la libertà profetica del vescovo Casaldaliga

Pedro Casaldáliga, profeta del nostro tempo

Pedro  Casaldáliga, profeta del nostro tempo

 
Tratto da: Adista Documenti n° 8 del 27/02/2016

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1. PEDRO E LA SUA OPZIONE PER I POVERI

Qual è il segreto, la forza – se c’è – della permanente opzione di Pedro per i più deboli? Ho sempre pensato che per essere liberi e innovatori nelle cose grandi bisogna esserlo in quelle piccole. Con la sua consacrazione episcopale, Pedro espresse la sua libertà e creatività. Non gli bastava seguire diligentemente un rituale: cercò di tradurre in esso i suoi più profondi sentimenti e le sue più profonde convinzioni, lasciando da parte la forma stereotipata di quel rito che non poteva esprimere quello che portava dentro, il suo modo di essere e di sentirsi vescovo. Un punto assai significativo, perché se non si è liberi per cambiare una cerimonia, come si può esserlo in cose più importanti?

Pedro racconta che una volta, navigando per il Rio das Mortes, dovette assistere un moribondo. La comunità gli chiese di celebrare una messa. Non c’era né pane né vino. Non aveva nulla con sé per dire messa: «Ero più preoccupato di assistere l’uomo. Lì c’era una piccola taverna. Presi alcuni cracker e celebrai la messa. Mi sembrò una buona messa. Il popolo la voleva e io ero sacerdote: la Pasqua di Cristo può benissimo essere celebrata con il vino delle vigne d’Italia o di quelle della Catalogna, ma, in assenza di vino, perché non si poteva celebrare con l’alcol della canna da zucchero?».

Un’altra volta scomunicò due proprietà perché avevano pistoleiros che uccidevano i braccianti, tagliavano loro le orecchie e le portavano nella tenuta per dimostrare la loro morte: «Dopo il funerale di uno di questi braccianti assassinati, presi un pugno di terra dalla sua tomba, la posai sull’altare e scomunicai queste proprietà. Ma fu un atto contro le proprietà, non contro le persone».

A un certo punto, di fronte alla reiterata oppressione di tanti latifondisti, molti dei quali “profondamente cristiani”, decise di evitare ogni ambiguità: niente eucarestia nelle loro cappelle, nessun gesto di saluto. «Il Vangelo è per i ricchi, ma contro la loro ricchezza, i loro privilegi, la loro possibilità di sfruttare, dominare ed escludere. Se ogni settimana vado a casa di un ricco e non succede niente, non dico niente, non scuoto quella casa, non scuoto quella coscienza, vuol dire che già mi sono venduto e che ho negato la mia opzione per i poveri».

Forse l’itinerario che porta Pietro a porre nei poveri il centro della sua vita può sembrare complicato, ma non lo è. La questione è verificare in quale prossimo – immagine di Dio – il grado di offesa è maggiore e compiere una conseguente azione di riparazione. Alla restaurazione di questa dignità oppressa egli dedica tutta la sua vita, la sua opzione determinante: l’opzione per i poveri.

Giunto in Brasile nel ’68, già nel ’70 Pedro firmò il suo primo rapporto-denuncia, che raccoglieva, in una tragica litania, i casi in carne e ossa di braccianti ingannati, minacciati con le pistole, percossi, feriti o assassinati, assediati nella foresta, lasciati dalla legge nel più completo abbandono, senza nessun diritto, senza umana via di uscita.

Casaldaliga

Casaldaliga

Persino il nunzio gli chiese di non pubblicarlo all’estero e uno dei più grandi latifondisti lo avvertì che non doveva immischiarsi in tali questioni. Ma era il momento di mettere in pratica la sua opzione: «Non potevamo celebrare l’eucarestia all’ombra dei padroni, non potevamo accettare segni esteriori della loro amicizia. Era l’ora della scelta, che violentava il mio stesso temperamento, la mia voglia naturale di stare bene con tutti, la vecchia norma pastorale di non spegnere lo stoppino che ancora fuma… Mi si è sempre spezzato il cuore a vedere la povertà da vicino. Mi sono trovato bene con gli esclusi, forse perché ho sempre avuto una certa affinità con i margini, con i marginali. Forse per una sorta di spirito compassionevole o per una specie di vena poetica. Forse per una questione di sensibilità, perché sono incapace di assistere a una sofferenza senza reagire. D’altra parte, io non mi sono mai dimenticato di essere nato in una famiglia povera. Mi sento male in un ambiente borghese. Mi sono sempre chiesto perché, se posso vivere con tre camicie, ne devo aver dieci nell’armadio. I poveri della mia Prelatura vivono con due, quella che indossano e quella di ricambio. Sono doppiamente convinto che non si può avere una sensibilità rivoluzionaria e profetica ed essere liberi senza essere poveri. La libertà è profondamente unita alla povertà. Non si è veramente liberi con molta ricchezza. Essendo povero, mi sento più libero da tutto e per tutto. Il mio slogan è stato: essere libero per essere povero ed essere povero per poter essere libero. L’ho espresso chiaramente nei miei versi sulla “Povertà evangelica”: Non avere nulla. / Non portare nulla. / Non potere nulla. /Non chiedere nulla. / E, di passaggio, / non uccidere nulla; / non tacere nulla. / Soltanto il Vangelo, come un coltello affilato. / E il pianto e il riso negli occhi. / E la mano tesa e stretta. / E la vita donata. / E questo sole e questi fiumi e questa terra acquistata, / per testimoni di una Rivoluzione già esplosa. / E “nient’altro”!».

