il commento al vangelo domenicale

 

INSEGNAVA LORO COME UNO CHE HA AUTORITA’

 commento al Vangelo della quarta domenica del tempo ordinario (1nfebbraio 2015) di p. Alberto Maggi

maggi

 

Mc 1-21-28

In quel tempo, Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, [a Cafàrnao] insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi.
Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui.
Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!». La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea.

Gesù ha chiamato i primi quattro discepoli invitandoli ad essere pescatori di uomini. Qual è il significato di pescare gli uomini? Togliere gli uomini da un ambito che può recare loro la morte. E inizia la pesca. Ma dove porterà Gesù i suoi discepoli per pescare gli uomini? E questa è la sorpresa che ci riserva il vangelo di Marco nel brano di questa domenica, al capitolo 1, versetti 21-28.
Gesù non porta i suoi discepoli per salvare gli uomini in luoghi di malaffare o luoghi peccaminosi, ma nei luoghi di culto, nei luoghi religiosi. Sono questi gli ambiti in cui bisogna salvare gli uomini, perché sono questi i luoghi che rischiano di dare la morte alle persone che li frequentano.
Leggiamo Marco.
Giunsero a Cafarnao e subito Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, insegna. L’evangelista non afferma che Gesù partecipa al culto della sinagoga, ma va nella sinagoga per insegnare e il suo insegnamento è l’esatto contrario di quello che lì veniva trasmesso. Gesù, nel suo insegnamento, vuole liberare le persone da quelle che lui denuncerà come “dottrine degli uomini”, “tradizioni degli antichi”, che nulla hanno a che fare con la volontà di Dio.

Marco scrive che la reazione della gente è singolare, erano stupiti del suo insegnamento. E sottolinea, egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità. Avere autorità significa avere il mandato divino. E non come gli scribi. Erano gli scribi quelli che avevano questo mandato divino per insegnare.
Gli scribi erano i teologi ufficiali del sinedrio, era il magistero infallibile, persone di straordinaria importanza; si credeva che le parole degli scribi fossero le stesse parole di Dio, quando c’era conflitto tra la parola scritta e l’insegnamento dello scriba bisognava dare retta allo scriba perché lui era l’unico vero interprete della sacra scrittura. Ebbene, appena Gesù insegna, ecco che la gente incomincia ad aprire gli occhi. Questo Gesù ha il mandato divino per insegnare, non i nostri scribi.
Ed ecco che scoppia l’incidente. E immediatamente, come Gesù è entrato nella sinagoga e ha iniziato a insegnare, c’è subito l’incidente. Nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da spirito impuro. La denuncia che fa l’evangelista è molto seria e drammatica: ecco il prodotto della sinagoga, un uomo posseduto da spirito impuro. Frequentare questi luoghi di culto, frequentare questi luoghi religiosi, accogliere in maniera acritica l’insegnamento che lì viene dato, rende le persone impure.
Impure significa nell’impossibilità di comunicare con Dio. L’insegnamento religioso non solo non avvicinava la gente a Dio, ma era quello che glielo impediva. Ebbene, cominciò a gridare, dicendo: “Che vuoi da noi, Gesù Nazareno?” E’ strano perché c’è un uomo ma parla al plurale. “Sei venuto a rovinarci?” Quest’uomo si sente minacciato da Gesù. Ma perché parla al plurale? Chi è che Gesù sta rovinando con il suo insegnamento? Sta rovinando la categoria e la reputazione degli scribi. Allora questo è l’uomo che ha dato un’adesione acritica, incondizionata all’insegnamento degli scribi e quando vede questo insegnamento in cristi, sente in pericolo anche la propria religiosità, la propria fede.
Ecco perché reagisce. E’ l’uomo che si fa portavoce della categoria degli scribi. E lo richiama al suo compito. “Io so chi tu sei: il santo di Dio!” Il santo di Dio è un’espressione che indicava il messia che doveva osservare fedelmente la legge e poi imporla. Gesù non accetta il dialogo. E Gesù gli ordinò severamente: “Taci! Esci da lui!! E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui.
Perché questo spirito impuro, che è sconfitto dalla parola di Gesù lascia l’uomo straziandolo? Perché è uno strazio. Quando si arriva a un certo punto della propria esistenza e si incontra il messaggio di Gesù dover riconoscere che tutto l’insegnamento al quale si era creduto, tutte le pratiche religiose che erano state fatte, non solo non permettevano la comunione con Dio, ma erano proprio l’ostacolo che lo impediva, ebbene liberarsi da tutto questo è uno strazio. Ci si sente traditi, ci si sente ingannati.
Tutti furono presi da meraviglia (non timore), tanto che si chiedevano a vicenda: “Che è mai questo? Un insegnamento nuovo”. Il termine “nuovo” adoperato dall’evangelista non ha in senso di aggiunto nel tempo (un nuovo insegnamento) ma un insegnamento nuovo, nuovo di una qualità che soppianta tutto il resto. L’insegnamento di Gesù è la risposta di Dio al bisogno di pienezza di vita che ogni persona porta dentro di sé. E questo la gente lo ha percepito.
“Dato con autorità”. Ecco di nuovo si ribadisce che Gesù ha l’autorità, cioè il mandato divino per insegnare e non gli scribi. “Comanda persino agli spiriti impuri …” E qui Gesù ha comandato a uno, ma la

gente estende l’effetto, l’efficacia dell’insegnamento di Gesù a tutte le situazioni di impurità. “… E gli obbediscono!” La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea.
Quindi dilaga l’insegnamento di Gesù. Naturalmente gli scribi non staranno con le mani in mano, ma poi si vendicheranno e più avanti vedremo che saranno gli scribi a dire che Gesù è lui che è posseduto da uno spirito impuro.

