la scortesia di Salvini verso i rom che gli danno il benvenuto

 

cartelli di benvenuto per Salvini al campo rom

e lui: “compratevi una casa e pagate le tasse”


SALVINI

 Tor Sapienza
Per chi non lo ricordasse si tratta del quartiere alla periferia di Roma dove nel marzo scorso i cittadini hanno dato alle fiamme cassonetti e lanciato sassi contro le finestre di un centro di accoglienza per immigrati. È da qui che il leader della Lega Nord, Matteo Salvini, ha iniziato la campagna di ascolto in vista delle amministrative romane e della consultazione di sabato e domenica per decidere se appoggiare o meno il candidato sindaco Guido Bertolaso, secondo il quale “con i rom non vanno utilizzate le ruspe perché sono una categoria vessata”. Invece il leader del Carroccio è stato accolto dai cittadini di Tor Sapienza all’urlo di “ruspe, ruspe. Forza Matteo!”, con tanto di ruspa giocattolo in regalo. “I veri vessati – ha esordito Salvini – sono i romani non i rom. Chi vuole governare con la Lega deve chiudere i campi rom”

Salvini dalla piazza del quartiere, dove ha parlato con i comitati e con le truppe romane organizzate pro Lega Nord (“Qui c’è la prostituzione”, “A mio figlio hanno rubato le scarpe dal passeggino, ci fidiamo solo di te”), si è spostato in via Salviati dove si trova uno dei campi rom più grandi della Capitale. Qui va in scena l’accoglienza che non ti aspetti, alla quale l’esponente del Carroccio replica con toni provocatori. All’ingresso appare una tavola di compensato gigante con scritto in giallo: “Benvenuto a Roma, Matteo”. E una bambina gli urla: “Salvini, ti voglio bene”.

salvini rom

Le contraddizioni si susseguono una dopo l’altra. Disgustato da tutto ciò che vede attorno lui, il leader del Carroccio passa in mezzo alle roulotte, alle case costruite con plastica e legno, scavalca i ferri vecchi che ci sono per terra e fotografa la spazzatura accumulata per poi twittare. Ecco però che appare un lenzuolo bianco con scritto: “Matteo Salvini, prima gli italiani. Pace e amore”. Il concetto che gli abitanti del campo rom vorrebbero far percepire al leader leghista è che loro sono italiani come i romani e come tutti gli altri. Ed è il concetto che gli illustrano quando Salvini sale sul palco allestito in mezzo al campo rom per una specie di comizio, il cui incipit è: “Perché i bambini non sono a scuola? Qui c’è tutto meno che la legalità”. “Va bene – dice il capo del campo rom – tu dici ‘prima gli italiani’, ma gli italiani vengono a mangiare con noi alla Caritas, anche loro non hanno soldi. Noi facciamo la domanda per la casa ma non ce la danno, dicono che siamo sporchi. Noi vogliamo lavorare ma non ci danno lavoro. Come dobbiamo fare? Per forza, dobbiamo vivere qui”. Così Salvini chiede: “Ma tu le paghi le tasse”. E lui: “No”. “E allora – conclude l’esponente leghista leghista – di che stiamo parlando?”. Si va avanti così per oltre mezz’ora.

“Noi non siamo criminali, state mettendo i poveri contro i poveri. State esagerando”, incalza ancora il capo del campo rom. “Ma non puoi vivere così, a Milano – illustra Salvini con l’aria di chi sa e arriva da lontano – la stragrande maggioranza dei rom vive nelle case. L’ha comprata, l’ha affittata. E perché a Milano lo fanno e qua no?”.

Una risposta ovviamente non c’è. Piuttosto c’è qualcuno che non è rimasto convinto da ciò che ha detto Salvini e chiede: “Ma se le case non le hanno gli italiani, perché dovremmo averle noi? Chi ce le dà?”. Intanto arriva la notizia che la Consulta ha bocciato la legge anti-moschee e il leader leghista non perde l’occasione per dire: “Abbiamo una Consulta islamica”. Il Salvini tour si conclude con un contestatore che dice al leader del Carroccio: “Non hai risposto neanche a una domanda, vattene. Ma non ti vergogni?”. E con gli abitanti di Tor Sapienza che urlano a quelli del campo rom cori da stadio: “A lavorare, andate a lavorare”. E loro: “Daccelo tu il lavoro. Nessuno ce lo dà”.

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qui papa Francesco deve fare decisamente di più

“papa Francesco non ha fatto nulla contro la pedofilia”

l’accusa di Peter Saunders

ex membro dell’organismo vaticano anti-abusi

PETERSAUNDERS

 
   papa Francesco lo scelse per entrare nella commissione vaticana contro i preti pedofili. A distanza di due anni, Peter Saunders lancia a Jorge Bergoglio una accusa feroce: “Durante il papato di Francesco la Chiesa cattolica non ha fatto nulla per eliminare gli abusi sui minori da parte del clero”, dichiara alla Bbc in una sferzante intervista. “E lui è parte del problema”

Saunders, britannico vittima delle molestie sessuali di un sacerdote, nei primi giorni di febbraio è stato formalmente sospeso dalla Pontificia Commissione per la Protezione dei Minori. L’organismo si è insediato nel 2014 per esplicito volere di papa Francesco, che ha sempre giudicato pubblicamente “una mostruosità” le attenzioni pedofile degli appartenenti al clero.

Ora alla Bbc l’uomo spiega la sua delusione: “Sono sempre stato una spina nel fianco del Vaticano fin dal primo momento del mio ingresso nella Commissione”. “Pensai che il nostro lavoro sarebbe stato quello di prendere delle decisioni contro i singoli sacerdoti abusatori e invece l’obiettivo è creare politiche e linee guida per stabilire quali sono le migliori pratiche per evitare gli abusi”. Nel frattempo, continua Saunders, “ogni giorno ascoltiamo storie di abusi da parte dei preti. E’ terribile”.

Nessun intervento concreto, dunque, bensì un organismo politico che secondo Saunders non porterà a nulla anche per problemi formali: i quattro membri della segreteria della Commissione “sono molto vicini al Vaticano” e quindi, sempre secondo quanto dichiarato da Saunders alla Bbc, poco indipendenti.

Inoltre “l’organismo si trova nel Vaticano e invece avrebbe dovuto lavorare a Roma”. Saunders non risparmia nulla al pontefice: la Commissione “è soltanto una questione di pubbliche relazioni” dopo gli scandali sulla pedofilia nel clero che hanno scosso principalmente i fedeli. Un lavoro perfetto “per il miglior pr che la Chiesa potesse avere”, e cioè Bergoglio.

Saunders ricorda il dialogo avuto proprio con papa Francesco: “Gli dissi che bisognava espellere tutti gli abusatori. In quel momento ebbi la sensazione che mi stava prendendo sul serio. Ma oggi so che non mi stava ascoltando”.

La Commissione contro gli abusi, continua imperterrito l’ex membro, non sarebbe stata nemmeno una idea di papa Francesco bensì dell’arcivescovo di Boston, Sean Patrick O’ Malley, al centro di una bufera mediatica proprio per i numerosi casi di abusi sessuali nella diocesi americana, al centro anche del recentissimo film “Il caso Spotlight”.

Alle accuse di Saunders il Vaticano risponde senza entrare nel merito, ma ricordando che la Commissione non è stata istituita per perseguire singolarmente i sacerdoti che si sono macchiati di pedofilia e abusi sessuali, bensì per trovare una soluzione generale al problema che tocca la Chiesa nel suo profondo. In due anni, scrive sempre il Vaticano, sono stati espulsi 880 sacerdoti.

Tra questi, però, non figura Juan Barros, vescovo della diocesi di Osorno in Cile, che secondo le vittime ha coperto gli abusi sessuali di Fernando Karadima Fariña, sacerdote sospeso proprio per questi reati. In una intervista a Daily Beast, Saunders aveva parlato anche dello scandalo che aveva coinvolto un cardinale molto vicino a papa Francesco, Francisco Javier Erràruriz, cileno:

Erràruriz aveva chiamato “il serpente” uno degli attivisti più famosi contro la pedofilia in Cile, Juan Carlos Cruz, in una email a un altro cardinale poi pubblicata sui media cileni. Cruz a quel tempo era candidato per la Commissione papale: ma la sua nomina non andò avanti. “Quello che il papa e gli altri cardinali dissero fu terribile”, ha dichiarato Saunders al Daily Beast.

 
 

Sempre al Daily Beast, Saunders spiega come mai è stato letteralmente cacciato dalla Pontificia Commissione per la Protezione dei Minori:

“Il giorno prima della mia espulsione (5 febbraio), stavano parlando della necessità che i vescovi riportassero (i casi di abusi, ndr) e O’Malley lo considerava un dovere morale”, dice Saunders. “Così ho presentato un programma per discutere sulla maggiore apertura e trasparenza. E’ stato bocciato. Ma la segretezza è il primo motivo per il quale esiste questa piaga!”.

