il grido di p. Zanotelli contro la guerra in Libia

BASTA GUERRE!

zanotelli

siamo alla vigilia di un’altra guerra contro la Libia, “a guida italiana” questa volta. Sembra ormai assodato che le forze speciali SAS sono già in Libia, per preparare l’arrivo di mille soldati britannici. L’operazione complessiva, capitanata dall’Italia, dovrebbe coinvolgere seimila soldati americani ed europei per bloccare i cinquemila soldati dell’Isis. Il tutto verrà sdoganato come “ un’operazione di peacekeeping e umanitaria

”L’Italia, dal canto suo, ha già trasferito a Trapani quattro cacciabombardieri AMX pronti a intervenire. Il nostro paese-così sostiene il governo Renzi – attende però per intervenire l’invito del governo libico di unità nazionale, presieduto da Fayez el Serray. E altrettanto chiaro che sia il ministro degli Esteri, Gentiloni, come la ministra della Difesa, Pinotti, premono invece per un rapido intervento. Sarebbe però ora che il popolo italiano-tramite il Parlamento- si interrogasse , prima di intraprendere un’altra guerra contro la Libia. Infatti,se c’è un popolo che la Libia odia, siamo proprio noi che, durante l’occupazione coloniale, abbiamo impiccato o fucilato centomila libici. A questo dobbiamo aggiungere la guerra del 2011 contro Gheddafi per “esportare la democrazia”, ma in realtà per mettere le mani sull’ oro ‘nero’ di quel paese. Come conseguenza, abbiamo creato il disastro, facendo precipitare la Libia in una spaventosa guerra civile, di tutti contro tutti, dove hanno trovato un terreno fertile i nuclei fondamentalisti islamici. Con questo passato, abbiamo , noi italiani, ancora il coraggio di intervenire alla testa di una coalizione militare?zanotelli (2)

 Il New York Times del 26 gennaio scorso afferma che gli USA da parte loro, sono pronti ad intervenire. Per cui possiamo ben presto aspettarci una guerra. Questo potrebbe anche spiegare perché in questo periodo gli USA stiano dando all’Italia armi che avevano dato solo all’Inghilterra. L’Italia sta infatti ricevendo dagli USA missili e bombe per armare i droni Predator MQ- 9 Reaper, armi che ci costano centinaia di milioni di dollari. Non dimentichiamo che la base militare di Sigonella (Catania) è oggi la capitale mondiale dei droni usati oggi anche per spiare la Libia. L’Italia non solo riceve armi, ma a sua volta ne esporta tante soprattutto all’Arabia Saudita e al Qatar, che armano i gruppi fondamentalisti islamici come l’ISIS. I viaggi di Renzi lo scorso anno in quei due paesi hanno propiziato la vendita di armi. Questo in barba alla legge 185 che proibisce al governo italiano di vendere armi a paesi in guerra e che non rispettano i diritti umani. (L’Arabia Saudita non rispetta i diritti umani e fa la guerra in Yemen)

 Per cui diventa pura ipocrisia per l’Italia intervenire militarmente in Libia per combattere l’Isis, quando appare chiaro che siamo noi ad armarlo. E’ così che siamo noi a creare i mostri e poi facciamo nuove guerre per distruggerli. “La guerra è proprio la scelta per le ricchezze- ha detto recentemente Papa Francesco. Facciamo armi: così l’economia si bilancia un po’ e andiamo avanti con il nostro interesse. C’è una brutta parola del Signore.Maledetti coloro che operano per la guerra, che fanno le guerre: sono maledetti,  sono delinquenti!”

Basandoci su questa lettura sapienziale, dobbiamo dire NO a questa nuova guerra contro la Libia. Quello che ai poteri forti interessa non è la tragica situazione del popolo libico, ma il petrolio di quel paese. Dobbiamo tutti mobilitarci!

 In questo momento così grave è triste vedere il movimento per la pace frantumato in mille rivoli. Oseremo metterci tutti insieme per esprimere con un’unica voce il nostro NO alla guerra contro la Libia, un NO a tutte le guerre che insaguinano il nostro mondo. E’ possibile un incontro a Roma di tutte le realtà di base per costruire un coordinamento o un Forum nazionale contro le guerre? E’ possibile pensare a una Manifestazione Nazionale contro tutte le guerre, contro la produzione bellica italiana, contro la vendita di armi all’Arabia Saudita e al Qatar , in barba alla legge 185? E contro le nuove bombe atomiche in arrivo all’Italia, le B61-12. E’ possibile pensare a una Perugia-Assisi 2016, retaggio storico di Capitini, sostenuta e voluta da tutto il movimento per la pace?

 Smettiamola di ‘farci la guerra’ l’un con l’altro e impariamo a lavorare in rete contro questo Sistema di morte. “La guerra è un affare-ha detto recentemente Papa Francesco. I terroristi fabbricano armi? Chi dà loro le armi? C’è tutta una rete di interessi, dove dietro ci sono i soldi o il potere. Io penso che le guerre sono un peccato, distruggono l’umanità, sono la causa di sfruttamento, traffici di persone. Si devono fermare.”

    Napoli, 29/01/’16                                                                   Alex    Zanotelli

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assurdità del reato di clandestinità

 massa illegale

“Il reato di clandestinità è inutile, inefficace e dannoso”

Durante la cerimonia di apertura dell’anno giudiziario, il primo presidente della Cassazione, Giovanni Canzio, ha detto che sul contrasto all’immigrazione illegale «la risposta sul terreno del procedimento penale si è rivelata inutile, inefficace e per alcuni profili dannosa»

clanderst. non è reato

Canzio ha inoltre spiegato che «la sostituzione del reato con un illecito e con sanzioni di tipo amministrativo darebbe risultati concreti». Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha risposto che il governo «nel quadro di una ridefinizione delle regole che disciplinano il fenomeno migratorio» si adopererà «per il superamento del reato di immigrazione clandestina». Richieste di un cambio e critiche alla norma erano già arrivate anche da Polizia, magistrati, Consiglio superiore della Magistratura e dalla Direzione nazionale antimafia.

clandestinità

Il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, e Maria Elena Boschi, ministro delle Riforme, poco meno di 20 giorni fa avevano parlato dell’impossibilità al momento di depenalizzare il reato di immigrazione illegale sia per “opportunità politica” sia perché «occorre preparare prima l’opinione pubblica».cland. Vauro
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padre Livio delira

 

il fanatismo delirante di p. Livio Fanzaga

 

 

http://tv.ilfattoquotidiano.it/2016/01/27/unioni-civili-padre-livio-fanzaga-sporcizia-famiglie-groviglio-non-arcobaleno-i-media-stanno-col-diavolo/471476/

 

Padre Livio: «I gay devono guarire. Andate al Family day perché dietro la Cirinnà c’è Satana»

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l’importanza della ‘giornata della memoria per il popolo rom

La memoria negata

così il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia:

ancora oggi le popolazioni Rom e Sinti sono oggetto di razzismo e marginalizzazione sociale
perché è importante ricordarli nel giorno della ‘memoria’?

ancora oggi le popolazioni Rom e Sinti sono vittime di processi di marginalizzazione e ghettizzazione perpetrati dalla società maggioritaria. In questo giorno della Memoria è perciò importante considerare la storia delle popolazioni Rom e Sinti come un frammento importante di una Storia Europea condivisa da preservare perché i diritti di tutti vengano rispettati.

