancora, la nostra era una Rivoluzione con dei sacerdoti».

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l’esultanza di p. Agostino per i preti in tenda ma …

p. agostino

 

Il vangelo di oggi parla anche di tende che Pietro vuole fare..xe è  bello stare a contemplare la gloria e la bellezza della trasfigurazione in cima al monte. A me in questi giorni è venuta in mente un’altra tenda, quella innalzata ai piedi della montagna, ad Ambivere nel Bergamasco..Proprio vicino al mio paese. Quattro parroci hanno scelto di vivere in tenda, tutta la Quaresima per ricordare la vergogna della non accoglienza verso i migranti da parte del paese Italia.
Bel gesto (anche coraggioso perché a pochi km da Pontida) che profuma di Vangelo, provoca e illumina le coscienze di tutti e delle comunità  cristiane. C’è  un modo di vivere la fede “sotto la tenda”, che sa di privilegio, di fuga..ma c’è  la tenda innalzata nella storia che sa di compassione e desiderio di giustizia verso i poveri.
Grazie a questi sacerdoti ho capito che la trasfigurazione è invito ad immergerci nelle vicende della storia..E che Dio non si offendera’ se i nostri abiti non odorano di incenso, ma puzzano un pochino dall’odore dei poveri.

 

 

 

preti nella tenda: “Noi come i migranti”. Ma il paese li ignora

da PAOLO BERIZZI

  Il tetto è un telo di plastica blu. Siccome fa freddo e c’è vento l’hanno ancorato con le corde a dei blocchi di pietra appoggiati sul sagrato della chiesa, qui, di fronte alla domus pacis che sarebbe l’oratorio di Ambivere. “Prego! Ma non filmate l’interno, per favore”, chiede il prete. Dentro la tenda – un gazebo rettangolare – ci sono: quattro materassi con coperte e sacchi a pelo; tre torce elettriche e un piccolo crocefisso di legno; una stufetta, quattro sedie e un tavolo con sopra una copia del Vangelo, bottiglie d’acqua, frutta essicata, un termos e un pc, strumento indispensabile per “poter continuare a organizzare l’attività pastorale “. Perché è vero che per dare l’esempio di come vivono o sopravvivono i migranti, e per scuotere il torpore delle coscienze di chi si volta dall’altra parte, i quattro sacerdoti abiteranno qui dentro 45 giorni, fino a Pasqua, in strada, davanti alla chiesa di San Zenone; ma in tutto questo andranno anche avanti a fare il loro lavoro. Un “lavoro di collegamento “, ti spiega il prete, uno del gruppo. Implora di non essere citato, “perché – e questo profilo basso è una delle cose più belle di un’iniziativa interessante anche in quanto scarica di ogni retorica pauperista – abbiamo deciso di non rilasciare interviste…”.
Ambivere, duemila abitanti tra l’imbocco della valle San Martino e l’Isola bergamasca. Il pratone leghista di Pontida a tre minuti di macchina; in serata comizio di Salvini a Palazzago, sei chilometri e 700 passi dalla tenda dei preti “migranti”. Il loro slogan? “Ero straniero e mi avete ospitato a casa vostra” (Vangelo di Matteo). Si parte da lì e lì si ritorna. La condizione di chi arriva da lontano e vive senza una casa. Una tenda per rappresentarla plasticamente. Sono passati nove giorni, era il mercoledì delle ceneri: l’inizio della Quaresima. I quattro sacerdoti – don Emanuele Personeni, don Gianluca De Ciantis, don Andrea Testa, don Alessandro Nava; parrocchie di Ambivere, Mapello e Valtrighe – hanno tirato su il gazebo dopo aver vergato una lettera che è un duro atto d’accusa: contro l’indifferenza, il potere politico e economico, l’espansionismo e lo sfruttamento dell’Occidente che ha ridotto in condizioni di disperazione i popoli svantaggiati, oggi in fuga verso i nostri Paesi. Ambivere, dunque. Scrivono i religiosi: “In Quaresima abiteremo una tenda. Un po’ di cibo. Acqua da bere. Un bagno per lavarci. Un materasso per dormire. È più di quanto molti esseri umani possono permettersi. Naturalmente non sarà facile. Abituati ad avere più del necessario, il necessario sembrerà insufficiente”. Non sarà un caso, o forse sì, che il paese è davvero a un tiro di schioppo da quella Pontida luogo iconico del leghismo pre e post migrazioni. Del “padroni a casa nostra” e dell'”aiutiamoli a casa loro “, gli slogan protezionisti sentiti in questi anni di sbandierata intolleranza. Che è diffusa. Sentite Emy, una signora di Mapello di passaggio davanti alla chiesa, quando le chiedi se apprezza l’iniziativa dei sacerdoti: “Contenti loro… Io penserei prima agli italiani, i preti chissà perchéli critica – e taglia in dialetto – “i pensa adoma ai stranieri”, pensano solo agli stranieri” . Le fa eco Carlo Sangalli, studio dentistico su via Papa Giovanni XIII: “Preoccupiamoci dei nostri, poi semmai anche di loro” .
“Noi” e “loro”. Noi che potremmo accogliere, loro che scappano dalla guerra e dalla miseria. Bastano quattro preti accampati, e il paese si divide. Gianni Rottoli si affaccia alla tenda, è arrivato da Bonate Sopra, vuole capire: “Complimenti. È un messaggio forte, pieno di significato ” . Il sacerdote, berretta di lana e maglioncione, non importa se è il parroco di Ambivere o quello della vicina Mapello, gli stringe la mano: “Torni a trovarci quando vuole, noi fino a Pasqua siamo qui” . Questa sera si farà vedere anche Nasser, egiziano. Porterà delle pizze perché le sforna (è titolare della pizzeria “Le Piramidi2”, proprio dietro la chiesa). “Io vivo qui da 15 anni, sono stato accolto bene. Ma tanti altri vengono lasciati al loro destino”. Senza un tetto, senza una minestra. “Lavoriamo sui migranti da anni” , racconta il sacerdote a Adriana Panseri, incuriosita dal capanno bianco sul sagrato. “A Mapello ne ospitiamo cinque. Vorremmo che ogni paese e ogni diocesi lo facessero” . E invece? Invece “si usano i poveri di casa nostra contro i poveri alla nostra porta. A cominciare – recita la lettera – dalle Regioni fino a arrivare a molte amministrazioni comunali, la risposta è sempre la stessa: per loro non c’e posto”. Nemmeno in tenda, oggi. Solo quattro materassi. Di più non ce ne stanno.
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ora Socci sarà contento!

papa Francesco scrive ad Antonio Socci

“Anche le critiche ci aiutano”

Antonio Socci

 

Francesco si conferma il Papa delle sorprese rispondendo con una lettera scritta di proprio pugno ad Antonio Socci.