2. COSA RESTA DELLA TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE?

«Mi spaventa – continuava Pedro – sentire e vedere tanti settori della Chiesa, teologi compresi, cadere nella tentazione di passare ad altri paradigmi, perché ormai stanchi di parlare e di sentir parlare di opzione per i poveri, di giustizia e di liberazione e perché questo mondo (qui San Paolo diventerebbe furioso) chiede ora che tutto sia light, anche la teologia, una spiritualità più connivente, una specie di fede del benessere… A Giovanni Paolo II parlai con molto affetto, ma con molta libertà, esercitando il diritto della mia corresponsabilità ecclesiale e della mia collegialità apostolica. Gli dissi: in campo sociale non possiamo dire realmente di aver fatto un’opzione per i poveri. In primo luogo, perché non condividiamo nelle nostre vite e nelle nostre istituzioni la povertà reale da loro sperimentata. E, in secondo luogo, perché non agiamo, di fronte alla “ricchezza dell’iniquità”, con quella libertà e quella fermezza adottate dal Signore. L’opzione per i poveri, che non escluderà mai le persone dei ricchi – giacché la salvezza è offerta a tutti e a tutti è rivolto il ministero della Chiesa – esclude, questo sì, il modo di vita dei ricchi, “insulto alla miseria dei poveri”, e il loro sistema di accumulazione e di privilegio, che necessariamente espropria ed emargina l’immensa maggioranza della famiglia umana, popoli e continenti interi».

Vi sono stati molti che opportunisticamente hanno quasi celebrato la “fine” della Teologia della Liberazione, vuoi per non averla digerita, vuoi per considerarla una moda passeggera e legata al socialismo, vuoi per ridurla a una teologia senza fondamento e senza proiezione universale.

«Sono stanco di sentire la domanda “cosa resta della Teologia della Liberazione?”. Me l’hanno chiesto in lungo e in largo compagni, vescovi, giornalisti. Io (…) ho risposto: restano Dio e gli esseri umani; finché esisteranno il Dio di Gesù, il Dio di Davide e i poveri di Dio e finché esisterà qualcuno che pensi alla luce di questo Dio e si coscientizzi dinanzi a Gesù, ci sarà Teologia della Liberazione. La Teologia della Liberazione non è stata inventata in America Latina, viene da molto più lontano. Già Isaia ci parlò della liberazione. La Teologia della Liberazione è venuta più dai piedi del popolo in cammino che dalle teste pensanti dei teologi. Più dal sangue versato dai nostri martiri, più dalle lacrime versate dai nostri popoli, più dai clamori che Dio ascolta sempre. È nata in America Latina perché lì il teologo ha incontrato un clima di oppressione e anche di liberazione. Se il Vangelo è liberare, la Teologia della Liberazione è prassi liberatrice, e per essere prassi liberatrice deve essere strutturale e, in quanto strutturale, deve essere politica. Sarebbe orribile lasciare la politica alla mercé dei teologi del neoliberismo. (…). Analizzare la tragica situazione dei due terzi dell’umanità, definirla totalmente contraria alla volontà di Dio e assumere impegni pratici per trasformare tale situazione sono passi obbligati della Teologia della Liberazione. È ai nemici del popolo che non piace questa teologia. Gradirebbero molto che i cristiani pensassero solo al Cielo… disprezzando la Terra! Mentre noi vogliamo ottenere il Cielo, conquistando la Terra. Figli liberi di Dio Padre e veri fratelli».