 
 

Lo scandalo della pedofilia sta toccando uno degli esponenti più importanti del Vaticano, il cardinale Pell. Il responsabile delle finanze dovrà testimoniare il 29 febbraio alla Royal Commission australiana che indaga sulle presunte coperture che il cardinale avrebbe messo in atto per proteggere i sacerdoti della diocesi di Ballarat e Melbourne, accusati e in alcuni casi condannati di continue aggressioni sessuali sui minori.

Pell ha addotto motivi di salute per non viaggiare in Australia, suo Paese natale, e dunque la Royal Commission ha approntato una video-conferenza alla quale assisterà un gruppo di vittime di pedofilia di Ballarat che per l’occasione sarà a Roma nella stessa stanza del cardinale durante la testimonianza.

Nei giorni scorsi il quotidiano Herald Sun ha pubblicato la notizia di una inchiesta della polizia di Victoria che vedrebbe implicato proprio Pell, indagato per abusi sessuali. Il cardinale ha risposto con veemenza: “Menzogne”.

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la UE protesta con Renzi per gli sgomberi dei rom

Milano, 19 febbraio 2016 – 15:45

rom

il consiglio Ue scrive a Renzi:

 

“no agli sgomberi violano gli accordi”

il commissario per i diritti umani Nils Muižnieks scrive al premier:

« Preoccupa l’aumento degli allontanamenti forzati nella Capitale»

«Caro Presidente, sono seriamente preoccupato dalle notizie sugli sgomberi di famiglie rom in diverse località italiane, soprattutto a Roma e Milano»

Così cominciala lettera che il Commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muižnieks ha indirizzato al premier Matteo Renzi, per chiedere il rispetto delle procedure internazionali. «Ogni sgombero effettuato senza le dovute garanzie procedurali e senza l’offerta di soluzioni abitative alternative adeguate rappresenta una seria violazione degli obblighi internazionali da parte dell’Italia. Con dispiacere osservo la continuazione delle politiche del passato».

Le violazioni

In effetti, non è la prima volta che il commissario lettone prende carta e penna contro l’Italia. Nel novembre del 2013, dopo una visita a Roma, aveva già scritto all’allora sindaco Ignazio Marino sempre per denunciare le condizioni di vita di rom e sinti. Non solo: come ricorda Muižnieks a Renzi, il Consiglio d’Europa ha già contestato all’Italia due violazioni (relative al 2005 e al 2010) dell’articolo 31 dell’European Social Charter a causa delle «inadeguate condizioni abitative e degli sgomberi forzati di rom e sinti».

 

L’allarme a Roma

Nella lettera Muižnieks si dice «particolarmente allarmato dall’incremento del numero degli sgomberi forzati a Roma, dove ben 64 allontanamenti sono stati condotti dopo il 13 marzo del 2015 (giorno dell’annuncio del Giubileo della Misericordia, ndr) secondo quanto sostiene l’Associazione 21 Luglio». Sgomberi che, in molti casi, «vengono portati avanti senza una notifica formale o sufficiente preavviso e, fatto ancora piu’ grave, senza un reale dialogo con i diretti interessati – scrive ancora il Commissario -. Ho ricevuto notizie di famiglie rom diventate homeless visto che non è stata offerta loro nessuna alternativa oppure che l’unica soluzione offerta è stata il ricollocamento e segregazione nei campi per soli rom».

Basta con la logica dei campi

Proprio la onlus 21 Luglio – che si occupa di difendere i diritti delle comunità rom e sinti della Capitale e che ha lanciato l’appello internazionale #PeccatoCapitale per chiedere lo stop degli sgomberi durante il Giubileo – aveva accompagnato Muižnieks in giro per i campi nomadi romani, quelli «regolari» e quelli del tutto abusivi. «Durante la mia visita ho potuto osservare in prima persona le condizioni al di sotto degli standard in cui vivono i rom nei dintorni di Roma, sia negli insediamenti informali che nei “villaggi attrezzati” autorizzati. La segregazione che caratterizza questi ultimi – si legge nella lettera – mina seriamente le possibilità per gli abitanti di ricevere istruzione, avere accesso al lavoro, interagire con persone non rom e integrarsi nella società. Per questo, i “villaggi attrezzati” non possono essere considerati delle alternative abitative adeguate nel contesto degli sgomberi forzati».

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l’ “ur-fascismo” di U. Eco

in ricordo di Eco

l’Ur-fascismo

 

SPETT.UMBERTO ECO A NAPOLI (SUD FOTO SERGIO SIANO)

Ricordare un intellettuale del calibro di Umberto Eco non è mai compito facile, e a dirla tutta, spesso neppure utile, dato che si lascia ricordare per le cose che ha scritto e non certo per i nostri ricordi!

 

Rileggendo però alcune cose sue, in queste ore di poco posteriori alla sua dipartita, alcune, in particolare, le ho trovate interessanti per questo blog che parla di sociale, di migranti, di ultimi, di disperati. Parlo dell’articolo Ur-Fascismo (Il Fascismo Eterno), contenuto nel volume Cinque scritti morali

da sempre il fascismo – in ogni sua forma – è nemico degli ultimi e di chi sta fuori dal coro; è contro chi cerca la giustizia e l’eguaglianza sociale. Il fascismo mette gli uni contro gli altri, innesca guerre tra poveri, punta il dito sul diverso. E soprattutto il fascismo – ogni fascismo – è sempre dietro l’angolo, pronto a risorgere. Anzi, neppure risorge, dato che non muore mai. Per cui meglio rimanere in guardia

Stefano Rossini

 

Per ricordare al meglio Eco e i suoi numerosi contributi, riportiamo qui il testo dell’ Ur-fascismo, trovato già rilanciato su numerosi blog

1) La prima caratteristica di un Ur-Fascismo e’ il culto della tradizione.
Il tradizionalismo e’ piu’ vecchio del fascismo. Non fu solo tipico del pensiero controrivoluzionario cattolico dopo la Rivoluzione Francese, ma nacque nella tarda eta’ ellenistica come una reazione al razionalismo greco classico.
Nel bacino del Mediterraneo, i popoli di religioni diverse (tutte accettate con indulgenza dal Pantheon romano) cominciarono a sognare una rivelazione ricevuta all’alba della storia umana. Questa rivelazione era rimasta a lungo nascosta sotto il velo di lingue ormai dimenticate. Era affidata ai geroglifici egiziani, alle rune dei celti, ai testi sacri, ancora sconosciuti, delle religioni asiatiche. Questa nuova cultura doveva essere sincretistica. “Sincretismo” non e’ solo, come indicano i dizionari, la combinazione di forme diverse di credenze o pratiche. Una simile combinazione deve tollerare le contraddizioni. Tutti i messaggi originali contengono un germe di saggezza e quando sembrano dire cose diverse o incompatibili e’ solo perche’ tutti alludono, allegoricamente, a qualche verita’ primitiva. Come conseguenza, non ci puo’ essere avanzamento del sapere. La verita’ e’ stata gia’ annunciata una volta per tutte, e noi possiamo solo continuare a interpretare il suo oscuro messaggio. E sufficiente guardare il sillabo di ogni movimento fascista per trovare i principali pensatori tradizionalisti. La gnosi nazista si nutriva di elementi tradizionalisti, sincretistici, occulti.
La piu’ importante fonte teoretica della nuova destra italiana, Julius Evola, mescolava il Graal con i Protocolli dei Savi di Sion, l’alchimia con il Sacro Romano Impero. Il fatto stesso che per mostrare la sua apertura mentale una parte della destra italiana abbia recentemente ampliato il suo sillabo mettendo insieme De Maistre, Guenon e Gramsci e’ una prova lampante di sincretismo. Se curiosate tra gli scaffali che nelle librerie americane portano l’indicazione “New Age”, troverete persino Sant’Agostino, il quale, per quanto ne sappia, non era fascista. Ma il fatto stesso di mettere insieme Sant’Agostino e Stonehenge, questo e’ un sintomo di Ur-Fascismo.

2) Il tradizionalismo implica il rifiuto del modernismo.
Sia i fascisti che i nazisti adoravano la tecnologia, mentre i pensatori tradizionalisti di solito rifiutano la tecnologia come negazione dei valori spirituali tradizionali. Tuttavia, sebbene il nazismo fosse fiero dei suoi successi industriali, la sua lode della modernita’ era solo l’aspetto superficiale di una ideologia basata sul “sangue” e la “terra” (Blut und Boden). Il rifiuto del mondo moderno era camuffato come condanna del modo di vita capitalistico, ma riguardava principalmente il rigetto dello spirito del 1789 (o del 1776, ovviamente). L’illuminismo, l’eta’ della Ragione vengono visti come l’inizio della depravazione moderna. In questo senso, l’Ur-Fascismo puo’ venire definito come “irrazionalismo”.