Il noto giornalista cattolico ha infatti di recente dato alle stampe una lunga lettera aperta in forma di libro dal titolo “La profezia finale. Lettera a Papa Francesco sulla chiesa in tempo di guerra” (Rizzoli), in cui gli chiede di badare meno a Twitter, al numero di follower, ai lustrascarpe, gli adulatori mediatici e di ricordarsi quel che hanno profetizzato la Madonna, don Giussani, don Tantardini, la beata Emmerich e pure don Bosco. E cioè che le squille dell’Apocalisse stanno suonando come mai avevano fatto finora, che la fine del mondo è imminente.

Va sottolineato che, dopo tre anni di infinite disquisizioni a partire dal volume “Non è Francesco”, Socci arriva a riconoscere che Bergoglio è il Papa legittimo e dunque regolarmente eletto. E questo nonostante nelle pagine del libro non lesini amare critiche al suo pontificato, e lo esorti a più riprese a farsi baluardo a difesa delle Chiesa e della fede cattolica, e a non umiliarle.

Il volume si chiude poi con una nota soffertamente personale in cui lo esorta a combattere virilmente con tutti i cattolici “la santa battaglia” contro la notte:

“Io vivo anche una mia guerra persona, durissima, che combatto con la mia famiglia contro il male e che da anni ci fa stare sul Calvario (…). Le assicuro che nell’offerta di questo martirio – insieme a tutta la Chiesa e all’umanità – c’è anche lei, con papa Benedetto XVI. La nostra preghiera è a Dio, perché restituisca e conservi sempre alla Chiesa e al mondo la luce del Vicario di Cristo, specialmente nelle tenebre dell’ora presente. Caro papa Francesco, sia uno dei nostri veri pastori sulla via di Cristo, con papa Benedetto che la sostiene con la preghiera e il consiglio: aiuti anche lei la Chiesa, oggi smarrita e confusa, a ritrovare la via del suo Salvatore e così riaccenderà quella luce che permetterà all’umanità di non perdersi in un abisso di violenza. Tutti i santi del Cielo pregano per questo”.

Ecco la lettera autografa scritta da papa Francesco:

 

Vaticano 7 febbraio 2016

Sig. Antonio Socci

Caro fratello:

Ho ricevuto il suo libro e la lettera che lo accompagnava. Grazie tante per questo gesto.
Il Signore la ricompensi.

Ho cominciato a leggerlo e sono sicuro che tante delle cose riportate mi faranno molto bene. In realtà, anche le critiche ci aiutano a camminare sulla retta via del Signore.

La ringrazio davvero tanto per le sue preghiere e quelle della sua famiglia.

Le prometto che pregherò per tutti voi chiedendo al Signore di benedirvi e alla Madonna di custodirvi.

Suo fratello e servito nel Signore,

Francesco

In un articolo pubblicato su Libero del 19 febbraio, ha così scritto:  “Sono parole che non lasciano indifferenti. Ci sono cose di questo Papa che mi commuovono profondamente. Mi entusiasma la sua libertà evangelica, la sua semplicità, il suo essere fuori dagli schemi clericali. E’ emozionante quando parla dello sguardo di Gesù o, come nei giorni scorsi a Guadalupe, degli occhi materni di Maria. E quando ricorda che il nostro Salvatore non vuole perdere nessuno e si prende ciascuno di noi sulle spalle. Ma infine un pontificato è anzitutto il suo magistero e il suo governo della Chiesa e di fronte allo smarrimento e alla confusione che in questi tre anni hanno investito il popolo cristiano ho dovuto e voluto dire la verità, a costo del suicidio professionale e morale”.
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bambini che scrivono ad altri bambini

bambini occidentali scrivono delle lettere ai bambini siriani

 

 Chi meglio di un bambino può capire un bambino?

World Vision USA, un’associazione che si occupa di cooperazione internazionale, ha realizzato questo video in cui alcuni bambini di una scuola di Seattle, negli Stati Uniti, scrivono una lettera ai loro coetanei siriani per trasmettergli la loro solidarietà e dargli la forza di andare avanti.


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“Abbiamo chiesto ai bambini […] di scrivere dei messaggi d’amore per i rifugiati siriani” scrivono sul canale YouTube a descrizione del video.

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“Non so niente di te, ma c’è una cosa che so: sei speciale” dice un bambino, “voglio che tu abbia sempre speranza”, continua. “Non mollare”, dice un altro, “voglio che tu sappia che io prego per te” scrive una bambina.

Parole, quelle dei bambini, che  commuovono

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la libertà profetica del vescovo Casaldaliga

Pedro Casaldáliga, profeta del nostro tempo

Pedro  Casaldáliga, profeta del nostro tempo

 
Tratto da: Adista Documenti n° 8 del 27/02/2016

Clicca qui per leggere l’introduzione di Adista al documento

1. PEDRO E LA SUA OPZIONE PER I POVERI

Qual è il segreto, la forza – se c’è – della permanente opzione di Pedro per i più deboli? Ho sempre pensato che per essere liberi e innovatori nelle cose grandi bisogna esserlo in quelle piccole. Con la sua consacrazione episcopale, Pedro espresse la sua libertà e creatività. Non gli bastava seguire diligentemente un rituale: cercò di tradurre in esso i suoi più profondi sentimenti e le sue più profonde convinzioni, lasciando da parte la forma stereotipata di quel rito che non poteva esprimere quello che portava dentro, il suo modo di essere e di sentirsi vescovo. Un punto assai significativo, perché se non si è liberi per cambiare una cerimonia, come si può esserlo in cose più importanti?

Pedro racconta che una volta, navigando per il Rio das Mortes, dovette assistere un moribondo. La comunità gli chiese di celebrare una messa. Non c’era né pane né vino. Non aveva nulla con sé per dire messa: «Ero più preoccupato di assistere l’uomo. Lì c’era una piccola taverna. Presi alcuni cracker e celebrai la messa. Mi sembrò una buona messa. Il popolo la voleva e io ero sacerdote: la Pasqua di Cristo può benissimo essere celebrata con il vino delle vigne d’Italia o di quelle della Catalogna, ma, in assenza di vino, perché non si poteva celebrare con l’alcol della canna da zucchero?».

