“la guerra si trova in primo luogo nella mente”

per battere fanatismo e terrorismo bisogna lavorare sulla conoscenza

di Edgar Morin
in “la Repubblica” del 12 febbraio 2016

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anche in tempo di pace si può sviluppare una forma estrema dello spirito guerresco: il fanatismo. Questo porta in sé la certezza della verità assoluta, la convinzione di agire per la più giusta causa e la volontà di distruggere come nemici coloro che gli si oppongono

L’Unesco alla sua fondazione aveva sostenuto che la guerra si trova in primo luogo nella mente. Ed ha voluto promuovere un’educazione per la pace. Ma non può che essere banale insegnare che la pace è meglio della guerra, cosa evidente in tempo di pace. Il problema si pone quando lo spirito guerresco sommerge le mentalità. Educare alla pace significa quindi lottare per resistere allo spirito guerresco. Detto questo, anche in tempo di pace si può sviluppare una forma estrema dello spirito guerresco: il fanatismo. Questo porta in sé la certezza della verità assoluta, la convinzione di agire per la più giusta causa e la volontà di distruggere come nemici coloro che gli si oppongono. Nella storia delle società umane abbiamo avuto modo di osservare molte manifestazioni di fanatismo religioso, nazionalista, ideologico. Ogni volta si usa la parola “terrorismo” per denunciarne le azioni mortifere, ma è una parola che testimonia solo il nostro terrore e non spiega che cosa muova gli autori degli attentati. E soprattutto, per diverse che siano le cause a cui si votano i fanatici, il fanatismo ha sempre una struttura mentale comune. Ecco perché da vent’anni raccomando che nelle nostre scuole venga introdotto l’insegnamento della conoscenza, cioè anche l’insegnamento di ciò che provoca i propri errori, le proprie illusioni e le proprie perversioni. Ora, come si diventa fanatici? Nessuno nasce fanatico. Lo si può diventare se ci si chiude in modalità di conoscenza perverse o illusorie. Ce ne sono tre che sono indispensabili alla formazione di ogni fanatismo: il riduzionismo, il manicheismo e la reificazione. E l’insegnamento deve agire senza posa per enunciarle, denunciarle e sradicarle: sradicare è un’attività preventiva mentre sradicalizzare è un’attività che arriva tardi, quando il fanatismo è consolidato. Un ideale di consumi, di supermercati, di guadagni, di Pil, non può soddisfare le aspirazioni più profonde dell’essere umano, che sono di realizzarsi come persona all’interno di una comunità solidale. Il manicheismo si propaga e si sviluppa nel solco del riduzionismo. Non c’è più nient’altro che la lotta del Bene assoluto contro il Male assoluto. La visione unilaterale del riduzionismo spinge all’assolutismo e diventa una visione del mondo in cui si cerca di colpire con ogni mezzo i servi del male, cosa che, peraltro, favorisce il manicheismo del nemico. Al nemico perciò serve che la nostra società sia la peggiore e che i suoi cittadini siano i peggiori, così da giustificare il suo desiderio di morte e distruzione. Per arrivare al fanatismo ci vuole ancora un altro ingrediente prodotto dalla mente umana, un ingrediente che possiamo chiamare reificazione: la mente di una comunità produce ideologie o visioni del mondo, così come produce gli dei, che acquisiscono una realtà formidabile e superiore. L’ideologia o la credenza religiosa, mascherando il reale, per la mente fanatica diventa la vera realtà. Tutto ciò si è manifestato incessantemente e non è una caratteristica originale dell’islam. Da qualche decennio, con il declino dei fanatismi rivoluzionari, l’islam ha trovato un terreno di sviluppo in un mondo passato da un’antica grandezza alla caduta e all’umiliazione. Ma l’esempio dei giovani francesi di origine cristiana passati all’islamismo mostra come il bisogno possa fissarsi su una fede portatrice della Verità assoluta. Oggi ci sembra non solo necessario ma vitale che nel nostro insegnamento venga integrata la “conoscenza della conoscenza”, che permette di far individuare nell’età dell’adolescenza, quando si forma la mentalità, le perversioni e i rischi dell’illusione, e di opporre al riduzionismo, al manicheismo e alla reificazione una conoscenza capace di collegare tutti gli aspetti diversi, quando non antagonisti, di una stessa realtà, di riconoscere le complessità all’interno di una stessa persona e di una stessa società. In breve, il tallone d’Achille della nostra mente è ciò che crediamo di aver sviluppato meglio e che, in realtà, è più soggetto all’accecamento: la conoscenza. Riformando la conoscenza, ci diamo i mezzi per riconoscere gli accecamenti a cui conduce lo spirito guerresco e per prevenire in parte negli adolescenti i processi che conducono al fanatismo. A questo bisogna aggiungere l’insegnamento della comprensione altrui e l’insegnamento ad affrontare l’incertezza.