3) L’irrazionalismo dipende anche dal culto dell’azione per l’azione.
L’azione e’ bella di per se’, e dunque deve essere attuata prima di e senza una qualunque riflessione. Pensare e’ una forma di evirazione. Percio’ la cultura e’ sospetta nella misura in cui viene identificata con atteggiamenti critici. Dalla dichiarazione attribuita a Goebbels (“Quando sento parlare di cultura, estraggo la mia pistola”) all’uso frequente di espressioni quali “Porci intellettuali”, “Teste d’uovo”, “Snob radicali”, “Le universita’ sono un covo di comunisti”, il sospetto verso il mondo intellettuale e’ sempre stato un sintomo di Ur-Fascismo. Gli intellettuali fascisti ufficiali erano principalmente impegnati nell’accusare la cultura moderna e l’intellighenzia liberale di aver abbandonato i valori tradizionali.

4) Nessuna forma di sincretismo puo’ accettare la critica.
Lo spirito critico opera distinzioni, e distinguere e’ un segno di modernita’. Nella cultura moderna, la comunita’ scientifica intende il disaccordo come strumento di avanzamento delle conoscenze. Per l’Ur-Fascismo, il disaccordo e’ tradimento.

5) Il disaccordo e’ inoltre un segno di diversita’.
L’Ur-Fascismo cresce e cerca il consenso sfruttando ed esacerbando la naturale paura della differenza. Il primo appello di un movimento fascista o prematuramente fascista e’ contro gli intrusi. L’Ur-Fascismo e’ dunque razzista per definizione.

6) L’Ur-Fascismo scaturisce dalla frustrazione individuale o sociale.
Il che spiega perche’ una delle caratteristiche tipiche dei fascismi storici e’ stato l’appello alle classi medie frustrate, a disagio per qualche crisi economica o umiliazione politica, spaventate dalla pressione dei gruppi sociali subalterni. Nel nostro tempo, in cui i vecchi “proletari” stanno diventando piccola borghesia (e i Lumpen si autoescludono dalla scena politica), il fascismo trovera’ in questa nuova maggioranza il suo uditorio.

7) A coloro che sono privi di una qualunque identita’ sociale, l’Ur-Fascismo dice che il loro unico privilegio e’ il piu’ comune di tutti, quello di essere nati nello stesso paese.
E questa l’origine del nazionalismo: Inoltre, gli unici che possono fornire una identita’ alla nazione sono i nemici. Cosi’, alla radice della psicologia Ur-Fascista vi e’ l’ossessione del complotto, possibilmente internazionale. I seguaci debbono sentirsi assediati. Il modo piu’ facile per far emergere un complotto e’ quello di fare appello alla xenofobia. Ma il complotto deve venire anche dall’interno: gli ebrei sono di solito l’obiettivo migliore, in quanto presentano il vantaggio di essere al tempo stesso dentro e fuori. In America, ultimo esempio dell’ossessione del complotto e’ rappresentato dal libro The New World Order di Pat Robertson.

8) I seguaci debbono sentirsi umiliati dalla ricchezza ostentata e dalla forza dei nemici.
Quando ero bambino mi insegnavano che gli inglesi erano il “popolo dei cinque pasti”: mangiavano piu’ spesso degli italiani, poveri ma sobri. Gli ebrei sono ricchi e si aiutano l’un l’altro grazie a una rete segreta di mutua assistenza. I seguaci debbono tuttavia essere convinti di poter sconfiggere i nemici. Cosi’, grazie a un continuo spostamento di registro retorico, i nemici sono al tempo stesso troppo forti e troppo deboli. I fascismi sono condannati a perdere le loro guerre, perche’ sono costituzionalmente incapaci di valutare con obiettivita’ la forza del nemico.

9) Per l’Ur-Fascismo non c’e’ lotta per la vita, ma piuttosto “vita per la lotta”.
Il pacifismo e’ allora collusione col nemico; il pacifismo e’ cattivo perche’ la vita e’ una guerra permanente. Questo tuttavia porta con se’ un complesso di Armageddon: dal momento che i nemici debbono e possono essere sconfitti, ci dovra’ essere una battaglia finale, a seguito della quale il movimento avra’ il controllo del mondo. Una simile soluzione finale implica una successiva era di pace, un’eta’ dell’Oro che contraddice il principio della guerra permanente. Nessun leader fascista e’ mai riuscito a risolvere questa contraddizione.

10) L’elitismo e’ un aspetto tipico di ogni ideologia reazionaria, in quanto fondamentalmente aristocratico.
Nel corso della storia, tutti gli elitismi aristocratici e militaristici hanno implicato il disprezzo per i deboli. L’Ur-Fascismo non puo’ fare a meno di predicare un “elitismo popolare”. Ogni cittadino appartiene al popolo migliore del mondo, i membri del partito sono i cittadini migliori, ogni cittadino puo’ (o dovrebbe) diventare un membro del partito. Ma non possono esserci patrizi senza plebei. Il leader, che sa bene come il suo potere non sia stato ottenuto per delega, ma conquistato con la forza, sa anche che la sua forza si basa sulla debolezza delle masse, cosi’ deboli da aver bisogno e da meritare un “dominatore”. Dal momento che il gruppo e’ organizzato gerarchicamente (secondo un modello militare), ogni leader subordinato disprezza i suoi subalterni, e ognuno di loro disprezza i suoi sottoposti. Tutto cio’ rinforza il senso di un elitismo di massa.

11) In questa prospettiva, ciascuno e’ educato per diventare un eroe.
In ogni mitologia l’”eroe” e’ un essere eccezionale, ma nell’ideologia Ur-Fascista l’eroismo e’ la norma. Questo culto dell’eroismo e’ strettamente legato al culto della morte: non a caso il motto dei falangisti era: “Viva la muerte”. Alla gente normale si dice che la morte e’ spiacevole ma bisogna affrontarla con dignita’; ai credenti si dice che e’ un modo doloroso per raggiungere una felicita’ soprannaturale. L’eroe Ur-Fascista, invece, aspira alla morte, annunciata come la migliore ricompensa per una vita eroica. L’eroe Ur-Fascista e’ impaziente di morire. Nella sua impazienza, va detto in nota, gli riesce piu’ di frequente far morire gli altri.

12) Dal momento che sia la guerra permanente sia l’eroismo sono giochi difficili da giocare, l’Ur-Fascista trasferisce la sua volonta’ di potenza su questioni sessuali.
È questa l’origine delmachismo (che implica disdegno per le donne e una condanna intollerante per abitudini sessuali non conformiste, dalla castita’ all’omosessualita’). Dal momento che anche il sesso e’ un gioco difficile da giocare, l’eroe Ur-Fascista gioca con armi, che sono il suo Ersatz fallico: i suoi giochi di guerra sono dovuti a una invidia penis permanente.

13) L’Ur-Fascismo si basa su un “populismo qualitativo” : In una democrazia i cittadini godono di diritti individuali, ma l’insieme dei cittadini e’ dotato di un impatto politico solo dal punto di vista quantitativo (si seguono le decisioni della maggioranza).
Per l’Ur-Fascismo gli individui in quanto individui non hanno diritti, e il “popolo” e’ concepito come una qualita’, un’entita’ monolitica che esprime la “volonta’ comune”. Dal momento che nessuna quantita’ di esseri umani puo’ possedere una volonta’ comune, il leader pretende di essere il loro interprete. Avendo perduto il loro potere di delega, i cittadini non agiscono, sono solo chiamati pars pro toto, a giocare il ruolo del popolo. Il popolo e’ cosi’ solo una finzione teatrale. Per avere un buon esempio di populismo qualitativo, non abbiamo piu’ bisogno di Piazza Venezia o dello stadio di Norimberga. Nel nostro futuro si profila un populismo qualitativo Tv o Internet, in cui la risposta emotiva di un gruppo selezionato di cittadini puo’ venire presentata e accettata come la “voce del popolo”. A ragione del suo populismo qualitativo, l’Ur-Fascismo deve opporsi ai “putridi” governi parlamentari. Una delle prime frasi pronunciate da Mussolini nel parlamento italiano fu: “Avrei potuto trasformare quest’aula sorda e grigia in un bivacco per i miei manipoli.” Di fatto, trovo’ immediatamente un alloggio migliore per i suoi manipoli, ma poco dopo liquido’ il parlamento. Ogni qual volta un politico getta dubbi sulla legittimita’ del parlamento perche’ non rappresenta piu’ la “voce del popolo”, possiamo sentire l’odore di Ur-Fascismo.

14) L’Ur-Fascismo parla la “neolingua”.
La “neolingua” venne inventata da Orwell in 1984, come la lingua ufficiale dell’Ingsoc, il Socialismo Inglese, ma elementi di Ur-Fascismo sono comuni a forme diverse di dittatura. Tutti i testi scolastici nazisti o fascisti si basavano su un lessico povero e su una sintassi elementare, al fine di limitare gli strumenti per il ragionamento complesso e critico. Ma dobbiamo essere pronti a identificare altre forme di neolingua, anche quando prendono la forma innocente di un popolare talkshow.