Un’altra volta scomunicò due proprietà perché avevano pistoleiros che uccidevano i braccianti, tagliavano loro le orecchie e le portavano nella tenuta per dimostrare la loro morte: «Dopo il funerale di uno di questi braccianti assassinati, presi un pugno di terra dalla sua tomba, la posai sull’altare e scomunicai queste proprietà. Ma fu un atto contro le proprietà, non contro le persone».

A un certo punto, di fronte alla reiterata oppressione di tanti latifondisti, molti dei quali “profondamente cristiani”, decise di evitare ogni ambiguità: niente eucarestia nelle loro cappelle, nessun gesto di saluto. «Il Vangelo è per i ricchi, ma contro la loro ricchezza, i loro privilegi, la loro possibilità di sfruttare, dominare ed escludere. Se ogni settimana vado a casa di un ricco e non succede niente, non dico niente, non scuoto quella casa, non scuoto quella coscienza, vuol dire che già mi sono venduto e che ho negato la mia opzione per i poveri».

Forse l’itinerario che porta Pietro a porre nei poveri il centro della sua vita può sembrare complicato, ma non lo è. La questione è verificare in quale prossimo – immagine di Dio – il grado di offesa è maggiore e compiere una conseguente azione di riparazione. Alla restaurazione di questa dignità oppressa egli dedica tutta la sua vita, la sua opzione determinante: l’opzione per i poveri.

Giunto in Brasile nel ’68, già nel ’70 Pedro firmò il suo primo rapporto-denuncia, che raccoglieva, in una tragica litania, i casi in carne e ossa di braccianti ingannati, minacciati con le pistole, percossi, feriti o assassinati, assediati nella foresta, lasciati dalla legge nel più completo abbandono, senza nessun diritto, senza umana via di uscita.

Casaldaliga

Casaldaliga

Persino il nunzio gli chiese di non pubblicarlo all’estero e uno dei più grandi latifondisti lo avvertì che non doveva immischiarsi in tali questioni. Ma era il momento di mettere in pratica la sua opzione: «Non potevamo celebrare l’eucarestia all’ombra dei padroni, non potevamo accettare segni esteriori della loro amicizia. Era l’ora della scelta, che violentava il mio stesso temperamento, la mia voglia naturale di stare bene con tutti, la vecchia norma pastorale di non spegnere lo stoppino che ancora fuma… Mi si è sempre spezzato il cuore a vedere la povertà da vicino. Mi sono trovato bene con gli esclusi, forse perché ho sempre avuto una certa affinità con i margini, con i marginali. Forse per una sorta di spirito compassionevole o per una specie di vena poetica. Forse per una questione di sensibilità, perché sono incapace di assistere a una sofferenza senza reagire. D’altra parte, io non mi sono mai dimenticato di essere nato in una famiglia povera. Mi sento male in un ambiente borghese. Mi sono sempre chiesto perché, se posso vivere con tre camicie, ne devo aver dieci nell’armadio. I poveri della mia Prelatura vivono con due, quella che indossano e quella di ricambio. Sono doppiamente convinto che non si può avere una sensibilità rivoluzionaria e profetica ed essere liberi senza essere poveri. La libertà è profondamente unita alla povertà. Non si è veramente liberi con molta ricchezza. Essendo povero, mi sento più libero da tutto e per tutto. Il mio slogan è stato: essere libero per essere povero ed essere povero per poter essere libero. L’ho espresso chiaramente nei miei versi sulla “Povertà evangelica”: Non avere nulla. / Non portare nulla. / Non potere nulla. /Non chiedere nulla. / E, di passaggio, / non uccidere nulla; / non tacere nulla. / Soltanto il Vangelo, come un coltello affilato. / E il pianto e il riso negli occhi. / E la mano tesa e stretta. / E la vita donata. / E questo sole e questi fiumi e questa terra acquistata, / per testimoni di una Rivoluzione già esplosa. / E “nient’altro”!».

2. COSA RESTA DELLA TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE?

«Mi spaventa – continuava Pedro – sentire e vedere tanti settori della Chiesa, teologi compresi, cadere nella tentazione di passare ad altri paradigmi, perché ormai stanchi di parlare e di sentir parlare di opzione per i poveri, di giustizia e di liberazione e perché questo mondo (qui San Paolo diventerebbe furioso) chiede ora che tutto sia light, anche la teologia, una spiritualità più connivente, una specie di fede del benessere… A Giovanni Paolo II parlai con molto affetto, ma con molta libertà, esercitando il diritto della mia corresponsabilità ecclesiale e della mia collegialità apostolica. Gli dissi: in campo sociale non possiamo dire realmente di aver fatto un’opzione per i poveri. In primo luogo, perché non condividiamo nelle nostre vite e nelle nostre istituzioni la povertà reale da loro sperimentata. E, in secondo luogo, perché non agiamo, di fronte alla “ricchezza dell’iniquità”, con quella libertà e quella fermezza adottate dal Signore. L’opzione per i poveri, che non escluderà mai le persone dei ricchi – giacché la salvezza è offerta a tutti e a tutti è rivolto il ministero della Chiesa – esclude, questo sì, il modo di vita dei ricchi, “insulto alla miseria dei poveri”, e il loro sistema di accumulazione e di privilegio, che necessariamente espropria ed emargina l’immensa maggioranza della famiglia umana, popoli e continenti interi».

Vi sono stati molti che opportunisticamente hanno quasi celebrato la “fine” della Teologia della Liberazione, vuoi per non averla digerita, vuoi per considerarla una moda passeggera e legata al socialismo, vuoi per ridurla a una teologia senza fondamento e senza proiezione universale.

