la maggior parte dei preti si salva … parola del CNR

i sacerdoti?

esperti in umanità

 Giacomo Gambassi

I sacerdoti? Sono più organizzati, socievoli, disponibili, modesti ed estroversi di chi non è consacrato. Non solo. Hanno una stabilità emotiva di gran lunga superiore alla media dei laici, siano essi credenti o non credenti. Insomma, donarsi completamente al Signore dicendo il proprio “eccomi” è sinonimo di un benessere psicologico che fa quasi invidia. Niente a che vedere con immagini distorte (talora veicolate dai mezzi di comunicazione) che vogliono il prete come un uomo “meno uomo”, segnato da rinunce e privazioni.

A confermare che il presbitero è un “fratello” «esperto in umanità», secondo la celebre definizione di Paolo VI sulla Chiesa, è la scienza. O, per essere precisi, uno studio del Centro nazionale delle ricerche (Cnr) sulla personalità dei sacerdoti.

«Per la prima volta sono stati analizzati i profili caratteriali dei preti confrontandoli con quelli dei fedeli ma anche con quelli di non credenti o agnostici », spiega l’ideatore e coordinatore del lavoro, Antonio Cerasa, docente di psicologia della comunicazione all’Università di Catanzaro. In tutto sono stati coinvolti 200 presbiteri italiani (in gran parte secolari ma anche regolari) insieme con 300 praticanti e 200 “indifferenti”.

I risultati dell’indagine, curata dall’Istituto di bioimmagini e fisiologia molecolare del Cnr di Catanzaro, sono stati pubblicati sulla rivista internazionale Personality and Individual Differences.

Il gruppo di ricerca ha impiegato uno dei test più accreditati per la valutazione della personalità. Cinque sono stati i fattori presi in esame: la stabilità emotiva, l’estroversione, l’amicalità, l’apertura mentale e la coscienziosità. Cinque dimensioni in cui i sacerdoti spiccano. «La coscienziosità che indica affidabilità, puntualità, capacità di auto-organizzarsi, un tratto già considerato uno dei pilastri del profilo del credente, si conferma alto nei fedeli laici e risulta alto anche nei sacerdoti», afferma il ricercatore del Cnr. Per quanto riguarda l’amicalità – fattore con cui si intende la capacità di essere empatici, modesti, sensibili, altruisti e fiduciosi – «finora poco studiata nei ministri del culto in genere, è emerso che tutte le persone credenti hanno un elevato punteggio, ma risulta significativamente maggiore nei sacerdoti rispetto ai laici», sottolinea Cerasa.
Guardando all’affettività e all’estroversione, «si nota chiaramente nei sacerdoti la bassa impulsività e lo scarso desiderio di andare alla ricerca di nuove sensazioni», continua l’esperto. Infine, scandagliando l’apertura mentale, il Cnr ha scoperto che «sia i fedeli laici sia i sacerdoti mostrano una chiara tendenza ad approfondire ciò che è già conosciuto, piuttosto che a esplorare nuovi ambiti di conoscenza. E, per ciò che attiene ai valori, tendono ad affidarsi a un’autorità riconosciuta all’interno della comunità». Il fattore R, ossia religioso, tempra in maniera pressoché identica sia l’indole dei sacerdoti ordinati, sia quella dei religiosi. Non vengono alla luce sostanziali differenze nella personalità del clero secolare e in quella del clero regolare, tranne che per un elemento: chi appartiene a una congregazione ha una minore predisposizione ad auto-organizzarsi. E forse ciò si spiega con la vita comunitaria che in molti casi è parte del carisma di un ordine religioso.

Negli scorsi anni numerose ricerche, soprattutto nei Paesi anglosassoni, avevano dimostrano come la religiosità giochi un ruolo positivo sulla psicologia umana. Chi crede ha un’aspettativa di vita più lunga, minori disturbi depressivi e una ridotta dipendenza dal fumo e dall’alcol, avevano evidenziato molteplici indagini. «Recentemente – osserva Cerasa – alcuni ricercatori hanno ipotizzato che questa tendenza all’equilibrio psicofisico sia in parte legata anche all’attitudine caratteriale della persona. I primi studi eseguiti sui gruppi di credenti laici hanno confermato questa ipotesi, ma un’indagine diretta sui ministri della Chiesa non era stata compiuta». Ci ha pensato un pool di studiosi della Penisola a colmare il vuoto. «La nostra ricerca conferma alcune caratteristiche di coloro che vivono un’esperienza di fede – conclude il coordinatore – ma soprattutto rivela tratti peculiari dei sacerdoti che non erano mai stati portati alla luce prima. Nell’ambito ecclesiale qualcuno sostiene che le nostre conclusioni non siano una novità. In realtà abbiamo mostrato il volto più personale dei preti».

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per l’Argentina dei desaparecidos forse novità in arrivo dal Vaticano

Una manifestazione a Buenos Aires per l’anniversario del colpo di stato in Argentina, il 24 marzo 2016. - Eitan Abramovich, Afp
una manifestazione a Buenos Aires per l’anniversario del colpo di stato in Argentina, il 24 marzo 2016


Il Vaticano apre gli archivi sulla dittatura argentina

È cominciata l’apertura degli archivi vaticani relativi agli anni delle dittature latinoamericane. Un fatto unico sotto molti aspetti, in primo luogo per le sue implicazioni politiche e per i contrasti che si vissero all’interno della stessa chiesa. Ma la sua eccezionale importanza sta innanzitutto nella qualità del materiale conservato Oltretevere, e quindi nel contributo che ne potrà venire sia per la conoscenza degli eventi sia in merito alla sorte di tanti scomparsi di cui non si è saputo più nulla.

Il periodo chiave di quest’opera di declassificazione di documenti riservati riguarda grosso modo l’arco di tempo che va dal 1970 ai primi anni ottanta. In quel decennio molti amici e parenti di detenuti, di desaparecidos, di vittime di omicidi si rivolsero alla chiesa e al Vaticano per avere aiuto o notizie. Non solo: molto articolato fu anche il ruolo di vescovi e sacerdoti.

A settori delle gerarchie collusi con i vari regimi militari e favorevoli all’azione repressiva si alternavano personalità che si batterono con coraggio contro l’azione punitiva e violenta dei militari: si pensi – per esempio – al cardinale Raúl Silva Henríquez, arcivescovo di Santiago del Cile (celebre fu la sua Vicaria de la solidaridad che forniva aiuto legale e medico alle vittime della dittatura).

L’apertura degli archivi della Santa Sede riguarda intanto due paesi, l’Uruguay e l’Argentina (ben presto però ne potrebbero seguire altri), dove la presa del potere da parte dei militari fu particolarmente efferata. La scelta naturalmente acquista maggior peso per l’origine argentina dell’attuale pontefice e rappresenta il mantenimento di una promessa che Jorge Mario Bergoglio aveva fatto alle abuelas de plaza de Mayo (le nonne di plaza de Mayo).

In questo caso il primo obiettivo è quello di verificare se tra quei documenti ce ne sia almeno una parte che permetta di identificare qualcuno dei figli sottratti ai desaparecidos (o nati durante la prigionia) e poi adottati illegalmente dai militari o dai loro complici. Si tratta di uno dei capitoli più dolorosi e drammatici tra quelli inerenti la stagione sanguinosa delle giunte militari argentine (1976-1983).