https://www.youtube.com/watch?v=-SmknWzMeKA

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i miracoli dell’accoglienza reciproca

un monaco e un imam, un dialogo che accomuna Cristianesimo e Islam

si presenta a Milano il film documentario “Sceicco Ibrahim, Fra’ Jihad”

presentazione diGelsomino Del Guercio
Sceicco Ibrahim, Fra' Jihad documentario cristiano musulmano Islam Cristianesimo Centro San Fedele monastero Mar Musa
Ⓒ Magisitalia.org
Sceicco Ibrahim, Fra’ Jihad è un documentario girato dal regista Andres Rump nel Monastero  di Mar Musa nel deserto della Siria, fondato dal gesuita Paolo Dall’Oglio, e a Damasco prima dell’inizio della guerra, nel 2010. Il film parla di un incontro, di due vocazioni e dell’amicizia tra un monaco della Comunità Al-Khalil, fra’ Jihad Youssef e un Sufi, sceicco Ibrahim, imam della Moschea di Sheikh Moschea Ad-Daghestani, situata in un quartiere popolare di Damasco (magis.gesuiti.it, 29 gennaio).

Un incontro che è soprattutto apertura e accoglienza dell’altro. Il film è anche l’occasione per descrivere la vita quotidiana, fatta di preghiera e di ospitalità del monastero nel deserto e della moschea in città: i momenti di silenzio, la preghiera individuale e comunitaria, il lavoro manuale. Una storia di dialogo e di amicizia possibile in un momento carico di tensioni, dopo gli attentati di Parigi e i numerosi segnali di espansione del fondamentalismo in Medio Oriente (aggiornamentisociali.it, 29 gennaio).

Il film, proiettato in anteprima il 15 gennaio all’Università Gregoriana di Roma, sarà presentato il 30 gennaio all’Auditorium San Fedele di Milano (via Hoepli/3, ingresso libero). Nel corso dell’evento interverranno lo stesso fra’ Jihad Youssef, uno dei due protagonisti, Ibrâhîm ‘Abd an-Nûr Gabriele Iungo, laureando in Legge e in Scienze islamiche tradizionali presso l’Università Islamica di Medinah e presso la Dar ul-‘Ilm di Birmingham, e Paolo Branca, docente di Lingua araba e Islamistica all’Università Cattolica di Milano. Modera: Stefano Femminis, della Fondazione culturale San Fedele. 

Promotori dell’evento sono Aggiornamenti Sociali, Associazione Khalil Allah – L’Amico di Dio, Fondazione Culturale San Fedele, Magis, Procultura Monzese.

LA SACRALITA’ DELL’UOMO E DIO
Ascoltando le parole di fra’ Jihad, contattato da Aleteia, si può notare come il dialogo e il punto di vista di un cristiano e di un islamico siano tutt’altro che lontani anni luce. «Ognuno parlava della propria vocazione – sottolinea il monaco – di come la viveva e la sperimentava, e abbiamo constatato che tra noi c’erano diversi elementi di convergenza. Il primo fa sicuramente riferimento alla sacralità dell’uomo davanti e Dio, cioè al Mistero dell’incontro tra l’uomo credente e Dio, un attimo che va rispettato»

LA CONVERSIONE DI SE STESSI
Un altro aspetto condiviso del pensiero dell’imam, prosegue fra’ Jihad, era la conversione. «E cioè che bisogna convertire prima se stessi e poi gli altri. Lui mi ha fatto l’esempio che gli ha inculcato il suo maestro, il Grande Sceicco Nazim, capo dell’Ordine Sufi Naqshbandi-Haqqani, di cui fa parte l’imam. “I buoni si convertiranno da sé, non ci sarà bisogno della conversione. Piuttosto bisogna pensare a se stessi“. La lezione dello sceicco Nazim è un messaggio molto simile a quello messianico della religione cattolica». 

LA CULTURA DELL’INCONTRO
I punti in comune hanno riguardato anche la libertà della fede. «Ognuno creda come Dio gli dà di credere – sottolinea il monaco – è un altro dei messaggi che ci ha visto convergere, così come la cultura dell’incontro. L’imam mi diceva: “E’ Dio che ci ha fatto incontrare, poiché tra di noi non c’era interesse a farlo, e neppure avevamo delle esigenze di lavoro tali che stimolassero questo confronto“. E’ su queste basi che si è mosso un dialogo profondo tra credenti di religioni diverse». 

SILENZIO E TECNOLOGIA
E ancora, ricorda fra’ Jihad, l’importanza della preghiera, l’interesse per i poveri attraverso l’ospitalità – nel convento per il monaco, in moschea per l’imam – rappresentano momenti di dialogo convergente. «Il bisogno del silenzio e di luoghi dove l’uomo può ritrovarsi ci vedeva su una stessa lunghezza d’onda ma con sfaccettature diverse – spiega fra’ Jihad – nel senso che escludeva l’uso di computer, cellulari e di tutta quella tecnologia che ha reso meno semplice la vita, mentre io ne sostenevo un uso più ponderato, ragionevole, che non schiavizzi l’utilizzatore».   