Il rapporto delle popolazioni Rom e Sinti con le popolazioni sedentarie è stato sempre problematico e complesso, segnato da rifiuti, rimozioni e violenze. La categoria del «Rom – zingaro – nomade» è stata il frutto di politiche che dal 1400 fino ad oggi hanno cercato di classificare «l’Altro» al fine di dominarlo e controllarlo.

Infatti i Rom, dalla nascita degli Stati nazionali fino ad oggi, sono stati spesso percepiti come non-cittadini, considerati indegni di beneficiare dei servizi che lo Stato poteva offrire loro. Le relazioni tra Rom e gagé (non-Rom) si sono così sviluppate tra pregiudizi e stereotipi, che hanno portato alla separazione, alla marginalizzazione ed in alcuni casi allo sfruttamento dei Rom stessi.

Agli inizi del secolo scorso, la presunta «asocialità zingara» è stata addirittura considerata, come una caratteristica genetica ed ereditaria. Il regime nazista adottando le idee introdotte nel dibattito pubblico dal darwinismo sociale, considerò i Rom e i Sinti come razze deboli e inferiori che avrebbe potuto infettare la Germania. Robert Ritter, Adolf Würth, Eva Justin e altri ricercatori che lavorarono all’interno dell’Unità di Igiene Razziale del Reich diedero seguito a queste tesi arrivando a definire il gene del «Wandertrieb», il gene dell’istinto al nomadismo, come fattore specifico che rendeva i Rom una razza impura.

Di conseguenza, il regime nazista cercò una soluzione adeguata, razionale, pianificata e scientificamente informata per risolvere questa situazione. La risposta venne trovata nel “totale isolamento dei soggetti patogeni ed infetti, attraverso la completa separazione spaziale e la successiva distruzione fisica”. Gli ebrei, gli omosessuali, gli immigrati, i renitenti alla leva (tra cui i Testimoni di Geova) e tutte quelle persone considerate «anti- sociali» (Rom e Sinti, lesbiche, anarchici, senzatetto, alcolisti, malati mentali e prostitute furono così coinvolte nella più grande operazione di ingegneria sociale mai intrapresa nella storia dell’umanità.

Nel 1942 Otto Thierack, ministro nazista della Giustizia introdusse il principio di sterminio attraverso il lavoro come metodo per liberare il popolo tedesco da questi individui. Al giorno d’oggi, determinare la percentuale di Rom che morirono nel Porrajmos (Grande Divoramento) non è facile. Le cifre approssimative stimano che nel corso degli anni morirono da 500.000 a 1.500.000 persone appartenenti alle comunità Rom e Sinti. Nonostante questo solo nel 1982, la Germania Ovest riconobbe lo sterminio sistematico delle popolazioni Rom sotto il regime nazista. Fino a tale data l’atteggiamento del Europa nei confronti delle popolazioni Rom è stata considerata da diversi studiosi come assolutamente inadeguata. Ad esempio, nessun Rom fu chiamato a testimoniare al Processo di Norimberga e nessun riconoscimento economico fu dato ai familiari delle vittime coinvolti nello stermino nazista.

A differenza degli ebrei la cui esperienza dell’Olocausto diede alla luce una rinnovata militanza politica e un’elaborazione anche artistica delle atrocità subite, i Rom furono messi a tacere. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale in Europa le comunità Rom erano un popolo decapitato, alla ricerca di qualcuno che li potesse aiutare a comprendere cosa era appena accaduto. Trovarono invece un muro di silenzio da parte delle autorità. Nessun risarcimento, nessuna scusa, nessun film o narrazione pubblica, nessuna nuova terra dove stabilirsi.

Riprendendo alcune delle riflessioni di Hannah Arendt, esposte, in particolare, nell’opera La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, le atrocità commesse in quel periodo furono portate a termine da persone «terribilmente normali» e non da perversi né da sadici. Da persone calate, semplicemente, nella realtà che avevano davanti: lavorare, cercare una promozione, riordinare numeri sulle statistiche.

Ancora oggi le popolazioni Rom e Sinti sono vittime di processi di marginalizzazione e ghettizzazione perpetrati dalla società maggioritaria. In questo giorno della Memoria è perciò importante considerare la storia delle popolazioni Rom e Sinti come un frammento importante di una Storia Europea condivisa da preservare perché i diritti di tutti vengano rispettati.

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oggi un family day non proprio evangelico …

unioni civili

oggi il ‘family day’

ma p. E. Bianchi chiede di non interferire con la politica

Il priore di Bose, Enzo Bianchi

oggi si scende nelle piazze, si pronosticano un milione o due di partecipanti: ma il mondo cattolico è tutt’altro che unito, a acominciare dai vescovi che sembrano uniti come un qualsiasi partito italiano; l’Azione Cattolica e altre associazioni non saranno presenti considerando la giornata troppo fanaticamente politicizzata nel senso di frontale contrapposizione e negazione di tutto ciò che non si modelli sulla inesistente ‘famiglia naturale cristiana’ 

ma nei mesi scorsi Enzo Bianchi, priore della comunità di Bose e consultore del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, ha preso una posizione decisamente laica e più evangelica:

«dobbiamo chiedere scusa alle famiglie per la presunta superiorità mostrata dai religiosi nei tempi passati: la vita di coppia è molto difficile, e noi dobbiamo essere in grado di riconoscere il grande merito di chi sceglie di costruire un nucleo famigliare. […] se Cristo nel Vangelo parla del matrimonio come unione indissolubile nulla dice in merito all’omosessualità. L’onestà, quindi, ci obbliga ad ammettere l’enigma, a lasciare il quesito senza una risposta. Su questo, io vorrei una Chiesa che, non potendo pronunciarsi, preferisca tacere».