In Argentina – come in gran parte dei paesi latinoamericani – la chiesa si divise di fronte alla dittatura

Nei giorni scorsi il papa ha incontrato – e non è la prima volta – alcuni familiari e amici di desaparecidos argentini, e d’altro canto il suo impegno diretto nella vicenda ha messo in movimento anche l’episcopato argentino che ha stabilito già da tempo una linea di collaborazione con le abuelas. Alcuni preti e organizzazioni cattoliche erano infatti a conoscenza di molti casi di adozioni illegali e in qualche modo, secondo le ricostruzioni e le testimonianze, le agevolarono o le coprirono.

Nel caso dell’Argentina del resto – come in gran parte dei paesi latinoamericani – la chiesa si divise di fronte alla dittatura. Una parte rilevante della gerarchia si schierò con i militari e ben presto ebbe tutti gli elementi per valutare la portata dell’attività repressiva; altri vescovi – e più diffusamente ambienti missionari o del clero di base – si opposero invece ai militari e pagarono con il sangue la propria scelta.

È stato scritto poi di una terza componente, quella cui appartiene Bergoglio, all’epoca dei fatti provinciale dei gesuiti, che operò nell’ombra per salvare vite umane (si veda La lista di Bergoglio, di Nello Scavo). Di quest’azione umanitaria ha dato atto all’attuale pontefice il premio Nobel per la pace Adolfo Maria Pérez Esquivel, pure torturato dai militari argentini.

Ancora da sottolineare il ruolo della diplomazia vaticana, accusata di aver intrattenuto rapporti fin troppo stretti con le giunte e che tuttavia – non senza ambiguità e zone d’ombra – in vari casi operò per aiutare o mettere in salvo quanti per varie ragioni erano finiti nelle mani degli aguzzini. Vasta dunque e diversificata può essere la documentazione in possesso del Vaticano.

Ma al di là delle polemiche e degli strascichi di una vicenda che ha lasciato ferite profonde nella società e una scia continua di recriminazioni dietro di sé, vanno messi in luce alcuni dati di fatto significativi.

Anche Obama apre gli archivi

In primo luogo va rilevato come, una volta eletto papa, Bergoglio abbia già fornito una documentazione importante, conservata – o meglio sepolta – in Vaticano, utile a fare chiarezza sul caso dell’omicidio di monsignor Enrique Angelelli, vescovo oppositore dei militari, simbolo di una chiesa che non ha ceduto alla dittatura, morto ufficialmente in un incidente stradale ma in realtà, come provato adesso anche sotto il profilo processuale, ucciso dai sicari della giunta. Documenti decisivi sia per fare giustizia sia per aprire la causa di beatificazione di Angelelli.

Da rilevare, poi, che l’apertura degli archivi decisa dalla Santa Sede arriva in contemporanea con l’annuncio fatto da Barack Obama in merito alla declassificazione della documentazione riservata di tipo militare e ancora rimasta segreta, relativa al golpe e alla dittatura argentina e conservata negli Stati Uniti. Ulteriore conferma di come su molti temi Francesco e il capo della Casa Bianca abbiamo compiuto scelte condivise e seguito un percorso comune.

A restituire il senso dell’operazione compiuta in Vaticano, infine, è lo stesso comunicato con il quale padre Federico Lombardi ha dato notizia sugli archivi lo scorso 23 marzo. Se da una parte spiegava come fosse necessario un lavoro di qualche mese per portare a termine la catalogazione delle carte, alla fine precisava: “Fin d’ora si cerca tuttavia di rispondere a domande specifiche per questioni particolari di carattere giudiziario (rogatorie) o umanitario”.

L’obiettivo principale è ottenere un aiuto nel ricostruire la sorte degli scomparsi e dei loro figli

Insomma dietro richiesta circostanziata, è possibile un accesso immediato alla documentazione. E d’altro canto i familiari dei desaparecidos avevano chiesto alla Santa Sede un passo in questo senso non con l’obiettivo di riaprire il capitolo delle colpe e delle responsabilità, ma soprattutto per ottenere un aiuto nel ricostruire la sorte degli scomparsi e dei loro figli. Angela Boitano, 84 anni, presidente dei Familiari di detenuti o desaparecidos per ragioni politiche, appresa la notizia dell’apertura degli archivi vaticani ha commentato: “Quegli archivi sono molto importanti, tanto quanto quelli conservati dalle forze armate argentine, e spero che presto avremo novità”.

Un’affermazione impegnativa quella di Angela “Lita” Boitano, che va compresa alla luce di quanto ella stessa affermò in un’intervista all’agenzia Askanews dopo aver incontrato papa Francesco circa un anno fa e aver ricevuto la rassicurazione che gli archivi sarebbero stati aperti.

Secondo Boitano in Vaticano si trova un elenco importante e forse unico dei desaparecidos argentini. “Ho vissuto a Roma dal 1979 al 1983”, ha spiegato nell’intervista. “Avevo scritto al Vaticano informandoli sui miei figli, ma non avevo avuto risposta. Appena arrivata sono andata dove sapevo di dover andare, al pontificio consiglio Giustizia e pace, a Trastevere. Mi chiedono chi sono, gli spiego che mi chiamo Angela Boitano e sono madre di due desaparecidos. Il funzionario è andato a prendere una scheda, che ho visto, e c’era scritto il mio nome, e poi i seguenti dati: madre di Michelangelo Boitano, sparito il 29 maggio 1976, e di Adriana Silvia Boitano, sparita il 24 aprile 1977. Avevano segnato e archiviato tutto. Non posso dire che ci siano altre informazioni, per esempio i campi di concentramento dove furono portati e ammazzati, ma sono sicura che l’elenco dei desaparecidos più completo sia quello del Vaticano”.

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“tutto è relativo di assoluto c’è solo Dio il pane e la liberazione”

la teologia della liberazione

messaggio del 33° Congresso di Teologia

dal 5 all’8 settembre 2013  si è svolto in Madrid il 33° Congresso di Teologia sul tema  ” La Teologia della Liberazione, oggi,”  che ha riunito un migliaio di persone provenienti da vari paesi e continenti in un clima di riflessione, comunione fraterna e dialogo interreligioso, interculturale, interetnico

 Casaldaliga1
1. Viviamo in un mondo gravemente ammalato, ingiusto e crudele, dove la ricchezza si concentra sempre più in meno mani mentre crescono le disuguaglianze e la povertà. Tra 40.000 e 50.000 persone muoiono ogni giorno per la fame e per le guerre, quando ci sono risorse sufficienti per nutrire il doppio della popolazione mondiale. Il problema non è, quindi, la scarsità, ma la competitività, l’accumulo smisurato e la distribuzione ingiusta, prodotte dal modello neoliberale. I governanti lasciano che governino i poteri finanziari e la democrazia non è arrivata all’economia. L’attuale crisi europea ha come effetto lo smantellamento della democrazia.
 
 
2. La crisi economica si è trasformata in una crisi dei diritti umani. Gli eufemisticamente chiamati “tagli” in materia di istruzione e sanità sono, in realtà, violazioni sistematiche dei diritti individuali, sociali e politici, che avevamo ottenuto con tanto sforzo nel corso dei secoli precedenti.
 
 
3. Questa situazione, però, non è inevitabile, né naturale, né risponde alla volontà divina. Si può rompere la passività cambiando il nostro modo di vivere, di produrre, di consumare, di governare, di legiferare e di fare giustizia e cercando modelli alternativi di sviluppo nella direzione che propongono e praticano non poche organizzazioni oggi nel mondo.
 