3. PEDRO, UNO SCONCERTANTE MISTICO CONTRO L’INIQUITÀ DEL SISTEMA CAPITALISTA

Pedro è uno dei grandi mistici moderni che unisce contemplazione e impegno. Esiliato dal mondo della civiltà capitalista, rinchiuso nel sertão, lontano migliaia di chilometri, senza mai far ritorno in Spagna, spezzati i legami con quel mondo senza il quale noi non sappiamo vivere, quest’uomo alimenta una profonda vita interiore di poeta e contemplativo insieme a una militanza radicale.

La testimonianza di Pedro ci parla di come non sia possibile lasciarsi anestetizzare nel silenzio della solitudine e incasellare in una spiritualità alienante, ai margini dei problemi e delle speranze degli esseri umani. Ci troviamo, senza dubbio, dinanzi a un cristiano singolare, di straordinaria esemplarità, che ha dissolto la dicotomia stabilita tra Regno di Dio e storia del mondo e salvezza personale.

Casaldáliga torna ripetutamente sul tema, lo stigmatizza con una forza che rare volte si è registrata nel linguaggio ecclesiastico. La realtà stabilita è quello che è: o è a servizio dell’essere umano o è contro di lui. Forse è qui la chiave che dovrebbe rivoluzionare tutto, perché non si può essere contemporaneamente cristiani e flirtare con la malìa di falsi dèi. Di certo, Pedro non è neutrale e offre con sacra ira la sua denuncia profetica.

4. CON LA VERITÀ DEL VANGELO E LA FIDUCIA DEL POPOLO

Il fatto che Pedro indichi il capitalismo come tema prioritario, additando gli idoli della nostra società, presenta una triplice novità: che lo faccia un vescovo, che lo faccia con un’analisi corretta e che lo faccia con un soffio profetico. Generalmente, i nostri esponenti gerarchici si sono trovati a loro agio con il potere. Ed è molto raro trovare vescovi che abbiano sfidato il potere. Pedro non si accontenta di emettere dichiarazioni vaghe. Il capitalismo assume volto e carne in luoghi concreti. La Prelatura di São Félix do Araguaia, ubicata in una delle regioni più povere del Brasile, è uno di questi. Pedro, un mistico dagli occhi aperti, da questa realtà si sente investito di colpo, ferito senza pietà e allora è lui a prendere l’iniziativa, con la sua presenza, il suo esempio, la sua profezia, lanciata al mondo con molteplici linguaggi e accenti.

È stato nella sua consacrazione episcopale che Pedro ha lasciato ben delineato il programma della sua azione pastorale: «La tua mitra sarà un cappello di paglia sertanejo; il sole e la luna; la pioggia e il sereno; lo sguardo dei poveri con cui camminare e lo sguardo glorioso del Signore. Il tuo baculo sarà la Verità del Vangelo e la fiducia riposta in te dal tuo popolo. Il tuo anello sarà la fedeltà alla Nuova Alleanza del Dio liberatore e la fedeltà al popolo di questa terra. Il tuo scudo la forza della speranza e la libertà dei figli di Dio. I tuoi guanti il servizio dell’amore».

– «La notte seguita alla firma del mio primo rapporto-denuncia uscii a vedere la luna grande e a respirare l’aria più fresca e mi offrii al Signore. Sentii allora che con quel documento potevo aver firmato anche la mia condanna a morte: in ogni caso avevo lanciato una sfida».

– «Smettevamo di essere amici dei grandi, e li sfidavamo. Nessuno sfruttatore o nessuno che traesse vantaggio dallo sfruttamento poteva, per esempio, diventare padrino di battesimo. Non accettavamo più passaggi sulle loro automobili, sfuggivamo alla loro compagnia, ai loro sorrisi: persino ai saluti, nei casi più eclatanti». (…)

– «Se “la prima missione del vescovo è quella di essere profeta” e “il profeta è colui che dice la verità dinanzi a tutto un popolo”; se essere vescovo significa essere la voce di coloro che non hanno voce, io non potrei, onestamente, rimanere in silenzio ricevendo la pienezza del servizio sacerdotale».

– «Io mi ribello contro i tre comandamenti del neocapitalismo, che sono: votare, tacere e vedere la televisione».

Non c’è cosa che spaventi di più gli spiritualisti e che provochi più sospetti in molti cristiani del tema della politica. È quasi un tabù, un tema demonizzato a prescindere, come qualcosa di incompatibile con la fede. Tuttavia, poche verità sono così chiare nel Vangelo come quella relativa al fatto che Gesù è stato giustiziato dal potere politico e religioso: la sinagoga e l’impero. E che lo è stato in virtù della sua intollerabile parzialità: «Non si può servire Dio e il denaro» e «Guai a voi, guide cieche».