«Sono stanco di sentire la domanda “cosa resta della Teologia della Liberazione?”. Me l’hanno chiesto in lungo e in largo compagni, vescovi, giornalisti. Io (…) ho risposto: restano Dio e gli esseri umani; finché esisteranno il Dio di Gesù, il Dio di Davide e i poveri di Dio e finché esisterà qualcuno che pensi alla luce di questo Dio e si coscientizzi dinanzi a Gesù, ci sarà Teologia della Liberazione. La Teologia della Liberazione non è stata inventata in America Latina, viene da molto più lontano. Già Isaia ci parlò della liberazione. La Teologia della Liberazione è venuta più dai piedi del popolo in cammino che dalle teste pensanti dei teologi. Più dal sangue versato dai nostri martiri, più dalle lacrime versate dai nostri popoli, più dai clamori che Dio ascolta sempre. È nata in America Latina perché lì il teologo ha incontrato un clima di oppressione e anche di liberazione. Se il Vangelo è liberare, la Teologia della Liberazione è prassi liberatrice, e per essere prassi liberatrice deve essere strutturale e, in quanto strutturale, deve essere politica. Sarebbe orribile lasciare la politica alla mercé dei teologi del neoliberismo. (…). Analizzare la tragica situazione dei due terzi dell’umanità, definirla totalmente contraria alla volontà di Dio e assumere impegni pratici per trasformare tale situazione sono passi obbligati della Teologia della Liberazione. È ai nemici del popolo che non piace questa teologia. Gradirebbero molto che i cristiani pensassero solo al Cielo… disprezzando la Terra! Mentre noi vogliamo ottenere il Cielo, conquistando la Terra. Figli liberi di Dio Padre e veri fratelli».

3. PEDRO, UNO SCONCERTANTE MISTICO CONTRO L’INIQUITÀ DEL SISTEMA CAPITALISTA

Pedro è uno dei grandi mistici moderni che unisce contemplazione e impegno. Esiliato dal mondo della civiltà capitalista, rinchiuso nel sertão, lontano migliaia di chilometri, senza mai far ritorno in Spagna, spezzati i legami con quel mondo senza il quale noi non sappiamo vivere, quest’uomo alimenta una profonda vita interiore di poeta e contemplativo insieme a una militanza radicale.

La testimonianza di Pedro ci parla di come non sia possibile lasciarsi anestetizzare nel silenzio della solitudine e incasellare in una spiritualità alienante, ai margini dei problemi e delle speranze degli esseri umani. Ci troviamo, senza dubbio, dinanzi a un cristiano singolare, di straordinaria esemplarità, che ha dissolto la dicotomia stabilita tra Regno di Dio e storia del mondo e salvezza personale.

Casaldáliga torna ripetutamente sul tema, lo stigmatizza con una forza che rare volte si è registrata nel linguaggio ecclesiastico. La realtà stabilita è quello che è: o è a servizio dell’essere umano o è contro di lui. Forse è qui la chiave che dovrebbe rivoluzionare tutto, perché non si può essere contemporaneamente cristiani e flirtare con la malìa di falsi dèi. Di certo, Pedro non è neutrale e offre con sacra ira la sua denuncia profetica.

4. CON LA VERITÀ DEL VANGELO E LA FIDUCIA DEL POPOLO

Il fatto che Pedro indichi il capitalismo come tema prioritario, additando gli idoli della nostra società, presenta una triplice novità: che lo faccia un vescovo, che lo faccia con un’analisi corretta e che lo faccia con un soffio profetico. Generalmente, i nostri esponenti gerarchici si sono trovati a loro agio con il potere. Ed è molto raro trovare vescovi che abbiano sfidato il potere. Pedro non si accontenta di emettere dichiarazioni vaghe. Il capitalismo assume volto e carne in luoghi concreti. La Prelatura di São Félix do Araguaia, ubicata in una delle regioni più povere del Brasile, è uno di questi. Pedro, un mistico dagli occhi aperti, da questa realtà si sente investito di colpo, ferito senza pietà e allora è lui a prendere l’iniziativa, con la sua presenza, il suo esempio, la sua profezia, lanciata al mondo con molteplici linguaggi e accenti.

È stato nella sua consacrazione episcopale che Pedro ha lasciato ben delineato il programma della sua azione pastorale: «La tua mitra sarà un cappello di paglia sertanejo; il sole e la luna; la pioggia e il sereno; lo sguardo dei poveri con cui camminare e lo sguardo glorioso del Signore. Il tuo baculo sarà la Verità del Vangelo e la fiducia riposta in te dal tuo popolo. Il tuo anello sarà la fedeltà alla Nuova Alleanza del Dio liberatore e la fedeltà al popolo di questa terra. Il tuo scudo la forza della speranza e la libertà dei figli di Dio. I tuoi guanti il servizio dell’amore».

– «La notte seguita alla firma del mio primo rapporto-denuncia uscii a vedere la luna grande e a respirare l’aria più fresca e mi offrii al Signore. Sentii allora che con quel documento potevo aver firmato anche la mia condanna a morte: in ogni caso avevo lanciato una sfida».

– «Smettevamo di essere amici dei grandi, e li sfidavamo. Nessuno sfruttatore o nessuno che traesse vantaggio dallo sfruttamento poteva, per esempio, diventare padrino di battesimo. Non accettavamo più passaggi sulle loro automobili, sfuggivamo alla loro compagnia, ai loro sorrisi: persino ai saluti, nei casi più eclatanti». (…)

– «Se “la prima missione del vescovo è quella di essere profeta” e “il profeta è colui che dice la verità dinanzi a tutto un popolo”; se essere vescovo significa essere la voce di coloro che non hanno voce, io non potrei, onestamente, rimanere in silenzio ricevendo la pienezza del servizio sacerdotale».

– «Io mi ribello contro i tre comandamenti del neocapitalismo, che sono: votare, tacere e vedere la televisione».

Non c’è cosa che spaventi di più gli spiritualisti e che provochi più sospetti in molti cristiani del tema della politica. È quasi un tabù, un tema demonizzato a prescindere, come qualcosa di incompatibile con la fede. Tuttavia, poche verità sono così chiare nel Vangelo come quella relativa al fatto che Gesù è stato giustiziato dal potere politico e religioso: la sinagoga e l’impero. E che lo è stato in virtù della sua intollerabile parzialità: «Non si può servire Dio e il denaro» e «Guai a voi, guide cieche».

La realtà della società è composta da una immensa piramide di disuguaglianza, in cui alcuni sono sopra e altri sotto, alcuni sono più e altri meno, alcuni vivono nell’abbondanza e altri nella miseria, alcuni opprimono e altri sono oppressi. E questa disuguaglianza non si può occultare né, tanto meno, benedire o legittimare con ragioni divine. Sarebbe un sacrilegio voler attribuire questa composizione piramidale a Dio, il giusto per eccellenza: «Tutti voi siete fratelli». Il Dio dei signori non è uguale al Dio dei poveri.