L’UOMO E LA BESTIA
Insomma, il confronto con un’autorità della dottrina islamica «è stato tutt’altro che complicato. Le dirò – aggiunge il monaco – che il dialogo è alimentato dalla prontezza, dall’apertura, non dalle ideologie rigide e dal fondamentalismo. L’imam rappresenta un Islam spirituale, vero, riposato. Non abbiamo affrontato il tema del fondamentalismo perché nel 2010 la situazione era ancora abbastanza calma nel Medio Oriente, ma parlando della relazione tra gli uomini, rammento un’immagine che lui citò. L’uomo, disse, quando è lontano da Dio a volte è peggio della bestia. E fece il paragone tra un leone che quando è sazio non va a cacciare, e l’uomo di oggi che è troppo ambizioso e non è mai sazio: “uccide cento persone e non gli bastano”. Con questo esempio banale – conclude fra’ Jihad – l’imam voleva esprimere la sua condanna per ogni forma di violenza». 

sources: ALETEIA
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dopo l’indignazione il tentativo di comprendere

per comprendere l’attentato terroristico di Parigi

di Leonardo Boff
Boff L.

Una cosa è indignarsi, con ogni ragione, contro l’atto terroristico nei confronti dei migliori vignettisti francesi: si tratta di un atto abominevole e criminale che nessuno può difendere.

Altra cosa è cercare di comprendere in maniera analitica il perché di tali eventi. Questi non cadono dal cielo. Dietro di questi c’è un fondo oscuro, fatto di storie tragiche, di umiliazioni e di discriminazioni, di stragi, quando non di vere guerre preventive che hanno provocato la morte di migliaia e migliaia di persone.

In questo, gli Stati Uniti e in generale l’Occidente hanno il primato. In Francia vivono circa cinque milioni di musulmani, la maggior parte dei quali abita nelle periferie in condizioni precarie. Sono profondamente discriminati, al punto che si può parlare di una vera islamofobia.

Subito dopo l’attentanto alla sede di Charlie Hebdo, si è sparato contro una moschea, un ristorante musulmano è stato incendiato e una casa di preghiera islamica è stata raggiunta da colpi di arma da fuoco.

Cosa significa? Lo spirito che ha provocato la tragedia contro i vignettisti è ugualmente presente in quei francesi che hanno commesso atti violenti contro istituzioni islamiche. Se Hannah Arendt, che seguì tutto il processo contro il criminale nazista Eichmann, fosse viva, farebbe un analogo commento, denunciando questo spirito vendicativo.

Si tratta di superare lo spirito di vendetta e di rinunciare ad affrontare la violenza con maggiore violenza, la quale crea una spirale di odio interminabile, provocando innumerevoli vittime, la maggior parte delle quali innocenti. 

L’attentato terroristico dell’11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti è paradigmatico. La reazione del presidente Bush è stata quella di dichiarare la “guerra infinita” contro il terrorismo; istituire il Patriot Act che viola diritti fondamentali consentendo di arrestare, sequestrare e sottoporre a durissime tecniche di interrogatorio persone sospettate; creare 17 agenzie di sicurezza in tutto il Paese e iniziare a spiare tutti, in tutto il mondo, oltre a sottomettere terroristi certi o presunti a condizioni disumane e a torture a Guantánamo.

Quel che gli Stati Uniti e gli alleati occidentali hanno fatto in Iraq è stata una guerra preventiva che ha provocato innumerevoli morti tra i civili. Se in Iraq vi fossero state soltanto estese piantagioni di agrumi, nulla di tutto questo sarebbe accaduto. Ma vi sono grandi riserve di petrolio, il sangue del sistema produttivo mondiale.

Tale violenza barbarica, che ha distrutto i monumenti di una delle più antiche civiltà umane, ha lasciato una scia di rabbia, di odio e di volontà di vendetta.

In questo quadro, si può comprendere come l’abominevole attentato a Parigi sia il risultato di questa prima violenza. Lo scopo di questo attentato è provocare il panico in tutta la Francia e in generale in Europa. È questo l’effetto perseguito dal terrorismo: occupare le menti delle persone e mantenerle ostaggio della paura.

L’obiettivo principale del terrorismo non è occupare territori, come hanno fatto gli occidentali in Afghanistan e in Iraq, ma occupare le menti. Questa è la sua sinistra vittoria. 

La profezia del mandante degli attentati dell’11 settembre, l’allora ancora non assassinato Osama Bin Laden, espressa l’8 ottobre del 2001, si è purtroppo realizzata: «Gli Stati Uniti non saranno mai più sicuri, non avranno mai più pace».

Occupare le menti delle persone, destabilizzarle emotivamente, obbligarle a non fidarsi di alcun gesto, di alcuna persona estranea, ecco a cosa mira il terrorismo: in questo risiede la sua essenza. (…). 

Formalizziamo il concetto di terrorismo: è ogni violenza spettacolare praticata con l’obiettivo di occupare le menti riempiendole di paura. La cosa importante non è la violenza in sé, ma il suo carattere spettacolare, in grado di dominare le menti di tutti. 

Uno degli effetti più deleteri del terrorismo è stato quello di aver dato vita allo Stato terrorista che sono oggi gli Stati Uniti. Noam Chomsky cita un funzionario degli organi di sicurezza nordamericani che ha dichiarato: «Gli Stati Uniti sono uno Stato terrorista e ne siamo orgogliosi».

La speranza è che questo spirito non prenda il sopravvento nel mondo e specialmente in Occidente. Perché davvero in questo caso andremmo incontro al peggio.