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” ‘rimani pure ateo’ mi ha detto il papa”

il papa mi ha detto: “sei ateo? rimani tale!”

Udienza Generale del mercoledì di Papa Francesco

di René Poujol
in “www.renepoujol.fr” dell’11 febbraio 2016

Victor Grèzes racconta a proposito del suo incontro con papa Francesco che accoglie la giovane associazione ‘Coexister’: “È molto interessato al nostro percorso e ci chiede di presentarci ad uno ad uno. Quando cito il mio ateismo, mi guarda diritto negli occhi, mi afferra il braccio destro e mi dice sorridendo: “Sei ateo? Perfetto, sei il mio nuovo amico, non cambiare!”. Demagogia? No! Eterna attualizzazione di Matteo 25, che afferma che il giorno del Giudizio non ci verrà chiesta la nostra appartenenza, ma se abbiamo dato da mangiare all’affamato, accolto lo straniero, visitato il prigioniero…

In un libro toccante, Victor Grèzes spiega e sostiene la posizione della giovane associazione  “interconvinzionale” Coexister.
Nella recente polemica che ha opposto il primo ministro Manuel Valls e Jean-Louis Bianco, Coexister si è improvvisamente trovata nell’occhio del ciclone. Due giorni dopo gli attentati del 13 novembre, Libération pubblicava un articolo intitolato “Siamo uniti”, firmato da ottanta personalità di primo piano: responsabili politici e sindacali, capi religiosi, presidenti di associazioni, intellettuali e professori universitari… e Jean-Louis Bianco, presidente dell’Osservatorio della laicità che si è visto rimproverare dal primo ministro di aver unito la sua firma a quella di organizzazioni considerate “partecipi di un clima nauseabondo”. L’articolo era stato redatto su iniziativa di Coexister il cui fondatore Samuel Grzybowski e la nuova presidente Radia Bakkouch erano tra i firmatari. In poche ore il dibattito sulla laicità si trovava rilanciato nelle condizioni peggiori. Una laicità che pure è al cuore della charta di Coexister (1) che accoglie indifferentemente nelle sue fila: cristiani, ebrei e musulmani, agnostici e atei. Per onorare la realtà di un paese in maggioranza di cultura cristiana, ma dove il 36% della popolazione dice di credere in Dio contro il 34% che si dice ateo e il 30% agnostico (2). Ma questa visione della laicità non incontra approvazione unanime. In un articolo che chiedeva le dimissioni di Jean-Louis Bianco (3), si può leggere a proposito dell’appello di “Siamo uniti”: “Tra i firmatari vi è anche la presidente dell’associazione interconfessionale Coexister, Radia Bakkouch, che vorrebbe sostituire la neutralità laica dello spazio pubblico con la coesistenza pacifica delle religioni”. Processo assurdo e in mala fede! Il 26 gennaio Victor Grèzes, anch’egli membro di Coexister pubblicava una lettera aperta a Manuel Valls: “Sono un giovane francese di 24 anni, ateo convinto, militante di sinistra, uno dei sostenitori del collettivo #NousSommesUnis (“Siamo uniti”). Lunedì 18 gennaio, lei mi ha insultato”. Ed ecco che, due settimane dopo, per una casualità temporale, esce nelle librerie, dello stesso Victor Grèzes: “Je suis athée, croyez-moi” (Sono ateo, credetemi) (4), che è sicuramente la miglior risposta che Coexister poteva opporre ai suoi detrattori del momento.
Una forma di verità che lascia tutto lo spazio ad altre forme di verità In questo itinerario di un giovane ateo del secolo, l’autore evoca la sua infanzia nell’Alvernia, figlio di insegnanti, cresciuto in un universo non-religioso ma aperto. Ha 15 anni quando, durante un anno scolastico in Sudafrica, si trova confrontato all’espressione di fede comunitaria dei suoi compagni di classe. Scrive a questo proposito: “Non so se questa comunità sia fatta per me, ma so che la mia presenza accanto a loro testimonia la mia volontà di procedere in uno stesso slancio civile, indipendentemente dalla mia religione, dalla mia credenza o dalla mia fede”. Non cambierà più questa sua convinzione. E il racconto che ci fa del suo viaggio attorno al mondo del 2012-2013 con Samuel il cattolico, Ilan l’ebreo, Ismaël