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il commento al vangelo della domenica

GESU’ COME ELIA ED ELISEO E’ MANDATO NON PER I SOLI GIUDEI

commento al vangelo della quarta domenica del tempo ordinario (31 gennaio 2016) di p. Alberto Maggi:

p. Maggi

Lc   4,21-30

In quel tempo, Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».
Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”».
Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro».
All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.

Il vangelo di questa domenica ci presenta la prima fallimentare predica di Gesù a Nazaret. L’evangelista – già l’abbiamo visto domenica scorsa – presenta un Gesù a Nazaret che si alza e legge un famoso brano, conosciutissimo, atteso, quello del capitolo 61 del profeta Isaia, che indicava la venuta del Messia. Ma, arrivato al punto in cui dice “proclamare l’anno di grazia del Signore”, Gesù interrompe la lettura e non prosegue con quello che era il versetto più atteso: “e la vendetta del nostro Dio”.
Era quello che il popolo aspettava, dominato dai romani. Allora vediamo il proseguimento di questo brano, il capitolo 4 di Luca, dal versetto 21 al 30. Allora cominciò a dire loro nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».  E l’evangelista continua aggiungendo: “Con i vostri orecchi”. Gesù, alludendo a una citazione del profeta Ezechiele che dice che il popolo ha orecchi ma non ascolta, perché è una genia di ribelli, prepara quello che segue.
Tutti, cioè tutti i presenti nella sinagoga … E qui bisogna tradurre bene questo termine, gli davano testimonianza. Il verbo “testimoniare” in greco è martireo, da cui il termine “martire” che conosciamo tutti. Dal contesto dipende se è una testimonianza a favore o contro. Qui è chiaramente una testimonianza contro. Quindi è meglio tradurre Tutti gli erano contro.
Ed erano meravigliati, sconvolti. Da che cosa? Delle parole di grazia, perché Gesù non ha parlato della vendetta contro i dominatori, ma soltanto di grazia.
Che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Non stanno mettendo in dubbio la paternità di Giuseppe, perché, come ha scritto l’evangelista, era figlio, come si credeva, di Giuseppe. Ma “figlio”, nella cultura del tempo, non indica soltanto colui che è nato dal padre, ma colui che gli assomiglia nel comportamento. Quindi evidentemente Gesù non assomiglia al padre nel comportamento. Probabilmente anche Giuseppe partecipava di questi ideali nazionalisti, violenti. Nei testi ebraici del tempo l’appellativo “Giuseppe” significava addirittura “il pantera”, quindi dà l’idea di qualcosa di bellicoso.
Quindi Gesù non assomiglia al padre. Ebbene Gesù, anziché calmare gli animi, rincara la dose.  Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso”. Sarà poi quello che gli diranno sulla croce, “Ha salvato gli altri, salvi se stesso”.
Quanto abbiamo udito che accadde … E qui Gesù rincarando la dose parla di una città rivale di Nazaret, usando un termine dispregiativo “in quella Cafarnao”, fallo anche qui, nella tua patria!”. Usando il termine “patria” l’evangelista vuol far comprendere che quanto accade a Nazaret sarà poi rappresentativo di tutto quello che accadrà nella sua terra.
Poi aggiunse: «In verità” … Quindi è un’affermazione solenne … “ io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria”. Perché? Il profeta chi è? E’ quell’individuo che, in sintonia con Dio, non ripete le cose del passato, ma crea le nuove. Ecco allora che sarà sempre vittima dell’avversione e dell’opposizione della classe sacerdotale al potere. E poi Gesù fa quello che non doveva fare. C’erano due episodi della storia di Israele che si preferiva tenere nel dimenticatoio, nel passato. Erano episodi nei quali, di fronte a delle emergenze, Dio ha soccorso non gli ebrei, quelli che avevano dei diritti, dei privilegi, ma è andato a soccorrere niente meno che i disprezzati, i pagani.
Erano due episodi che si preferiva dimenticare. Gesù invece li toglie dal dimenticatoio. “Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese – quindi anche in Israele – ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. Quindi in terra pagana. Gesù sta indicando che l’amore di Dio è universale, che non significa soltanto “estensione”, cioè ovunque, ma “qualità”, cioè per tutti.
L’amore di Dio non è attratto dai meriti delle persone, ma dai loro bisogni.
E poi Gesù rincara ancora la dose. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro». Un altro pagano, se non addirittura un nemico di  Israele. E’ troppo. Infatti, all’udire queste cose, tutti nella sinagoga… I “tutti” sono gli stessi dei quali l’evangelista diceva “tutti gli davano testimonianza” cioè “tutti gli erano contro”.
Tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno, letteralmente “schiumarono” di ira. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città. L’evangelista sta anticipando quella che poi sarà la sua fine quando verrà ucciso fuori della città santa di Gerusalemme.
E lo condussero fin sul ciglio del monte. Il monte qui richiama il monte Sion dov’è costruita Gerusalemme, quindi l’evangelista in questo episodio ci sta anticipando quella che poi sarà la fine di Gesù, il rifiuto totale da parte del suo popolo.
Sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. La prima volta che Gesù predica in una sinagoga il risultato è che tenteranno di ammazzarlo. Per Gesù, che non correrà mai pericolo con i peccatori, con la gentaglia, con la feccia della società, i luoghi e le persone più pericolosi saranno quelli religiosi. Saranno questi che cercheranno di ammazzarlo, di lapidarlo, di eliminarlo.
Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino. Perché l’evangelista scrive questo dato che sembra un po’ strano. Tutta la folla dei presenti in sinagoga che cerca di catturare Gesù e di ucciderlo e lui come fa a passare in mezzo a loro? L’evangelista sta anticipando il fatto della risurrezione: la morte non si è impadronita di Gesù, ma egli continua il suo cammino.
E conclude il brano con si mise in cammino. In cammino verso dove? Verso Gerusalemme. Quindi Gesù da questo primo rifiuto poi nella sua terra ha compreso che incontrerà soltanto opposizione, incontrerà pericolo di morte. Ma Gesù non si arrende, lui deve essere testimone del perdono di Dio, dell’amore del Padre anche a scapito della propria vita.