 Boff L.
4. In questi giorni abbiamo ascoltato le testimonianze e le molteplici voci delle differenti Teologie della Liberazione presenti in tutti i continenti e che cercano di collaborare per dare risposte ai più gravi problemi dell’umanità: in America Latina, in sintonia con il nuovo scenario politico e religioso e con le esperienze del socialismo del XXI secolo; in Asia, in dialogo con le visioni del mondo orientali, scoprendo in esse la loro dimensione liberatrice; in Africa, in comunicazione con le religioni e le culture originarie, alla ricerca delle fonti della vita nella natura.
 
 
5. Abbiamo verificato che la Teologia della Liberazione continua ad essere viva e attiva di fronte ai tentativi del pensiero conservatore e della teologia tradizionale di condannarla e darla per morta. La TdL è storica, contestuale e si riformula nei nuovi processi di liberazione attraverso soggetti emergenti di trasformazione: donne discriminate che prendono coscienza del loro potenziale rivoluzionario; culture, in altri tempi distrutte, che rivendicano la loro identità; comunità contadine che si mobilitano contro i Trattati di Libero Commercio; giovani indignati, ai quali viene negato il presente e chiuse le porte del futuro; la natura saccheggiata, che grida, soffre, si ribella ed esige rispetto; emigranti maltrattati che lottano per migliori condizioni di vita; religioni indigene e di origine africana che rinascono dopo essere state per secoli ridotte al silenzio.
 
 
6. La TdL è teologia della vita, che difende con particolare intensità la vita più minacciata, quella dei poveri, che muoiono presto, prima del tempo. Fa realtà le parole di Gesù di Nazaret: «Sono venuto affinché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza». Chiama a scoprire Dio negli esclusi e crocifissi della terra: questa è la missione fondamentale delle chiese cristiane, una missione dalla quale sono state finora molto lontane.
 
 
7. I riformatori religiosi hanno aperto e continuano ad aprire percorsi di compassione e di liberazione integrale, che devono tradursi politicamente, socialmente ed economicamente in ogni momento storico, in modo particolare, Siddhartha Gautama il Buddha e Gesù di Nazareth il Cristo (tema dell’ultima conferenza del Congresso).
 Barros
 
8. Denunciamo la mancanza di etica nelle politiche dello Stato che presentano i tagli come riforme necessarie per la ripresa economica. La nostra denuncia si estende a banche, multinazionali e poteri finanziari come veri responsabili della crisi attuale in connivenza con i governi che lo permettono. Optiamo per un altro modello economico i cui criteri siano il principio del bene comune, la difesa dei beni della terra, la giustizia sociale e la condivisione comunitaria.
 
 
9. Denunciamo l’uso della violenza, il militarismo, la corsa agli armamenti e la guerra come forme irrazionali e distruttive di soluzione dei conflitti locali e internazionali, a volte giustificati religiosamente. Optiamo per un mondo in pace, senza armi, dove i conflitti vengono risolti attraverso la via del dialogo e del negoziato politico. Sosteniamo tutte le iniziative pacifiche che vanno in quella direzione, come la giornata di digiuno e preghiera proposta da Papa Francesco. Rifiutiamo la teologia della guerra giusta e ci impegniamo a elaborare una teologia della pace.
 
 
10. Denunciamo il razzismo e la xenofobia che si manifestano soprattutto nelle leggi discriminatorie, nella negazione dei diritti degli immigrati, nel trattamento umiliante cui sono sottoposti da parte delle autorità e nella mancanza di rispetto per il loro stile di vita, cultura, lingua e costumi. Optiamo per un mondo senza frontiere retto sulla solidarietà, l’ospitalità, il riconoscimento dei diritti umani senza alcuna discriminazione e della cittadinanza-mondo contro la cittadinanza restrittiva vincolata all’appartenenza ad una nazione.
 
 
11. Denunciamo la negazione dei diritti sessuali e riproduttivi e la violenza sistematica contro le donne: fisica, simbolica, religiosa, di lavoro, esercitata dall’alleanza dei differenti poteri: leggi sul lavoro, pubblicità, mezzi di comunicazione, governi, imprese, ecc. Tale alleanza favorisce e rafforza il patriarcato come sistema di oppressione di genere. Nella discriminazione e maltrattamento delle donne hanno una responsabilità non piccola le istituzioni religiose. La teologia femminista della liberazione cerca di rispondere a questa situazione, riconoscendo le donne come soggetto politico, morale, religioso e teologico.
 
 
12. Chiediamo la sospensione immediata delle sanzioni e la riabilitazione di tutti le teologhe e teologi discriminati (coloro che hanno visto le proprie opere proibite, condannate o soggette a censura, coloro che sono stati espulsi dalle cattedre di insegnamento, coloro ai quali è stato ritirato il riconoscimento di “teologi cattolici”, quelli sospesi a divinis, ecc.), soprattutto durante i pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, che furono particolarmente repressivi in questioni di teologia morale e dogmatica, nella maggioranza dei casi per il loro coinvolgimento con la Teologia della Liberazione e anche per seguire gli orientamenti del Concilio Vaticano II. Tale riabilitazione è esigenza di giustizia, condizione necessaria per la tanto attesa riforma della Chiesa e prova dell’autenticità della stessa. Rivendichiamo, a sua volta, all’interno delle chiese, l’esercizio dei diritti e libertà di pensiero, riunione, espressione, insegnamento, pubblicazione, spesso non rispettati, e il riconoscimento dell’opzione per i poveri come criterio teologico fondamentale.
Con Pedro Casaldáliga affermiamo che tutto è relativo, compresa la teologia, e che sono assoluti soltanto Dio, la fame e la liberazione.
 Barros 1
 
Madrid, 8 settembre 2013
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lettera a un bambino sfortunato

lettera a un bambino nato nel limbo dei profughi senza nome

di Melania Mazzucco
in “la Repubblica” del 13 marzo 2016

nato fango
tu devi vivere. Per te, minuscola creatura senza nome venuta al mondo sotto un cielo di pioggia, su un materasso di fango. Ma anche per noi, che ti guardiamo inteneriti e ipocriti — disposti a piangerti morto e però non disposti ad accoglierti vivo

sei l’ennesimo: un numero di troppo, in una somma con tanti zeri. Se l’acqua con cui ti hanno lavato non sarà stata troppo fredda, se i microbi e i batteri che proliferano nella fetida melma pestata da scarpe esauste non infetteranno la ferita del cordone ombelicale, allora anche per noi ci sarà perdono. Un giorno saprai dove, come e perché ti è stato tolto tutto, anche il diritto di appartenere, nei tuoi primi istanti, a chi ti ha generato. Invece il mondo intero ti ha visto nudo, inerme, poco più grande della mano che ti sostiene. Se resterai in questo continente, ci incontrerai a scuola, all’università, al lavoro e non potrai non chiederti dov’eravamo, mentre tua madre incinta attraversava il mare bellissimo in cui noi ci facevamo il bagno, o camminava sotto la pioggia ai margini di una strada che non doveva condurre a nulla. E perché nessuno le ha trovato un tetto, o un letto — nemmeno a lei, che degli ultimi era nella condizione di essere l’ultima. Guardando il genitore di un tuo compagno, o il tuo datore di lavoro, ti chiederai se è stato tra quelli che ritenevano tua madre una minaccia alla sua identità, alla sua religione o alla sua opulenza. Se è stato uno di quelli che distingueva i suoi bisogni in base alla presunta sicurezza della regione da cui era partita, e classificava i suoi compagni di viaggio tra aventi diritto e non aventi. O se è stato invece uno di quelli che ti hanno aiutato — dandole qualcosa da mangiare, o un passaggio, o anche solo la tenda in cui sei nato. Che in verità costa molto poco, sai, e i giovani di questo continente non la usano più nemmeno per andare in vacanza. Misero aiuto, potrai pensare — perché ciò che mia madre chiedeva non era cibo né tenda, benché ovviamente avesse bisogno anche di quelli, ma era ciò che voi considerate tutto. La dignità di essere riconosciuta come un essere umano, e il diritto di sognare un futuro per sé e per te. Che poi è l’unica ragione che muove il mondo, e lo rinnova. Forse ti diranno che tanti anni fa l’Europa era un campo di rovine, dopo una guerra peggiore o identica a quella da cui sono scappati i tuoi.