5. L’IMPOSSIBILE NEUTRALITÀ POLITICA

Nel nostro tempo, tra i molti martiri che attraversano la vita della Chiesa, non ce n’è uno solo che non lo sia stato a causa della sua posizione di denuncia nei confronti del potere politico o religioso (vi sono martiri oggetto di repressione fisica e altri oggetto di repressione non fisica). Opportuno come sempre, Casaldáliga scrive: «Contro ogni filosofia funzionalista, noi crediamo che né la scienza né la tecnica possano esibire, in nessuna circostanza, la bandiera bianca di una presunta neutralità. Ogni atto tecnico, ogni gesto scientifico gronda ideologia. O si serve il sistema o si serve il popolo. Tracciare il percorso di una strada sulla carta, programmare un censimento, classificare un farmaco è politica. Ogni tecnico, ogni scienziato è sempre un politico, anche qualora si rifiuti di esserlo: o reazionario, o riformista o trasformatore». E ancora: «Sono sempre stato di sinistra. Anche da bambino ero mancino, ma a quei tempi era proibito, non ci lasciavano scrivere con la sinistra. Cosicché persino biologicamente sono di sinistra». «Sono passato a optare per il socialismo. Per il contatto con la dialettica della vita, per le esigenze del Vangelo e anche per alcune ragioni del marxismo. Quale socialismo, non lo so con certezza, come non so con certezza che Chiesa sarà domani quella che oggi intendiamo costruire, per quanto sappia che la vogliamo sempre più cristiana». «Se non c’è utopia, non c’è vita. Come dice un poeta spagnolo: “poesia necessaria come il pane quotidiano”. E io dico: utopia necessaria come il pane quotidiano. Utopia che poi si realizza nella misura del possibile: non passeremo tutta la vita solo a sognare. (…)».

6. IL NEOLIBERISMO: UN NUOVO IDOLO GLOBALIZZATO

Oggi la realtà dei popoli è globale, mondialmente interconnessa, ma si è globalizzata sotto il dettato e le leggi del neoliberismo. Avere l’audacia di volgersi verso questo mondo per descriverne il funzionamento e, soprattutto, denunciare i propositi di accumulazione e di predominio è un’impresa estremamente ardua che qualifica chi la tenta come un illuso o come un povero idiota.

Pedro Casaldáliga, vescovo per di più, non esita dinanzi a questa impresa, presentandosi di fronte ad essa con un buon bagaglio di razionalità, dignità umana, fermezza etica, libertà evangelica e, soprattutto, esperienza inappellabile, quella di coloro che testimoniano la disumanità del rullo compressore neoliberista.

– No alla proprietà privata predatrice. «L’America Latina è molto più povera oggi che negli anni ’60. Tuttavia, in America Latina c’è molta più ricchezza, e molta più tecnica, che negli anni ’60. Dio ci liberi dal neoliberismo. Non si può servire due padroni. Con il capitale, alla fine, si prostituisce Dio. Una volta ebbi l’occasione di intervenire in un processo pubblico all’Assemblea Nazionale in cui si trattava della problematica della terra. E allora alcuni dei senatori e dei deputati più conservatori, diversi dei quali cattolici praticanti, mi dissero: “Monsignore, lei è contro la proprietà privata”. Risposi loro: “No, se uno ha una camicia e tutti possono avere una camicia, io sono a favore della proprietà privata di ogni camicia. Ora, se uno ha 50 camicie e le altre persone non hanno alcuna camicia, allora la proprietà privata è predatrice». (…).

– Il neoliberismo distrugge la vita delle maggioranze. «Io dico sempre che il neoliberismo, oltre a essere omicida perché distrugge la vita delle maggioranze, le priva di condizioni di vita umana. Oltre a essere omicida, è suicida, perché non è possibile che il futuro dell’umanità sia questo. Noi che crediamo nel Dio della vita e crediamo che l’umanità sia figlia di Dio, e che abbia genetica divina, non possiamo permettere che la distruzione sia il destino dell’umanità. È il Regno il destino dell’umanità. Il neoliberismo, oltre a essere omicida e suicida, è ecocida: il lucro per il lucro, la tecnica per la tecnica, lo sfruttamento più rapido possibile delle risorse per accumulare, per accumulare interessi, capitale, che è ora capitale virtuale, invisibile, ecocida».

– È peccato mortale riscuotere e pagare il debito estero. «C’è un nesso tra debito estero e debiti sociali. Se si paga il debito estero, non si possono pagare i debiti sociali. Se si pagano i debiti sociali, non si paga il debito estero. Credo che il debito estero non si debba pagare. È un peccato mortale riscuoterlo e un peccato mortale pagarlo. (…). Inoltre, di chi è il debito? Chi deve a chi? Che ci restituiscano l’oro, l’argento, che ci restituiscano la vita degli indigeni, degli schiavi neri, che ci restituiscano la vita di tanti bambini e bambine, tanta mortalità infantile, tanta salute, tanta educazione negata, che ci restituiscano la foresta. Non è utopia, non è storia, è realtà. Non è opera nostra, l’hanno fatta, con il molto su cui hanno messo le mani, i lacchè degli imperi che si sono succeduti».

– Neocolonialismo etnocentrista. «Sui popoli indigeni pende la sentenza di morte più immediata, la morte più logica a partire dal sistema. Intralciano. Le loro terre sono oggetto dell’avidità dei grandi. (…). È per me come un dogma di fede: o l’indio si salva a livello continentale, o non si salva. È uno solo il sistema che ci tiene sottomessi tutti. Il bianco ha sempre parlato molto di Dio, ma non ha rispettato la volontà del Dio vero, quel Dio che è padre di tutte le persone e il Signore unico di tutti i popoli, il Dio della vita e il Dio della morte. Gesù Cristo non è venuto al mondo perché gli indios smettessero di essere tali. Non è un colonizzatore bianco. È il liberatore. L’indio cristiano che pensa di smettere di essere indio non può essere un buon cristiano (…): “colonizzare” e “civilizzare” hanno cessato di essere per me verbi umani. Come non lo sono, dove vivo e soffro, le nuove formule colonizzatrici del “pacificare” e “integrare” gli indios. Imperialismo, colonialismo e capitalismo meritano, nel mio “credo”, lo stesso anatema».

