i preti in tenda per la quaresima si raccontano

la tenda, i poveri e noi

quaresima 2016
la tenda sul sagrato di Ambivere

preti in tenda

In Quaresima noi sacerdoti abiteremo una tenda allestita sul sagrato della Chiesa di Ambivere. Un po’ di cibo. Acqua da bere. Un bagno per lavarci. Un materasso per dormire. E’ più di quanto molti esseri umani possono permettersi. Naturalmente non sarà facile. Abituati ad avere più del necessario, il semplice necessario sembrerà insufficiente.

Questa decisione nasce dalla presa di coscienza che il prezzo del nostro benessere è la riduzione in miseria di altri esseri umani. E’ facilmente dimostrabile: se dovessimo garantire a tutti gli uomini il tenore di vita europeo o americano avremmo bisogno di cinque pianeti. Ma siccome ne abbiamo soltanto uno, noi occidentali ci siamo presi da un secolo a questa parte il diritto di mettere le mani sulle risorse naturali dell’altra parte del mondo e di saccheggiarle a piacimento. Per evitare intralci abbiamo poi lavorato assiduamente per impedire che in quei paesi crescessero democrazia, autonomia economica e diritti umani. Ecco perché i paesi poveri continuano a restare poveri. Se Europa e Stati Uniti dovessero pagare equamente le risorse prelevate dal terzo mondo, i prezzi in casa nostra crescerebbero e dovremmo rinunciare a buona parte delle nostre abitudini consumistiche. Il costo della vita qui da noi è alto ma costerebbe ancora di più se i paesi poveri potessero mettere al centro della loro economia i loro bisogni invece che i nostri. Per questa ragione nessuno in occidente sembra prendere sul serio una prospettiva del genere.
Ecco dunque la nostra decisione: staremo in una tenda per dire che non siamo disposti ad accettare un sistema che procura benessere a noi provocando sofferenza a qualcun altro. Si tratta di un segno temporaneo, fino a Pasqua. Poi si vedrà. In ogni caso bisognerà mettere a punto stili di vita coerenti con questa intuizione. Intanto con questo gesto vogliamo dire che riconosciamo le nostre responsabilità di fronte alla povertà del mondo. E che si può essere felici anche con meno. Ma le ragioni della nostra scelta non finiscono qua. Se avete un po’ di pazienza cerchiamo di spiegarlo.
tende di rifugiati in Siria stretti nel morso del gelo invernale
L’insaziabilità delle nazioni europee e degli Stati Uniti non ha trovato freno neppure tra gli anni ’50 e ’80 del secolo scorso, quando la cultura dei diritti umani era riuscita ad appassionare ampi settori dell’opinione pubblica e del mondo accademico e culturale. In quegli anni era più difficile condurre guerre in santa pace senza avere alle costole qualche attivista che gridasse in difesa dei diritti umani. Le cose poi hanno cominciato a cambiare. In peggio. Negli ultimi trent’anni la ricchezza e il potere politico si sono concentrati a tal punto nelle mani di pochi gruppi finanziari che questi sono stati in grado di mandare intenzionalmente a rotoli interi scomparti dell’economia mondiale con l’intento di trarre profitto dalla loro rovina. Hanno ingenerato così la crisi senza che nessun governo o organismo internazionale abbia mosso un dito per impedirlo. Proprio la crisi economica è stata l’ultimo atto di una commedia nella quale l’occidente ingordo cadeva vittima di se stesso. La povertà ha cominciato così a riguardare non soltanto il terzo mondo ma anche porzioni significative di popolazione europea e americana. La crisi economica voluta dalle lobby finanziarie con la complicità degli organismi internazionali di controllo e di governo, ha messo sul lastrico famiglie, ha mandato in fallimento aziende, ha provocato disoccupazione, ha generato precariato, indebitamento e sfruttamento lavorativo, ha spento la fiducia, ha rubato il futuro ai giovani e la pensione ai lavoratori. Il capitalismo selvaggio che fino ad allora aveva dissanguato il terzo mondo, scatenava ora la sua offensiva sulle economie occidentali. Per i poveri del terzo mondo le cose non cambiavano. Vittime erano. Vittime restavano. Le cose sono cambiate invece per la classe media di casa nostra che si è vista ridurre drasticamente il potere d’acquisto e le garanzie previdenziali e assistenzia
li. Non è stato difficile per i veri responsabili della crisi mondiale dirottare la rabbia diffusa della nostra gente contro i migranti. E’ bastato descriverli come invasori intenzionati a rubare il lavoro e a cambiare le nostre tradizioni. E la gente ha abboccato prendendosela col nemico sbagliato. Per distogliere l’attenzione dalle loro catastrofiche politiche economiche ed estere, i nostri governi (Stati Uniti in testa) hanno sempre scaricato la colpa su qualche nemico esterno. Tempo addietro avrebbero dato la colpa all’Unione Sovietica. Ma dopo la caduta del Muro di Berlino era necessario trovare qualcun altro. La scelta cadde sul mondo arabo islamico. Le ragioni sono storiche. Le potenze vincitrici della prima guerra mondiale (Francia e Inghilterra in particolare) si erano letteralmente divise a tavolino il Medio Oriente e il Nord Africa instaurando un regime coloniale teso principalmente a sfruttare economicamente quei territori e favorendo l’ascesa di regimi collaborazionisti. La scelta di permettere l’insediamento violento di Israele espellendo i palestinesi dalla loro terra natale, lasciando al contempo inattuate le risoluzioni ONU che nel corso dei decenni hanno ripetutamente condannato il sedicente stato ebraico è coerente con questa scelta colonizzatrice. L’ingerenza massiccia nel controllo dell’area mediorientale è venuta alla luce ogni volta che emergevano aspiranti leader ribelli alla sottomissione imposta dall’Occidente e dal suo avamposto Israele. La politica americana ha sempre cercato dapprima di comprare l’obbedienza di questi leader. Quando la compravendita non ha funzionato, l’America non ha mai esitato ad abbattere questi leader mediante colpi di Stato e aggressioni militari sempre sulla base di pretesti, a volte del tutto inventati. Nella più totale indifferenza dell’Europa.