disperazione Ricordandosi di non aver accolto neanche un profugo, di aver lasciato affondare le barche che trasportavano un popolo condannato a morte, giurando che lo scandalo non si sarebbe ripetuto, gli uomini che dovevano governare il nuovo mondo compilarono nobili costituzioni, e firmarono trattati impegnativi. Nel 1951, la convenzione di Ginevra ha sancito che nessuno Stato che l’ha sottoscritta “può espellere o respingere, in qualunque maniera, un rifugiato alle frontiere di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbe minacciata”… Infatti non hanno espulso tua madre né te. Ma non vi hanno neppure accolti. Siete lì, entrambi — di tuo padre non so nulla — sospesi, nel bozzolo umido e primordiale di una tenda. Vi hanno fermato — come si ferma provvisoriamente un fiume, costruendo una diga, che allaga i campi tutt’intorno. Ma come tutti sanno, l’acqua trova sempre una strada. Tu l’hai trovata. Se un giorno, in Germania, in Svezia, in Danimarca mi incontrerai, chiedimi dov’ero il 12 marzo del 2016. Ti ho visto nascere, ti dirò, ti ho augurato di vivere, ho scritto di te. Tu mi dirai: non era abbastanza. Ma ci vorranno anni. E io ho ancora modo di dimostrarti che ti considero più prezioso della plastica che ti circonda, che sei tu il futuro mio e dell’unione di nazioni e popoli di cui vorrei essere orgogliosa di fare parte. Di dimostrarti che ti ho riconosciuto

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attenzione ai teocon

il noto teologo Giuliano Ferrara segue Magdi Allam e critica Francesco per la debole condanna dell’attentato in Pakistan

 

Giuliano Ferrara critica papa Francesco per la sua debole condanna dell’attentato di Lahore in Pakistan sul “Foglio” di martedì 29 marzo 2016. Ecco le parole del pontefice pronunciate dopo il Regina Coeli pronunciate per la Pasqua. 

Ferrara

“Ieri, nel Pakistan centrale, la Santa Pasqua è stata insanguinata da un esecrabile attentato, che ha fatto strage di tante persone innocenti, per la maggior parte famiglie della minoranza cristiana – specialmente donne e bambini – raccolte in un parco pubblico per trascorrere nella gioia la festività pasquale. Desidero manifestare la mia vicinanza a quanti sono stati colpiti da questo crimine vile e insensato – ha sottolineato Bergoglio- e invito a pregare il Signore per le numerose vittime e per i loro cari. Preghiamo tutti per i morti di questo attentato, per i famigliari, per le minoranze cristiane e etniche di questa nazione”.

L’ex direttore del Foglio è stato pronto a condannare la condanna del papa, aggrappandosi all’aggettivo “insensato” rimarcato da Bergoglio. “Se invece la dichiarazione di insensatezza diventa una regola di prudenza legata allo spirito inter religioso del dialogo, se il retropensiero è che il cristianesimo con lo spirito dominante dell’occidente e in quanto tale condannato a morte (la principale ragione della persecuzione anticristiana secondo lo storico e vaticanista John Allen), allora le cose cambiano e emerge una reticenza ideologica e pericolosa”. Ferrara conclude rimarcando come Lahore sia più vicina a Ratisbona di quanto si pensi, evidenziando ancora una volta il suo rimpianto per Benedetto XVI.

Magdi Allam Prima di lui anche un altro noto teologo come Magdi Allam aveva criticato la debolezza di Francesco nella condanna di un attentato efferato come quello compiuto in Pakistan. Benché il dogma dell’infallibilità papale non riguardi ogni pensiero espresso dal pontefice, stupisce ogni volta come una declinazione moderata del cattolicesimo sia ogni volta denunciata come sintomo di chissà quale pericolo dagli autoproclamati difensori dell’Occidente. Un po’ come per gli Stati Uniti, per Ferrara l’appoggio incondizionato alla Chiesa vale solo se  prevale una linea, molto ben definita e piuttosto stretta, a lui affine. Come se il mondo si fosse fermato ai tempi delle guerre di Busch, rimpiante solo dal direttore del “Foglio” e pochi altri, come dimostrano con plastica evidenza perfino le primarie repubblicane.

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“cari figli vi chiedo scusa”

bruxelles905

attentati di Bruxelles

la lettera di una giornalista ai figli

“vi chiedo scusa, ero certa che vi avremmo risparmiato la guerra”

E’ una lunga lettera quella che la giornalista francese Béatrice Delvaux ha scritto ai suoi figli. Pubblicata sul giornale Le Soir all’indomani degli attentati di Bruxelles, è una lettera commovente, nella quale la giornalista si rivolge ai suoi ragazzi e, insieme, a un’intera generazione per chiedere scusa. Scusa perché, scrive,
Caro Tu, sono vent’anni che ti mento. Non ho che una scusa: io stessa ho creduto alle mie bugie per 20 anni. Ti ho venduto questo mondo come quello delle possibilità, dei grandi viaggi, di quegli spazi che tu potevi sondare… Io, io che ero certa che ti avremmo risparmiato la guerra, rinchiudendola nei libri di storia o in quegli aneddoti  che la nonna o il nonno ti raccontavano, eppure sbagliavo“.
Preoccupata per il futuro dei suoi figli e dei loro coetanei, la giornalista racconta l’orrore ma ricorda anche i passi avanti fatti negli ultimi decenni, dalla fine del servizio militare alla conquista dell’uguaglianza tra uomo e donna, ai matrimoni con persone delle stesso sesso:
Eravamo assolutamente certi di aver sotterrato quei demoni che avevano costruito i campi di concentramento, i genocidi, il napalm. i goulag. Goulag? Hai persino creduto che ti parlassi di un piatto ungherese. Ne abbiamo tanto riso, ricordi? Perché dovremmo aver paura? I nostri genitori l’avevano fatta la guerra, ma loro avevano anche, in seguito, costruito la pace. Loro stessi avevano dato vita a quell’Europa che doveva salvaguardarci dalle nostre follie, dalle nostre derive. Noi abbiamo davvero creduto in quel mondo che ti abbiamo promesso,  per la semplice ragione che l’abbiamo visto affermarsi. Abbiamo visto cadere i muri, le ideologie, le barriere, ma non erano che commerciali. Io, tua madre, ho approfittato dell’uguaglianza crescente con gli uomini, di quei diritti per cui abbiamo combattuto e che abbiamo inscritto nella legge. Io, tuo padre, non ho dovuto fare il servizio militare perché ho vissuto gli ultimi spasmi di quel mondo. Poiché non era più il momento delle armi, ma delle coscienze. Non era più il momento di invadere i vicini per sottometterli, ma di soggiornare da loro, farsi sedurre imparando la lingua dell’altro, in tenda, in camper o, ancora prima, con sacchi a pelo, per poi arrivare a quell’Erasmus che tu dovresti – dovresti? – fare tra qualche mese. Avevamo vinto l’odio – “Mai più tutto questo”, non era altro che uno slogan, era diventato un luogo comune, una convenzione, un’affermazione di diritto”.
Il dolore di quanto accaduto a Bruxelles si fa strada parola dopo parola nel lungo scritto:
Quindi, no! Io non volevo che tu vedessi quei corpi triturati, quelle carni esplose alla stazione di Maelbeek. Maelbeek, a due passi da casa tua, Maelbeek, centro di Bruxelles, con quel nome che suona come uno scherzo, che è un punto di ritrovo: “Ci vediamo a Maelbeek”, “Scendi a Maelbeek”, “Ci siamo baciati a Maelbeek”? Quindi, no! Io non volevo che tu ieri ascoltassi il pianto di quei bambini terrorizzati, persi nel fumo dell’esplosione, unico filo conduttore nell’orrore, mentre cercavano la fuga da quella metro sventrata, triturata, uccisa“. “Caro Tu – prosegue – Dopo la collera, la tristezza, è arrivo il tempo di chiederti scusa. Ti implorare il tuo perdono. Ma di dirti anche che sentirti qui, al mio fianco, mi dà la forza per raddrizzare la testa. E credere nel domani“.
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meglio morto che risorto?