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no alla ‘cultura dello scarto’

 

il mondo visto da Papa Francesco: no alla cultura dello scarto

dalla strage a Charlie Hebdo alla Nigeria, dal disgelo Usa-Cuba alle politiche migratorie

ALBERTO PIZZOLI/AFP/Getty Images

papa Francesco 
“C’è un’indole del rifiuto che ci accomuna, che induce a non guardare al prossimo come ad un fratello da accogliere, ma a lasciarlo fuori dal nostro personale orizzonte di vita, a trasformarlo piuttosto in un concorrente, in un suddito da dominare”. Così il Papa nel discorso al Corpo diplomatico, a proposito di quello che ha definito il cuore indurito dell’umanità. “Si tratta di una mentalità – ha sottolineato – che genera quella cultura dello scarto che non risparmia niente e nessuno: dalle creature, agli esseri umani e perfino a Dio stesso. Da essa nasce un’umanità ferita e continuamente lacerata da tensioni e conflitti di ogni sorta… Constatiamo con dolore le conseguenze drammatiche di questa mentalità del rifiuto e della “cultura dell’asservimento” nel continuo dilagare dei conflitti”.
“Come una vera e propria guerra mondiale combattuta a pezzi – ha aggiunto – essi toccano, seppure con forme e intensità diverse, varie zone del pianeta”.

La strage di Charlie Hebdo

La “tragica strage avvenuta a Parigi alcuni giorni fa”, ha detto il Papa, nasce da “una cultura che rigetta l’altro, recide i legami più intimi e veri, finendo per sciogliere e disgregare tutta quanta la società e per generare violenza e morte”

La situazione in Ucraina

La “vicina Ucraina” è “divenuta drammatico teatro di scontro e per la quale auspico che, attraverso il dialogo, si consolidino gli sforzi in atto per fare cessare le ostilità, e le parti coinvolte intraprendano quanto prima, in un rinnovato spirito di rispetto della legalità internazionale, un sincero cammino di fiducia reciproca e di riconciliazione fraterna che permetta di superare l’attuale crisi”.

La strage dei bimbi in Pakistan

Ricordando nel suo discorso al Corpo diplomatico il re Erode che “fa uccidere tutti gli infanti di Betlemme”, papa Francesco ha detto che “il pensiero corre subito al Pakistan, dove un mese fa oltre cento bambini sono stati trucidati con inaudita ferocia. Alle loro famiglie – ha aggiunto – desidero rinnovare il mio personale cordoglio e l’assicurazione della mia preghiera per i tanti innocenti che hanno perso la vita”

Israele e Palestina

In Medio Oriente è necessario “possa riprendere il negoziato fra le due Parti, inteso a far cessare le violenze e a giungere ad una soluzione che permetta tanto al popolo palestinese che a quello israeliano di vivere finalmente in pace, entro confini chiaramente stabiliti e riconosciuti internazionalmente, così che la soluzione di due Stati diventi effettiva”.

Il Fondamentalismo religioso

“Il fondamentalismo religioso, prima ancora di scartare gli esseri umani perpetrando orrendi massacri, rifiuta Dio stesso, relegandolo a un mero pretesto ideologico” ha detto il Papa parlando dei “risvolti agghiaccianti” per il dilagare del terrorismo di matrice fondamentalista in Siria ed in Iraq. “Tale fenomeno – ha detto – è’ conseguenza della cultura dello scarto applicata a Dio. Un Medio Oriente senza cristiani sarebbe un Medio Oriente sfigurato e mutilato!”.

E ancora: “Con una lettera inviata poco prima di Natale ho personalmente inteso manifestare la mia vicinanza e assicurare la mia preghiera a tutte le comunità cristiane del Medio Oriente, che offrono una preziosa testimonianza di fede e di coraggio, svolgendo un ruolo fondamentale come artefici di pace, di riconciliazione e di sviluppo nelle rispettive societa’ civili di appartenenza”.

Di fronte alla “ingiusta aggressione”, che colpisce i cristiani e altri gruppi etnici e religiosi in Siria e Iraq, “occorre una risposta unanime che, nel quadro del diritto internazionale, fermi il dilagare delle violenze, ristabilisca la concordia e risani le profonde ferite che il succedersi dei conflitti ha provocato. In questa sede – ha detto Francesco nel suo discorso al Corpo diplomatico – faccio perciò appello all’intera comunità internazionale, così come ai singoli Governi interessati, perchè assumano iniziative concrete per la pace e in difesa di quanti soffrono le conseguenze della guerra e della persecuzione e sono costretti a lasciare le proprie case e la loro patria”.

Le brutalità in Nigeria

Tra le “forme di brutalità che non di rado mietono vittime fra i più piccoli e gli indifesi” ci sono quelle che riguardano la Nigeria, “dove non cessano le violenze che colpiscono indiscriminatamente la popolazione, ed è in continua crescita il tragico fenomeno dei sequestri di persone, sovente di giovani ragazze rapite per essere fatte oggetto di mercimonio. È un esecrabile commercio che non può continuare! Una piaga che occorre sradicare” ha aggiunto. Il Papa ha detto poi di guardare “con apprensione ai non pochi conflitti di carattere civile che interessano altre parti dell’Africa, a partire dalla Libia, lacerata da una lunga guerra intestina che causa indicibili sofferenze tra la popolazione e ha gravi ripercussioni sui delicati equilibri della Regione”.