 

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il coraggio di un prete che si unisce alla protesta dei fedeli

‘l’ira cristiana’ di don Raffaello contro il parroco a luci rosse

 un sacerdote apuano in una lettera ai fedeli mostra di non condividere il riserbo della curia

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in morte di Fernando Cardenal fratello di Ernesto

muore Fernando Cardenal

il gesuita sandinista

fernando cardenal

 

di Geraldina Colotti
in “il manifesto” del 23 febbraio 2016

Una moltitudine di persone ha detto addio, in Nicaragua, a Fernando Cardenal. Figura storica del sandinismo, ex ministro di Educazione e teologo della Liberazione, il gesuita è scomparso sabato all’età di 82 anni in un ospedale di Managua. Meno noto del fratello e poeta Ernesto (classe 1925), Cardenal fu uno dei sacerdoti sospeso a divinis dal papa Giovanni Paolo II nel 1984: per aver imbracciato il fucile contro il dittatore Anastasio Somoza, cacciato dai sandinisti guidati da Daniel Ortega nel 1979.

Nel 2014, papa Bergoglio ha annullato la sospensione del gesuita, quella del fratello Ernesto e di Miguel d’Escoto. Il suo nome resta legato alla grande campagna di alfabetizzazione messa in campo dal governo sandinista subito dopo la rivoluzione. Un programma che ha ridotto la percentuale di analfabeti dal 50,35% al 12,96%. Tra il ’79 e il 1990, il lavoro di Cardenal, rivolto a studenti, maestri e donne delle classi popolari, ha coinvolto oltre 100.000 volontari ed è stato riconosciuto dall’Unesco nel 1981. In una delle ultime interviste, Cardenal ha ricordato il sentimento di «paura, allegria e soddisfazione» provato quando il Fronte sandinista di liberazione nazionale gli ha proposto di assumere quell’incarico, dopo soli dieci giorni dalla vittoria.

cardenal2Il gesuita è stato anche a capo di Fe y Alegria, un’organizzazione di educazione popolare e di promozione sociale presente in Nicaragua con 22 centri educativi. Un’attività che Cardenal ha mantenuto anche durante gli anni bui seguiti al ritorno delle destre. Nel 1990, il voto di una popolazione stremata da anni di guerra civile e dall’embargo decretato dagli Usa nel 1985, segnò la sconfitta di Daniel Ortega in favore di Violeta Chamorro e del suo nuovo partito, l’Union Nacional Opositora, foraggiato dagli Stati uniti. La voce di Fernando Cardenal non venne mai meno durante l’ultima rivoluzione del secolo scorso e sostenne le campagne sandiniste nei momenti più duri dell’attacco nordamericano, deciso a impedire che l’esempio vincente del Nicaragua si estendesse al resto del Centroamerica, in lotta contro i dittatori voluti da Washington.cardenal1

Nell’85, la Corte internazionale di giustizia condannò gli attentati ai depositi di petrolio nel porto di Corinto, compiuti dalla Cia. Un pronunciamento che non arrestò l’accordo tra gli Usa e l’Honduras, realizzato alla fine di quell’anno, per installare altri basi militari nordamericane, né quelle che vennero poi imposte al Costa Rica e al Salvador. Neanche l’evidenza dello scandalo Iran-Contras, emerso tra l’85 e l’86, impedì all’amministrazione Usa di approvare il finanziamento alle bande paramilitari dei Contras per oltre 100 milioni di dollari. Washington ignorò anche la sentenza emessa nel 1987 dalla Corte Internazionale che riconobbe la richiesta di risarcimento del Nicaragua per gli attacchi subiti dagli Usa. E venne rinnovato il finanziamento ai Contras. Dopo la sconfitta del sandinismo, il paese è sprofondato nell’abisso delle controriforme e del neoliberismo, da cui sta lentamente riemergendo con il nuovo governo di Ortega, che ha scommesso sui paesi dell’Alba e sul socialismo del XXI secolo: un ritorno nel ricordo di Augusto César Sandino, che agì nel solco di Simon Bolivar e capeggiò la riscossa contro gli Usa, e venne fucilato il 21 febbraio del 1936. Cardenal ha mantenuto posizioni avanzate su aborto e omosessualità, ma non ha risparmiato critiche a Ortega, rimanendo vicino alle posizioni socialdemocratiche del Movimento per il rinnovamento sandinista.

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un testamento spirituale shoccante!

testamento spirituale di padre Christian de Chergé

( priore di Tibhirine)

aperto la domenica di Pentecoste del 1996

Quando si profila un ad-Dio

Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese.
Che essi accettassero che l’unico Padrone di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale. Che pregassero per me: come potrei essere trovato degno di tale offerta? Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato.
La mia vita non ha più valore di un’altra. Non ne ha neanche meno. In ogni caso, non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca.
Venuto il momento, vorrei avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nel tempo stesso di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito.

monaci

Non potrei auspicare una tale morte. Mi sembra importante dichiararlo. Non vedo, infatti, come potrei rallegrarmi del fatto che un popolo che amo sia indistintamente accusato del mio assassinio.
Sarebbe un prezzo troppo caro, per quella che, forse, chiameranno la «grazia del martirio», il doverla a un algerino chiunque egli sia, soprattutto se dice di agire in fedeltà a ciò che crede essere l’islam.
So il disprezzo con il quale si è arrivati a circondare gli algerini globalmente presi. So anche le caricature dell’islam che un certo islamismo incoraggia. È troppo facile mettersi a posto la coscienza identificando questa via religiosa con gli integralismi dei suoi estremisti.
L’Algeria e l’islam, per me, sono un’altra cosa; sono un corpo e un’anima. L’ho proclamato abbastanza, credo, in base a quanto ne ho concretamente ricevuto, ritrovandovi così spesso il filo conduttore del Vangelo imparato sulle ginocchia di mia madre, la mia primissima Chiesa, proprio in Algeria e, già allora, nel rispetto dei credenti musulmani.
Evidentemente, la mia morte sembrerà dar ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo o da idealista: «Dica adesso quel che ne pensa!». Ma costoro devono sapere che sarà finalmente liberata la mia più lancinante curiosità.
Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze.
Di questa vita perduta, totalmente mia, e totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per quella gioia, attraverso e nonostante tutto.
In questo grazie, in cui tutto è detto, ormai, della mia vita, includo certamente voi, amici di ieri e di oggi, e voi, amici di qui, accanto a mia madre e a mio padre, alle mie sorelle e ai miei fratelli, e ai loro, centuplo accordato come promesso!
E anche te, amico dell’ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo grazie e questo ad-Dio profilatosi con te. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due. Amen! Insc’Allah
Algeri, 1º dicembre 1993
Tibhirine, 1º gennaio 1994
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i preti in tenda per la quaresima si raccontano

la tenda, i poveri e noi

quaresima 2016
la tenda sul sagrato di Ambivere

preti in tenda

In Quaresima noi sacerdoti abiteremo una tenda allestita sul sagrato della Chiesa di Ambivere. Un po’ di cibo. Acqua da bere. Un bagno per lavarci. Un materasso per dormire. E’ più di quanto molti esseri umani possono permettersi. Naturalmente non sarà facile. Abituati ad avere più del necessario, il semplice necessario sembrerà insufficiente.