il musulmano e Josselin l’agnostico, si conclude su questa constatazione in forma di professione di fede: “Sono più ateo che mai e più che mai ben disposto nei confronti della fede” (5). Non è mia intenzione qui raccontare questo libro pieno di sensibilità, di misura, di generosità… Ma sottolineare che l’autore si ricollega a quella frangia dell’ateismo che non rivendica alcuna superiorità di principio sulla credenza religiosa. Come se l’ateo procedesse dalla ragione pura, mentre l’altro fallirebbe per derisione. Ricordando i giorni che precedevano la sua partenza per quel giro del mondo, confida: “Capisco che i credenti sono sottoposti alle stesse incertezze e che, contrariamente a ciò che pensavo, non si accontentano affatto di trovare risposte preconfezionate a interrogativi esistenziali che non riuscirebbero a superare con la ragione… Chi sono io, Victor, giovane di 21 anni pieno di certezze, allevato con amore in un piccolo ambiente impegnato in provincia, per dare giudizi sulle risposte degli altri a tutto ciò che va al di là di noi stessi?” Per Victor Grèzes, l’ateismo è quindi una credenza, allo stesso titolo della fede dei suoi amici. Il che non impedisce né all’uno né agli altri di considerarsi in una forma di verità, se no, perché credere e affermare questo piuttosto che quello? Ma una forma di verità che lascia tutto il loro spazio ad altre forme di verità. E questo fa pensare ad una frase spesso commentata (cito a memoria): “Una verità superficiale è una verità il cui contrario esatto è un errore, una verità profonda è una verità il cui contrario esatto è anch’esso una verità profonda” (6).
Passare da due certezze che si escludono a due credenze che si interpellano Quando uno dice “Credo in Dio…”, non dice: l’esistenza di Dio è incontestabile. Così come l’altro non pretende di situare il proprio ateismo come conoscenza obiettiva e inconfutabile dell’esistenza di Dio. Ma bisogna essere ben consapevoli che questo approccio è lungi dall’essere unanimemente condiviso, sia in un campo che nell’altro. Per alcuni, ogni ateismo degno di questo nome deve essere un ateismo di lotta contro l’oscurantismo, così come, per certi cattolici, ebrei o musulmani ogni fede sincera non la si può immaginare se non in opposizione alla non-credenza. Non è così ovvio il passaggio da due certezze assolute che si escludono reciprocamente e devono combattersi, a due credenze che si interpellano e entrano in dialogo. È esagerato dire che la frattura tra queste due forme di pensiero è alla base oggi di gran parte dei nostri aspri dibattiti sulla laicità?
“Sei ateo? Non cambiare!”, gli ha detto papa Francesco. Nel loro giro del mondo interreligioso, i cinque amici di Coexister hanno fatto tappa a Roma. Per iniziativa del cardinale Etchegaray, hanno potuto incontrare papa Francesco, per alcuni minuti, al termine dell’udienza settimanale. Victor Grèzes racconta: “È molto interessato al nostro percorso e ci chiede di presentarci ad uno ad uno. Quando cito il mio ateismo, mi guarda diritto negli occhi, mi afferra il braccio destro e mi dice sorridendo: “Sei ateo? Perfetto, sei il mio nuovo amico, non cambiare!”. Demagogia? No! Eterna attualizzazione di Matteo 25, che afferma che il giorno del Giudizio non ci verrà chiesta la nostra appartenenza, ma se abbiamo dato da mangiare all’affamato, accolto lo straniero, visitato il prigioniero… Questa visione allargata dell’universalità della Salvezza resta una delle più grandi acquisizioni del Concilio Vaticano II. Mi rallegra questo atteggiamento della mia Chiesa, come mi rallegra l’apertura al dialogo di un certo numero di filosofi atei come Luc Ferry o André Comte Sponville e di certi responsabili politici. Ma ancor più mi rallegra che una generazione di giovani si riconosca fraternamente nel percorso di Coexister a servizio del “vivere insieme”, non per costringervi chicchessia, ma per dirci semplicemente, serenamente, che è possibile. E che in questo si gioca qualcosa di essenziale per la nostra pace civile.