migranti siariani
E’ successo in Iran all’inizio degli anni ’50; è successo con Saddam Ussein in Iraq. E’ successo con Gheddafi in Libia; sta succedendo adesso con Assad in Siria (senza successo); è successo con il presidente Morsi in Egitto non gradito a Israele; è successo perfino nella nostra Europa con il colpo di Stato architettato dai servizi segreti americani in Ucraina neppure due anni fa per deporre il presidente legittimo Yanukovich (colpevole di essere amico dei russi) e insediare il fascista Porosenko, amico degli americani. La necessità sempre più frequente degli Stati Uniti e alleati di ricorrere apertamente alle armi per costringere i popoli all’obbedienza, dimostra che l’impero americano (e alleati) è diventato più debole economicamente e politicamente. La sua leadership ha cominciato a traballare allorchè nuovi soggetti economici hanno fatto capolino: India, Cina, Brasile. E ora di nuovo la rediviva Russia. Il lento declino avrebbe dovuto consigliare agli strateghi d’oltreoceano e a quelli nostrani di modificare le proprie politiche economiche e militari, rinunciando ad esempio a una quota di poteri e privilegi, favorendo una distribuzione più equa delle ricchezze e promuovendo realmente la democrazia.  Invece nulla di tutto questo. Americani e soci hanno deciso di usare un pugno di ferro ancora più duro per schiacciare chiunque avesse osato modificare la gerarchia del mondo. Si spiega così la decisione all’inizio degli anni ’90 di dare una lezione al vecchio alleato e dittatore Saddam, reo di usare la sua dittatura contro gli interessi americani invece che in loro favore. Saddam in fondo voleva emulare la politica conquistatrice dell’occidente. Il problema si sarebbe potuto risolvere con altri mezzi. Un’ampia rete di movimenti manifestò in quei mesi contro l’intervento militare. Bandiere colorate
apparvero sui municipi, sui campanili, alle finestre della case, nelle scuole. Ma i nostri governi europei ascoltarono gli strateghi e i comandi statunitensi e vollero compatti la guerra. Una coalizione di 34 paesi guidati dagli Stati Uniti sotto l’egida dell’ONU muoveva guerra alI’Iraq riducendolo a brandelli e uccidendo in sette mesi decine di migliaia di persone inermi. Prima o poi doveva succedere che il costante sfruttamento da parte occidentale delle risorse altrui, la repressione delle aspirazioni democratiche insieme al finanziamento della corruzione e del terrorismo insieme ai bombardamenti avrebbe moltiplicato i focolai di guerra, diffuso le cellule cancerogene della violenza e dell’estremismo di stampo laico o religioso oltre che rendere la vita impossibile alle popolazioni di quelle terre. La Guerra del Golfo fu il detonatore di questa spirale di distruzione che è ancora in corso. Da allora il conflitto è andato allargandosi all’intero Medio Oriente ed è stato ricorso continuo ai bombardamenti, crescita abnorme delle vittime civili, diffusione di cellule terroristiche filo-occidentali e anti-occidentali e fuga impazzita di milioni di persone dalla morte. La crisi economica, la migrazione e il terrorismo sono frutti delle insane politiche occidentali. Eppure vengono usate in Europa come argomenti per convincere l’opinione pubblica a incrementare invece di ridurre la politica muscolare della NATO e a rinunciare alla “patetica” difesa dei diritti umani. Per quanto le responsabilità dei nostri paesi siano clamorose e le vittime di questa guerra siano soprattutto bambini, nessuno sdegno pacifista percorre più le strade d’Europa, a meno che i morti siano europei, americani o israeliani. I civili europei ammazzati meritano cortei. Quelli medio orientali no.
L’Europa che negli anni ’90 aveva preso le difese dei neri in Sudafrica non c’è più.  Cos’è successo da ridurci in questo stato? La propaganda occidentale ha utilizzato la crisi e il terrorismo per alimentare la paura e ridurre al silenzio la critica interna. Poche, anzi pochissime sono le voci che si alzano contro la corsa europea agli armamenti e gli interventi militari, contro i massacri di civili in Medio Oriente, a Gaza e in Africa, contro le complicità degli stati nel traffico degli esseri umani. Poche sono le voci indignate per la chiusura delle frontiere, contro le politiche coloniali, contro l’ingerenza politico-militare dell’occidente sempre travestita da intervento umanitario. Pochissime le voci contro l’oppressione israelo-americana dei palestinesi, contro il vassallaggio europeo nei confronti dell’America. L’indifferenza dell’opinione pubblica è assordante. La gente d’Europa e d’America preferisce non conoscere. Preferisce credere che se i nostri governi bombardano hanno sicuramente buone ragioni. E che il terrorismo è una buona ragione per bombardare. Il risultato di queste buone ragioni sono paesaggi rasi al suolo da cui spuntano come spettri rovine di edifici a ricordare che un tempo sorgevano città. Degli abitanti nessuna traccia: uccisi sotto i bombardamenti, giustiziati, morti di fame e sete, sotto assedio per anni, venduti, comprati e rivenduti. Chi ha potuto si è messo in fuga affrontando odissee inenarrabili, tallonato da paramilitari, eserciti allo sbando, milizie straniere, mercenari al soldo di gruppi contrapposti. Chi ha innescato tutto questo? A chi interessa che tutto questo continui? E soprattutto: a chi interessa veramente saperlo?  Sono state le cattive politiche occidentali il brodo di coltura che ha permesso alla corruzione dei paesi