– Un modo neoliberista di assassinare. «C’è un altro modo, più moderno, pienamente neoliberista, di assassinare o di far scomparire. Per esclusione programmata, per fame mortale. Da 30 a 40 milioni di esseri umani muoiono ogni anno a causa della denutrizione. (…). Non si può introdurre una politica di emancipazione se non si tengono presenti le cause e i nomi (le une e gli altri intrecciati nel sostegno delle strutture) generatori di disuguaglianza, ingiustizia e impoverimento di persone, settori e popoli. Allo stesso modo, non c’è annuncio della Buona Novella se questa non passa per la mediazione (atto primo di ogni teologia) delle scienze che scoprono le dimensioni e i meccanismi delle situazioni che albergano questa o quella forma di oppressione o di discriminazione. Da cosa ci si libera se non si ha coscienza del fatto che esiste oppressione e delle cause che la generano? Solo un’ignoranza ingenua o consentita, accompagnata da una complicità più interessata che passiva, può spiegare tanta evangelizzazione di oggi, insulsa e sterile».

– Il liberismo è, per essenza, peccato. «L’imperialismo è peccato, (…) perché è negazione dei popoli. Così come ogni persona è un’immagine individuale di Dio, allo stesso modo ogni popolo e ogni cultura sono un’immagine collettiva di Dio. Come persone, come popoli, come Chiesa abbiamo il dovere, non solo il diritto, di difendere le culture, l’alterità culturale, l’identità culturale».

– La grande blasfemia dei nostri giorni, la macroidolatria del mercato totale. «La blasfemia dei nostri giorni, l’eresia suprema, che finisce per essere sempre idolatria, è la macroidolatria del mercato totale. (…). Ed è, può essere, l’omissione della Chiesa, l’insensibilità delle religioni di fronte alla macroingiustizia istituzionalizzata oggi nel neoliberismo, che per essenza è peccato, peccato mortale, omicida e suicida. Per sua stessa essenza, dico, il neoliberismo esclude l’immensa maggioranza dell’umanità. Questo è il peccato del mondo, e può essere il peccato della Chiesa».

– L’antidio è il denaro. «Il capitalismo colonialista crea necessariamente dipendenza e divide il mondo. Il capitalismo è il serpente, il primo, eternamente astuto. Gesù ha detto apertamente che l’antidio è il denaro. Non è una verità esclusiva di alcun marxista né di alcun teologo della liberazione. Appartiene al Signore Gesù, figlio di Dio e di Maria di Nazareth: realmente, il denaro è il peccato, il diavolo, la morte. (…). È un camaleonte che sa adattarsi molto bene alle differenti circostanze. (…)».

– Il capitalismo è intrinsecamente perverso. «Credo che il capitalismo sia intrinsecamente cattivo: perché è l’egoismo socialmente istituzionalizzato, l’idolatria pubblica del lucro, il riconoscimento ufficiale dello sfruttamento dell’essere umano da parte dell’essere umano, la schiavitù dei molti sotto il giogo dell’interesse e della prosperità dei pochi. Una cosa ho capito chiaramente nella vita: le destre sono reazionarie per natura, fanaticamente immobiliste quando si tratta di salvaguardare il proprio ceppo, solidalmente interessate a quell’ordine che è il bene… della minoranza di sempre». (…).

7. INDICAZIONI OPERATIVE

Non basta vedere e giudicare, bisogna anche agire. E, oggi, chiunque pretenda di risultare credibile, deve accreditarsi con i fatti, non con le parole. Per questo, nei confronti dei dirigenti, politici o meno, si avverte tanto scetticismo.

Se il linguaggio di Pedro risulta tanto accattivante, è perché dietro di esso c’è tutta una vita degna, coerente, libera, incorruttibile. È stato tentato, nelle più diverse circostanze, dalla vanità del potere, dal timore, dalla persecuzione. «Morirò in piedi, come gli alberi / Mi uccideranno in piedi», ha scritto. L’ho sempre detto: un vescovo senza potere, senza economia, senza burocrazia, è stato in grado di mettere in scacco uno dei poteri politici più forti d’America. Utilizzando armi diverse, a cominciare da quella che tutti abbiamo a nostra disposizione: la cultura. (…).

Ed ecco che Pedro Casaldáliga, come Gesù di Nazareth, si sente così forte e libero da conficcare la spada nel cuore del sistema: «Ci si vuole imporre una cultura unica. (…). In Brasile, in America Latina e in Europa il 70% o 75% dei film appartiene agli Stati Uniti. E io dico che una macrocultura finisce per essere più assassina di molte armi. Culture imposte: non uccidono solo i corpi, uccidono le anime, distruggono la salute dei popoli».

Abbiamo bisogno di più motivazioni, di più mistica: ossia, di una fede più profonda, di idee cristiane più chiare, di una migliore conoscenza della Bibbia e della teologia e anche di una buona visione politica ed economica. Abbiamo bisogno di più preghiera. Di una maggiore passione per il Regno. Di una vera amicizia con il Signore Gesù. E di molta unione tra noi, tra noi fratelli.

Se manca questo, i problemi della stessa Chiesa e le difficoltà della vita ci porteranno alla disperazione (…); fuggiremo dalla lotta; ci adegueremo, come tanti, prima al pensiero light e poi al “non voglio sapere niente di niente”. Noi cristiani dobbiamo seminare speranze, “esperanzados y esperanzadores”, come diceva il martire Ellacuría. (…).

«Io mi attengo a ciò che è stato detto: / la Giustizia, / nonostante la Legge e la Consuetudine, / nonostante il Denaro e l’Elemosina. / L’Umiltà / per essere io, vero. / La Libertà / per essere uomo. / E la Povertà / per essere libero. / La fede, cristiana, / per camminare di notte, / e soprattutto per camminare di giorno. / E, in ogni caso, fratelli, / io mi attengo a ciò che è stato detto: / la Speranza!».

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il commento al vangelo della domenica

LA VOSTRA LIBERAZIONE E’ VICINA

commento al vangelo della seconda domenica di quaresima (21 febbraio 2016) di p. Alberto Maggi:

p. Maggi

Lc  9,28-36

Circa otto giorni dopo questi discorsi, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme. Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elìa». Egli non sapeva quello che diceva. Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!». Appena la voce cessò, resto Gesù solo. Essi tacquero e in quei … non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.