1. Samuel Grzybowski, Manifeste pour une coexistence active, Ed. de l’Atelier, 112 p. 5 € 2. Sondaggio Ifop del 2011 citato nel libro a p.40 3. Non solo non ci sono state le dimissioni, ma proprio oggi, 11 febbraio, il primo ministro Manuel Valls ha confermato nelle loro funzioni Jean-Louis Bianco Presidente, e Nicolas Cadène referente dell’Observatoire de la laïcité. La Libre pensée, la Ligue des Droits de l’Homme et la Ligue de l’enseignement, non sospettabili di mancanza di laicità, avevano raccolto per questo 10 000 firme di sostegno. 4. Victor Grèzes, Je suis athée, croyez-moi. Ed. de l’Atelier, 140 p. 10 € 5. Questo giro del mondo è stato raccontato da Samuel Grzybowki in Tous les chemins mènent à l’autre, Ed. de l’Atelier, 208 p. 10 € 6. Pensiero generalmente attribuito a Niels Bohr (1885-1962).

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il commento al vangelo della domenica

GESU’ FU GUIDATO DALLO SPIRITO NEL DESERTO E TENTATO DAL DIAVOLO 

commento al vangelo della prima domenica di quaresima (14 febbraio 2016) di p. Alberto Maggi:

p. Maggi
Lc  4,1-13

In quel tempo, Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame. Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”».
Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”».
Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano”; e anche: “Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”».
Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato.