arabi di prosperare, alla rivalità storica tra le fazioni religiose di acutizzarsi e all’estremismo islamico di trovare pretesti. La società “civile”, gli intellettuali e i mass-media occidentali non possono nascondere o minimizzare questa responsabilità. E neppure sono autorizzati a confondere le vittime con i carnefici. In uno stato di diritto le garanzie di un processo equo vengono date a tutti,  anche agli assassini, ai ladri, ai violentatori. Che cosa autorizza l’Europa a chiudere le porte in faccia a gente che fugge da guerre che l’Europa stessa ha contribuito a innescare? Com’è possibile lasciare che le persone continuino ad annegare senza che l’Europa decida uno straccio di corridoio umanitario a cui protezione sì che servirebbe impiegare l’esercito?! La verità è che l’Europa è avida. Vuole le ricchezze dei poveri, non i poveri. Ferma i profughi alle frontiere mentre da più di un secolo le oltrepassa per spadroneggiare in casa loro. La verità è che l’Europa non vuole più sottoscrivere i diritti universali dell’uomo a cominciare dall’articolo 1: Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Nell’Europa di oggi, “essere umani” non soddisfa i requisiti minimi. Ciò che serve in Europa in ordine di importanza per ottenere riconoscimento è possedere capitali ed essere cittadini. Nessuna via preferenziale a chi fugge dalle guerre. Lo status di rifugiato viene rilasciato soltanto ad un prezzo altissimo: essere riusciti a scampare ai bombardamenti, essere sopravvissuti alle torture, ai rapimenti e alle onde del mare. Nessun riconoscimento è dato a chi proviene da regioni impoverite da un sistema globale ingiusto e ha rischiato la vita per trovare dignità. Questa è l’Europa: pronta ad amputare uno dei capisaldi della propria migliore tradizione umanistica (i diritti
dell’uomo) piuttosto che cedere quegli stessi diritti ai poveri che essa stessa ha contribuito a creare. L’Europa delle istituzioni scarica sulla buona volontà di molti cittadini volontari europei il compito di salvare le apparenze riservando un pò di umanità a chi raggiunge sfinito le sue coste. Evita però di fare ciò che le spetta: rivedere le politiche economiche e la politica estera a partire dai diritti dell’uomo e dei popoli. Sicchè I poveri vengono assistiti per un pò. Dopodichè vengono abbandonati al loro destino. O rispediti indietro o abbandonati nella giungla europea del traffico di esseri umani, dello sfruttamento lavorativo, della clandestinità. I poveri speravano che l’Europa fosse un luogo dove l’umanità venisse prima della cittadinanza, prima del benessere, prima delle differenze religiose, prima di ogni altra cosa. Si sbagliavano. Il pensiero diffuso è che la loro situazione non dipenda da noi; che abbiamo già i nostri grattacapi e che in fondo i poveri siano la causa del proprio male. Al pari dei singoli paesi europei, anche i diversi settori dell’amministrazione statale scaricano sugli altri la responsabilità adducendo confusione normativa, paventando rischi di terrorismo e brandendo contro i poveri la croniche insufficienze dell’assistenza ai cittadini italiani. Proprio così: usando i poveri di casa nostra contro i poveri alla nostra porta. A cominciare dalle regioni fino ad arrivare a moltissime amministrazioni comunali la risposta è sempre la stessa: per loro non c’è posto. Le parrocchie e i cristiani bergamaschi non si stanno comportando meglio. Ci pensi la Caritas, dicono. Neppure l’invito dell’amatissimo papa Francesco riesce a scuoterli.
Noi sacerdoti non possiamo rovesciare le sorti dei poveri. Però possiamo stare dalla loro parte. Possiamo protestare e progettare azioni concrete nonviolente a favore della Verità e della Giustizia. Cominceremo a stare in una  tenda perché se migliaia di esseri umani possono essere abbandonati per anni nella nostra Europa in tendopoli improvvisate, fangose, senza servizi  (andate a Calais in Francia per vedere e credere) perchè mai noi, che siamo esseri umani come loro, dovremmo abitare in una casa? Noi pensiamo di non essere più umani dei poveri perché ci debba essere concesso qualcosa di più…sapendo oltretutto che loro hanno di meno anche per colpa nostra. Se loro non hanno diritto a una casa allora questo diritto non l’abbiamo neppure noi. Non ci sembra un grande affare perdere l’umanità comune che ci lega ai poveri per godere del privilegio della cittadinanza. Essere cittadini è un onore. Ma se deve venire prima della nostra comune umanità allora vi rinunciamo volentieri. Nella tenda sarete i benvenuti I sacerdoti delle comunità di Ambivere, Mapello e Valtrighe