Questa decisione nasce dalla presa di coscienza che il prezzo del nostro benessere è la riduzione in miseria di altri esseri umani. E’ facilmente dimostrabile: se dovessimo garantire a tutti gli uomini il tenore di vita europeo o americano avremmo bisogno di cinque pianeti. Ma siccome ne abbiamo soltanto uno, noi occidentali ci siamo presi da un secolo a questa parte il diritto di mettere le mani sulle risorse naturali dell’altra parte del mondo e di saccheggiarle a piacimento. Per evitare intralci abbiamo poi lavorato assiduamente per impedire che in quei paesi crescessero democrazia, autonomia economica e diritti umani. Ecco perché i paesi poveri continuano a restare poveri. Se Europa e Stati Uniti dovessero pagare equamente le risorse prelevate dal terzo mondo, i prezzi in casa nostra crescerebbero e dovremmo rinunciare a buona parte delle nostre abitudini consumistiche. Il costo della vita qui da noi è alto ma costerebbe ancora di più se i paesi poveri potessero mettere al centro della loro economia i loro bisogni invece che i nostri. Per questa ragione nessuno in occidente sembra prendere sul serio una prospettiva del genere.
Ecco dunque la nostra decisione: staremo in una tenda per dire che non siamo disposti ad accettare un sistema che procura benessere a noi provocando sofferenza a qualcun altro. Si tratta di un segno temporaneo, fino a Pasqua. Poi si vedrà. In ogni caso bisognerà mettere a punto stili di vita coerenti con questa intuizione. Intanto con questo gesto vogliamo dire che riconosciamo le nostre responsabilità di fronte alla povertà del mondo. E che si può essere felici anche con meno. Ma le ragioni della nostra scelta non finiscono qua. Se avete un po’ di pazienza cerchiamo di spiegarlo.
tende di rifugiati in Siria stretti nel morso del gelo invernale
L’insaziabilità delle nazioni europee e degli Stati Uniti non ha trovato freno neppure tra gli anni ’50 e ’80 del secolo scorso, quando la cultura dei diritti umani era riuscita ad appassionare ampi settori dell’opinione pubblica e del mondo accademico e culturale. In quegli anni era più difficile condurre guerre in santa pace senza avere alle costole qualche attivista che gridasse in difesa dei diritti umani. Le cose poi hanno cominciato a cambiare. In peggio. Negli ultimi trent’anni la ricchezza e il potere politico si sono concentrati a tal punto nelle mani di pochi gruppi finanziari che questi sono stati in grado di mandare intenzionalmente a rotoli interi scomparti dell’economia mondiale con l’intento di trarre profitto dalla loro rovina. Hanno ingenerato così la crisi senza che nessun governo o organismo internazionale abbia mosso un dito per impedirlo. Proprio la crisi economica è stata l’ultimo atto di una commedia nella quale l’occidente ingordo cadeva vittima di se stesso. La povertà ha cominciato così a riguardare non soltanto il terzo mondo ma anche porzioni significative di popolazione europea e americana. La crisi economica voluta dalle lobby finanziarie con la complicità degli organismi internazionali di controllo e di governo, ha messo sul lastrico famiglie, ha mandato in fallimento aziende, ha provocato disoccupazione, ha generato precariato, indebitamento e sfruttamento lavorativo, ha spento la fiducia, ha rubato il futuro ai giovani e la pensione ai lavoratori. Il capitalismo selvaggio che fino ad allora aveva dissanguato il terzo mondo, scatenava ora la sua offensiva sulle economie occidentali. Per i poveri del terzo mondo le cose non cambiavano. Vittime erano. Vittime restavano. Le cose sono cambiate invece per la classe media di casa nostra che si è vista ridurre drasticamente il potere d’acquisto e le garanzie previdenziali e assistenzia
li. Non è stato difficile per i veri responsabili della crisi mondiale dirottare la rabbia diffusa della nostra gente contro i migranti. E’ bastato descriverli come invasori intenzionati a rubare il lavoro e a cambiare le nostre tradizioni. E la gente ha abboccato prendendosela col nemico sbagliato. Per distogliere l’attenzione dalle loro catastrofiche politiche economiche ed estere, i nostri governi (Stati Uniti in testa) hanno sempre scaricato la colpa su qualche nemico esterno. Tempo addietro avrebbero dato la colpa all’Unione Sovietica. Ma dopo la caduta del Muro di Berlino era necessario trovare qualcun altro. La scelta cadde sul mondo arabo islamico. Le ragioni sono storiche. Le potenze vincitrici della prima guerra mondiale (Francia e Inghilterra in particolare) si erano letteralmente divise a tavolino il Medio Oriente e il Nord Africa instaurando un regime coloniale teso principalmente a sfruttare economicamente quei territori e favorendo l’ascesa di regimi collaborazionisti. La scelta di permettere l’insediamento violento di Israele espellendo i palestinesi dalla loro terra natale, lasciando al contempo inattuate le risoluzioni ONU che nel corso dei decenni hanno ripetutamente condannato il sedicente stato ebraico è coerente con questa scelta colonizzatrice. L’ingerenza massiccia nel controllo dell’area mediorientale è venuta alla luce ogni volta che emergevano aspiranti leader ribelli alla sottomissione imposta dall’Occidente e dal suo avamposto Israele. La politica americana ha sempre cercato dapprima di comprare l’obbedienza di questi leader. Quando la compravendita non ha funzionato, l’America non ha mai esitato ad abbattere questi leader mediante colpi di Stato e aggressioni militari sempre sulla base di pretesti, a volte del tutto inventati. Nella più totale indifferenza dell’Europa.