 

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‘fare memoria’

auschwitz

memoria

è la forza della memoria nell’impegno quotidiano a vigilare che le coscienze,

anche le nostre,  non siano nuovamente sedotte ed oscurate

 memoria

che diventa veicolo di libertà, porta sempre aperta alla democrazia,

strumento di misericordia per ognuno

auswitz

memoria

è necessario ‘fare memoria’ per poter costruire

la storia positiva del nostro presente

e quella del futuro senza regressioni

memoria olocausto zingari

“la memoria non è un’istantanea sul passato, non è passiva, ma costruttiva: nel momento stesso in cui ricorda, infatti, costruisce, seleziona, sceglie, trasforma, ricerca, in una parola ‘fa storia’ e apre la continuità del futuro … “

(U. Garimberti)

 

memoria

 

il senso della memoria

di Enzo Bianchi
in “La Stampa” del 27 gennaio 2016

Bianchi

«Ricordati di non scordare», cantava Battisti a inizi anni settanta. E la pubblicità del film «Memento» gli faceva eco trent’anni dopo: «Ricordati di non dimenticare!». Frasi paradossali, ma che ben rendono l’idea del significato e dell’importanza della «Giornata della memoria». L’uno dopo l’altro scompaiono i testimoni-vittime della tragedia della shoah: figli, parenti, amici raccolgono le ultime briciole di racconto di un vissuto impossibile da narrare e da essere accolto come credibile; libri, monumenti, pellicole cercano di fissare una verità che vorremmo tutti rimuovere. E intanto, a furia di rimuovere e di schedare, perdiamo la nostra facoltà di memoria: «Archiviare significa dimenticare», ammonisce Enzensberger. Allora il senso e la portata della giornata della memoria vanno rinnovati ogni anno, non solo e non tanto per trasmettere il testimone alle nuove generazioni, ma prima ancora come terapia per una società malata di amnesia, una società afflitta da Alzheimer collettivo, in preda all’incapacità di conservare memoria di ciò che è stato e, quindi, di discernere ciò che accade e di intuire ciò che avverrà. A livello culturale le nostre difese immunologiche non sanno più come far tesoro, né individualmente né collettivamente, di quelle che chiamavamo le «lezioni della storia»: il linguaggio stesso è superato. Così, per esempio, un Paese che per oltre un secolo ha visto decine di milioni di suoi cittadini emigrare nei cinque continenti alla ricerca di un lavoro e di una vita degna di questo nome, nello spazio di un paio di generazioni si ritrova a percepire l’immigrazione come un morbo da combattere e i migranti come minacce capaci di destare le più irrazionali paure. Il teologo tedesco Johannes Baptist Metz, tra i primi e i più acuti nel ripensare la teologia cristiana «dopo Auschwitz», constatava con tristezza l’affermarsi di un uomo «completamente insensibile al tempo, un uomo come macchina dolcemente funzionante, come intelligenza computerizzata che non ha bisogno di ricordare perché non è minacciata da alcuna dimenticanza, come intelligenza digitale senza storia e senza passione». Non basta infatti che un fatto sia accaduto perché diventi patrimonio acquisito, individuale e collettivo: è la memoria che compie questa metamorfosi, che coglie, rilegge e interpreta il passato affinché non piombi nel baratro dell’oblio e l’onda del non senso ci sommerga. Non so quanto siamo consapevoli che si registra un raffreddamento di convinzioni verso ogni forma di «commemorazione»: chi ricorda appare a molti una persona paralizzata sul suo passato che non ha saputo rottamare. Così anche questa giornata odierna rischia di essere ascritta tra le cose che si devono fare ma senza abitarle, senza cioè che ci interpellino in profondità, senza che suscitino in ciascuno di noi responsabilità. Per la mia generazione, andare a visitare i campi di sterminio in gennaio – come feci recandomi con la scuola a Dachau a diciassette anni – era una scoperta che scuoteva fino alle fondamenta la nostra umanità. Oggi rischia di essere un’esperienza tra tante, abituati come siamo alla «conoscenza» delle notizie e degli orrori perpetrati nel mondo intero. In verità, se non ci si ricorda ciò che avvenne nell’epifania del male che colpì gli ebrei, non si è più capaci nemmeno di provare orrore per ciò che può di nuovo accadere. Ma bisogna anche vigilare per non trasformare il «dovere» della memoria in un’ossessione paralizzante: ricordare le offese e i torti subiti – come persona, come gruppo sociale, etnico o religioso, oppure come membro dell’unica umanità condivisa – non deve servire a riattizzarli, ad alimentare sentimenti di vendetta uguale e contraria, a ridare loro vitalità. Al contrario, la memoria del male serve a farcelo assumere come atto nelle possibilità di ogni essere umano – e quindi anche di me stesso – e a considerarlo vincibile solo attraverso un preciso, ostinato, intelligente lavoro quotidiano fatto di pensieri e azioni radicalmente «altri». È questo innanzitutto il compito dell’indispensabile «purificazione della memoria»: non un cinico cancellare i misfatti, non una oltraggiosa equiparazione di vittime e carnefici, ma la faticosa accettazione che l’interrogativo postoci emblematicamente da Primo Levi – «se questo è un uomo» – contiene in sé l’ancor più
tragica costatazione che «questo è stato fatto da un uomo». A quelli che continuano a ripetere «Dov’era Dio?» – e oggi lo fanno senza aver patito nulla, per semplice vezzo letterario – io chiedo di porsi una domanda ancor più seria: «Dov’era l’uomo?». Sì, dov’era l’umanità? Perché ha taciuto quando sapeva? Perché è stata testimone e per anni ha attenuato o cercato di nascondere quanto accaduto? La memoria è essenziale all’umanizzazione: dove regna la dimenticanza, regna la barbarie. La memoria diventa allora il luogo dell’indispensabile discernimento, l’esercizio in cui il passato, anche se amaro, diventa nutrimento per il futuro. Discernimento ancor più cogente in un tempo come il nostro in cui si assiste all’incepparsi stesso della trasmissione – non solo di valori, ma degli eventi che tali valori hanno suscitato – all’enfasi posta sull’oggi o su un futuro concepito dagli uni come irraggiungibile miraggio e dagli altri come l’ossessivo aggrapparsi all’attimo presente. Ci si scorda delle radici, si rimuove il travaglio del passato, si rottama l’oscuro lavorio di generazioni o il tragico annientamento di popoli e così ci si priva del fondamentale strumento per discernere ciò che dell’oggi merita di avere un futuro. La memoria infatti non è la meccanica riesumazione di un evento passato che in esso ci rinchiude: al contrario, quando facciamo memoria noi richiamiamo l’evento accaduto ieri, lo invochiamo nel suo permanere oggi, lo sentiamo portatore di senso per il domani. In questa accezione la memoria apre al futuro e nel contempo attesta una fedeltà a eventi e verità, a un intrecciarsi di vicende che assume lo spessore di «storia». Se fare memoria è questo operare un discernimento sul già avvenuto per alimentare l’attesa del non ancora realizzato, possiamo a ragione far nostre le parole intelligenti e sorprendenti del filosofo ebreo francese MarcAlain Ouaknin, che così parafrasa il quarto comandamento: «Onora tuo padre e tua madre, cioè: Ricordati del tuo futuro!».