meglio morto che risorto

sul senso profondo della Pasqua di Alberto Maggi


 di Alberto Maggi

Se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede”, afferma perentorio Paolo ai Corinti (1 Cor 15,14). Eppure nessun evangelista dà la descrizione del momento della risurrezione del Cristo. Questo fatto creò così tanto imbarazzo nelle comunità cristiane primitive che si rimediò a questa lacuna con un falso d’autore che ebbe un grande successo. Infatti, l’immagine tradizionale del Cristo Risorto, che esce trionfante dal sepolcro, con le guardie tramortite, non appartiene ai vangeli riconosciuti ispirati, ma a un testo apocrifo del secondo secolo, conosciuto come il Vangelo di Pietro: “Durante la notte nella quale spuntava la domenica, mentre i soldati montavano la guardia a turno, due a due, risuonò in cielo una gran voce, videro aprirsi i cieli e scendere di lassù due uomini, in un grande splendore, e avvicinarsi alla tomba. La pietra che era stata appoggiata alla porta rotolò via da sé e si pose a lato, si aprì il sepolcro e c’entrarono i due giovani” (Vang. Pietro 9,35-37).

Nessuno ha potuto descrivere la risurrezione del Cristo, perché neanche un solo discepolo era presente, nonostante Gesù avesse insistentemente affermato che sì, sarebbe stato ucciso, e nel modo più infamante, la crocifissione, ma poi dopo tre giorni sarebbe risuscitato (Mt 16,21; 17,22; 20,19). Ma nessuno ci ha creduto, perché nessuno desiderava veramente la sua risurrezione. La prova che il Messia era quello inviato da Dio, era che non poteva morire, perché “il Cristo rimane in eterno” (Gv 12,34). Pertanto, se Gesù era morto, e in quel modo infamante, con la morte dei maledetti da Dio (Dt 21,23; Gal 3,13), pazienza, voleva dire che si erano sbagliati, e c’era solo da attendere il vero Messia, quello che avrebbe sbaragliato i nemici, sottomesso i popoli pagani e inaugurato il regno d’Israele. Del resto non era la prima volta che qualche esaltato si era proclamato l’atteso liberatore, aveva iniziato la rivolta contro gli odiati Romani e il tutto era finito in un bagno di sangue, come insegnava il tragico epilogo delle insurrezioni capitanate dai vari Teuda e Giuda il Galileo, sedicenti Messia che convinsero la gente a seguirli, e quelli che lo fecero “furono dissolti e finirono nel nulla” (At 5,36-37). In fondo meglio morto che risuscitato. Perché se Gesù era morto, era segno che non era il Messia e bisognava attenderne un altro. Ma se era risuscitato, allora addio sogni di gloria, di restaurazione del defunto regno del re Davide, della supremazia sui popoli pagani, dell’accumulo delle ricchezze delle altre nazioni, come i profeti avevano vagheggiato (“Vi nutrirete delle ricchezze delle nazioni, vi vanterete dei loro beni”, Is 61,6).

Pertanto, morto Gesù, i suoi discepoli, delusi (“Speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele…”, Lc 24,21), erano tornati alle due occupazioni di sempre, e il Risorto li deve andare a cercare uno a uno per far sperimentare loro che era veramente risorto, rimproverandoli “per la loro incredulità e durezza di cuore” (Mc 16,14; Lc 24,25). Inutilmente Gesù nella sua vita terrena aveva parlato ai suoi discepoli del regno di Dio, perché questi capivano regno di Israele. Gesù parlava di servizio e i discepoli pensavano al potere, il Maestro insegnava a mettersi a livello degli ultimi e i discepoli litigavano tra loro per assicurarsi il posto più importante, il Signore li invitava a scendere e essi pensavano solo a salire.
Per questo il Risorto, una volta riunito i suoi, tiene loro una sorta di corso intensivo durato ben quaranta giorni “parlando delle cose riguardanti il regno di Dio” (At 1,3). Ma niente da fare: quando l’ideologia religiosa è intrecciata con quella nazionalista, anche se si hanno orecchie per udire non si ode, e se si hanno occhi per vedere non si vede (Mc 8,18). Infatti, al quarantesimo giorno, i discepoli, che evidentemente non erano interessati a questo tema del regno di Dio, gli domandarono: “Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?” (At 1,6). Scrive l’evangelista che a questo punto “una nube lo sottrasse ai loro occhi” (At 1,9). Il Cristo non se n’è andato, ma sono i discepoli che sono incapaci di vederlo. Chi è mosso dal potere non può percepire l’Amore, chi pensa a sé non può riconoscere la presenza dell’Altro. Ci vorrà ancora del tempo, e quando finalmente i discepoli comprenderanno che il pane non va accumulato, ma solo spezzato e condiviso, allora si apriranno i loro occhi e riconosceranno il Cristo risorto (At 24,31) che li accompagnerà nella loro missione (Mc 16,20).

 (fonte: Il libraio)
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dalla parte dei profughi e degli ultimi senza se e senza ma

sempre dalla parte degli ultimi

di Orazio La Rocca

in “Trentino” del 25 marzo 2016

lavanda piedi
Lavare i piedi a 12 profughi migranti arrivati in Italia in fuga da Paesi in guerra, colpiti da violenze, fame, malattie. Gesto simbolico – ma anche pratico e altamente significativo – di servizio, di accoglienza e di amore tra i più forti delle celebrazioni pasquali che papa Francesco compie come un “vecchio” padre con movenze lente e sicure, curvandosi in ginocchio ai piedi di dodici apostoli-immigrati che hanno ancora volti e sguardi segnati da espressioni di paure difficilmente dimenticabili.