E ha ricordato anche le drammatiche situazioni nella Repubblica Centroafricana, in Sud Sudan e in alcune regioni del Sudan, del Corno d’Africa e della Repubblica Democratica del Congo. “Auspico pertanto – ha detto – un impegno comune dei singoli governi e della comunità internazionale affinchè si ponga fine ad ogni sorta di lotta, di odio e di violenza e ci si impegni in favore della riconciliazione, della pace e della difesa della dignità trascendente della persona”.

Il nuovo atteggiamento per migranti e profughi

“È necessario un cambio di atteggiamento” nei confronti dei migranti e dei profughi, “per passare dal disinteresse e dalla paura ad una sincera accettazione dell’altro… Giunti spesso senza documenti in terre sconosciute di cui non parlano la lingua, è difficile per i migranti venire accolti e trovare lavoro. Oltre alle incertezze della fuga, essi sono costretti ad affrontare anche il dramma del rifiuto”, ha sottolineato il Pontefice. “Quante persone perdono la vita in viaggi disumani, sottoposte alle angherie di veri e propri aguzzini avidi di denaro?” ha anche detto Francesco. “Nel ringraziare quanti, anche al costo della vita – ha proseguito – si adoperano per portare soccorso ai rifugiati e ai migranti, esorto tanto gli Stati quanto le Organizzazioni internazionali ad agire con impegno per risolvere tali gravi situazioni umanitarie e a fornire ai Paesi di origine dei migranti aiuti per favorirne lo sviluppo socio-politico e il superamento dei conflitti interni, che sono la causa principale di tale fenomeno… È necessario agire sulle cause e non solo sugli effetti – ha aggiunto il Papa – peraltro, ciò consentirà ai migranti di tornare un giorno nella propria patria e contribuire alla sua crescita e al suo sviluppo”

L’Asia

“Questa sera stessa avrò la gioia di ripartire per l’Asia, per visitare lo Sri Lanka e le Filippine e così testimoniare l’attenzione e la sollecitudine pastorale con cui seguo le vicende dei popoli di quel vasto continente” ha detto Papa Francesco. “A loro e ai loro Governi desidero manifestare, ancora una volta, l’anelito della Santa Sede a offrire il proprio contributo di servizio al bene comune, all’armonia e alla concordia sociale… In particolare, auspico una ripresa del dialogo fra le due Coree, che sono Paesi fratelli che parlano la stessa lingua”

Usa-Cuba

“Un esempio a me molto caro di come il dialogo possa davvero edificare e costruire ponti viene dalla recente decisione degli Stati Uniti d’America e di Cuba di porre fine ad un silenzio reciproco durato oltre mezzo secolo e di riavvicinarsi per il bene dei rispettivi cittadini” ha sottolineato Papa Francesco, che è stato parte attiva nel negoziato tra i due Paesi. Papa Francesco accoglie “con soddisfazione la volontà degli Stati Uniti di chiudere definitivamente il carcere di Guantanamo, rilevando la generosa disponibilità di alcuni Paesi ad accogliere i detenuti”.

La dignità del lavoro

“Non esiste peggiore povertà di quella che priva del lavoro e della dignità del lavoro e che rende il lavoro una forma di schiavitù” ha detto papa Francesco nel discorso al Corpo diplomatico, parlando dei tanti “esiliati nascosti” che “vivono all’interno delle nostre case e delle nostre famiglie”, tra cui gli anziani, i disabili, i giovani, della “piaga sempre più estesa della disoccupazione giovanile e del lavoro nero” e del “dramma di tanti lavoratori, specialmente bambini, sfrittati per avidità. Tutto ciò – ha aggiunto Bergoglio – è contrario alla dignità umana e deriva da una mentalità che pone al centro il denaro, i benefici e i profitti economici a scapito dell’uomo stesso.

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una chiesa povera e per i poveri

per i  lunedì del Meic di Lodi

CRISTINA SIMONELLI 
( in Aula  magna del Liceo Verri – Lodi – 17 marzo 2014)

UNA CHIESA “POVERA E PER I POVERI”

Idee, problemi, passi da compiere

sito: http://goo.gl/3ACD5c
01:05:56

 

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p. Zanotelli e il suo incontro coi poveri

 

“mi hanno convertito i poveri”

  a tu per tu con uno dei missionari più noti d’Italia. Prima in Sudan, poi in Kenya, oggi vive e opera a Napoli. In mezzo la stagione di “Nigrizia”.

“in Africa ho visto che noi portiamo il Vangelo, ma Dio è già lì”

intervista di ‘Credere’ a cura di

«I poveri mi hanno convertito: scrivilo».

Finisce così, con una frase che sa di “testamento spirituale”, l’intervista che padre Alex Zanotelli ha concesso a Credere, nella quale ha rivisitato mezzo secolo di vita missionaria, sempre giocata in prima linea: in Africa (dapprima Sudan,poi Kenya), alla direzione di Nigrizia e,oggi, nel cuore di Napoli. Il comboniano, che contende a padre Piero Gheddo del Pime la palma del più noto missionario italiano, compie 76 anni il prossimo 28 agosto e da pocoha celebrato il cinquantesimo di sacerdozioa Verona, poi nel suo paese natale, Livo, in Trentino.