La realtà della società è composta da una immensa piramide di disuguaglianza, in cui alcuni sono sopra e altri sotto, alcuni sono più e altri meno, alcuni vivono nell’abbondanza e altri nella miseria, alcuni opprimono e altri sono oppressi. E questa disuguaglianza non si può occultare né, tanto meno, benedire o legittimare con ragioni divine. Sarebbe un sacrilegio voler attribuire questa composizione piramidale a Dio, il giusto per eccellenza: «Tutti voi siete fratelli». Il Dio dei signori non è uguale al Dio dei poveri.

5. L’IMPOSSIBILE NEUTRALITÀ POLITICA

Nel nostro tempo, tra i molti martiri che attraversano la vita della Chiesa, non ce n’è uno solo che non lo sia stato a causa della sua posizione di denuncia nei confronti del potere politico o religioso (vi sono martiri oggetto di repressione fisica e altri oggetto di repressione non fisica). Opportuno come sempre, Casaldáliga scrive: «Contro ogni filosofia funzionalista, noi crediamo che né la scienza né la tecnica possano esibire, in nessuna circostanza, la bandiera bianca di una presunta neutralità. Ogni atto tecnico, ogni gesto scientifico gronda ideologia. O si serve il sistema o si serve il popolo. Tracciare il percorso di una strada sulla carta, programmare un censimento, classificare un farmaco è politica. Ogni tecnico, ogni scienziato è sempre un politico, anche qualora si rifiuti di esserlo: o reazionario, o riformista o trasformatore». E ancora: «Sono sempre stato di sinistra. Anche da bambino ero mancino, ma a quei tempi era proibito, non ci lasciavano scrivere con la sinistra. Cosicché persino biologicamente sono di sinistra». «Sono passato a optare per il socialismo. Per il contatto con la dialettica della vita, per le esigenze del Vangelo e anche per alcune ragioni del marxismo. Quale socialismo, non lo so con certezza, come non so con certezza che Chiesa sarà domani quella che oggi intendiamo costruire, per quanto sappia che la vogliamo sempre più cristiana». «Se non c’è utopia, non c’è vita. Come dice un poeta spagnolo: “poesia necessaria come il pane quotidiano”. E io dico: utopia necessaria come il pane quotidiano. Utopia che poi si realizza nella misura del possibile: non passeremo tutta la vita solo a sognare. (…)».

6. IL NEOLIBERISMO: UN NUOVO IDOLO GLOBALIZZATO

Oggi la realtà dei popoli è globale, mondialmente interconnessa, ma si è globalizzata sotto il dettato e le leggi del neoliberismo. Avere l’audacia di volgersi verso questo mondo per descriverne il funzionamento e, soprattutto, denunciare i propositi di accumulazione e di predominio è un’impresa estremamente ardua che qualifica chi la tenta come un illuso o come un povero idiota.

Pedro Casaldáliga, vescovo per di più, non esita dinanzi a questa impresa, presentandosi di fronte ad essa con un buon bagaglio di razionalità, dignità umana, fermezza etica, libertà evangelica e, soprattutto, esperienza inappellabile, quella di coloro che testimoniano la disumanità del rullo compressore neoliberista.

– No alla proprietà privata predatrice. «L’America Latina è molto più povera oggi che negli anni ’60. Tuttavia, in America Latina c’è molta più ricchezza, e molta più tecnica, che negli anni ’60. Dio ci liberi dal neoliberismo. Non si può servire due padroni. Con il capitale, alla fine, si prostituisce Dio. Una volta ebbi l’occasione di intervenire in un processo pubblico all’Assemblea Nazionale in cui si trattava della problematica della terra. E allora alcuni dei senatori e dei deputati più conservatori, diversi dei quali cattolici praticanti, mi dissero: “Monsignore, lei è contro la proprietà privata”. Risposi loro: “No, se uno ha una camicia e tutti possono avere una camicia, io sono a favore della proprietà privata di ogni camicia. Ora, se uno ha 50 camicie e le altre persone non hanno alcuna camicia, allora la proprietà privata è predatrice». (…).

– Il neoliberismo distrugge la vita delle maggioranze. «Io dico sempre che il neoliberismo, oltre a essere omicida perché distrugge la vita delle maggioranze, le priva di condizioni di vita umana. Oltre a essere omicida, è suicida, perché non è possibile che il futuro dell’umanità sia questo. Noi che crediamo nel Dio della vita e crediamo che l’umanità sia figlia di Dio, e che abbia genetica divina, non possiamo permettere che la distruzione sia il destino dell’umanità. È il Regno il destino dell’umanità. Il neoliberismo, oltre a essere omicida e suicida, è ecocida: il lucro per il lucro, la tecnica per la tecnica, lo sfruttamento più rapido possibile delle risorse per accumulare, per accumulare interessi, capitale, che è ora capitale virtuale, invisibile, ecocida».