image_pdfimage_print

Dio è umiltà e misericordia

Misericordia e umiltà di Dio

Dio, il potere dell’amore, presente “in ogni caos di questo mondo”

suor Ilia Delio ci parla di un Dio che “è con noi in ogni momento a braccia aperte, ridendo quando noi ridiamo, piangendo quando noi piangiamo, gioendo quando noi gioiamo”

 da: Adista Documenti n° 8 del 27/02/2016

è inutile cercare “in alto” e “fuori” ciò che invece è dentro di noi, al centro del nostro essere, nascosto nelle mani e negli occhi di ogni buon samaritano che ci ha soccorso lungo la strada. È qui, appunto, che incontriamo Dio, se intendiamo Dio non come un concetto astratto, ma come «sorgente colma d’amore», come il «potere dell’amore di trasformare la morte in vita». È quanto sostiene la teologa francescana suor Ilia Delio, direttrice del programma di Studi cattolici alla Georgetown University e autrice di libri come From Teilhard to Omega: Cocreating an Unfinished Universe e The Unbearable Wholeness of Being: God, Evolution and the Power of Love. Quello di cui parla Delio è un Dio «così assurdamente vicino, così incredibilmente vicino da costringerci a scoprire il suo volto in ogni caos di questo mondo: ingiustizia razziale, terrorismo, povertà, riscaldamento climatico». Un Dio che «è con noi in ogni momento a braccia aperte, ridendo quando noi ridiamo, piangendo quando noi piangiamo, gioendo quando noi gioiamo

Misericordia e umiltà di Dio

suora Ilia

(…). A metà novembre, mentre correvo per prendere la metro, sono inciampata nella mia valigia atterrando di faccia. A dire il vero è stato il mio mento a sostenere l’impatto. I miei piani per quel giorno hanno subìto un brusco arresto. Sono rimasta stesa a terra, pensando per un momento di essermi rotta la mascella e che non sarei mai più riuscita a parlare. Ero lì sdraiata da neanche un minuto quando ho alzato gli occhi e ho visto il volto di un giovane uomo i cui occhi scuri guardavano intensamente il mio mento ferito. “Signora, sta bene? Posso aiutarla?”. Mi ha preso per il braccio e mi ha sollevato (solo per realizzare che ero ferita anche al ginocchio). Ha avvertito subito la polizia metropolitana e poi mi ha accompagnato nella sala d’attesa della stazione.

Ciò che mi ha più profondamente colpito è stato lo sguardo di quell’uomo gentile. Ricordo di aver alzato gli occhi da terra e di aver visto il suo viso scuro incorniciato da un paio di occhiali neri. I suoi occhi dicevano tutto. Mi ha guardato e ha chiesto: “È ferita?”. Non è stato tanto ciò che ha detto ma il modo in cui lo ha detto: come se in quel momento io fossi l’unico pensiero della sua intera vita. Mi sono sentita profondamente toccata dalla sua compassione e dalla sua premura.

Mi è venuto in mente il passaggio evangelico del buon samaritano (…). Il mio buon samaritano ha aspettato con me finché non è arrivata l’ambulanza, assicurandosi che si prendessero adeguatamente cura di me. Ha saltato tutti i suoi impegni, aspettando 45 minuti prima che venissero a prendermi per mettermi i punti necessari. È vero: ho chiamato subito suor Lisa la quale è venuta immediatamente in mio soccorso ma questo giovane uomo, che non avevo mai incontrato e di cui tuttora non conosco il nome, è stato per me come un fratello. Una volta certo che sarei stata curata adeguatamente ha ripreso la sua strada.

Non so se fosse cattolico, musulmano o di nessuna confessione. Né ha importanza. Nel bel mezzo del mio incidente, nel volto di quell’uomo ho visto Gesù. (…).

DIO È AMORE

In un’omelia sulla natività del Signore, il teologo medievale Bonaventura descrive l’Incarnazione come «il Dio eterno che si inginocchia umilmente e solleva la polvere della nostra natura nell’unione con la sua persona». L’amore divino non è un concetto astratto; è profondamente personale, rivelato a noi nell’umile nascita di un bambino. (…). Non possiamo afferrare totalmente cosa sia Dio perché trattiamo Dio come un concetto, anziché come una profondamente personale «sorgente colma» d’amore, come diceva Bonaventura.

Il cristianesimo vede il mistero dell’amore divino in un modo particolare, come saggezza e Parola espresse nella persona di Gesù Cristo. L’amore divino è auto-espressione e dono di sé: la Parola diventa carne e sangue in mezzo a noi. Le parole d’ordine sono “carne” e “noi”, il Dio “sopra di noi” è “dentro di noi”: il Cielo è venuto sulla Terra.

Guardandoci intorno attraverso Google, potremmo pensare che questo Dio cristiano sia qualcosa di eccessivamente pietistico o di puramente immaginario, considerando la dose quotidiana di guerra, violenza, miseria e corruzione che i media ci dispensano. Un Dio come sorgente colma d’amore è tra noi? Dov’è questo Dio che si è fatto carne? (…). Come potremmo fare una simile affermazione con tanta facilità e sicurezza? Di più: dov’è la prova? Eppure questo è il mistero del Natale: l’amore si inginocchia così tanto da essere nascosto nel volto tuo e mio.