Padre Alex, perché i poveri ti hanno convertito?
«Perché, come spiega papa Francesco, nella mia esperienza missionaria ho toccato con mano che noi annunciamo il Vangelo, ma Dio è già lì, ci precede sempre. Un episodio che non potrò mai dimenticare mi è accaduto a Korogocho, la baraccopoli di Nairobi dove ho vissuto: andavamo a celebrare l’Eucaristia nelle baracche, con i malati di Aids. Una sera arrivo al capezzale di Florence, una ragazza che la madre aveva avviato alla prostituzione all’età di 11 anni; a 15 aveva contratto l’Aids, a 17 stava morendo. La stanza è tutta buia, accendiamo una candela e mi metto a pregare. Poi le chiedo: “Florence, chi è il volto di Dio per te oggi?”. Lei resta in silenzio, poi il suo viso si illumina in un sorriso: “Sono io il volto di Dio!”, mormora lei, che non era cristiana e non frequentava la Chiesa. Io, sul letto di morte, non riuscirò a fare una preghiera del genere».

Perché ti sei fatto missionario e perché comboniano?
«La mia vocazione nasce da ragazzino in Val di Non. La scelta missionaria è nata all’indomani di un incontro con un comboniano: io ero uno dei peggiori della classe, ma avevo dentro un forte desiderio di donare la vita. Da lì è nato l’amore per Comboni. La mamma, una delle persone più altruiste che abbia mai conosciuto, mi ha appoggiato. Papà, invece, non era molto contento della mia scelta, almeno all’inizio».

 

 

Il giorno della tua ordinazione eravate in 56. Nel 2014 i numeri sono completamente diversi. Perché ai giovani italiani pare che l’ideale missionario non interessi più?
«Il crollo delle vocazioni ha varie ragioni.Una delle principali è che il consumismo ha portato a un azzeramento dei valori fondamentali. Lavorando con i giovani, a Napoli, ne ho avuto conferma: un giovane, appena laureato, sta per entrare nei Comboniani, una ragazza nelle Comboniane. Ma per entrambi è stato necessario uscire dalla sbornia del consumismo e misurarsi con le domande importanti sulla vita. C’è poi un altro problema: manca spesso una conoscenza profonda di Gesù. La nostra è rimasta, in molti casi, una religiosità di superficie. Una seria animazione giovanile deve, quindi, proporre cammini di fede autentici. Ma guai se abbandonassimo questo campo solo perché oggi non ci sono vocazioni dall’Europa!».

A novembre si terrà il convegno missionario nazionale a Sacrofano. Cosa occorre per ridare slancio alla missione?
«Sono molto preoccupato per il futuro: la spinta missionaria in Italia sta languendo. Ma il Papa, nell’Evangelii gaudium, ci stimola a “uscire”. Come fare? La spinta al cambiamento non viene da ragionamenti o da discussioni teologiche, ma dalla testimonianza concreta di gente che sa rischiare. Abbiamo bisogno di testimoni. I giovani questo chiedono, altrimenti non sono interessati: vogliono vedere scelte contro correntee, quando questo accade, si infiammano. Il problema di fondo della Chiesa italiana è che, come mi ha detto una volta il vescovo Ramazzini del Guatemala, siamo schizofrenici. Ovvero: in chiesa diciamo certe cose, fuori facciamo altro. Basta vedere i nostri comportamenti nell’uso dei beni. Vale anche per gli istituti missionari: è possibile che, con tutte le case mezze vuote che abbiamo in giro per l’Italia, non riusciamo ad accogliere i migranti?».

Citi spesso il gesuita John Haughey: «Noi occidentali leggiamo il Vangelo come se non avessimo soldi e usiamo i soldi come se non conoscessimo nulla del Vangelo»…
«L’insegnamento di Gesù sui soldi è di una chiarezza incredibile. Il teologo Chiavacci lo riassumeva in due “comandamenti”: primo, cerca di non arricchirti; secondo: se hai, hai per condividere. Ebbene: oggi bisogna dire chiaramente che giocare con i soldi, sia in Borsa sia nel “gratta e vinci”, è immorale perché si accumula denaro senza lavorare. Inoltre abbiamo l’obbligo morale di sapere dove vanno a finire i nostri soldi, se le banche cui ci appoggiamo usano strumenti immorali, come paradisi fiscali e “derivati”, se finanziano il commercio di armi… Le nostre comunità cristiane purtroppo non applicano questa regola, le congregazioni religiose idem. Dovremmo mettere in crisi questo sistema economico, invece ci siamo dentro fino al collo».

Padre Alex Zanotelli. Foto Giulio Piscitelli/Contrasto.

Padre Alex Zanotelli. Foto Giulio Piscitelli/Contrasto.

 

Il Papa invita i cristiani ad andare in periferia. Ti sembra che la Chiesa stia raccogliendo questa sfida?
«Sono molto grato al Papa per i suoi messaggi e, su tutti, per il richiamo alla Chiesa povera per i poveri: l’impressione è che ci siano, però, resistenze. Vale anche per congregazioni e ordini religiosi e per noi missionari. Penso a certi conventi, che ancora accolgono solo poche persone, rinchiuse nelle loro mura. Cosa ci vuole a chiudere e spostarsi in zone degradate? Anche nel Nord del mondo ci sono dei Sud e molte occasioni per testimoniare una “Chiesa in uscita”».

Dal 2001 tu hai scelto di stare a Napoli, nel quartiere Sanità. Cosa dici di questa esperienza?
«È più difficile vivere a Napoli che a Korogocho. Qui ognuno cerca di risolvere i problemi da solo, manca la solidarietà che ho respirato in Africa. Per questo, stiamo cercando di creare reti, di mettere insieme la gente su obiettivi comuni, l’acqua, i rifiuti… Ma non è facile».