 

 

 

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equivoci sul cosiddetto ‘modello cristiano di famiglia’

 

la famiglia cristiana non esiste

neanche nel Vangelo

di E. Balducci


FAMILY DAY

 

  un “inedito” di Ernesto Balducci

si tratta di una Conferenza che tenne all’Isolotto nel Marzo del 1974, in occasione del referendum sul divorzio. Ho cercato di alleggerire il testo omettendone alcuni passi. Mi si perdoni la lunghezza ma i temi affrontati e gli stereotipi di un certo “cattolicesimo” che vengono puntualmente contestati meritano anche più che un po’ del nostro tempo!

Balducci

Svelare le mistificazioni e le menzogne

(Abbiamo l’occasione di) affrontare questi problemi, per svelare tutte le mistificazioni, le menzogne, concretizzate e dissimulate all’interno di certi principi suggestivi. Parlando da cristiano a gente che in gran parte si ritiene tale, ci tengo a dire che il momento che stiamo vivendo è proprio il momento in cui dobbiamo abbattere (noi ne siamo i primi responsabili) quella che chiamerei l’ideologia cattolica, come ideologia di copertura del mondo borghese, il quale mondo borghese trova vantaggio nel coprire i suoi obiettivi di conservazione sociale con dei valori cosiddetti cristiani che hanno ancora una grandissima forza di suggestione nelle coscienze. La difesa della famiglia cristiana è un aspetto dell’ideologia cattolica che, molto di più di quanto potremmo pensare, nasconde la volontà di conservare un certo tipo di società e un certo tipo di sistema di rapporti di proprietà. Alzare quindi questo velo è in un sol momento recuperare la possibilità di un rapporto più vivace, più liberatorio col Vangelo e smascherare le reali intenzioni della classe dominante. (…)

Non esiste un modello cristiano di famiglia

Che cosa si nasconde, però, dietro questo cosiddetto modello cristiano della famiglia? È lecito attribuire al messaggio cristiano un modello di famiglia quale quello che abbiamo ereditato dal passato e che ancora sopravvive? Ecco, la risposta è subito no. Si tratta appunto di una menzogna, non di quelle architettate da chi sa quale mal intenzionato, ma di quelle menzogne che nascono per una specie di escrescenza storica progressiva, sulla spinta di altre ragioni che non sono di tipo ideale, ma pratico.

Non esiste la “famiglia cristiana”, essa è appunto un falso valore. Io vorrei mostrarvi come liberandoci da questa falsificazione, ricercando anche le ragioni per cui essa è nata e si è fatta valere e riferendoci con coscienza liberata alle esigenze evangeliche, noi ci mettiamo in movimento tra le forze che mirano a far crescere la nostra società e liberarla anche da altre schiavitù. Che cosa intendiamo quando si parla di modello cristiano della famiglia? Noi possiamo riferirci o al particolare ordinamento giuridico della famiglia, quello che è stato elaborato lungo i secoli dalla Chiesa cattolica, oppure ad un particolare concetto etico, morale della famiglia, che, anche indipendentemente dall’ordinamento giuridico-canonico, si è fatto valere da parte della società italiana. Per cui si dice che la famiglia tipica italiana è una famiglia di formazione cristiana.

Ora, spieghiamoci su questo punto. Intanto sta di fatto che quando noi parliamo della famiglia secondo l’ordinamento canonico, quello che per adesso rimane in prima gestione della Sacra Rota e dei Tribunali diocesani, noi non dobbiamo affatto ritenere che si tratti della traduzione giuridica di un ideale evangelico. Si tratta invece di una creazione storica, precisamente databile, di cui è responsabile la Chiesa cattolica.

I primi cattolici non avevano un ordinamento giuridico proprio della famiglia. Essi vivevano la vita di famiglia, ed anche diremmo istitutivi, secondo il costume del tempo. Non c’era, per dir così, il matrimonio in chiesa; non c’era una anagrafe o un tribunale ecclesiastico per i matrimoni, non c’era il prete, al matrimonio. I cattolici si sposavano come tutti gli altri. Non sentivano alcun bisogno di dare al loro matrimonio un ordinamento giuridico particolare all’interno del generale ordinamento giuridico della società in cui vivevano, specialmente in quella romana.

Ad esempio, là dove erano le famiglie a stabilire il matrimonio dei figli, i primi cristiani facevano come gli altri: il padre di famiglia destinava alla figlia un dato marito, d’accordo con la famiglia del promesso sposo, senza che i due interessati potessero aggiungere nulla, perché questo era il costume. Inutile quindi andare a cercare nei primi cristiani un modello di “famiglia cristiana”. Così, per quanto riguarda il modello etico della famiglia, non esiste un concetto etico specificamente cristiano, nei primi secoli. C’è una visione, se vogliamo, di fede, teologale, cioè legata al riferimento a Cristo. Non esiste però un ideale di famiglia con particolari contenuti morali. La prassi familiare si modellava sul costume morale del tempo. Anche se è chiaro che il cristianesimo impose un rigore morale, un rifiuto di certe forme di depravazione, una condanna di certe degenerazioni; però non disse cose diverse da quelle che poteva dire l’etica degli stoici o dei pitagorici. Quindi il cristianesimo non si presenta con una sua etica familiare formulata nei primi tempi.