La prima domenica di Quaresima la liturgia ci presenta le Tentazioni del Deserto, secondo l’interpretazione che ne dà Luca nel suo vangelo al capitolo 4.
Leggiamo. Gesù, pieno di Spirito Santo. E’ dopo il battesimo. Su Gesù dopo il battesimo è sceso lo Spirito che ha convertito Gesù nella manifestazione visibile del perdono e dell’amore di Dio.  Si allontanò dal Giordano ed era guidato (letteralmente “condotto”) dallo Spirito nel deserto. Il deserto richiama l’esodo di Israele, quando dalla schiavitù egiziana iniziò il cammino per entrare nella terra promessa. Ora la terra promessa si è trasformata in una terra di schiavitù dalla quale Gesù deve liberare.
L’istituzione religiosa, per i propri interessi, per la propria convenienza, si è impadronita di Dio e Gesù deve liberare il popolo dalle grinfie di questi.   Per quaranta giorni. I numeri nei vangeli, e nella Bibbia, non vanno mai interpretati in maniera aritmetica, matematica, ma sempre figurata. Il numero quaranta indica una generazione. L’evangelista vuole dirci: quello che adesso ti sto presentando non riguarda un singolo periodo della vita di Gesù, ma tutta la sua esistenza.
Tentato dal diavolo. Ecco è giusto tradurre così. Ma per noi “tentazione” significa sempre qualcosa che induce a compiere il male. Nulla di tutto questo. Il diavolo, – lo vedremo – non si presenta come un rivale di Gesù, ma come un suo collaboratore. Allora più che tentazioni potremmo parlare di seduzioni del diavolo nel deserto.
Non mangiò nulla in quei giorni. Non è un digiuno. L’evangelista evita la parola digiuno, perché la fame di Gesù era una fame diversa. Più avanti Gesù dirà: “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi”.
Ma quando furono terminati, ebbe fame. Ma appunto non è una fame di pane. Ecco che ora si presenta il diavolo. Chi è il diavolo? Mentre Dio è amore che si mette a servizio degli uomini, il diavolo è potere che domina le persone.
Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio”. Non è un mettere in dubbio la figliolanza divina, che era stata già affermata nel battesimo, ma significa “giacché sei il figlio di Dio usa le tue capacità a tuo proprio vantaggio”. “Di’ a questa pietra che diventi pane». Quindi usare a proprio vantaggio le proprie capacità.
Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”». E’ una citazione del libro del Deuteronomio. Vediamo che la disputa tra Gesù e il diavolo sembra proprio una disputa teologica tra degli scribi o dei rabbini. L’evangelista infatti la costruisce in questa maniera.
Il diavolo lo condusse in alto – in alto indica la condizione divina –  gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio.” E’ tremenda questa affermazione che Luca attribuisce al diavolo. Non è Dio, ma il diavolo colui che conferisce potere e ricchezza. Quindi quelli che detengono potere e ricchezza non la ricevono da Dio, ma la loro è un’attività diabolica perché la ricevono dal diavolo.
E’ una denuncia  molto seria, ed è tipico dell’evangelista Luca.
“Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». Quindi lui invita ad un gesto di idolatria, ma Gesù anche questa volta, citando sempre il Deuteronomio, gli rispose: «Sta scritto: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”». E’ l’incompatibilità tra Dio e il potere, tra l’amore e il servizio. Quindi Gesù rifiuta categoricamente la proposta del diavolo, questa idolatria del potere.
Lo condusse a Gerusalemme, quindi il diavolo sembra pratico dei luoghi santi e della Bibbia. Lo pose sul punto più alto del tempio … perché lo pose lì? Perché c’era la tradizione religiosa che diceva che il messia nessuno sapeva chi era. All’improvviso, durante la festa delle capanne, si sarebbe manifestato sul punto più alto del tempio. Allora il diavolo lo invita a manifestarsi aggiungendo un segno spettacolare.
E gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio…” Notiamo che nella prima e nella terza seduzione, tentazione, il diavolo dice “giacché sei il Figlio di Dio”, per quella di mezzo, quella del potere e del denaro, non ha avuto bisogno di scomodare la condizione divina, perché è una tentazione alla quale soccombono tutti gli uomini, quella della corruzione e quella del potere, del denaro. Ma qui di nuovo “se tu sei il Figlio di Dio”, cioè “Giacché sei il Figlio di Dio”.
“Gèttati giù di qui”, cioè fai un segno spettacolare. E il diavolo sembra abbastanza esperto di sacra scrittura, perché, come Gesù gli ha controbattuto citando frasi del libro del Deuteronomio, ecco che il diavolo controbatte a Gesù citando il salmo 91. “Sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano”; vediamo come il diavolo è esperto, quindi l’evangelista qui ci fa comprendere che sono le dispute che Gesù ha avuto con i rabbini, gli scribi, che sono i veri strumenti del diavolo. “E anche: “Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”». Di nuovo dal libro del Deuteronomio. Gesù asserisce la piena fiducia nell’azione del Padre senza bisogno di provocarlo per farne scaturire l’azione.
Dopo aver esaurito ogni tentazione… il verbo “tentare” comparirà poi di nuovo per l’azione dei dottori della legge. Ecco chi sono i diavoli, questi difensori della dottrina in realtà l’evangelista li denuncia come strumenti del diavolo.
 Il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato. Quale può essere questo momento fissato? Dai dati che abbiamo il momento fissato è il momento della croce, momento tremendo, drammatico, della fine di Gesù, quando saranno i capi del popolo che diranno a Gesù “Se è il Cristo si salvi”, quindi che usi le sue capacità per salvarsi.
Ma Gesù tutto quello che era, tutte le sue forze, tutte le sue energie, tutte le sue capacità non le ha mai usate per il proprio interesse, ma sempre per l’interesse degli altri. Non per la propria convenienza, ma per la convenienza degli uomini; non ha pensato alla sua vita, ma alla vita degli altri. Ecco allora la differenza che emerge tra Dio e il diavolo: Dio è amore che si mette a servizio e mette l’interesse dell’altro al primo posto, il diavolo è potere che domina e pensa soltanto alla propria convenienza.