L’ultimo tuo libro, Il Dio che si svuota (Emi), è un commento alla lettera ai Filippesi. Perché questa scelta?
«Sto rileggendo Paolo in una nuova prospettiva, aiutato da vari biblisti americani. Recuperare lui, ebreo, come fondatore di comunità alternative all’impero romano, lo fa emergere in una luce di straordinaria attualità. Ai Filippesi san Paolo manda un forte richiamo, proprio citando il processo di kènosis, ossia lo “svuotamento” di Dio in Gesù. E, ai cristiani di quel tempo e di sempre, dice: ricordate che un’altra è la vostra cittadinanza».

Sei stato per anni direttore della rivista dei comboniani Nigrizia: una battuta sulla stampa missionaria, che non attraversa un momento facile.
«Non ho ricette particolari, se non questa: ritrovare il coraggio della denuncia. Come istituti missionari non siamo legati a nessun potere: dimostriamolo! In caso contrario, camminiamo con i poveri del Sud del mondo, ma di fatto rimaniamo legati al sistema. E poi occorre portare alla luce testimonianze poco conosciute. Penso, ad esempio, a monsignor Christophe Munzihirwa, arcivescovo congolese di Bukavu, ucciso nel 1996; da noi è un nome sconosciuto, ma fuori dall’Europa lo conoscono come il “Romero d’Africa”».

 
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il messaggio biblico nei confronti dello straniero

e la bibbia accolse lo straniero

di Gianfranco Ravasi 

in “Avvenire” del 22 gennaio 2015

 

Ravasi

Non è difficile rilevare nella Bibbia, dopo una logica dell’esclusione, una dell’accoglienza, che costituisce l’ambito in cui Dio agisce per portare i figli d’Israele a essergli testimoni tra le genti. Come si è visto, Dio, per educare il suo popolo a non sentirsi un privilegiato, invia profeti, che invitano ad aprire il cuore e le braccia a tutti, e sapienti, che trovano i semi di verità dispersi in tutte le culture. A proposito dell’accoglienza rituale prendiamo ad esempio una pagina cruciale della Bibbia come il Decalogo. Cosa si legge nel comandamento del sabato? Che il riposo sabbatico deve essere praticato anche dal forestiero che dimora presso l’israelita (Es 20,10); anche lui ha diritto al riposo con l’ebreo. In alcuni passi legislativi dell’Antico Testamento, come nei libri del Levitico (16,29) e dei Numeri (9,14), si andrà oltre, affermando che anche lo straniero ha diritto a far festa nel giorno di Pasqua, e a partecipare addirittura a quella celebrazione che è forse la più ebraica di tutte: il Kippur, la solennità del digiuno, dell’espiazione delle colpe. Per il culto sinagogale il Kippur è la celebrazione che in assoluto contraddistingue l’ebreo nell’ambito della liturgia. Ecco, anche questa festa è aperta allo straniero, se vuole partecipare. E come non ricordare il Terzo Isaia che al capitolo 56 arriva al punto di definire il tempio di Sion come «casa di preghiera per tutti i popoli»? La stessa direzione è percorsa anche dal Primo Isaia al capitolo 2, quando descrive la scena di un’immensa processione di popoli attratti dalla parola del Signore e pronti a ritrovare la pace e la fraternità, «a non alzare più la spada contro un altro popolo» (2,2-5). Un passo poco conosciuto del profeta Sofonia, più o meno contemporaneo o di poco precedente a Geremia, ci presenta in proposito in un solo versetto un sorprendente bozzetto del tempio di Gerusalemme e del suo culto. Potrebbe trattarsi forse di un sogno, e sicuramente lo è ancora per noi cristiani che non possiamo attuarlo nell’interno delle nostre chiese con tutte le diverse confessioni dei credenti in Cristo. Ecco il ritratto di Sofonia 3,9 con una traduzione italiana molto vicina all’originale ebraico: «Io – dice il Signore – darò a tutti i popoli un labbro puro perché invochino il nome del Signore e lo servano tutti spalla a spalla». È bella quest’immagine del vedere gli uomini tutti uguali, non ce n’è uno che è più su, che sta sulla predella o nel recinto sacro, come avveniva nel tempio di Gerusalemme, perché più importante e più puro degli altri. Nessuno è inferiore all’altro quando si trova nel luogo di preghiera perché impuro o indegno, ma tutti sono spalla a spalla. Tutti aderiscono allo stesso Dio e tutti hanno il labbro puro quando pregano, anche se le loro invocazioni non sono forse formulate secondo i canoni necessari della ritualità. «Non dica lo straniero che ha aderito al Signore – sarà ancora la voce del Terzo Isaia al capitolo 56,3 –: certo il Signore mi escluderà dal suo popolo». La seconda logica dell’accoglienza, dopo quella cultuale, è quella sociale; un tema, tra l’altro, che sentiamo attuale e che è continuamente all’ordine del giorno nella nostra società. Stiamo vivendo un’esperienza che per molti versi sarà epocale e che qualcuno definisce come qualcosa di simile a quando ci furono le grandi immigrazioni e migrazioni dei cosiddetti barbari. In fin dei conti quelle genti erano semplicemente altre popolazioni, con un differente tipo di società e di civiltà, che nello scontro venivano però concepite come diverse, come molto più primitive. Tra parentesi, ricordiamo che, se è vero che talvolta l’evoluzione registra diversità, tuttavia non dobbiamo dimenticare che spesso il concetto di progresso è veramente molto relativo. Ebbene già nell’Antico Testamento, in diversi passi, troviamo un’importante ammissione che si estende poi anche a livello sociale e politico: «Vi sarà una sola legge per il nativo e per lo straniero che è residente in mezzo a voi» (Es 12,49). Unica è la legislazione quindi per l’ebreo e per lo straniero. Si potrebbe obiettare che dal punto di vista storico Israele probabilmente non ha messo in pratica questa norma, ma questo è un altro discorso. Molti, ancora ai nostri giorni, chiedono di
evitare assolutamente di parlare di qualsiasi vaga idea di parità di diritti tra nativi e stranieri. E questo è segno di paura. Tuttavia non ci dobbiamo dimenticare che la storia concreta ha il suo peso; la comprensione, quindi, è d’obbligo per capire meglio le ragioni dell’altro, sperando che ne abbia, e per giudicare le sue convinzioni non sempre e solo come primitive e istintive. Tuttavia, è necessario essere favorevoli e sostenitori di una cultura incline al dialogo e a uno stile multietnico, senza per questo scadere in una visione irenica che vede l’approccio tra i diversi popoli come una sorta di incontro facile, gioioso e danzato. Anche nel mondo biblico ci troviamo di fronte a culture che spesso tra loro si respingono e che pongono gravi problemi di tipo sociale. Il principio da cui partire e la meta da raggiungere rimangono, comunque e sempre, non l’esclusione e il rigetto, ma lo spirito di accoglienza, anche se le forze dei popoli nella storia, andando oltre i nostri desideri, premono e risultano essere incontrollabili nel loro flusso e nel loro confronto concreto. Nella Scrittura anche lo straniero ha diritto al rispetto, alla tutela, all’amore. In Lv 19,33-34, in un’opera che parla dei principi di purità, si legge: «Quando un forestiero dimorerà presso di voi, nel vostro paese, non gli farete torto. Il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi. Tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto». E quanto questo testo dovrebbe far ricordare agli italiani il loro essere stati emigranti nei secoli scorsi! In questi due versetti è profondamente sottolineato il fatto che occorre amare lo straniero come se stessi, perché anche Israele ha provato cosa vuol dire essere straniero. Certo, qui si distingue tra il forestiero che è residente rispetto agli stranieri di tutto il mondo, però si osserva che la persona pur «diversa» che abita nella tua stessa via deve aver assicurata la stessa legge, lo stesso trattamento e la stessa tutela e persino l’amore.