Come nasce il modello cristiano della famiglia

Solo quando la Chiesa, dopo Costantino, e precisamente con Giustiniano, acquista una responsabilità di tipo sociale, per cui tutti i momenti della vita sociale vengono gestiti dal clero, incomincia a formarsi un ordinamento matrimoniale cristiano che, come vedremo, si è poi accresciuto, si è arricchito, si è accreditato in ogni modo fino a trovare il suo sigillo nel Concilio di Trento e a diventare anche un modello di ispirazione per molti ordinamenti giuridici civili. Il codice napoleonico fu in gran parte tributario di questa tradizione giuridica della Chiesa medioevale. Tuttavia ci domandiamo se il matrimonio cosiddetto cristiano ha veramente obbedito alle esigenze evangeliche o non piuttosto alle esigenze della società del tempo. La risposta è chiara: la cosiddetta famiglia cristiana, con tutti i connotati giuridici ritrovabili nel codice canonico, con tutti i connotati etici ritrovabili nel costume esemplare, è un prodotto storico e, come tale, relativo. Per cui io non riesco a capire, proprio dal punto di vista diremo dell’individuazione culturale, che significhi difendere in una società pluralistica un modello cristiano di famiglia, perché non so quale sia questo modello, perché non si dà un modello proprio del cristiano. La famiglia cristiana, se noi la conserviamo come prodotto storico ereditario, nasconde invece in sé particolari pregiudizi, particolari difformazioni, particolari rapporti sociali legati allo sfruttamento che sono tutti da rifiutare.

Caratteristiche superate della famiglia cristiana

Quali sono queste caratteristiche storiche da considerare superate? Innanzitutto è chiaro che l’unità della fami-glia cristiana usufruiva di un dato economico, era l’unità patrimoniale. Il padre di famiglia era l’unico responsabile del patrimonio familiare, era lui l’unica figura economica della famiglia. E quindi l’unità della famiglia, anziché essere il prodotto della scelta cosciente dei coniugi, era un portato fatale dell’indivisibile unità patrimoniale. (…)

A reggere l’indissolubilità della famiglia, oltre a questa ragione economica, esisteva un ambiente cosiddetto monoculturale, cioè a cultura unica, per cui tutti gli elementi culturali dell’ambiente spingevano a ricercare la propria identità nella famiglia di appartenenza. Una donna non aveva un suo mondo culturale. I figli non avevano un mondo culturale autonomo. Non c’era-no spazi diversi per l’esperienza di vita. La famiglia rappresentava il luogo normale e continuativo dell’esperienza culturale. L’unità quindi si manteneva perché mancavano forze centrifughe, aperture di orizzonti diversi per i componenti della famiglia. Pensate, ad esempio, al legame quasi fatale fra il lavoro del padre e del figlio. In terzo luogo c’era la subordinazione della donna all’autorità maritale, che era una norma assoluta. L’attività pastorale della Chiesa ha in questo una specifica responsabilità, perché il modello che si forniva alla donna era un modello di subordinazione al marito. La “donna cristiana” è quella che dice sempre di sì al marito, che non ha in nessun campo iniziativa propria, le cui virtù sono tutte una garanzia alla tirannide maschile e i cui compensi mistificanti sono l’essere l’angelo del focolare.

Perfino san Paolo porta riflessi della condizione sociale della donna dei suoi tempi, quando dice che la donna deve essere sottoposta al marito, o deve coprirsi il capo quando entra in assemblea perché il capo della donna è l’uomo. San Paolo non rivela niente che abbia rapporto con la liberazione portata da Gesù Cristo. Assume norme di comportamento proprie della società ebraica. Ma noi dobbiamo sapere che la fedeltà alla parola di Dio non è fedeltà ai modelli sociologici del comportamento, legati ad una certa fase dello sviluppo storico. La parola di Dio non assolutizza, non rende normativi quei modi di comportamento, ci esorta anzi a liberarcene.

E alla fine c’era il pessimismo sessuale, che svuotava la famiglia di ogni significato positivo di comunione spontanea a tutti i livelli e relegava la vita sessuale a una funzione di servizio in rapporto all’azione. Il matrimonio è per i figli. In realtà, pensate che nel passato, anche in quel passato che certi nostalgici rimpiangono, il consenso libero della donna al matrimonio era una circostanza neanche presa in considerazione. La donna aveva così radicalmente accettato il modello impostole dalla società e dalla Chiesa che aveva perfino vergogna a dire che desiderava prender marito; magari lo desiderava con tutta se stessa, ma tale desiderio rimaneva inibito. Doveva esser lei, la donna cercata. Doveva essere senza iniziative e con un’etica del comportamento femminile che voi conoscete bene. La stessa definizione della donna era di tipo biologico. La donna si definiva in rapporto alla sua biologia: era vergine o madre. Non persona, come l’uomo, capace di decidere della propria vita indipendentemente dalla condizione biologica; ma legata strettamente a questa, con delle sfere di mortificazione terribili, come la donna che non ha sposato, la zitella, considerata una donna fallita.

Oggi ci troviamo nella situazione in cui lo sviluppo della società ha messo in crisi le componenti di struttura che sorreggevano un certo tipo di famiglia cosiddetta cristiana. Abbiamo una crisi della famiglia che per molti è la crisi della famiglia cristiana, ma che invece è la crisi della famiglia tradizionale e niente altro. Allora, un credente, quali doveri ha in questo momento? Non di stringersi, di far quadrato attorno a un model-lo di famiglia che non ha più nessuna ragione storica di continuare, ma rifarsi all’esigenza evangelica, interrogarsi di fronte ai Vangelo.

Ora, secondo me, il Vangelo, non ci dà nessun esempio di famiglia precisa. Anche la sacra famiglia è un invenzione posteriore, borghese, perché la famiglia di Nazareth, non è un modello di famiglia, per il semplice fatto che, almeno nelle convinzioni di fede, Maria e Giuseppe non erano autenticamente marito e moglie. Quindi, presentare come modello di famiglia un modello in cui proprio l’aspetto principale non era integro, significa fare una mistificazione.

Indicazioni evangeliche

Occorre domandarsi piuttosto in che senso il Vangelo si apre a questa esperienza particolare della vita che è l’amore nella famiglia, nella linea della liberazione, cioè nella crescita secondo il disegno di Dio. A me pare che ci siano dei punti fermi, questa volta autenticamente fermi, a cui fare riferimento in questo tentativo di recupero del significato evangelico che può avere la vita nell’amore, la vita familiare. Innanzi tutto, è sicuramente un’affermazione di fondo del Vangelo che dinanzi a Cristo non c’è nessuna differenza fra l’uomo e la donna, dinanzi a Cristo non c’è né maschio né femmina. (…)

In secondo luogo, secondo il Vangelo, la fedeltà non è il risultato di una legge esterna che costringe, ma è un’espressione dell’amore. Un’altra esigenza interna allo spirito evangelico è il rifiuto della strumentalizzazione, del rendere l’altro uno strumento di se. Espressioni bibliche quali “la persona umana è fatta a immagine di Dio”, “amate i vostri mariti come la Chiesa ama Cristo”, “amate le vostre mogli come Cristo ama la Chiesa”, per un credente sono un invito decisivo a rifiutare di fare dell’altra persona uno strumento di sé, si tratti dei rapporti fra coniugi, si tratti di rapporti familiari.