– È peccato mortale riscuotere e pagare il debito estero. «C’è un nesso tra debito estero e debiti sociali. Se si paga il debito estero, non si possono pagare i debiti sociali. Se si pagano i debiti sociali, non si paga il debito estero. Credo che il debito estero non si debba pagare. È un peccato mortale riscuoterlo e un peccato mortale pagarlo. (…). Inoltre, di chi è il debito? Chi deve a chi? Che ci restituiscano l’oro, l’argento, che ci restituiscano la vita degli indigeni, degli schiavi neri, che ci restituiscano la vita di tanti bambini e bambine, tanta mortalità infantile, tanta salute, tanta educazione negata, che ci restituiscano la foresta. Non è utopia, non è storia, è realtà. Non è opera nostra, l’hanno fatta, con il molto su cui hanno messo le mani, i lacchè degli imperi che si sono succeduti».

– Neocolonialismo etnocentrista. «Sui popoli indigeni pende la sentenza di morte più immediata, la morte più logica a partire dal sistema. Intralciano. Le loro terre sono oggetto dell’avidità dei grandi. (…). È per me come un dogma di fede: o l’indio si salva a livello continentale, o non si salva. È uno solo il sistema che ci tiene sottomessi tutti. Il bianco ha sempre parlato molto di Dio, ma non ha rispettato la volontà del Dio vero, quel Dio che è padre di tutte le persone e il Signore unico di tutti i popoli, il Dio della vita e il Dio della morte. Gesù Cristo non è venuto al mondo perché gli indios smettessero di essere tali. Non è un colonizzatore bianco. È il liberatore. L’indio cristiano che pensa di smettere di essere indio non può essere un buon cristiano (…): “colonizzare” e “civilizzare” hanno cessato di essere per me verbi umani. Come non lo sono, dove vivo e soffro, le nuove formule colonizzatrici del “pacificare” e “integrare” gli indios. Imperialismo, colonialismo e capitalismo meritano, nel mio “credo”, lo stesso anatema».

– Un modo neoliberista di assassinare. «C’è un altro modo, più moderno, pienamente neoliberista, di assassinare o di far scomparire. Per esclusione programmata, per fame mortale. Da 30 a 40 milioni di esseri umani muoiono ogni anno a causa della denutrizione. (…). Non si può introdurre una politica di emancipazione se non si tengono presenti le cause e i nomi (le une e gli altri intrecciati nel sostegno delle strutture) generatori di disuguaglianza, ingiustizia e impoverimento di persone, settori e popoli. Allo stesso modo, non c’è annuncio della Buona Novella se questa non passa per la mediazione (atto primo di ogni teologia) delle scienze che scoprono le dimensioni e i meccanismi delle situazioni che albergano questa o quella forma di oppressione o di discriminazione. Da cosa ci si libera se non si ha coscienza del fatto che esiste oppressione e delle cause che la generano? Solo un’ignoranza ingenua o consentita, accompagnata da una complicità più interessata che passiva, può spiegare tanta evangelizzazione di oggi, insulsa e sterile».

– Il liberismo è, per essenza, peccato. «L’imperialismo è peccato, (…) perché è negazione dei popoli. Così come ogni persona è un’immagine individuale di Dio, allo stesso modo ogni popolo e ogni cultura sono un’immagine collettiva di Dio. Come persone, come popoli, come Chiesa abbiamo il dovere, non solo il diritto, di difendere le culture, l’alterità culturale, l’identità culturale».

– La grande blasfemia dei nostri giorni, la macroidolatria del mercato totale. «La blasfemia dei nostri giorni, l’eresia suprema, che finisce per essere sempre idolatria, è la macroidolatria del mercato totale. (…). Ed è, può essere, l’omissione della Chiesa, l’insensibilità delle religioni di fronte alla macroingiustizia istituzionalizzata oggi nel neoliberismo, che per essenza è peccato, peccato mortale, omicida e suicida. Per sua stessa essenza, dico, il neoliberismo esclude l’immensa maggioranza dell’umanità. Questo è il peccato del mondo, e può essere il peccato della Chiesa».