 

 

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” non è brutto perdere i pregiudizi, perdere le paure, perdere il dolore” Ezio Bosso

la picconata di Ezio Bosso ai pregiudizi sulla disabilità

Bosso

di Gian Antonio Stella
in “Corriere della Sera” del 12 febbraio 2016stella

«perdersi per imparare a seguire: perdere è brutto ma non è brutto perdere i pregiudizi, perdere le paure, perdere il dolore» e più ancora ha ricordato quanto la musica conti perché «si fa insieme» e «noi (i musicisti) mettiamo le mani ma ci insegna la cosa più importante che esista: ascoltare»

«E chi mi porta via?». È stato lì, dopo la standing ovation dell’Ariston con gli orchestrali commossi fino alle lacrime, pudiche e mute, che Ezio Bosso ha avuto l’unico attimo di smarrimento. Quello di chi, dopo un quarto d’ora di magica sospensione della realtà vede riemergere la sua disabilità. La fatica di ogni giorno. Ogni ora. Ogni momento. Il pianista, compositore e direttore d’orchestra torinese ha fatto tre bellissimi regali, l’altra sera, agli italiani. Il primo: l’esecuzione al pianoforte del suo struggente «Following a Bird» («Sarebbe “inseguendo un uccellino” ma in inglese è più fighetto», ha ammiccato) che ha emozionato una platea abituata per decenni alle rime cuore amore. Il secondo: ha spiegato quanto sia importante, andando all’inseguimento di quell’uccellino, «perdersi per imparare a seguire: perdere è brutto ma non è brutto perdere i pregiudizi, perdere le paure, perdere il dolore» e più ancora ha ricordato quanto la musica conti perché «si fa insieme» e «noi (i musicisti) mettiamo le mani ma ci insegna la cosa più importante che esista: ascoltare». Parole bellissime in un Paese dove la voglia di ascoltare (la buona musica, i dialoghi del grande teatro, le opinioni altrui, le voci di chi è ai margini…) pare sempre più affievolirsi. Peccato: saper ascoltare, spiegava Wolfgang Goethe, «è un’arte». Il regalo più grande, però, è stato il terzo: lo straordinario coraggio, arricchito da una leggerezza contagiosa e qua e là allegra, con cui si è offerto a milioni di italiani in tutta la sua dignitosa fragilità corporale. Non molti di quei milioni di italiani che erano davanti alla tivù, come confermano i numeri di Google fino all’altro ieri, lo conoscevano. Non molti sapevano che Ezio Bosso è stato un «enfant prodige», che ancora ragazzino teneva già concerti in giro per l’Europa, che per anni ha saputo mischiare più generi musicali, che ha suonato nei più grandi teatri del pianeta e diretto tra le altre le orchestre dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, della London Symphony, del Teatro Regio di Torino… Forse ancora meno sapevano che pochi anni fa, nel 2011, fu colpito dalla Sla, la Sclerosi laterale amiotrofica che giorno dopo giorno ha fiaccato i suoi muscoli rubandogli, la stramaledetta, la forza fisica senza riuscire però a fiaccarlo nell’anima. Per millenni le persone fragili come lui sono state nascoste in casa, celate nelle stanze più scure come fossero una colpa così come pensava Gregorio Magno («Un’anima sana non albergherà mai in una dimora malata»), piazzati in remoti conventi tipo l’abbazia di Reichenau su un’isoletta del lago di Costanza come sant’Ermanno il rattrappito, affetto lui pure da una malattia degenerativa che gli impediva perfino di stare seduto ma non di comporre un capolavoro come il «Salve Regina». O rinchiuse più recentemente in istituti fuori mano come fecero col figlio Daniel perfino un intellettuale liberal come Arthur Miller o col figlio Eduard un genio imperfetto quale Albert Einstein. Per non dire dei disabili addirittura eliminati come «scarti», direbbe papa Francesco, dalle società più antiche («È ragionevolezza separare gli esseri inutili dai sani», scrisse Seneca teorizzando la necessità di annegare «anche i nostri figli, se sono venuti alla luce minorati o anormali») e giù giù fino a quelle di pochi decenni fa. Vedi le leggi eugenetiche giapponesi abolite completamente solo nel 1996 o la selezione assassina del programma Aktion T4 voluto da Adolf Hitler che autorizzò i medici nazisti, attenzione alle parole, a «concedere la morte per grazia ai malati considerati incurabili secondo l’umano giudizio». Ecco, offrendosi l’altra sera nel suo genio così grande e così gracile all’immenso pubblico di Sanremo, Ezio Bosso ha dato una bella picconata a quella lunga storia d’infamia. E una sberla a chi ancora oggi (avete presente Gasparri l’altra settimana?) usa la parola «handicappato» come un insulto o si avventura in spiritosaggini dissennate come ieri il blog spinoza.it: «È davvero commovente vedere come anche una persona con una grave disabilità possa avere una pettinatura da coglione». Al che il pianista ha risposto beffardo: «È perché cerco di pettinarmi da solo». Dieci a zero, palla al centro.
Di più: il compositore ha dimostrato ancora una volta quanto possano avere senso le parole «diversamente abile». Non perché «politicamente corrette» o dettate da buona educazione ma perché hanno un significato pieno, denso, reale. Quanti «normodotati» troppo spesso così superficiali e sprezzanti con le persone fragili saprebbero a trasmettere l’arte, la poesia e le emozioni di «Following a Bird»

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il rifiuto del rom impoverisce la nostra umanità

Rom

le nevrosi occidentali e il fantasma che iberna la nostra tolleranza

 
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Presidente Associazione 21 luglio

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Molti parlano di “rom”, “zingari”, “nomadi” senza avere mai incrociato lo sguardo di essi o aver scambiato una parola amichevole. Il moto del cervello va per inerzia e luoghi comuni, infarciti di pregiudizi anche assurdi e inverosimili, diventano il riferimento della nostra verità conosciuta. Ma quante sono le menti umane, si chiedeva Primo Levi, capaci di resistere alla penetrazione dei luoghi comuni?