Questo rispetto della persona significa garanzia del rapporto veramente comunitario, perché tra rapporto comunitario e rapporto di società stabilito dalla legge c’è una differenza di qualità: il rapporto comunitario in tanto è, in tanto vive, in quanto trova la sua sorgente nel libero consenso e nel rispetto spontaneo della coscienza verso l’altro; i rapporti societari invece sono quelli che si stabiliscono per forza di legge.

La famiglia, istituzione legata alle condizioni storiche

Siamo all’ultimo punto: non dobbiamo cadere in un così ingenuo evangelismo da credere che la famiglia non interessi la società, che debba essere riferita soltanto all’esperienza spirituale. Ogni espressione dell’uomo, ma la famiglia in particolar modo, in quanto si innesta nei rapporti sociali genera-li, ha bisogno di istituzionalizzarsi. La istituzionalizzazione è un momento di serietà umana, il momento in cui si traduce in norma esterna la responsabilità di fronte alla società intera.

Però, non è con questo momento istituzionale che si definisce la famiglia. Il momento istituzionale è quello in cui l’esperienza della famiglia assume rapporti e responsabilità con l’insieme della realtà sociale. E la società, come tale, ha bisogno di tutelare la famiglia, di farsene garante in qualche modo, di proteggerne e favorirne lo sviluppo. Ma questo momento, lo ripeto, è del tutto legato alle condizioni storiche e varia a seconda del mutare delle condizioni storiche; perciò oggi c’è bisogno di una nuova istituzionalizzazione della famiglia.

La famiglia è una creazione continua. Nella Bibbia c’è la poligamia, poi si è acquisito il concetto della famiglia monogamica, che forse è un concetto irrinunciabile. Però non si deve dire che è la natura che l’ha voluto, perché questo significa attribuire alla natura astratta delle conquiste storiche che sono invece relative anch’esse. Forse la famiglia dovrà cambiare ancora forma, dovrà cambiare struttura. Il concetto del diritto naturale è un concetto dell’immobilismo borghese, con cui si sono voluti rendere eterni e immutabili alcuni rapporti che erano funzionali alla società borghese. E qual è il criterio con cui la famiglia deve cambiare struttura? È quel di più di libertà che l’uomo deve avere. Quando diciamo libertà non parliamo della libertà soggettivistica identica al libero arbitrio, ma di una libertà in cui veramente l’esistenza dell’uno sia garanzia e condizione della libertà di tutti gli altri.

Questa crescita della famiglia presuppone un nuovo diritto familiare in cui dovrà essere anche previsto il caso nel quale la fedeltà reciproca di indissolubilità non è più possibile. Cioè la clausola del divorzio come verifica di un fallimento dell’esperienza e come legittima dei due, che hanno portato a termine un esperienza fallita, di crearsi una esistenza coniugale. Questo la legge lo può fare; a rigore, lo deve fare. Però il diritto di famiglia non è questo. Ecco perché dovremo, una volta superata la battaglia sul referendum, considerarci continuamente mobilitati per favorire in Italia una modificazione profonda del diritto di famiglia, perché esistono già ormai le condizioni di coscienza generali e perché certe norme giuridiche della tradizione siano abolite e superate.

E naturalmente, quando si fa questa battaglia per un nuovo tipo di famiglia, si deve fare anche una battaglia per un nuovo tipo di società, perché se i rapporti economici rimangono quelli che sono poco vale il modificare i rapporti giuridici. Al più avremmo un aggiornamento neo-capitalistico della famiglia. In ogni caso, una battaglia per la famiglia che si apre con il referendum, non si chiude con il referendum. Però dobbiamo dirci che noi, in quanto cristiani, non abbiamo niente, nessun modello nostro da difendere. Noi dobbiamo ricercare con gli altri un modello giuridico ed etico di famiglia, perché non abbiamo privilegi di nessuna sorta come credenti. Come credenti ci compete l’onere e il privilegio, se volete, di essere fedeli alle ispirazioni evangeliche fonda-mentali; ma queste ispirazioni non sono da tradurre come modello etico-giuridico, poiché sono una spinta continuamente trasformante della realtà storica, disponibili a sempre nuove forme di ordinamento familiare.

Rodotà

 

 “La discussione sulle unioni civili avrebbe bisogno di limpidezza e di rispetto reciproco, invece d’essere posseduta da convenienze politiche, forzature ideologiche, intolleranze religiose”
così Stefano Rodotà inizia il suo articolo su Repubblica a proposito del dibattito in atto
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la consolazione che ci viene dall’amico più caro che ci lascia

Peguyuna bella riflessione di Charles Peguy a proposito della persona più cara che ci lascia

L’amore non svanisce mai.
La morte non è
niente, io sono solo
andato nella stanza
accanto.
Io sono io.
Voi siete voi.
Ciò che ero per voi
lo sono sempre.
Datemi il nome che
mi avete sempre
dato.
Parlatemi come mi avete sempre parlato.
Non usate un tono diverso.
Non abbiate un’aria solenne o triste.
Continuate a ridere di ciò che ci faceva ridere insieme.
Sorridete, pensate a me, pregate per me.
Che il mio nome sia pronunciato in casa come lo è sempre stato,
senza alcuna enfasi, senza alcuna ombra di tristezza.
La vita ha il significato di sempre.
Il filo non si è spezzato.
Perchè dovrei essere fuori dai vostri pensieri?
Semplicemente perchè sono fuori dalla vostra vista?
Io non sono lontano,
sono solo dall’altro lato del cammino.