– L’antidio è il denaro. «Il capitalismo colonialista crea necessariamente dipendenza e divide il mondo. Il capitalismo è il serpente, il primo, eternamente astuto. Gesù ha detto apertamente che l’antidio è il denaro. Non è una verità esclusiva di alcun marxista né di alcun teologo della liberazione. Appartiene al Signore Gesù, figlio di Dio e di Maria di Nazareth: realmente, il denaro è il peccato, il diavolo, la morte. (…). È un camaleonte che sa adattarsi molto bene alle differenti circostanze. (…)».

– Il capitalismo è intrinsecamente perverso. «Credo che il capitalismo sia intrinsecamente cattivo: perché è l’egoismo socialmente istituzionalizzato, l’idolatria pubblica del lucro, il riconoscimento ufficiale dello sfruttamento dell’essere umano da parte dell’essere umano, la schiavitù dei molti sotto il giogo dell’interesse e della prosperità dei pochi. Una cosa ho capito chiaramente nella vita: le destre sono reazionarie per natura, fanaticamente immobiliste quando si tratta di salvaguardare il proprio ceppo, solidalmente interessate a quell’ordine che è il bene… della minoranza di sempre». (…).

7. INDICAZIONI OPERATIVE

Non basta vedere e giudicare, bisogna anche agire. E, oggi, chiunque pretenda di risultare credibile, deve accreditarsi con i fatti, non con le parole. Per questo, nei confronti dei dirigenti, politici o meno, si avverte tanto scetticismo.

Se il linguaggio di Pedro risulta tanto accattivante, è perché dietro di esso c’è tutta una vita degna, coerente, libera, incorruttibile. È stato tentato, nelle più diverse circostanze, dalla vanità del potere, dal timore, dalla persecuzione. «Morirò in piedi, come gli alberi / Mi uccideranno in piedi», ha scritto. L’ho sempre detto: un vescovo senza potere, senza economia, senza burocrazia, è stato in grado di mettere in scacco uno dei poteri politici più forti d’America. Utilizzando armi diverse, a cominciare da quella che tutti abbiamo a nostra disposizione: la cultura. (…).

Ed ecco che Pedro Casaldáliga, come Gesù di Nazareth, si sente così forte e libero da conficcare la spada nel cuore del sistema: «Ci si vuole imporre una cultura unica. (…). In Brasile, in America Latina e in Europa il 70% o 75% dei film appartiene agli Stati Uniti. E io dico che una macrocultura finisce per essere più assassina di molte armi. Culture imposte: non uccidono solo i corpi, uccidono le anime, distruggono la salute dei popoli».

Abbiamo bisogno di più motivazioni, di più mistica: ossia, di una fede più profonda, di idee cristiane più chiare, di una migliore conoscenza della Bibbia e della teologia e anche di una buona visione politica ed economica. Abbiamo bisogno di più preghiera. Di una maggiore passione per il Regno. Di una vera amicizia con il Signore Gesù. E di molta unione tra noi, tra noi fratelli.

Se manca questo, i problemi della stessa Chiesa e le difficoltà della vita ci porteranno alla disperazione (…); fuggiremo dalla lotta; ci adegueremo, come tanti, prima al pensiero light e poi al “non voglio sapere niente di niente”. Noi cristiani dobbiamo seminare speranze, “esperanzados y esperanzadores”, come diceva il martire Ellacuría. (…).

«Io mi attengo a ciò che è stato detto: / la Giustizia, / nonostante la Legge e la Consuetudine, / nonostante il Denaro e l’Elemosina. / L’Umiltà / per essere io, vero. / La Libertà / per essere uomo. / E la Povertà / per essere libero. / La fede, cristiana, / per camminare di notte, / e soprattutto per camminare di giorno. / E, in ogni caso, fratelli, / io mi attengo a ciò che è stato detto: / la Speranza!».

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il commento al vangelo della domenica

LA VOSTRA LIBERAZIONE E’ VICINA

commento al vangelo della seconda domenica di quaresima (21 febbraio 2016) di p. Alberto Maggi:

p. Maggi

Lc  9,28-36

Circa otto giorni dopo questi discorsi, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme. Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elìa». Egli non sapeva quello che diceva. Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!». Appena la voce cessò, resto Gesù solo. Essi tacquero e in quei … non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.