Non sembra essere passata molta acqua sotto i ponti dal 2007, quando furono resi pubblici i risultati di uno studio commissionato dal ministero dell’Interno nel quale emergeva che in Italia l’immagine dei rom e sinti è segnata dalla non conoscenza. Il 56% degli intervistati dichiarava di non avere la minima idea di quanti siano i rom residenti in Italia; l’84% riteneva che questi gruppi siano prevalentemente nomadi; soltanto il 24% del campione manifestava di sapere che circa la metà dei rom è di cittadinanza italiana. Il giudizio, complessivamente negativo, si è cristallizzato sino ad oggi in una certezza: “Sono il popolo meno gradito agli italiani”. Ieri come oggi il quadro sembra sconfortante: un misero 0,1% del campione preso in esame dallo studio del 2007 dimostrava una conoscenza completa di rom e sinti.

Giudichiamo senza conoscere, senza aver fatto alcuna esperienza concreta e diretta preferendo il passaparola e il tam tam ripetuto sui social. In Italia i rom rappresentano solo lo 0,23% della popolazione e sono sparsi sul territorio nazionale in maniera disordinata. Eppure essi occupano un posto preciso nella nostra geografia mentale.

Dietro alla parola rom non c’è un volto umano. C’è piuttosto il ladro, il bugiardo, il truffatore, lo storpio della pre-modernità. C’è il fantasma di una rappresentazione collettiva ferita da ossessioni che spunta fuori all’occorrenza, che ci fa sprofondare nei bassifondi delle storia per poi riemergere con le ataviche paure infantili. La definizione del termine “rom” appare una costruzione artificiale che gerarchizza scale di una umanità inferiore.

I rom, allora, più che una categoria umana rappresentano una categoria mentale, un arcaico fantasma che sopravvive al nostro interno e che iberna la nostra tolleranza. La categoria “rom” sfuma mano a mano che ci si allontana dallo “zingaro brutto, sporco e cattivo” e il “campo nomadi” è il luogo in cui è forgiata in maniera esemplare.

Il mito della “zingara rapitrice dei bambini” è il più antico e consolidato. Ciclicamente riaffiora dal nulla e nel nulla scompare. Nel Medioevo si credeva che gli ebrei rapissero i bambini cristiani per ucciderli e bere il loro sangue. Anche i vagabondi erano visti come i rapitori dei bambini che utilizzavano per la questua. La convinzione che le vite dei nostri figli siano messe a rischio da donne rom di passaggio è invece successiva e permane nel pensiero comune malgrado l’evidenza di studi scientifici smentisca l’accusa. Il più recente lavoro ha per titolo “La zingara rapitrice” e rivela come, malgrado le convinzioni comuni, nel ventennio che inizia nel 1986 e termina nel 2007, nei diversi casi di cronaca analizzati, in nessuno di essi si è verificata in Italia da parte di una donna rom una reale sottrazione di un minore.

C’è allora qualcosa di irrisolto nel nostro inconscio collettivo occidentale che sembra trovare forma in un’umanità nella quale non ci riconosciamo e sulla quale proiettiamo fobie e nevrosi. Abbiamo dunque bisogno della categoria mentale dei “rom” come valvola di sfogo per le frustrazioni che ci attanagliano così come il popolo d’Israele utilizzava il “capro espiatorio” da consegnare alla morte dopo averlo caricato del peccato collettivo.

La parola “rom” è qualcosa che trascende persone in carne e ossa. Essa è vicina a noi, è parte di noi, è dentro di noi. “Rom” vuol dire “uomo” e nel rifiutare questa categoria rigettiamo inconsciamente un frammento dell’umanità che ci appartiene. Finiamo così per ritrovarci come un’umanità “parziale” – avrebbe ripetuto Ernesto Balducci – che va completata e ricomposta con l’umanità delle alterità. La nostra umanità ha un volto policromo e se non ci riconciliamo con noi stessi i fantasmi continueranno ad abitare i nostri incubi. E le nostre nevrosi sopravvivranno a noi stessi rappresentando l’eredità che consegneremo alle generazioni che ci seguiranno.

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