migranti siariani
E’ successo in Iran all’inizio degli anni ’50; è successo con Saddam Ussein in Iraq. E’ successo con Gheddafi in Libia; sta succedendo adesso con Assad in Siria (senza successo); è successo con il presidente Morsi in Egitto non gradito a Israele; è successo perfino nella nostra Europa con il colpo di Stato architettato dai servizi segreti americani in Ucraina neppure due anni fa per deporre il presidente legittimo Yanukovich (colpevole di essere amico dei russi) e insediare il fascista Porosenko, amico degli americani. La necessità sempre più frequente degli Stati Uniti e alleati di ricorrere apertamente alle armi per costringere i popoli all’obbedienza, dimostra che l’impero americano (e alleati) è diventato più debole economicamente e politicamente. La sua leadership ha cominciato a traballare allorchè nuovi soggetti economici hanno fatto capolino: India, Cina, Brasile. E ora di nuovo la rediviva Russia. Il lento declino avrebbe dovuto consigliare agli strateghi d’oltreoceano e a quelli nostrani di modificare le proprie politiche economiche e militari, rinunciando ad esempio a una quota di poteri e privilegi, favorendo una distribuzione più equa delle ricchezze e promuovendo realmente la democrazia.  Invece nulla di tutto questo. Americani e soci hanno deciso di usare un pugno di ferro ancora più duro per schiacciare chiunque avesse osato modificare la gerarchia del mondo. Si spiega così la decisione all’inizio degli anni ’90 di dare una lezione al vecchio alleato e dittatore Saddam, reo di usare la sua dittatura contro gli interessi americani invece che in loro favore. Saddam in fondo voleva emulare la politica conquistatrice dell’occidente. Il problema si sarebbe potuto risolvere con altri mezzi. Un’ampia rete di movimenti manifestò in quei mesi contro l’intervento militare. Bandiere colorate
apparvero sui municipi, sui campanili, alle finestre della case, nelle scuole. Ma i nostri governi europei ascoltarono gli strateghi e i comandi statunitensi e vollero compatti la guerra. Una coalizione di 34 paesi guidati dagli Stati Uniti sotto l’egida dell’ONU muoveva guerra alI’Iraq riducendolo a brandelli e uccidendo in sette mesi decine di migliaia di persone inermi. Prima o poi doveva succedere che il costante sfruttamento da parte occidentale delle risorse altrui, la repressione delle aspirazioni democratiche insieme al finanziamento della corruzione e del terrorismo insieme ai bombardamenti avrebbe moltiplicato i focolai di guerra, diffuso le cellule cancerogene della violenza e dell’estremismo di stampo laico o religioso oltre che rendere la vita impossibile alle popolazioni di quelle terre. La Guerra del Golfo fu il detonatore di questa spirale di distruzione che è ancora in corso. Da allora il conflitto è andato allargandosi all’intero Medio Oriente ed è stato ricorso continuo ai bombardamenti, crescita abnorme delle vittime civili, diffusione di cellule terroristiche filo-occidentali e anti-occidentali e fuga impazzita di milioni di persone dalla morte. La crisi economica, la migrazione e il terrorismo sono frutti delle insane politiche occidentali. Eppure vengono usate in Europa come argomenti per convincere l’opinione pubblica a incrementare invece di ridurre la politica muscolare della NATO e a rinunciare alla “patetica” difesa dei diritti umani. Per quanto le responsabilità dei nostri paesi siano clamorose e le vittime di questa guerra siano soprattutto bambini, nessuno sdegno pacifista percorre più le strade d’Europa, a meno che i morti siano europei, americani o israeliani. I civili europei ammazzati meritano cortei. Quelli medio orientali no.
L’Europa che negli anni ’90 aveva preso le difese dei neri in Sudafrica non c’è più.  Cos’è successo da ridurci in questo stato? La propaganda occidentale ha utilizzato la crisi e il terrorismo per alimentare la paura e ridurre al silenzio la critica interna. Poche, anzi pochissime sono le voci che si alzano contro la corsa europea agli armamenti e gli interventi militari, contro i massacri di civili in Medio Oriente, a Gaza e in Africa, contro le complicità degli stati nel traffico degli esseri umani. Poche sono le voci indignate per la chiusura delle frontiere, contro le politiche coloniali, contro l’ingerenza politico-militare dell’occidente sempre travestita da intervento umanitario. Pochissime le voci contro l’oppressione israelo-americana dei palestinesi, contro il vassallaggio europeo nei confronti dell’America. L’indifferenza dell’opinione pubblica è assordante. La gente d’Europa e d’America preferisce non conoscere. Preferisce credere che se i nostri governi bombardano hanno sicuramente buone ragioni. E che il terrorismo è una buona ragione per bombardare. Il risultato di queste buone ragioni sono paesaggi rasi al suolo da cui spuntano come spettri rovine di edifici a ricordare che un tempo sorgevano città. Degli abitanti nessuna traccia: uccisi sotto i bombardamenti, giustiziati, morti di fame e sete, sotto assedio per anni, venduti, comprati e rivenduti. Chi ha potuto si è messo in fuga affrontando odissee inenarrabili, tallonato da paramilitari, eserciti allo sbando, milizie straniere, mercenari al soldo di gruppi contrapposti. Chi ha innescato tutto questo? A chi interessa che tutto questo continui? E soprattutto: a chi interessa veramente saperlo?  Sono state le cattive politiche occidentali il brodo di coltura che ha permesso alla corruzione dei paesi
arabi di prosperare, alla rivalità storica tra le fazioni religiose di acutizzarsi e all’estremismo islamico di trovare pretesti. La società “civile”, gli intellettuali e i mass-media occidentali non possono nascondere o minimizzare questa responsabilità. E neppure sono autorizzati a confondere le vittime con i carnefici. In uno stato di diritto le garanzie di un processo equo vengono date a tutti,  anche agli assassini, ai ladri, ai violentatori. Che cosa autorizza l’Europa a chiudere le porte in faccia a gente che fugge da guerre che l’Europa stessa ha contribuito a innescare? Com’è possibile lasciare che le persone continuino ad annegare senza che l’Europa decida uno straccio di corridoio umanitario a cui protezione sì che servirebbe impiegare l’esercito?! La verità è che l’Europa è avida. Vuole le ricchezze dei poveri, non i poveri. Ferma i profughi alle frontiere mentre da più di un secolo le oltrepassa per spadroneggiare in casa loro. La verità è che l’Europa non vuole più sottoscrivere i diritti universali dell’uomo a cominciare dall’articolo 1: Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Nell’Europa di oggi, “essere umani” non soddisfa i requisiti minimi. Ciò che serve in Europa in ordine di importanza per ottenere riconoscimento è possedere capitali ed essere cittadini. Nessuna via preferenziale a chi fugge dalle guerre. Lo status di rifugiato viene rilasciato soltanto ad un prezzo altissimo: essere riusciti a scampare ai bombardamenti, essere sopravvissuti alle torture, ai rapimenti e alle onde del mare. Nessun riconoscimento è dato a chi proviene da regioni impoverite da un sistema globale ingiusto e ha rischiato la vita per trovare dignità. Questa è l’Europa: pronta ad amputare uno dei capisaldi della propria migliore tradizione umanistica (i diritti
dell’uomo) piuttosto che cedere quegli stessi diritti ai poveri che essa stessa ha contribuito a creare. L’Europa delle istituzioni scarica sulla buona volontà di molti cittadini volontari europei il compito di salvare le apparenze riservando un pò di umanità a chi raggiunge sfinito le sue coste. Evita però di fare ciò che le spetta: rivedere le politiche economiche e la politica estera a partire dai diritti dell’uomo e dei popoli. Sicchè I poveri vengono assistiti per un pò. Dopodichè vengono abbandonati al loro destino. O rispediti indietro o abbandonati nella giungla europea del traffico di esseri umani, dello sfruttamento lavorativo, della clandestinità. I poveri speravano che l’Europa fosse un luogo dove l’umanità venisse prima della cittadinanza, prima del benessere, prima delle differenze religiose, prima di ogni altra cosa. Si sbagliavano. Il pensiero diffuso è che la loro situazione non dipenda da noi; che abbiamo già i nostri grattacapi e che in fondo i poveri siano la causa del proprio male. Al pari dei singoli paesi europei, anche i diversi settori dell’amministrazione statale scaricano sugli altri la responsabilità adducendo confusione normativa, paventando rischi di terrorismo e brandendo contro i poveri la croniche insufficienze dell’assistenza ai cittadini italiani. Proprio così: usando i poveri di casa nostra contro i poveri alla nostra porta. A cominciare dalle regioni fino ad arrivare a moltissime amministrazioni comunali la risposta è sempre la stessa: per loro non c’è posto. Le parrocchie e i cristiani bergamaschi non si stanno comportando meglio. Ci pensi la Caritas, dicono. Neppure l’invito dell’amatissimo papa Francesco riesce a scuoterli.
Noi sacerdoti non possiamo rovesciare le sorti dei poveri. Però possiamo stare dalla loro parte. Possiamo protestare e progettare azioni concrete nonviolente a favore della Verità e della Giustizia. Cominceremo a stare in una  tenda perché se migliaia di esseri umani possono essere abbandonati per anni nella nostra Europa in tendopoli improvvisate, fangose, senza servizi  (andate a Calais in Francia per vedere e credere) perchè mai noi, che siamo esseri umani come loro, dovremmo abitare in una casa? Noi pensiamo di non essere più umani dei poveri perché ci debba essere concesso qualcosa di più…sapendo oltretutto che loro hanno di meno anche per colpa nostra. Se loro non hanno diritto a una casa allora questo diritto non l’abbiamo neppure noi. Non ci sembra un grande affare perdere l’umanità comune che ci lega ai poveri per godere del privilegio della cittadinanza. Essere cittadini è un onore. Ma se deve venire prima della nostra comune umanità allora vi rinunciamo volentieri. Nella tenda sarete i benvenuti I sacerdoti delle comunità di Ambivere, Mapello e Valtrighe

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Dio è umiltà e misericordia

Misericordia e umiltà di Dio

Dio, il potere dell’amore, presente “in ogni caos di questo mondo”

suor Ilia Delio ci parla di un Dio che “è con noi in ogni momento a braccia aperte, ridendo quando noi ridiamo, piangendo quando noi piangiamo, gioendo quando noi gioiamo”

 da: Adista Documenti n° 8 del 27/02/2016

è inutile cercare “in alto” e “fuori” ciò che invece è dentro di noi, al centro del nostro essere, nascosto nelle mani e negli occhi di ogni buon samaritano che ci ha soccorso lungo la strada. È qui, appunto, che incontriamo Dio, se intendiamo Dio non come un concetto astratto, ma come «sorgente colma d’amore», come il «potere dell’amore di trasformare la morte in vita». È quanto sostiene la teologa francescana suor Ilia Delio, direttrice del programma di Studi cattolici alla Georgetown University e autrice di libri come From Teilhard to Omega: Cocreating an Unfinished Universe e The Unbearable Wholeness of Being: God, Evolution and the Power of Love. Quello di cui parla Delio è un Dio «così assurdamente vicino, così incredibilmente vicino da costringerci a scoprire il suo volto in ogni caos di questo mondo: ingiustizia razziale, terrorismo, povertà, riscaldamento climatico». Un Dio che «è con noi in ogni momento a braccia aperte, ridendo quando noi ridiamo, piangendo quando noi piangiamo, gioendo quando noi gioiamo

Misericordia e umiltà di Dio

suora Ilia

(…). A metà novembre, mentre correvo per prendere la metro, sono inciampata nella mia valigia atterrando di faccia. A dire il vero è stato il mio mento a sostenere l’impatto. I miei piani per quel giorno hanno subìto un brusco arresto. Sono rimasta stesa a terra, pensando per un momento di essermi rotta la mascella e che non sarei mai più riuscita a parlare. Ero lì sdraiata da neanche un minuto quando ho alzato gli occhi e ho visto il volto di un giovane uomo i cui occhi scuri guardavano intensamente il mio mento ferito. “Signora, sta bene? Posso aiutarla?”. Mi ha preso per il braccio e mi ha sollevato (solo per realizzare che ero ferita anche al ginocchio). Ha avvertito subito la polizia metropolitana e poi mi ha accompagnato nella sala d’attesa della stazione.

Ciò che mi ha più profondamente colpito è stato lo sguardo di quell’uomo gentile. Ricordo di aver alzato gli occhi da terra e di aver visto il suo viso scuro incorniciato da un paio di occhiali neri. I suoi occhi dicevano tutto. Mi ha guardato e ha chiesto: “È ferita?”. Non è stato tanto ciò che ha detto ma il modo in cui lo ha detto: come se in quel momento io fossi l’unico pensiero della sua intera vita. Mi sono sentita profondamente toccata dalla sua compassione e dalla sua premura.

Mi è venuto in mente il passaggio evangelico del buon samaritano (…). Il mio buon samaritano ha aspettato con me finché non è arrivata l’ambulanza, assicurandosi che si prendessero adeguatamente cura di me. Ha saltato tutti i suoi impegni, aspettando 45 minuti prima che venissero a prendermi per mettermi i punti necessari. È vero: ho chiamato subito suor Lisa la quale è venuta immediatamente in mio soccorso ma questo giovane uomo, che non avevo mai incontrato e di cui tuttora non conosco il nome, è stato per me come un fratello. Una volta certo che sarei stata curata adeguatamente ha ripreso la sua strada.