Ugo di San Vittore, della scuola medievale di Chartres, ha scritto che «l’amore va oltre la conoscenza»; l’amore ci porta al di là del visibile nell’esperienza invisibile e ineffabile della vita unitiva. Conosciamo di più attraverso l’amore che attraverso la conoscenza, perché l’amore è basato sulla relazione e sull’esperienza personali. Dire “Dio è amore” e “chi sta nell’amore dimora in Dio” (1Gv 4,16) significa dire che l’esperienza e l’incontro sconfiggono l’idea concettuale del divino. (…). Che cosa questa Parola divina fatta carne ci invita a vedere? Che il mistero dell’amore divino assoluto è assolutamente dato a noi; che la divinità è abbandonata nell’umano (e l’evoluzione della vita conduce all’umano). Il dono è in ciò che è dato, la fonte di Tutto, Amore incondizionato, l’Alfa e l’Omega, è al centro di te e me.

L’AMORE DIMORA ALL’INTERNO

Il filosofo tedesco Martin Heidegger parla di Essere non come argomento concettuale per Dio, ma come attività immanente in questo mondo, una presenza che si dà anziché un Dio creatore trascendente. A suo giudizio, siamo «immersi in un mondo di cose materiali finite che proviamo a controllare per i nostri scopi individuali ma che in definitiva controllano noi, perché abbiamo perso la prospettiva di trattare con queste in un modo che abbia senso».

Accettiamo senza pensare i doni del mondo che ci circonda e la maggior parte delle cose che lo costituiscono. Ci vuole un’“emergenza”, una pausa nella nostra consapevolezza quotidiana per farci rendere conto di ciò che è sempre stato lì in attesa di una nostra risposta. Che potrebbe essere (…) un risveglio della coscienza a ciò che è già presente. (…).

Raimon Panikkar ha scritto che «c’è nell’essere umano un bisogno, un’aspirazione alla conoscenza della fonte della conoscenza, e conoscendo questo tutto diviene conosciuto». Dio è il potere assoluto e la profondità di colui o colei che cerca se stesso. (…). Cerchiamo fuori da noi stessi il senso, mentre dovremmo cercare sempre più dentro di noi. Nel movimento totale del nostro essere, e diventando coscienti di esso, raggiungiamo la consapevolezza della realtà di Dio che dimora tra noi e dentro di noi.

Riflettendo (…) sul potere dell’amore divino in mezzo a noi ci si spalancano gli occhi; l’amore che muove le stelle e i pianeti è lo stesso che dà vita a te e a me. È l’amore al centro del nostro essere e che ci tiene in vita. Questo amore è potente e incondizionato e anche perfettamente libero. Dio è con noi in ogni momento a braccia aperte, ridendo quando noi ridiamo, piangendo quando noi piangiamo, gioendo quando noi gioiamo. Dio condivide nella rovina di questo mondo un’abbondanza di amore divino. È perché Dio è sorgente colma di amore che può condividere le sofferenze delle nostre vite e attraverso queste condurci a nuova vita.

FEDE, AMORE E SOFFERENZA

L’amore di Dio è il potere dell’amore di trasformare la morte in vita. Avere fede in un Dio di amore incondizionato è realizzare quanto Dio sia intimamente vicino. Così vicino che le nostre gioie e i nostri dolori, le nostre tristezze e le nostre angosce sono strettamente avvolte dall’umile abbraccio di Dio. Così vicino che addirittura ci dimentichiamo della presenza di Dio.

Ai suoi tempi, Gesù era immerso in una cultura violenta, una cultura di conflitto. Ma era anche a conoscenza della verità profonda nascosta sotto la superficie del giudizio umano, vale a dire che questo mondo in rovina trasuda Dio. Ci ha chiesto di avere fede, di credere che il Regno di Dio è tra noi e in noi.

Il gesuita Patrick Malone ha scritto: «La fede è più di una formula magica per sconfiggere la preoccupazione, la vergogna, il rammarico, il risentimento che offuscano il nostro sguardo e ci rendono scoraggiati e stanchi. Avere fede non cancella ogni traccia di egocentrismo e di dubbio. Queste cose fanno parte della condizione umana. La fede è ciò che ci conduce alla più profonda verità che siamo fatti a immagine di un amore illimitato e inimmaginabile. E, quando lo dimentichiamo, come Gesù ha ricordato alle autorità religiose del suo tempo, la religione diviene uno scudo, una stampella, un rifugio chiuso anziché un modo per lanciare coraggiosamente noi stessi in un mondo difficile, sapendo che è proprio lì che scopriamo un Dio generoso».

Diceva Bonaventura che non c’è altra strada per il cuore di Dio che quella dell’amore bruciante del Cristo crocifisso. Forse questo non ha molto senso per noi, specialmente nell’epoca di violenza che viviamo. Ma la mia amica Cynthia Bourgeault coglie l’intuizione di Bonaventura nel suo libro The Wisdom Jesus quando scrive: «Può essere che questo regno terreno, non malgrado ma proprio per i suoi spigoli, offra le condizioni affinché si esprimano alcuni aspetti dell’amore divino che non possono diventare reali in altro modo? Questo mondo mostra in effetti cosa questo amore è in un modo particolarmente intenso. Ma quando guardiamo a questo processo in maniera più approfondita, possiamo vedere che questi spigoli di cui facciamo esperienza come di una costrizione evocano allo stesso tempo le più squisite dimensioni dell’amore, le quali richiedono una condizione di finitezza allo scopo di dare un senso, qualità come fermezza, tenerezza, impegno, tolleranza, fedeltà e perdono. Chiarisco. Non sto dicendo che la sofferenza esiste affinché Dio si riveli. Sto solo dicendo che laddove la sofferenza esiste ed è accettata con consapevolezza, lì l’amore divino risplende in tutta la sua luce».