Gesù ha annunziato ai suoi discepoli che a Gerusalemme sarà messo a morte. Naturalmente questo provoca le rimostranze, provoca delusione.
Ecco allora questo brano, è il capitolo 9 dell’evangelista Luca dal versetto 28. E’ importante la localizzazione, l’indicazione temporale. Infatti scrive l’evangelista “Circa otto giorni dopo questi discorsi”, cioè dopo che Gesù ha annunziato la sua morte.
Perché il numero otto? E’ tipico degli evangelisti mai accennare alla morte di Gesù senza dare un’indicazione anche della sua risurrezione. L’ottavo giorno è il giorno della risurrezione di Gesù. Allora Gesù ora mostra quali sono gli effetti della persona che passa attraverso la morte. Non sono di distruzione, di annientamento, ma di potenziamento.
Gesù prese con sé Pietro. Questo discepolo è presentato con il solo soprannome negativo che indica la sua cocciutaggine, e Giovanni e Giacomo. Saranno i discepoli più difficili che Gesù sempre prenderà con sé nei momenti importanti della sua vita. E salì su IL monte, con l’articolo determinativo, non è un monte qualunque, ma non è indicato. L’evangelista non vuole indicare un luogo topografico, ma teologico. Il monte è il luogo della sfera divina, della condizione divina.
 A pregare. Tipico di Luca nei momenti importanti di Gesù presentarlo in preghiera. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Mostra gli effetti della morte annunziata nel capitolo precedente. La morte non fa sprofondare la persona nelle tenebre, ma la avvolge di luce. La morte, come abbiamo detto, non distrugge la persona, ma libera tutte le sue energie d’amore e di vita.
Ed ecco… espressione tipica degli evangelisti per indicare qualcosa di inaspettato, una sorpresa. Due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa. Perché Mosè e Elìa? Erano i personaggi che, nell’antico testamento avevano parlato con Dio, ma soprattutto Mosè era il grande legislatore e Elìa era il profeta che con zelo, e anche con violenza, ha fatto praticare la legge di Mosè.
 Apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo. Ecco questa è una caratteristica tipica dell’evangelista Luca, usare questo termine “esodo” ad indicare la liberazione che Gesù è venuto a portare. Che stava per compiersi a Gerusalemme. A Gerusalemme, la città santa, Gesù sarà assassinato dai massimi rappresentanti di Dio, dall’istituzione religiosa.
E qui l’evangelista ci accenna qualcosa di incomprensibile per noi: Pietro (di nuovo con il soprannome negativo) e i suoi compagni… ormai non sono più i compagni di Gesù, ma seguono Pietro. Erano oppressi dal sonno. Bene, di fronte ad una rivelazione del genere l’evangelista ci presenta questi discepoli oppressi dal sonno. Perché? Il sonno significa incomprensione rispetto a quello che sta accadendo. Ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. Mentre questi si separavano da lui, – quindi Mosè ed Elìa si separano da Gesù – Pietro  – ed è la terza volta, il numero tre secondo il linguaggio degli evangelisti, indica sempre quello che è definitivo, quindi Pietro insiste nella sua cocciutaggine –  disse a Gesù … E non lo chiama “maestro” come vedo qui nella traduzione, ma il termine adoperato da Luca è “capo”, qualcuno a cui sottomettersi. E’ questa l’idea che Pietro ha di Gesù. “E’ bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne”. Perché queste capanne? Delle tre importantissime feste che cadenzavano la vita religiosa di Israele, la festa di Pasqua, la festa di Pentecoste e la festa delle Capanne, l’ultima era la più importante. Tanto importante che non aveva bisogno di essere nominata, bastava dire “la festa” e si capiva che era la festa delle Capanne. Era la festa che ricordava la liberazione dalla schiavitù egiziana, e per una settimana – ancora oggi in Israele – si viveva sotto delle frasche, sotto delle capanne. Ebbene la tradizione diceva che il messia sarebbe arrivato durante la festa delle Capanne. In ricordo dell’antica liberazione si sarebbe inaugurata la nuova liberazione. Quindi il messia atteso, quello della tradizione si sarebbe manifestato in questa festa. Ecco perché Pietro chiede di fare tre capanne. Vuole che Gesù si manifesti come messia. “Una per te, una per Mosè e una per Elìa”. Quando ci sono tre personaggi, normalmente il più importante si mette al centro. Ecco per Pietro il più importante non è Gesù, al centro per Pietro c’è
Mosè, il legislatore. Poi Gesù come Elìa al fianco, come coloro che fanno praticare questa legge. Ma per Pietro il più importante è  Mosè. E l’evangelista commenta: Egli non sapeva quello che diceva. Mentre parlava… quindi Pietro non ha ancora terminato di parlare, nel suo sproloquio, così, venne una nube. La nube nell’antico testamento è immagine della presenza attiva di Dio. E li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. Quindi nel fare questa esperienza di Dio. E’ strano, Pietro la prima volta che si è trovato di fronte a Gesù durante la pesca miracolosa ha chiesto a Gesù di allontanarsi da lui perché era peccatore e questa volta, che fa un’esperienza di Dio, ne ha paura, quindi l’evangelista fa comprendere quanto una tradizione religiosa, un’ideologia religiosa, possano essere di ostacolo alla comprensione del vero Dio. E dalla nube uscì una voce – è la voce di Dio – che diceva: «Questi è il Figlio mio … Per figlio non si intende soltanto colui che è nato dal padre, ma colui che gli assomiglia nel comportamento. Allora Dio dice che in Gesù c’è tutto lui. “L’eletto; ascoltatelo!» E’ un imperativo, cioè “Lui ascoltate!” Quindi scompare Mosè, scompare Elìa ed è soltanto Gesù da ascoltare, questa è un’indicazione molto preziosa che l’evangelista dà alla sua comunità. Bisogna ascoltare il messaggio di Gesù, e quello che è scritto nei testi di Mosè o nei libri profetici va confrontato con l’insegnamento di Gesù: se è in sintonia si prende, altrimenti non sarà norma di comportamento per la comunità cristiana. Appena la voce cessò, resto Gesù solo. Essi tacquero. Questo tacere è tipico dei nemici di Gesù. E in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto. Perché non riferiscono niente? Perché non sono d’accordo. Rimangono male. Loro vogliono un Gesù secondo la legge di Mosè e secondo lo zelo violento di Elìa, non accettano Gesù senza Mosè e senza Elìa. Quindi sono in disaccordo con Gesù e non tacciono. Quindi il cammino della comunità di Gesù, della comprensione della sua realtà è ancora lungo