(Charles Péguy)

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il ‘sogno di Dio’ non si restringe alla sola ‘famiglia tradizionale’

i confini della misericordia

di Vito Mancuso
in “la Repubblica” del 23 gennaio 2016

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contrariamente a molte altre volte, il Papa non ha sorpreso nessuno con il discorso di ieri al Tribunale della Rota Romana, un testo del tutto secondo copione, il medesimo che non solo Benedetto XVI e Giovanni Paolo II ma anche tutti gli altri 263 Papi avrebbero potuto tenere. Francesco ha detto che «non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione », perché la famiglia tradizionale (cioè quella «fondata sul matrimonio indissolubile, unitivo e procreativo ») appartiene «al sogno di Dio e della sua Chiesa per la salvezza dell’umanità»

Vi è quindi un modello canonico di famiglia, rispetto al quale tutte le altre forme di unione affettiva e permanente sono livelli più o meno intensi di quanto il Papa ha definito «uno stato oggettivo di errore». È per questo che solo la famiglia della dottrina ecclesiastica merita il nome di famiglia, mentre a tutte le altre spetta il termine meno intenso di «unione». Ma è proprio vero che la famiglia della dottrina ecclesiastica corrisponde al disegno di Dio? Oppure è anch’essa una determinata espressione sociale, nata in un certo momento della storia e quindi in un altro momento destinata a tramontare, come sta avvenendo proprio ai nostri giorni all’interno delle società occidentali? Penso che il referendum della cattolicissima Irlanda con cui è stata mutata la costituzione per permettere a persone dello stesso sesso di contrarre matrimonio sia una lezione imprescindibile per il cattolicesimo, della quale però a Roma ancora si fatica a prendere atto. In realtà che la famiglia evolva e cambi lo mostra già il linguaggio. Il termine “famiglia” deriva dal latino familia e sembra quindi dotato di una stabilità più che millenaria, ma se si consulta il dizionario si vede che il termine latino, ben lungi dall’essere ristretto al modello di famiglia della dottrina cattolica, esprime una gamma di significati ben più ampia: «Complesso degli schiavi, servitù; truppa, masnada; compagnia di comici; l’intera casa che comprende membri liberi e schiavi; stirpe, schiatta, gente». Lo stesso vale per il greco del Nuovo Testamento, la lingua della rivelazione divina per il cristianesimo, che conosce un significato del tutto simile al latino in quanto usa al riguardo il termine oikia, che significa in primo luogo “casa” (da qui deriva anche il termine “parrocchia”, formato da oikia + la preposizione parà che significa “presso”). Anche nell’ebraico biblico casa e famiglia sono sinonimi, dire “casa di Davide” è lo stesso di “famiglia di Davide”: si rimanda cioè al casato, comprendendo mogli, figli, schiavi, concubine, beni mobili e immobili. Quindi le lingue della rivelazione di Dio non conoscono il termine famiglia nel senso usato dalla dottrina cattolica tradizionale e ribadito ieri dal Papa. Non è un po’ strano? La stranezza aumenta se si apre la Bibbia. È vero che in essa si legge che «l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno un’unica carne» (Genesi 2,24), ma se si analizzano le esistenze concrete degli uomini scelti da Dio quali veicoli della sua rivelazione si vede uno scenario molto diverso con altre forme di famiglia: Abramo ebbe 3 mogli (Sara, Agar e Keturà), Giacobbe 2, Esaù 3, Davide 8, Salomone 700. A parte Salomone, che in effetti eccedette, non c’è una sola parola di biasimo della Bibbia a loro riguardo. Che dire? La parola di Dio è contro il disegno di Dio? Oppure si tratta di testi che vanno interpretati storicamente? Ma se vanno interpretati storicamente i testi biblici, come non affermare che va interpretato storicamente anche il modello di famiglia della dottrina ecclesiastica? Ciò dovrebbe indurre, a mio avviso, a evitare affermazioni quali «stato oggettivo di errore». La vita quotidiana nella sua concretezza insegna che vi sono unioni ben poco tradizionali di esseri umani nelle quali l’armonia, il rispetto, l’amore sono visibili da tutti, e viceversa unioni con tanto di sacramento cattolico nelle quali la vita è un inferno. Siamo quindi davvero sicuri che la dottrina cattolica tradizionale sulla famiglia sia coerente con l’affermazione tanto cara a papa Francesco secondo cui «il nome di Dio è misericordia»? Io ovviamente mi posso sbagliare, ma mi sento di poter affermare che Dio non pensa la famiglia, meno che mai quella del Codice di diritto canonico. Pensa piuttosto la relazione armoniosa alla quale chiama tutti gli esseri umani, perché il senso dello stare al mondo è esattamente la relazione
armoniosa, che si esplicita in diversi modi e che trova il suo compimento nell’amore. Ogni singolo è chiamato all’amore: questo è il senso della vita umana secondo il nucleo della rivelazione cristiana. Sicché nessuno deve poter essere escluso dalla possibilità di un amore pieno, totale, anche pubblicamente riconosciuto. Ed è precisamente per questo che ci si sposa: perché il proprio amore, da fatto semplicemente privato, acquisti una dimensione pubblica, politica, in quanto riconosciuto dalla polis. Questo amore è definibile come integrale, in quanto integra la dimensione soggettiva con la dimensione pubblica e oggettiva dell’esistenza umana. La nascita di alcuni esseri umani con un’inestirpabile inclinazione sessuale verso persone del proprio sesso è un fatto, non piccolo peraltro: essi devono strutturalmente rimanere esclusi dalla possibilità dell’amore integrale? In realtà l’aspirazione all’amore integrale deve essere riconosciuto come diritto inalienabile di ogni essere umano acquisito alla nascita. L’amore integrale è un diritto nativo, primigenio, radicale, riguarda cioè la radice stessa dell’essere umano, e nessuno ne può essere privato. Spesso nel passato non pochi lo sono stati, e ancora oggi in molte parti del mondo non di rado continuano a esserlo. Oggi però il tempo è compiuto per sostenere nel modo più esplicito che tutti hanno il diritto di realizzarsi nell’amore integrale, eteroaffettivi e omoaffettivi senza distinzione. La maturità di una società si misura sulla possibilità data a ciascun cittadino di realizzare il diritto nativo all’amore integrale, ma io credo che anche la maturità della comunità cristiana si misuri sulla capacità di accoglienza di tutti i figli di Dio così come sono venuti al mondo, nessuno escluso. Che cosa vuol dire che «il nome di Dio è misericordia» per chi nasce omosessuale? È abbastanza facile dire che Dio è misericordia quando ci si trova al cospetto di casi elaborati da secoli di esperienza. Più difficile quando ci si trova al cospetto della richiesta di riconoscimento della piena dignità da parte di chi per secoli ha dovuto reprimere la propria identità. Qui la misericordia la si può esercitare solo modificando la propria visione del mondo, ovvero infrangendo il tabù della dottrina. Ma è qui che si misura la verità evangelica, qui si vede se vale di più il sabato o l’uomo. Qui papa Francesco si gioca buona parte del valore profetico del suo pontificato.

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