Inizio del quarto triduo pasquale di Jorge Mario Bergolio nella veste di pastore universale della Chiesa cattolica al Care, il Centro di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo di Castelnuovo di Porto, presso Roma. Non in una grande storica artistica monumentale chiesa ma uno dei luoghi-simbolo dove vengono raccolti i migranti che attraversano il Mediterraneo su barconi e carrette del mare per salvarsi da conflitti bellici, oppressioni, sfruttamenti. Uno dei luoghi-simbolo di dolore e di speranza, area di approdo per chi è in attesa di poter trovare una sistemazione in Italia o in uno dei paesi della vecchia Europa. E con la scelta di celebrare proprio al Care – dopo che nei primi tre anni da Pontefice aveva presieduto lo stesso rito nelle carceri della Capitale – papa Francesco ha fatto chiaramente capire con gesti, parole e richiami di essere dalla parte dei migranti senza se e senza ma. Anzi, con una scelta profetica e politicamente controcorrente agli occhi dei fautori di politiche dei muri e dei respingimenti in mare di chi scappa dalle guerre, ha posto al centro del rito per eccellenza dell’avvio delle celebrazioni pasquali i più sofferenti, gli ultimi arrivati, gli oppressi. Una scelta di campo che oggi, Venerdì Santo, potrà avere una sicura continuità nelle meditazioni della Via Crucis al Colosseo e che di sicuro Bergoglio ribadirà domani notte nella veglia della Resurrezione e domenica mattina, nella solenne Messa pasquale da piazza S.Pietro.

piediRiti, celebrazioni, ricorrenze, prolusioni Urbi et Orbi sempre e comunque plasmate intorno agli ultimi, alla scelta preferenziale dei poveri e a quanti vivono nel bisogno, schiacciati da oppressioni fisiche e morali. Una scelta di campo pastorale accanto a migranti, immigrati ed itineranti compiuta con forza da Bergoglio fin all’inizio del pontificato quando si recò a pregare a Lampedusa nelle cui acque erano morti centinaia di immigrati. Lo ha ripetuto in tantissime occasioni nel corso dei primi tre anni di pontificato. Lo ha fatto ieri nella solennità della celebrazione della Lavanda dei Piedi al Care, inginocchiandosi davanti a 12 immigrati di varie nazionalità e religioni diverse, 8 uomini (tre musulmani, un siriano, un pakistano e un maliano; 4 giovani nigeriani cattolici; un giovane indiano di religione indù) e 4 donne (tre eritree cristiane copte e una italiana cattolica). Dodici neo apostoli di oggi scelti da papa Francesco tra le persone più sofferenti ed oppresse, senza guardare alle loro fedi, alle nazionalità di provenienza e al sesso. Scelte e rito (Lavanda dei Piedi) fortemente “simbolici” spiegati da Bergoglio con la necessità di voler dare «oggi e qui due testimonianze: la prima è che in questo luogo, pur in mezzo a persone di differenti fedi religiosi, in questo momento ci sentiamo tutti uniti come fratelli e figli di un solo Dio; la seconda è che con questo gesto di servizio della lavanda dei piedi vogliamo dare una risposta a quanti, l’altro giorno, in Belgio, invece di mettersi al servizio di altri fratelli, hanno distribuito armi e ordigni di morte con cui hanno seminato morte e distruzioni, e ferito centinaia di innocenti». Gesti di “cieca follia” che il Pontefice ha paragonato ad un altro gesto di altrettanta “cieca follia” fatto da Giuda Iscariota «quando per trenta denari tradì Gesù consegnandolo ai suoi carnefici». Drammi, violenze e tragedie di ieri e di oggi, evocati dal papa argentino – novello Buon Samaritano del terzo millennio – con un solo ostinato scopo, tendere la mano a chi soffre, a chi scappa da guerre, violenze ed oppressioni, e condannare i mercanti di morte che ammazzano nel nome di Dio.

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Pio Laghi e i desaparecidos della dittatura argentina

dittatura argentina e il nunzio Pio Laghi

le verità oscurate

la vicenda e una lettera dell’Arcivescovo conservata negli Archivi vaticani, con la scoperta di tante realtà negate su quei sette anni (1976 – 1983)

 ricordo di avere udito con sgomento dalla sua bocca queste parole di risposta (a me che impertinentemente gli domandavo se avesse saputo qualcosa delle trenta mila persone fatte sparire da chi giocava con lui a tennis – “non esageriamo, sì e no se si tratta di cinque mila!”

 Fra le tante e articolate verità che potrebbero venire fuori dall’apertura degli Archivi vaticani riguardante il periodo delle quattro Giunte militari che tra il 1976 e il 1983 governarono con ferocia inaudita l’Argentina, certamente la vicenda dolorosa del Nunzio a Buenos Aires, arcivescovo Pio Laghi, sarà una delle più interessanti, utili e necessarie.
Pio Laghi arrivò a Buenos Aires, accreditato come Nunzio del Papa, il 1° luglio 1974, lo stesso giorno della morte del Presidente Juan Domingo Perón, e finì la sua missione diplomatica il 21 dicembre 1980. Furono, per Pio Laghi, quasi sei anni di grande dolore e sofferenza che segnarono per sempre la sua vita. Lui però non sapeva ancora che era solo l’inizio. Lo scoprì, in Vaticano, già cardinale e allora Prefetto della Congregazione per l’Educazione Cattolica, la mattina del 23 marzo 1997 quando aprì il Corriere della Sera. Il quotidiano a pagina 10 offriva ai suoi lettori un ampio reportage con il titolo «Cardinale e carnefice». Il sottotitolo aggiungeva: «Argentina – Pio Laghi accusato di esser parte integrante della dittatura militare argentina».

Da questo giorno terribile per Pio Laghi partì una corposa campagna stampa, non solo in Argentina, che gradualmente e con la tecnica del martellamento lo presentò quasi come un mostro. In queste denunce, che imputavano al Nunzio di aver preso parte «al sequestro, tortura e omicidi di migliaia di persone», si sono distinte le Madri della Piazza di Maggio, numerosi politici, organi di stampa, in America Latina e in Europa. Il 4 magio 1997 la Presidente delle Madri della Piazza di Maggio, Hebe de Bonafini, insieme con Marta Badillo e l’avvocato Sergio Schocklender, annunciarono una richiesta di processo perché il diplomatico, a loro parere «visitava assiduamente i centri di detenzione clandestini e permetteva le torture e le esecuzioni che vi avevano luogo». L’esposto fu consegnato ai Tribunale di Roma il 21 maggio 1997, giorno del 75.mo compleanno del porporato.

I tempi della missione del Nunzio Laghi
Pio Laghi fu Nunzio a Buenos Aires dal luglio 1974 al dicembre 1980, quindi durante i venti mesi del governo di Isabelita Perón, la vedova che come Vice Presidene prese l’incarico del marito dopo la morte (1º luglio 1974 – 24 marzo 1976) e poi per quasi 4 anni della dittatura di Jorge Videla e compagni. In questi anni l’arcivescovo Laghi dovette fare i conti con situazioni e fenomeni tutti molto gravi e non facili. Da un lato la crisi politico-isituzionale creatasi con la successione di Isabel Perón, persona incapace, nelle mani di personaggi molto discutibili come il suo segretario personale, José López Rega, finanziatore occulto, con soldi dello stato, della «Alianza Anticomunista Argentina» usata per combattere i diversi fenomeni, anche armati, dell’estremismo di sinistra (Montoneros, Ejército revolucionario del pueblo, Uturuncos, Fuerzas Armadas Revolucionarias e altri). All’incrocio micidiale di due terrorismi, insurrezionale e di stato, si è aggiunto, dopo il golpe di Videla, la repressione disumana e totalitaria di militari che dicevano ufficialmente di agire nel nome del cristianesimo per favorire il famigerato «Processo di Riorganizzazione Nazionale». Infine, erano anche gli anni in cui covava sotto le ceneri la tentazione guerriera, sia di Buenos Aires e sia di Santiago del Cile dove comandava il dittatore Augusto Pinochet, che avrebbe condotto a uno scontro bellico devastante se non fosse che s. Giovanni Paolo II, con l’opera straordinaria del cardinale Antonio Samoré, riuscì a scongiurare con una lunga e complessa mediazione.