Una volta Dorothee Sölle ha detto che chi non ama non può soffrire (…). Trovare nella sofferenza umana la liberazione dell’amore e amare accettando la sofferenza umana è il percorso dell’amore salvifico, in cui la sofferenza è vinta dalla sofferenza, le ferite guarite dalle ferite. Soffriamo le pene della sofferenza quando viviamo la mancanza d’amore, il dolore dell’abbandono e l’isolamento dell’incredulità. La sofferenza del dolore e dell’abbandono è vinta dalla sofferenza dell’amore che non ha paura di ciò che è malato e brutto ma lo accoglie e lo guarisce. Non è questa la via della misericordia e della compassione? Chiunque entri nell’amore e attraverso l’amore sperimenti l’inestricabile sofferenza della fragile umanità, entra nella storia umana di Dio.

Ecco perché è così difficile spiegare in modo logico una religione che presenta un Dio così assurdamente vicino, così incredibilmente vicino da costringerci a scoprire il suo volto in ogni caos di questo mondo: ingiustizia razziale, terrorismo, povertà, riscaldamento climatico. Troppo spesso vogliamo un Dio che ascolti il nostro grido e sistemi le cose per noi, forte abbastanza da spazzare via le nostre esperienze dolorose. (…). Non è che Dio sia sordo al grido del povero. Piuttosto, Dio è povero. Non è che Dio non veda le nostre lacrime. Piuttosto, anche Dio piange. (…).

Dio non ha altro luogo in cui dimorare che in noi, il che significa che la salvezza richiede la nostra partecipazione. La giovane ebrea olandese Etty Hillesum giunse a questa consapevolezza in una cella di prigione, dove scrisse: «Siamo responsabili di tutte le catastrofi. Perché c’è questa guerra? Forse perché ogni tanto ho l’inclinazione a trattare in malo modo il prossimo. Perché io e il mio vicino e noi tutti non abbiamo abbastanza amore nel profondo… Eppure possiamo sconfiggere la guerra, ogni giorno, ogni istante, sprigionando l’amore che abbiamo dentro». Etty ha aperto il suo cuore alla divinità e, nel mezzo della Shoah, ha trovato Dio che abitava nell’umanità.

COMPASSIONE: LE BRACCIA DELLA MISERICORDIA

Questo “piegarsi” di Dio, questa “folle vicinanza” di Dio, ci dice che Dio vive nel cuore degli esseri umani. La compassione di Dio ha bisogno di mani, occhi e tocco umani. (…). Abbiamo l’enorme potere di guarire questo mondo ferito attraverso l’amore misericordioso, accogliendo lo straniero e accettando la sofferenza dell’altro come nostra.

Ecco perché l’Anno della Misericordia di papa Francesco può essere un anno assiale di cambiamento verso un mondo di pace e giustizia, se lasciamo cadere le nostre gabbie intellettuali, decostruiamo le nostre vite guidate dal consumo e apriamo i nostri cuori al divino girovagando come un mendicante in mezzo a un’umanità sofferente. Il teologo ortodosso Vladimir Lossky ha detto che Dio è come un mendicante di amore che bussa alla porta della nostra anima; ognuno di noi deve scegliere se aprire o meno. Recentemente ho incontrato un giovane uomo che deve aver lasciato entrare Dio, consapevolmente o meno. Mi ha guardato con occhi di amore e sono sicura che, in quel momento, ho visto il volto di Dio

image_pdfimage_print

il ‘Dio’ dei nostri ragazzi è un ‘Dio a modo mio’

il Dio «a modo mio» dei Millennials

di Paolo Foschini
in “Corriere della Sera” del 15 febbraio 2016

giovani

«Ci credo perché spero che ci sia»

«E che alla fine metterà tutto a posto

«Ci credo perché Dio è la risposta»

«Io ci credevo, poi non ci ho più creduto, ma ora forse ci credo di nuovo»

naturalmente non è facile, se vuoi farlo sul serio, riassumere la ricerca di un senso della vita in una ricerca sociologica. Figurarsi in un sondaggio. Eppure eccoli, i credenti under 30. Quelli per i quali il «cristianesimo» è più un volersi bene che una religione, ma proprio per questo piace. Gli stessi per cui il «cattolicesimo» invece è un’istituzione e stop, pure un po’ noiosa, mentre «cattolico» è sinonimo di chi non salta una messa e buonanotte: alla larga, dicono. Ma poi dicono anche un’altra cosa. E cioè che però, nonostante tutto, anche loro, come miliardi di esseri umani da sempre, alla fine «ci credono». In Dio, in una speranza, in qualcosa. Fosse anche solo (solo?) un «Dio a modo mio». Appunto

 

È questo il titolo del volume che a cura di Rita Bighi e Paola Bignardi raccoglie i risultati di un’indagine promossa dall’Istituto Toniolo, quello che fondò e tuttora governa l’Università Cattolica, su Giovani e fede in Italia : che poi è anche il sottotitolo del lavoro. La pubblicazione (editrice Vita e pensiero) viene presentata oggi a Milano e costituisce un approfondimento del più vasto «Rapporto giovani» sostenuto da Fondazione Cariplo e Intesa Sanpaolo, partito nel 2013 con novemila interviste sulle aspettative dei 18-30enni e via via proseguito con altre analisi su cose tipo il lavoro, le istituzioni, la felicità.