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vescovi italiani denunciano la stoltezza della guerra

“denunciamo la follia della guerra”

«Stiamo vivendo giorni di bombardamenti e devastazioni atroci su molte città. Tragedie che ci richiamano alla Costituzione del Concilio Vaticano II ‘Gaudium et spes’ e alla sua condanna della guerra totale, l’unica condanna in un Concilio ‘pastorale’»

Bettazzi

Inizia così un appello dei vescovi di Pax Christi Italia che condanna i bombardamenti e le violenze che in questi giorni devastano tante città e tanti territori, con sofferenze indicibili per le popolazioni

I vescovi continuano: «Essa così afferma al n. 80: “Ogni atto di guerra, che mira indiscriminatamente alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e con fermezza e senza esitazione deve essere condannato”». «Il Concilio continua denunciando la corsa agli armamenti, che preparano gli interventi distruttivi. “E’ necessario pertanto ancora una volta dichiarare: la corsa agli armamenti è una delle piaghe più gravi dell’umanità e danneggia in modo intollerabile i poveri; e c’è molto da temere che, se tale corsa continuerà, produrrà un giorno tutte le stragi, delle quali va già preparando i mezzi”. (n. 81)Bona
Come vescovi successivamente responsabili di Pax Christi, movimento cattolico internazionale per la pace, più che mai impegnato contro ogni forma di guerra, ma ancor prima come ‘uomini di buona volontà’, mentre deploriamo e condanniamo queste distruzioni che servono ad utilizzare i nostri armamenti e ad esaltare i nostri poteri e le nostre supremazie, chiediamo con forza che cessino queste devastazioni e si usino invece gli strumenti della politica e della diplomazia, forse più faticosi ma rispettosi delle vite umane, da soccorrere non da bombardare, come insiste papa Francesco, il quale pochi giorni fa, col Patriarca Ortodosso Cirillo esortava ‘la Comunità Internazionale ad unirsi per porre fine alla violenza e al terrorismo e, nello stesso tempo, a contribuire attraverso il dialogo ad un rapido ristabilimento della pace civile’.

Dobbiamo pregare, ma dobbiamo anche operare. Valentinetti
Invitiamo tutti ad operare, con la preghiera ed il digiuno, ma anche con l’impegno, la sollecitazione nel denunciare la follia della guerra, anche con manifestazioni, appelli ed esponendo anche le bandiere della pace, come segno visibile di un impegno che scuote ognuno nella propria coscienza».

L’appello,in data 18 febbraio 2016, è firmato dai vescovi
Giovanni Ricchiuti, Vescovo di Altamura-Gravina-Acquaviva delle Fonti presidente di Pax Christi

Giudici vescovo
Luigi Bettazzi, Vescovo emerito di Ivrea, già presidente di Pax Christi
Diego Bona, Vescovo emerito di Saluzzo, già presidente di Pax Christi
Tommaso Valentinetti, escovo di Pescara-Penne, già presidente di Pax Christi
Giovanni Giudici, Vescovo emerito di Pavia, già presidente di Pax Christi

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