Gesù ha annunziato ai suoi discepoli che a Gerusalemme sarà messo a morte. Naturalmente questo provoca le rimostranze, provoca delusione.
Ecco allora questo brano, è il capitolo 9 dell’evangelista Luca dal versetto 28. E’ importante la localizzazione, l’indicazione temporale. Infatti scrive l’evangelista “Circa otto giorni dopo questi discorsi”, cioè dopo che Gesù ha annunziato la sua morte.
Perché il numero otto? E’ tipico degli evangelisti mai accennare alla morte di Gesù senza dare un’indicazione anche della sua risurrezione. L’ottavo giorno è il giorno della risurrezione di Gesù. Allora Gesù ora mostra quali sono gli effetti della persona che passa attraverso la morte. Non sono di distruzione, di annientamento, ma di potenziamento.
Gesù prese con sé Pietro. Questo discepolo è presentato con il solo soprannome negativo che indica la sua cocciutaggine, e Giovanni e Giacomo. Saranno i discepoli più difficili che Gesù sempre prenderà con sé nei momenti importanti della sua vita. E salì su IL monte, con l’articolo determinativo, non è un monte qualunque, ma non è indicato. L’evangelista non vuole indicare un luogo topografico, ma teologico. Il monte è il luogo della sfera divina, della condizione divina.
 A pregare. Tipico di Luca nei momenti importanti di Gesù presentarlo in preghiera. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Mostra gli effetti della morte annunziata nel capitolo precedente. La morte non fa sprofondare la persona nelle tenebre, ma la avvolge di luce. La morte, come abbiamo detto, non distrugge la persona, ma libera tutte le sue energie d’amore e di vita.
Ed ecco… espressione tipica degli evangelisti per indicare qualcosa di inaspettato, una sorpresa. Due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa. Perché Mosè e Elìa? Erano i personaggi che, nell’antico testamento avevano parlato con Dio, ma soprattutto Mosè era il grande legislatore e Elìa era il profeta che con zelo, e anche con violenza, ha fatto praticare la legge di Mosè.
 Apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo. Ecco questa è una caratteristica tipica dell’evangelista Luca, usare questo termine “esodo” ad indicare la liberazione che Gesù è venuto a portare. Che stava per compiersi a Gerusalemme. A Gerusalemme, la città santa, Gesù sarà assassinato dai massimi rappresentanti di Dio, dall’istituzione religiosa.
E qui l’evangelista ci accenna qualcosa di incomprensibile per noi: Pietro (di nuovo con il soprannome negativo) e i suoi compagni… ormai non sono più i compagni di Gesù, ma seguono Pietro. Erano oppressi dal sonno. Bene, di fronte ad una rivelazione del genere l’evangelista ci presenta questi discepoli oppressi dal sonno. Perché? Il sonno significa incomprensione rispetto a quello che sta accadendo. Ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. Mentre questi si separavano da lui, – quindi Mosè ed Elìa si separano da Gesù – Pietro  – ed è la terza volta, il numero tre secondo il linguaggio degli evangelisti, indica sempre quello che è definitivo, quindi Pietro insiste nella sua cocciutaggine –  disse a Gesù … E non lo chiama “maestro” come vedo qui nella traduzione, ma il termine adoperato da Luca è “capo”, qualcuno a cui sottomettersi. E’ questa l’idea che Pietro ha di Gesù. “E’ bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne”. Perché queste capanne? Delle tre importantissime feste che cadenzavano la vita religiosa di Israele, la festa di Pasqua, la festa di Pentecoste e la festa delle Capanne, l’ultima era la più importante. Tanto importante che non aveva bisogno di essere nominata, bastava dire “la festa” e si capiva che era la festa delle Capanne. Era la festa che ricordava la liberazione dalla schiavitù egiziana, e per una settimana – ancora oggi in Israele – si viveva sotto delle frasche, sotto delle capanne. Ebbene la tradizione diceva che il messia sarebbe arrivato durante la festa delle Capanne. In ricordo dell’antica liberazione si sarebbe inaugurata la nuova liberazione. Quindi il messia atteso, quello della tradizione si sarebbe manifestato in questa festa. Ecco perché Pietro chiede di fare tre capanne. Vuole che Gesù si manifesti come messia. “Una per te, una per Mosè e una per Elìa”. Quando ci sono tre personaggi, normalmente il più importante si mette al centro. Ecco per Pietro il più importante non è Gesù, al centro per Pietro c’è
Mosè, il legislatore. Poi Gesù come Elìa al fianco, come coloro che fanno praticare questa legge. Ma per Pietro il più importante è  Mosè. E l’evangelista commenta: Egli non sapeva quello che diceva. Mentre parlava… quindi Pietro non ha ancora terminato di parlare, nel suo sproloquio, così, venne una nube. La nube nell’antico testamento è immagine della presenza attiva di Dio. E li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. Quindi nel fare questa esperienza di Dio. E’ strano, Pietro la prima volta che si è trovato di fronte a Gesù durante la pesca miracolosa ha chiesto a Gesù di allontanarsi da lui perché era peccatore e questa volta, che fa un’esperienza di Dio, ne ha paura, quindi l’evangelista fa comprendere quanto una tradizione religiosa, un’ideologia religiosa, possano essere di ostacolo alla comprensione del vero Dio. E dalla nube uscì una voce – è la voce di Dio – che diceva: «Questi è il Figlio mio … Per figlio non si intende soltanto colui che è nato dal padre, ma colui che gli assomiglia nel comportamento. Allora Dio dice che in Gesù c’è tutto lui. “L’eletto; ascoltatelo!» E’ un imperativo, cioè “Lui ascoltate!” Quindi scompare Mosè, scompare Elìa ed è soltanto Gesù da ascoltare, questa è un’indicazione molto preziosa che l’evangelista dà alla sua comunità. Bisogna ascoltare il messaggio di Gesù, e quello che è scritto nei testi di Mosè o nei libri profetici va confrontato con l’insegnamento di Gesù: se è in sintonia si prende, altrimenti non sarà norma di comportamento per la comunità cristiana. Appena la voce cessò, resto Gesù solo. Essi tacquero. Questo tacere è tipico dei nemici di Gesù. E in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto. Perché non riferiscono niente? Perché non sono d’accordo. Rimangono male. Loro vogliono un Gesù secondo la legge di Mosè e secondo lo zelo violento di Elìa, non accettano Gesù senza Mosè e senza Elìa. Quindi sono in disaccordo con Gesù e non tacciono. Quindi il cammino della comunità di Gesù, della comprensione della sua realtà è ancora lungo

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vescovi italiani denunciano la stoltezza della guerra