Non so se fosse cattolico, musulmano o di nessuna confessione. Né ha importanza. Nel bel mezzo del mio incidente, nel volto di quell’uomo ho visto Gesù. (…).

DIO È AMORE

In un’omelia sulla natività del Signore, il teologo medievale Bonaventura descrive l’Incarnazione come «il Dio eterno che si inginocchia umilmente e solleva la polvere della nostra natura nell’unione con la sua persona». L’amore divino non è un concetto astratto; è profondamente personale, rivelato a noi nell’umile nascita di un bambino. (…). Non possiamo afferrare totalmente cosa sia Dio perché trattiamo Dio come un concetto, anziché come una profondamente personale «sorgente colma» d’amore, come diceva Bonaventura.

Il cristianesimo vede il mistero dell’amore divino in un modo particolare, come saggezza e Parola espresse nella persona di Gesù Cristo. L’amore divino è auto-espressione e dono di sé: la Parola diventa carne e sangue in mezzo a noi. Le parole d’ordine sono “carne” e “noi”, il Dio “sopra di noi” è “dentro di noi”: il Cielo è venuto sulla Terra.

Guardandoci intorno attraverso Google, potremmo pensare che questo Dio cristiano sia qualcosa di eccessivamente pietistico o di puramente immaginario, considerando la dose quotidiana di guerra, violenza, miseria e corruzione che i media ci dispensano. Un Dio come sorgente colma d’amore è tra noi? Dov’è questo Dio che si è fatto carne? (…). Come potremmo fare una simile affermazione con tanta facilità e sicurezza? Di più: dov’è la prova? Eppure questo è il mistero del Natale: l’amore si inginocchia così tanto da essere nascosto nel volto tuo e mio.

Ugo di San Vittore, della scuola medievale di Chartres, ha scritto che «l’amore va oltre la conoscenza»; l’amore ci porta al di là del visibile nell’esperienza invisibile e ineffabile della vita unitiva. Conosciamo di più attraverso l’amore che attraverso la conoscenza, perché l’amore è basato sulla relazione e sull’esperienza personali. Dire “Dio è amore” e “chi sta nell’amore dimora in Dio” (1Gv 4,16) significa dire che l’esperienza e l’incontro sconfiggono l’idea concettuale del divino. (…). Che cosa questa Parola divina fatta carne ci invita a vedere? Che il mistero dell’amore divino assoluto è assolutamente dato a noi; che la divinità è abbandonata nell’umano (e l’evoluzione della vita conduce all’umano). Il dono è in ciò che è dato, la fonte di Tutto, Amore incondizionato, l’Alfa e l’Omega, è al centro di te e me.

L’AMORE DIMORA ALL’INTERNO

Il filosofo tedesco Martin Heidegger parla di Essere non come argomento concettuale per Dio, ma come attività immanente in questo mondo, una presenza che si dà anziché un Dio creatore trascendente. A suo giudizio, siamo «immersi in un mondo di cose materiali finite che proviamo a controllare per i nostri scopi individuali ma che in definitiva controllano noi, perché abbiamo perso la prospettiva di trattare con queste in un modo che abbia senso».

Accettiamo senza pensare i doni del mondo che ci circonda e la maggior parte delle cose che lo costituiscono. Ci vuole un’“emergenza”, una pausa nella nostra consapevolezza quotidiana per farci rendere conto di ciò che è sempre stato lì in attesa di una nostra risposta. Che potrebbe essere (…) un risveglio della coscienza a ciò che è già presente. (…).

Raimon Panikkar ha scritto che «c’è nell’essere umano un bisogno, un’aspirazione alla conoscenza della fonte della conoscenza, e conoscendo questo tutto diviene conosciuto». Dio è il potere assoluto e la profondità di colui o colei che cerca se stesso. (…). Cerchiamo fuori da noi stessi il senso, mentre dovremmo cercare sempre più dentro di noi. Nel movimento totale del nostro essere, e diventando coscienti di esso, raggiungiamo la consapevolezza della realtà di Dio che dimora tra noi e dentro di noi.

Riflettendo (…) sul potere dell’amore divino in mezzo a noi ci si spalancano gli occhi; l’amore che muove le stelle e i pianeti è lo stesso che dà vita a te e a me. È l’amore al centro del nostro essere e che ci tiene in vita. Questo amore è potente e incondizionato e anche perfettamente libero. Dio è con noi in ogni momento a braccia aperte, ridendo quando noi ridiamo, piangendo quando noi piangiamo, gioendo quando noi gioiamo. Dio condivide nella rovina di questo mondo un’abbondanza di amore divino. È perché Dio è sorgente colma di amore che può condividere le sofferenze delle nostre vite e attraverso queste condurci a nuova vita.

FEDE, AMORE E SOFFERENZA

L’amore di Dio è il potere dell’amore di trasformare la morte in vita. Avere fede in un Dio di amore incondizionato è realizzare quanto Dio sia intimamente vicino. Così vicino che le nostre gioie e i nostri dolori, le nostre tristezze e le nostre angosce sono strettamente avvolte dall’umile abbraccio di Dio. Così vicino che addirittura ci dimentichiamo della presenza di Dio.

Ai suoi tempi, Gesù era immerso in una cultura violenta, una cultura di conflitto. Ma era anche a conoscenza della verità profonda nascosta sotto la superficie del giudizio umano, vale a dire che questo mondo in rovina trasuda Dio. Ci ha chiesto di avere fede, di credere che il Regno di Dio è tra noi e in noi.

Il gesuita Patrick Malone ha scritto: «La fede è più di una formula magica per sconfiggere la preoccupazione, la vergogna, il rammarico, il risentimento che offuscano il nostro sguardo e ci rendono scoraggiati e stanchi. Avere fede non cancella ogni traccia di egocentrismo e di dubbio. Queste cose fanno parte della condizione umana. La fede è ciò che ci conduce alla più profonda verità che siamo fatti a immagine di un amore illimitato e inimmaginabile. E, quando lo dimentichiamo, come Gesù ha ricordato alle autorità religiose del suo tempo, la religione diviene uno scudo, una stampella, un rifugio chiuso anziché un modo per lanciare coraggiosamente noi stessi in un mondo difficile, sapendo che è proprio lì che scopriamo un Dio generoso».

Diceva Bonaventura che non c’è altra strada per il cuore di Dio che quella dell’amore bruciante del Cristo crocifisso. Forse questo non ha molto senso per noi, specialmente nell’epoca di violenza che viviamo. Ma la mia amica Cynthia Bourgeault coglie l’intuizione di Bonaventura nel suo libro The Wisdom Jesus quando scrive: «Può essere che questo regno terreno, non malgrado ma proprio per i suoi spigoli, offra le condizioni affinché si esprimano alcuni aspetti dell’amore divino che non possono diventare reali in altro modo? Questo mondo mostra in effetti cosa questo amore è in un modo particolarmente intenso. Ma quando guardiamo a questo processo in maniera più approfondita, possiamo vedere che questi spigoli di cui facciamo esperienza come di una costrizione evocano allo stesso tempo le più squisite dimensioni dell’amore, le quali richiedono una condizione di finitezza allo scopo di dare un senso, qualità come fermezza, tenerezza, impegno, tolleranza, fedeltà e perdono. Chiarisco. Non sto dicendo che la sofferenza esiste affinché Dio si riveli. Sto solo dicendo che laddove la sofferenza esiste ed è accettata con consapevolezza, lì l’amore divino risplende in tutta la sua luce».

Una volta Dorothee Sölle ha detto che chi non ama non può soffrire (…). Trovare nella sofferenza umana la liberazione dell’amore e amare accettando la sofferenza umana è il percorso dell’amore salvifico, in cui la sofferenza è vinta dalla sofferenza, le ferite guarite dalle ferite. Soffriamo le pene della sofferenza quando viviamo la mancanza d’amore, il dolore dell’abbandono e l’isolamento dell’incredulità. La sofferenza del dolore e dell’abbandono è vinta dalla sofferenza dell’amore che non ha paura di ciò che è malato e brutto ma lo accoglie e lo guarisce. Non è questa la via della misericordia e della compassione? Chiunque entri nell’amore e attraverso l’amore sperimenti l’inestricabile sofferenza della fragile umanità, entra nella storia umana di Dio.

Ecco perché è così difficile spiegare in modo logico una religione che presenta un Dio così assurdamente vicino, così incredibilmente vicino da costringerci a scoprire il suo volto in ogni caos di questo mondo: ingiustizia razziale, terrorismo, povertà, riscaldamento climatico. Troppo spesso vogliamo un Dio che ascolti il nostro grido e sistemi le cose per noi, forte abbastanza da spazzare via le nostre esperienze dolorose. (…). Non è che Dio sia sordo al grido del povero. Piuttosto, Dio è povero. Non è che Dio non veda le nostre lacrime. Piuttosto, anche Dio piange. (…).