Le 5mila schede di Pio Laghi
Monsignor Laghi si è sempre difeso con fermezza e dignità da ogni accusa anche di quelle palesemente inconsistenti. Molte volte lamentò l’impossibilità di accedere agli Archivi sia quelli in Vaticano sia a quelli custoditi presso la Nunziatura argentina dove, diceva, c’erano almeno 5.000 schede da lui allestite su vittime della repressione. Bruno Passarelli e Fernando Elenberg, nel loro libro «Il Cardinale e i desaparecidos», scrivono: «Laghi aiutò a salvare vite umane; assistette umanamente e materialmente molti perseguitati; intercedette a favore di detenuti che, abbandonati nelle loro celle, potevano sparire nel nulla in qualsiasi istante, vittime della politica “Notte e Nebbia” alla sudamericana, praticata dai repressori. Inoltre, cercò di verificare dove fossero finiti i “desaparecidos”, per regalare un raggio di speranza ai loro tormentati familiari. Criticò pubblicamente la Giunta Militare e continuò a farlo sebbene ricevesse minacce di morte e si scontrasse duramente con Vescovi e cappellani militari che appoggiavano il regime e con i quali, in quanto Rappresentante Pontificio, era chiamato a convivere e non a scontrarsi».

Questi giudizi si basano su numerose inchieste giornalistiche che dimostrano, per citare solo un dato, che nel 1979 chiese alle autorità argentine chiarimenti complessivamente su 2.388 cittadini e anche se è vero che era amico dell’ammiraglio Emilio Massera – uno di tre membri della Giunta militare – fu dichiarato persona non grata nel 1980 da parte del governo argentino e perciò costretto a lasciare il Paese.

Nel libro sopracitato si legge: «Le testimonianze (Ndr: sull’opera umanitaria di Laghi) non mancano. In una minuta priva di data, il Segretario di Stato Cardinale Jean Villot, si riferisce a un rapporto che Laghi gli aveva inviato pochi giorni prima accennando alla situazione di un gruppo di donne argentine i cui familiari erano stati sequestrati ed erano detenuti o scomparsi. E scrive: «Le sono vivamente grato per le informazioni che ci ha fornito nel contesto di molti altri casi in favore dei quali codesta Nunziatura Apostolica interviene ripetutamente e instancabilmente, presso le autorità competenti, nonostante la scarsa attenzione che queste le prestano».

I conflitti nell’Episcopato
Oltre alla tante gravi e delicatissime situazioni che il Nunzio Laghi deve affrontare durante la sua missione diplomatica ed ecclesiale, già ricordate seppure sommariamente, ce n’era una ancora più difficile e complicata per un servitore del Papa chiamato, per missione e servizio, a difendere e rinforzare l’unità dei vescovi del Paese. La complessa, composita e fragilissima situazione dell’Argentina aveva ferito seriamente il corpo episcopale che a Laghi si presentò molto diviso, litigioso e polarizzato. La dittatura, seppure pagana e totalitaria, riuscì a seminare – appellandosi a parole alla difesa del cristianesimo, in particolare del cattolicesimo, profonde divisioni e antagonismi tra i vescovi al punto che la morte di due di loro, fatti uccidere per le loro posizioni critiche, monsignor Angelelli (1976) e monsignor Ponce de León (1977), per la maggioranza dell’Episcopato per molti anni sono apparse come «semplici incidenti stradali».

C’erano vescovi che si fidavano ciecamente dei dittatori e a loro perdonavano ogni cosa, anche gli eccessi peggiori. C’erano vescovi radicalmente critici, pochi, che si esprimevano però con cautela e misura.

C’erano vescovi, la stragrande maggioranza, che scelsero la discutibile via del dire: «La politica non ci riguarda».

E tutte queste tensioni e differenze s’incorniciavano in una lunghissima controversia sul Concilio Vaticano II, alle cui conclusioni si opponevano ostinatamente molti presuli, richiamati alla disciplina a più riprese da Papa Paolo VI. Intanto il Movimento di sacerdoti per il Terzo Mondo contesteva duramente la gerarchia. C’era inoltre la questione delicatissima della successione del Primate, cardinale Antonio Caggiano (1889 – 1979).

Quando s. Giovanni Paolo II visita per poche ore il Paese, alla ricerca di una via per fermare l’imminente guerra tra Argentina e Cile, sottolinea ai vescovi: «La missione del Vescovo ha sempre un aspetto che non ho motivo di dissimulare. È facile e a volte può essere comodo lasciare le cose diverse abbandonate alla loro dispersione. È facile, collocandosi all’altro estremo, ridurre con la forza la diversità a una uniformità monolitica e indiscriminata. È difficile, invece, costruire l’unità conservando, anzi meglio, fomentando, la giusta varietà. Si tratta di sapere armonizzare i valori legittimi delle diverse componenti dell’unità, superando le naturali resistenze, che sorgono con frequenza da ciascuna di essa. Perciò, essere Vescovo, sarà essere sempre artefice di armonia, di pace e di riconciliazione» (12 giugno 1982). Cinque anni dopo, nel viaggio del 1987, Papa Wojtyla urlerà: «Argentina alzate!».

Le verità degli Archivi che saranno aperti
È certo che l’apertura degli Archivi vaticani sul periodo delle dittature argentine, 1976-1983, ristabilirà la verità sull’operato del Nunzio Pio Laghi, anche lui vittima della «guerra sporca», in particolare dalla stampa sotto controllo del regime che spesso ha attribuito frasi, pensieri o dichiarazioni mai fatte e distorte per farlo apparire, in quanto Rappresentante del Papa, un sostegno del Vaticano alle orrende nefandezze dei dittatori; stampa che non sempre pubblicava le sue smentite o precisazione. Non vi è dubbio che da qui è nata la leggenda nera su Pio Laghi; leggenda assunta da molti che però non si sono accorti di essere rimasti intrappolati nella rete di menzogne dei dittatori.

Non solo per le vittime della «guerra sporca», e per i loro parenti, ma anche per Pio Laghi attendiamo con fiducia l’apertura degli Archivi vaticani, che con ogni probabilità ci permetteranno, per la prima volta, di leggere documenti come la lettera di Pio Laghi al cardinale Jean Villot nel luglio 1976, un impressionante squarcio di verità nelle menzogne circolate per decenni.

***
Ecco un documento di 40 anni fa che si trova negli Archivi che saranno aperti: Lettera rapporto del Nunzio monsignor Pio Laghi al cardinale Segetario di Stato, Jean Villot.