“denunciamo la follia della guerra”

«Stiamo vivendo giorni di bombardamenti e devastazioni atroci su molte città. Tragedie che ci richiamano alla Costituzione del Concilio Vaticano II ‘Gaudium et spes’ e alla sua condanna della guerra totale, l’unica condanna in un Concilio ‘pastorale’»

Bettazzi

Inizia così un appello dei vescovi di Pax Christi Italia che condanna i bombardamenti e le violenze che in questi giorni devastano tante città e tanti territori, con sofferenze indicibili per le popolazioni

I vescovi continuano: «Essa così afferma al n. 80: “Ogni atto di guerra, che mira indiscriminatamente alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e con fermezza e senza esitazione deve essere condannato”». «Il Concilio continua denunciando la corsa agli armamenti, che preparano gli interventi distruttivi. “E’ necessario pertanto ancora una volta dichiarare: la corsa agli armamenti è una delle piaghe più gravi dell’umanità e danneggia in modo intollerabile i poveri; e c’è molto da temere che, se tale corsa continuerà, produrrà un giorno tutte le stragi, delle quali va già preparando i mezzi”. (n. 81)Bona
Come vescovi successivamente responsabili di Pax Christi, movimento cattolico internazionale per la pace, più che mai impegnato contro ogni forma di guerra, ma ancor prima come ‘uomini di buona volontà’, mentre deploriamo e condanniamo queste distruzioni che servono ad utilizzare i nostri armamenti e ad esaltare i nostri poteri e le nostre supremazie, chiediamo con forza che cessino queste devastazioni e si usino invece gli strumenti della politica e della diplomazia, forse più faticosi ma rispettosi delle vite umane, da soccorrere non da bombardare, come insiste papa Francesco, il quale pochi giorni fa, col Patriarca Ortodosso Cirillo esortava ‘la Comunità Internazionale ad unirsi per porre fine alla violenza e al terrorismo e, nello stesso tempo, a contribuire attraverso il dialogo ad un rapido ristabilimento della pace civile’.

Dobbiamo pregare, ma dobbiamo anche operare. Valentinetti
Invitiamo tutti ad operare, con la preghiera ed il digiuno, ma anche con l’impegno, la sollecitazione nel denunciare la follia della guerra, anche con manifestazioni, appelli ed esponendo anche le bandiere della pace, come segno visibile di un impegno che scuote ognuno nella propria coscienza».

L’appello,in data 18 febbraio 2016, è firmato dai vescovi
Giovanni Ricchiuti, Vescovo di Altamura-Gravina-Acquaviva delle Fonti presidente di Pax Christi

Giudici vescovo
Luigi Bettazzi, Vescovo emerito di Ivrea, già presidente di Pax Christi
Diego Bona, Vescovo emerito di Saluzzo, già presidente di Pax Christi
Tommaso Valentinetti, escovo di Pescara-Penne, già presidente di Pax Christi
Giovanni Giudici, Vescovo emerito di Pavia, già presidente di Pax Christi

© riproduzione riservata
 
 

 

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nasce il Tg dei rom contro i pregiudizi

sul web nasce il Tg dei rom

Tg ROM Piemonte

l’associazione IdeaRom: “contrasterà il pregiudizio e aiuterà l’inclusione sociale”

 12/02/2016
maria teresa martinengo
torino

per la prima volta in Italia i rom avranno voce attraverso una propria web tv. Potranno esprimere pareri sui progetti pensati per loro, raccontare successi lavorativi e scolastici, momenti artistici e culturali, dire che cosa serve per facilitare l’inclusione sociale. Tutto questo è TgROM Piemonte, web tv finanziata con 21 mila euro dalla Compagnia di San Paolo insieme con altri 15 progetti selezionati tra 155 attraverso il Bando Giovani e finanziati complessivamente con un milione di euro

«Da molti anni sosteniamo iniziative – ha spiegato il presidente Luca Remmert – per contrastare le diverse forme di disagio giovanile e per stimolare la partecipazione attiva dei giovani nella vita delle loro comunità. Il nostro obiettivo è quello di far sì che i giovani siano protagonisti del cambiamento». Così, tra mini «start-up» guidate per la cura di spazi abbandonati, per il trasporto di anziani e disabili nelle valli montane meno servite, progetti contro il cyberbullismo e molto altro ancora, si è inserito l’inedita proposta dell’associazione torinese IdeaRom, da anni impegnata per i diritti, l’inserimento scolastico dei bambini, il lavoro, il superamento dei campi.  

«L’idea è di offrire informazione via web con focus specifico sulle comunità rom. Ci sarà – spiega Vesna Vuletic, presidente dell’associazione, mediatrice culturale – una fase di formazione in video-giornalismo per il gruppo di giovani coinvolti, inizialmente una dozzina, autocandidati a partecipare e provenienti da diverse condizioni abitative. Poi si realizzerà un numero zero e infine partirà il Tg». L’iniziativa è in collaborazione con Nuovasocietà, il direttore responsabile sarà il giornalista Andrea Doi.  

«Esperienze di web tv di questo tipo ci sono in vari Paesi europei. L’informazione di TgROM – dice Vuletic – avrà l’obiettivo di contrastare il pregiudizio, i conflitti, con notizie provenienti dal mondo rom raccolte dai giovani, facilitando l’auto-rappresentazione pubblica delle comunità. I contenuti avranno una doppia direzione: rom-territorio e viceversa. Questo servirà a superare la condizione attuale: si fa di tutto sui rom e per i rom, ma senza di loro, senza mai ascoltarli. Dare voce ai rom servirà anche a verificare l’effettiva efficacia delle azioni pianificate per loro».  

Torino, arriva il TgRom. Una web tv per i nomadi con i fondi della Compagnia di San Paolo

il campo nomadi  smantellato di Lungostura Lazio 

un doppio canale per raccontare cultura e tradizione dei gitani e, al contempo, per dare informazioni specifiche

di MARIACHIARA GIACOSA 

partiti da una “call”, ad aprile dello scorso anno, a cui hanno partecipato 155 soggetti scesi a 46 dopo una preselezione. I prescelti sono stati poi accompagnati in un percorso di “capacity building” al termine del quale sono state formalizzate le richieste di contributo dei 16 progetti vincitori. “La progettazione condivisa – sostiene la Compagnia – ha stimolato la nascita di collaborazioni trasversali e di partenariati in vista della selezione finali”. 

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