Dio non ha altro luogo in cui dimorare che in noi, il che significa che la salvezza richiede la nostra partecipazione. La giovane ebrea olandese Etty Hillesum giunse a questa consapevolezza in una cella di prigione, dove scrisse: «Siamo responsabili di tutte le catastrofi. Perché c’è questa guerra? Forse perché ogni tanto ho l’inclinazione a trattare in malo modo il prossimo. Perché io e il mio vicino e noi tutti non abbiamo abbastanza amore nel profondo… Eppure possiamo sconfiggere la guerra, ogni giorno, ogni istante, sprigionando l’amore che abbiamo dentro». Etty ha aperto il suo cuore alla divinità e, nel mezzo della Shoah, ha trovato Dio che abitava nell’umanità.

COMPASSIONE: LE BRACCIA DELLA MISERICORDIA

Questo “piegarsi” di Dio, questa “folle vicinanza” di Dio, ci dice che Dio vive nel cuore degli esseri umani. La compassione di Dio ha bisogno di mani, occhi e tocco umani. (…). Abbiamo l’enorme potere di guarire questo mondo ferito attraverso l’amore misericordioso, accogliendo lo straniero e accettando la sofferenza dell’altro come nostra.

Ecco perché l’Anno della Misericordia di papa Francesco può essere un anno assiale di cambiamento verso un mondo di pace e giustizia, se lasciamo cadere le nostre gabbie intellettuali, decostruiamo le nostre vite guidate dal consumo e apriamo i nostri cuori al divino girovagando come un mendicante in mezzo a un’umanità sofferente. Il teologo ortodosso Vladimir Lossky ha detto che Dio è come un mendicante di amore che bussa alla porta della nostra anima; ognuno di noi deve scegliere se aprire o meno. Recentemente ho incontrato un giovane uomo che deve aver lasciato entrare Dio, consapevolmente o meno. Mi ha guardato con occhi di amore e sono sicura che, in quel momento, ho visto il volto di Dio

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il ‘Dio’ dei nostri ragazzi è un ‘Dio a modo mio’

il Dio «a modo mio» dei Millennials

di Paolo Foschini
in “Corriere della Sera” del 15 febbraio 2016

giovani

«Ci credo perché spero che ci sia»

«E che alla fine metterà tutto a posto

«Ci credo perché Dio è la risposta»

«Io ci credevo, poi non ci ho più creduto, ma ora forse ci credo di nuovo»

naturalmente non è facile, se vuoi farlo sul serio, riassumere la ricerca di un senso della vita in una ricerca sociologica. Figurarsi in un sondaggio. Eppure eccoli, i credenti under 30. Quelli per i quali il «cristianesimo» è più un volersi bene che una religione, ma proprio per questo piace. Gli stessi per cui il «cattolicesimo» invece è un’istituzione e stop, pure un po’ noiosa, mentre «cattolico» è sinonimo di chi non salta una messa e buonanotte: alla larga, dicono. Ma poi dicono anche un’altra cosa. E cioè che però, nonostante tutto, anche loro, come miliardi di esseri umani da sempre, alla fine «ci credono». In Dio, in una speranza, in qualcosa. Fosse anche solo (solo?) un «Dio a modo mio». Appunto

 

È questo il titolo del volume che a cura di Rita Bighi e Paola Bignardi raccoglie i risultati di un’indagine promossa dall’Istituto Toniolo, quello che fondò e tuttora governa l’Università Cattolica, su Giovani e fede in Italia : che poi è anche il sottotitolo del lavoro. La pubblicazione (editrice Vita e pensiero) viene presentata oggi a Milano e costituisce un approfondimento del più vasto «Rapporto giovani» sostenuto da Fondazione Cariplo e Intesa Sanpaolo, partito nel 2013 con novemila interviste sulle aspettative dei 18-30enni e via via proseguito con altre analisi su cose tipo il lavoro, le istituzioni, la felicità.

Questa volta l’indagine è basata su colloqui anche piuttosto lunghi. Con 23 intervistatori per 150 intervistati, tutti battezzati, presi tanto in paesini minuscoli quanto in grandi città da un capo all’altro d’Italia e divisi in due categorie di età, 19-21 e 27-29 anni. Ne è venuto fuori un ritratto fatto di storie più che di numeri, ma con alcune costanti. L’avvicinamento alla religione per tradizione familiare, il catechismo vissuto soprattutto come un elenco di comandamenti, la prima comunione fatta perché si doveva e poi la fuga dopo la cresima («non ne potevo più»), a dispetto del «bel ricordo» dell’oratorio. Finché più avanti, sui 25 anni, a volte ritornano. Magari perché capita un fatto doloroso, o l’incontro con un prete giusto. Così come un prete sbagliato poteva averli fatti allontanare. Quel che è cambiato, rispetto agli anni del catechismo, è che oggi Dio per loro è un’altra cosa: «Credo nel mio Dio ma non nel loro », dicono. Anche quando a messa ci vanno. Perché vivono la faccenda non come religione ma come sistema di valori. Un’etica. Fatta di «amore, rispetto, eguaglianza». Altra cosa dalla istituzione «Chiesa», che associano a «clero corrotto», «esteriorità», «regole». Per questo, al contrario, son praticamente zero quelli a cui non piace papa Francesco. E se potrebbe apparire facile liquidare come «comoda» l’idea di questo che una definizione ormai non recente qualifica come un Dio-fai-da-te, la ricerca sottolinea invece l’importanza che sia proprio la Chiesa, oggi, a dover rinnovare il suo linguaggio: che «non passa per un più abile uso dei media — scrivono le curatrici — ma per una maggiore coerenza tra dire e fare». Forse la cosa più bella — quella che se bastasse dirla per crederci convertirebbe il mondo intero — è la risposta di uno degli intervistati alla domanda su cosa ci trova nel credere in Dio: «Ci trovo che Lui ti fa sentire amato, speciale, nonostante magari tu non sia il meglio o creda di non esserlo. Ci trovo che Lui non fa cose nuove, diciamo, ma fa nuove tutte le cose». Sarà anche Dio a modo mio, ma qualche teologo ha qualcosa da dire su un Tizio del genere?

Alcune testimonianze raccolte da Elena Tebano

La studentessa

«Vado a messa ma sono critica verso la Chiesa» «Sono credente, cattolica praticante e in ricerca». Francesca Minonne, 26 anni,
di Lecce, studentessa di lettere a Milano, si definisce così: «Vado a messa la domenica, mi riconosco nei valori cristiani (come l’analisi di coscienza, la ricerca personale, la famiglia, l’apertura al prossimo) — spiega —. Però vedo criticamente la Chiesa come istituzione». Per Francesca, come per molti della sua generazione, i «Millenials», la spiritualità è un bisogno profondo che però scarta di lato di fronte alla sua organizzazione terrena: «La difficoltà è soprattutto calare i dogmi nel mondo che ci circonda — dice —. Continuo a cercare risposte e questo mi ha fatto capire che la fede per me è importante, ma se non fosse stato per le suore del mio vecchio oratorio e un parroco a casa, forse me ne sarei allontanata».

Il dirigente

«Ogni giorno trovo lo spazio per pregare» Alberto Ratti, 28 anni, di Milano, ha scelto di lavorare come amministratore di un’isti-tuzione cristiana, l’Università Cattolica. «Per me è importante vivere la fede quotidianamente — spiega —. Ogni giorno mi ritaglio uno spazio di preghiera». Il suo rapporto con la religione è diventato più profondo alle superiori ed è un cammino intellettuale oltre che spirituale: «Le mie figure di riferimento più importanti sono Giuseppe Lazzati, che ha insistito sul ruolo del laicato nel cattolicesimo, e poi il Cardinal Martini. Mi riconosco nella Chiesa come “ospedale da campo” di Papa Francesco». Che non significa rinunciare alle domande: «Cerco di seguire il magistero, ma mi interrogo su molti temi. Come le unioni civili: mi sembra una richiesta condivisibile su cui noi cattolici dovremmo riflettere».

La scout

«Lo incontro nella natura e nel volontariato» «Quando partecipo ai sacramenti ci credo fermamente, ma non mi riconosco nella Chiesa: è troppo rigida, limitante, ristrettiva. Per me il rapporto con Dio è più individuale». Carola Costanza, 20 anni, di Licata, in Sicilia, è scout, e prima dell’Agesci ha girato varie associazioni cattoliche. Le ha lasciate perché «spesso la mediazione dei sacerdoti è eccessiva — spiega —. Il mio momento di svolta: avevo 16 anni e in un viaggio con il gruppo fummo rimproverati perché in autobus cantavamo Albachiara». Ha a che vedere come vive la religione: «Non credo che debba esserci solo negazione e senso di colpa. Fede speranza e carità per me sono valori fondamentali. Ma sento Dio soprattutto quando sono nella natura o faccio servizio agli altri». (Testi a cura di Elena Tebano)

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