Buenos Aires, 13 luglio 1976
N° 1510/76
OGETTO: Colloquio con il Ministro dell’Interno
A Sua Eminenza
Il Sig. Card. JEAN VILLOT
Prefetto del Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa.
Città del Vaticano.
(Con allegato)
Eminenza,
Questa mattina mi sono recato alla Casa di Governo dove mi sono incontrato con il Generale Albano Harguindeguy, Ministro dell’Interno dell’Argentina, con il quale ho avuto un colloquio di tre quarti d’ora. Il principale argomento trattato è stato quello riguardante lo stato dei detenuti politici, il sequestro e l’eliminazione di persone, al margine della legge, e la violazione di fondamentali diritti umani.
In seguito all’eccedio di cinque Religiosi Pallottini, il Ministro stesso aveva espresso il desiderio di avere un incontro con me, ed io naturalmente l’ho assecondato, ritenendo conveniente valermi di tale udienza per parlare anche sugli argomenti sopra menzionati.
Circa l’assassinio dei Pallottini, egli mi ha assicurato che l’inchiesta per identificare gli autori prosegue; ha aggiunto che l’increscioso fatto ha prodotto al paese un danno morale incalcolabile, «molto maggiore del danno prodotto dalla bomba esplosa nel quartiere generale della Polizia, che ha causato 20 morti e oltre 60 feriti»; perciò, ha soggiunto, i responsabili devono essere identificati e processati. Mi ha confidato poi di avere degli indizi per concludere che la mano assassina sia «di estrema destra»; ha dato ordine all’alto Comando della Polizia di mettere ogni impegno per far luce sul fatto, al fine di «pulire e riscattare l’immagine stessa del Corpo».
Al Ministro ho consegnato alcuni fogli nei quali avevo trascritto, secondo la categoria, i nomi dei detenuti, dei sequestrati e degli scomparsi, i cui familiari si sono rivolti alla Nunziatura per ottenere il nostro interessamento (Allegato); ho richiamato l’attenzione del Ministro su alcuni casi, che mi sembrano di particolare urgenza e meritevole di speciale considerazione, come quello degli Ingegneri della Commissione per l’Energia Atomica, quello del regista del cinema Raymundo Glayser, quello del Prof. Roberto Bergalli.
Harguindeguy mi ha poi fornito dettagliate informazioni sui sacerdoti tuttora detenuti, a disposizione del potere esecutivo, oppure sotto processo: essi sono 9, di cui 6 erano in carcere ancoro prima del “golpe militare”; cinque sono sotto giudizio e per essi il Pubblico Ministero ha chiesto l’applicazione di pene fino a 8 anni di reclusione; gli altri quattro potranno forse essere espulsi dal paese come «persone non grate», non essendo argentini.
Infine, ci siamo soffermati a parlare dei rifugiati e di coloro che sono qui residenti ma non cittadini dello Stato, se, da una parte, la loro presenza e il loro numero, molto alto, pongono seri problemi di sicurezza per le autorità statali, dall’altra essi hanno dei diritti inalienabile. Circa i detenuti non argentini, ho ricordato casi in cui essi sono mantenuti «incomunicati» e non possono essere visitati nemmeno dall’agente consolare del rispettivo paese: ciò è in contrasto con l’articolo 36 della Convenzione di Vienna sui rapporti consolari, di cui l’Argentina è firmataria.
Il Ministro ha ammesso che in qualche presidio militare, come in quello di Rosario, al comando del generale Díaz Bessone – un tipo molto «duro» – si verificano abusi del genere, ed ha promesso che farà di tutto per portarvi rimedio.
Di fronte all’angustia che ho manifestato, circa atti di violenza compiuta da «squadristi» di destra e circa i metodi inammissibili di lotta contro la sovversione, il Ministro ha concordato con me che «è necessario disarmare tutti i gruppi che agiscono al di fuori della legge dello Stato».
Nel riferire quanto sopra all’Eminenza Vostra profitto della circostanza per porgerLe i sensi del mio profondo ossequio,
di Vosta Eminenza
dev.mo
(firma Pio Laghi)

luis badilla
città del vaticano
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per non dimenticare Tibhirine

Algeria

20 anni fa il martirio dei monaci di Tibhirine

nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996 il loro rapimento dal monastero di Notre-Dame dell’Atlas e il 30 maggio il ritrovamento dei corpi
i monaci di Tibhirine
maria teresa pontara pederiva
«Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese. Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza e nell’anonimato. La mia vita non ha più valore di un’altra».

Aveva scritto così nel suo testamento, stilato tra il dicembre 1993 e il gennaio 1994: poco più di due anni dopo, nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996, frère Christian de Chergé – priore del monastero trappista di Notre-Dame de l’Atlas in Algeria, veniva preso in ostaggio insieme a sei confratelli da un commando del Gia (Gruppo islamico armato). I loro corpi martoriati furono ritrovati dopo 56 giorni.

Una vicenda, quella dei monaci di Tibhirine che a vent’anni di distanza non cessa di indurre una riflessione sul sangue dei «martiri di oggi» – come li ha definiti Papa Bergoglio all’Angelus del 6 marzo scorso in riferimento alle quattro missionarie della carità uccise in Yemen – ed è significativo che il loro anniversario cada quest’anno proprio alla veglia pasquale.

Sono stati testimoni (traduzione del termine greco, martire) della loro fede in un Dio che considera figli e fratelli tutti gli uomini della terra, testimoni di una convinzione profondamente evangelica: la possibilità di una pacifica convivenza tra le diverse religioni al di là di ogni fondamentalismo.

Il loro monastero in Algeria, come quello di Deir Mar Musa fondato da padre Paolo Dall’Oglio – l’uno arroccato sui monti dell’Atlas, l’altro sul monte Libano davanti al deserto siriano – entrambi luoghi in cui la fede cristiana aveva imparato a convivere con l’islam. Perché padre Chergé e i suoi confratelli sapevano ben distinguere evitando ogni strumentale generalizzazione e, pur coscienti di venie assimilati a ingenui e idealisti, hanno perseverato fino all’ultimo nella fedeltà di una scelta che li aveva indotti a restare, a fianco dei loro fratelli algerini in balia del conflitto che dilaniava il paese (una vicenda rappresentata nel film di Xavier Beauvois «Des hommes et des dieux» 2010).

«So il disprezzo con il quale si è arrivati a circondare gli algerini globalmente presi – continua il testamento – So anche le caricature dell’islam che un certo islamismo incoraggia. È troppo facile mettersi a posto la coscienza identificando questa via religiosa con gli integralismi dei suoi estremisti».

Provenivano da esperienze personali assai diverse i sette monaci uccisi (come accade in ogni comunità religiosa, dove si diventa semplicemente un «fratello»): un figlio di un generale dell’esercito, un idraulico, un convinto sessantottino, un dirigente scolastico, un fresatore, un medico, un religioso «di strada». Ma al monastero avevano raggiunto uno straordinario «sentire comune» e proprio questa vita comune – come ha scritto Enzo Bianchi nella prefazione a un testo pubblicato a Bose nel decimo anniversario della morte «Più forti dell’odio» – ha affinato la loro contemplazione, li ha portati all’autentica contemplazione cristiana: vedere gli uomini – ogni uomo, anche il nemico – e le cose – tutte le cose, anche la morte violenta – con gli occhi di Dio».

«Potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze» continua frère Christian.

«Quante sono le vie che conducono a Dio?» è stato chiesto all’allora cardinale Ratzinger nel libro «Sale della terra»: «tante quante sono gli uomini sulla terra», tutti in cerca di quel «Dio ignoto» di cui parla san Paolo all’agorà di Atene.

«E anche a te, amico dell’ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi – conclude il Priore dopo avere reso grazie a Dio, amici e familiari e alludendo all’unica Gerusalemme celeste – Sì anche per te voglio questo grazie e questo “ad-Dio” da te previsto. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in Paradiso, se piace a Dio, Padre Nostro, di tutti e due. Amen! In š?? All?h».

Sono ben 19 i religiosi uccisi in Algeria tra il 1994 e il 1996 (il 1° agosto dello stesso anno, anche il vescovo di Orano, il domenicano Pierre Claverie) tanto che nel 2013 il monaco trappista francese Thomas Georgeon è stato nominato postulatore della loro causa di beatificazione in corso.

«Un segno sulla montagna», il motto del monastero, nel frattempo ha ripreso vita, ancora sull’Atlas, ma a Midelt in Marocco: una piccola comunità intitolata a Maria Notre-Dame, dove vive l’ultimo sopravvissuto di Tibhirine (che in lingua locale significa «giardino»), Jean-Pierre Schumacher, ultranovantenne.

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