Questa volta l’indagine è basata su colloqui anche piuttosto lunghi. Con 23 intervistatori per 150 intervistati, tutti battezzati, presi tanto in paesini minuscoli quanto in grandi città da un capo all’altro d’Italia e divisi in due categorie di età, 19-21 e 27-29 anni. Ne è venuto fuori un ritratto fatto di storie più che di numeri, ma con alcune costanti. L’avvicinamento alla religione per tradizione familiare, il catechismo vissuto soprattutto come un elenco di comandamenti, la prima comunione fatta perché si doveva e poi la fuga dopo la cresima («non ne potevo più»), a dispetto del «bel ricordo» dell’oratorio. Finché più avanti, sui 25 anni, a volte ritornano. Magari perché capita un fatto doloroso, o l’incontro con un prete giusto. Così come un prete sbagliato poteva averli fatti allontanare. Quel che è cambiato, rispetto agli anni del catechismo, è che oggi Dio per loro è un’altra cosa: «Credo nel mio Dio ma non nel loro », dicono. Anche quando a messa ci vanno. Perché vivono la faccenda non come religione ma come sistema di valori. Un’etica. Fatta di «amore, rispetto, eguaglianza». Altra cosa dalla istituzione «Chiesa», che associano a «clero corrotto», «esteriorità», «regole». Per questo, al contrario, son praticamente zero quelli a cui non piace papa Francesco. E se potrebbe apparire facile liquidare come «comoda» l’idea di questo che una definizione ormai non recente qualifica come un Dio-fai-da-te, la ricerca sottolinea invece l’importanza che sia proprio la Chiesa, oggi, a dover rinnovare il suo linguaggio: che «non passa per un più abile uso dei media — scrivono le curatrici — ma per una maggiore coerenza tra dire e fare». Forse la cosa più bella — quella che se bastasse dirla per crederci convertirebbe il mondo intero — è la risposta di uno degli intervistati alla domanda su cosa ci trova nel credere in Dio: «Ci trovo che Lui ti fa sentire amato, speciale, nonostante magari tu non sia il meglio o creda di non esserlo. Ci trovo che Lui non fa cose nuove, diciamo, ma fa nuove tutte le cose». Sarà anche Dio a modo mio, ma qualche teologo ha qualcosa da dire su un Tizio del genere?

Alcune testimonianze raccolte da Elena Tebano

La studentessa

«Vado a messa ma sono critica verso la Chiesa» «Sono credente, cattolica praticante e in ricerca». Francesca Minonne, 26 anni,
di Lecce, studentessa di lettere a Milano, si definisce così: «Vado a messa la domenica, mi riconosco nei valori cristiani (come l’analisi di coscienza, la ricerca personale, la famiglia, l’apertura al prossimo) — spiega —. Però vedo criticamente la Chiesa come istituzione». Per Francesca, come per molti della sua generazione, i «Millenials», la spiritualità è un bisogno profondo che però scarta di lato di fronte alla sua organizzazione terrena: «La difficoltà è soprattutto calare i dogmi nel mondo che ci circonda — dice —. Continuo a cercare risposte e questo mi ha fatto capire che la fede per me è importante, ma se non fosse stato per le suore del mio vecchio oratorio e un parroco a casa, forse me ne sarei allontanata».

Il dirigente

«Ogni giorno trovo lo spazio per pregare» Alberto Ratti, 28 anni, di Milano, ha scelto di lavorare come amministratore di un’isti-tuzione cristiana, l’Università Cattolica. «Per me è importante vivere la fede quotidianamente — spiega —. Ogni giorno mi ritaglio uno spazio di preghiera». Il suo rapporto con la religione è diventato più profondo alle superiori ed è un cammino intellettuale oltre che spirituale: «Le mie figure di riferimento più importanti sono Giuseppe Lazzati, che ha insistito sul ruolo del laicato nel cattolicesimo, e poi il Cardinal Martini. Mi riconosco nella Chiesa come “ospedale da campo” di Papa Francesco». Che non significa rinunciare alle domande: «Cerco di seguire il magistero, ma mi interrogo su molti temi. Come le unioni civili: mi sembra una richiesta condivisibile su cui noi cattolici dovremmo riflettere».

La scout

«Lo incontro nella natura e nel volontariato» «Quando partecipo ai sacramenti ci credo fermamente, ma non mi riconosco nella Chiesa: è troppo rigida, limitante, ristrettiva. Per me il rapporto con Dio è più individuale». Carola Costanza, 20 anni, di Licata, in Sicilia, è scout, e prima dell’Agesci ha girato varie associazioni cattoliche. Le ha lasciate perché «spesso la mediazione dei sacerdoti è eccessiva — spiega —. Il mio momento di svolta: avevo 16 anni e in un viaggio con il gruppo fummo rimproverati perché in autobus cantavamo Albachiara». Ha a che vedere come vive la religione: «Non credo che debba esserci solo negazione e senso di colpa. Fede speranza e carità per me sono valori fondamentali. Ma sento Dio soprattutto quando sono nella natura o faccio servizio agli altri». (Testi a cura di Elena Tebano)

image_pdfimage_print

papa Francesco invoca la sospensione della pena di morte

sospendere pena di morte durante Giubileo

papa8

Il Giubileo straordinario della Misericordia è un’occasione propizia per promuovere nel mondo forme sempre più mature di rispetto della vita e della dignità di ogni persona. Anche il criminale mantiene l’inviolabile diritto alla vita, dono di Dio. Faccio appello alla coscienza dei governanti, affinché si giunga ad un consenso internazionale per l’abolizione della pena di morte. E propongo a quanti tra loro sono cattolici di compiere un gesto coraggioso ed esemplare: che nessuna condanna venga eseguita in questo Anno Santo della Misericordia.

Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono chiamati oggi ad operare non solo per l’abolizione della pena di morte, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà.

Angelus piazza San Pietro, 21/2/2016.

image_pdfimage_print

il compito del teologo secondo V. Mancuso

la missione del teologo

ridare a Dio la giusta immagine

Vito Mancuso è il teologo italiano di maggior successo editoriale da oltre dieci anni. Presenta una scrittura limpida e inquieta, chiara e documentata in modo rigoroso e pungente

Vito Mancuso è il teologo italiano di maggior successo editoriale da oltre dieci anni. Presenta una scrittura limpida e inquieta, chiara e documentata in modo rigoroso e pungente.

Utilizza una vasta e aggiornata cultura anche nel campo delle scienze della natura che, accanto alla lezione dei grandi filosofi, stanno alla base della sua scelta teologica ed esistenziale.

La sua dissidenza ha ricevuto una spinta iniziale e continuamente ricorrente a contatto con il dolore innocente, in particolare dei bambini colpiti da una malattia genetica. Verso di loro, così come verso gli altri umani, il Dio della dottrina cattolica non mostra nella realtà alcuna attenzione personale. Non se ne cura affatto. La Provvidenza divina non funziona né per gli individui, né per la storia.

Il teologo brianzolo, ma di origini siciliane, ha avvertito quindi il bisogno e l’impegno di rifondare la fede facendo seguire, con regolare ritmo biennale, importanti saggi di ricerca: nel 2007 “L’anima e il suo destino”; nel 2009 “Disputa su Dio e dintorni”, con Corrado Augias; nel 2011 “Io e Dio”; nel 2013 “Il principio passione”; a novembre del 2015 “Dio e il suo destino”. Ho letto tutte le opere di Mancuso, ne ho rilevate le progressioni, persino le molte ripetizioni, accanto tuttavia ad ardite e originali rielaborazioni e sistematizzazioni.

Ciò si avverte soprattutto nei tre ultimi e ponderosi volumi, di circa 500 pagine ciascuno. Ricordo che “Io e Dio” fu stampato alla vigilia del Festivaletteratura. Mancuso venne a presentarlo nel gremitissimo cortile del Palazzo San Sebastiano. Per il commento apparso sulla Gazzetta di Mantova, Vito mi inviò un fin troppo generoso messaggio di posta elettronica:

“Caro Egidio, ho letto con molto interesse la tua recensione. Un caro saluto e complimenti!”. Mentre la suddetta opera costituisce, tecnicamente, un lavoro di teologia fondamentale che tratta delle condizioni del discorso su Dio, quella più recente appartiene alla teologia sistematica riguardante la dottrina su Dio. Nell’intervallo si colloca “Il principio passione”, pure di teologia sistematica, ma intorno all’Universo e al rapporto tra Dio e il mondo, tra logos e il caos, in una dinamica drammatica che produce, in chi la vive, pathos-passione. Infine, nel recente “Dio e il suo destino” Mancuso ha puntato a un’impresa ambiziosa e temeraria: liberare Dio, nel quale lui (come me) continua a credere, dalla fallimentare immagine denominata Deus, così come viene identificata in molte pagine della Bibbia, del Nuovo Testamento e della dottrina della Chiesa cattolica, sostanzialmente simile a quella delle Chiese protestanti e ortodosse. Vi regna l’ambiguità: accanto ad aspetti positivi di Dio (spirito, luce, amore), si trovano raffigurazioni costruite con sconvolgenti tratti umani e terrificanti: violenza, ira, arbitrio (come nel Corano), vendetta. Il punto estremo si raggiunge con la tremenda punizione del peccato originale, inflitto a tutta la massa umana dannata e per la riparazione del quale Deus pretese il sacrificio del Figlio, la vittima immolata, l’agnello predestinato “che doveva morire affinché con il suo sangue egli potesse placare la propria ira e perdonare”.

È significativo che il libro sia dedicato a chi ha perso Dio a causa di Deus e alla memoria di don Andrea Gallo che credeva in un Dio antifascista.

Cogliendo il senso liberatorio della metafora, Mancuso ha inteso smascherare le tesi che hanno ridotto Dio a un imbarazzante “grande dittatore”.

Non onnipotente né buono nei confronti dei mali del mondo e degli umani, presenta il volto del padrone assoluto, disegnato dal potere religioso e funzionale ai poteri terreni.

Sembra quindi venuto il tempo, preceduto e preparato da grandi spiriti dell’umanità di varie religioni e filosofie, per “iniziare a dire Dio in modo finalmente libero”. Perché, ha concluso Mancuso, “Dio è amore, anzi l’amore è Dio”.

Da notare la finezza dell’inversione, che sembra condurre ai limiti del panteismo: “Dio in tutte le cose, tutte le cose in Dio”. E però fatte salve le reciproche autonomie e dando così luogo alla coesistenza di unità e dualità tra Dio e mondo, con evidente contraddizione.

Ma tutto, nella realtà e nella vita, è contraddizione.

 
image_pdfimage_print
image_pdfimage_print