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l’Islam ci minaccia?

Islam, una minaccia per l’Europa?

 

   Franco Cardini (autore del volume Europa e Islam nella serie Fare l’Europa diretta da Jacques Le Goff)
Cardini
 
 
 
  commenta alcune affermazioni ispirate a interventi pubblici di chi ritiene l’Islam una minaccia per l’Europa, dopo gli attentati del 7 gennaio a Parigi.
 

 

 

1. Ancora una volta il cuore della civiltà occidentale è colpito dal terrorismo islamico. Possiamo ragionarci su quanto vogliamo ma sta di fatto che, se non tutti gli islamici sono terroristi, oggi e ormai da molto tempo tutti i terroristi sono islamici.

Per la verità in tutto il mondo si stanno segnalando attentati terroristici gravi o leggeri di varia matrice: quindi l’affermazione è in sé inesatta. Se poi mettiamo in discussione la nozione ufficiale e ristretta di terrorismo, la cosa cambia del tutto aspetto. Colpire con aerei o con droni oppure bombardare per rappresaglia unilateralmente valutata e decisa obiettivi isolati o centri urbani praticamente indifesi (salvo poi parlare delle vittime dicendo che “si facevano scudi umani” dei bambini: come si fa a farsi scudi umani quando si è vittime di un bombardamento?) è a sua volta terrorismo in senso proprio, in quanto azione violenta atta a spargere terrore”.
2. La distinzione tra Islam moderato e Islam fondamentalista è un’invenzione occidentale: la verità è che i musulmani ci considerano infedeli e come tali nutrono nei nostri confronti un atteggiamento ostile. Non è un caso se nel corso della storia Cristianità e Islam tante volte sono venuti alle armi.

Cristianità e Islam, finché c’è stata una Cristianità (vale a dire una società che anche sotto il profilo civile, giuridico, culturale si ispirava a principi cristiani come tali riconosciuti), e quindi un Occidente moderno e laico, e Islam, sono appunto “tante volte venuti alle armi” (sempre meno di quanto non abbiano fatto i cristiani e/o gli europei fra loro). Ma più spesso hanno allacciato rapporti economici, commerciali, diplomatici, culturali. Quanto alla distinzione tra “moderati” e “fondamentalisti”, è vero: è occidentale e arbitraria (tanto è vero che l’Occidente mostra di considerare in pratica moderati anche gli emiri della penisola arabica, che religiosamente parlando tali non sono ma tali vengono dichiarati ad honorem in quanto alleati e partner economici). In realtà l’Islam è una realtà immensa, quasi un miliardo e mezzo di persone, che non conosce istituzioni religioso-giuridiche normative (cioè vere e proprie “Chiese”) universalmente e concordemente tali considerate, ma che si organizza come un insieme di gruppi, sodalizi, scuole giuridiche, organizzazioni caritative, sette mistico-religiose ecc.; esso non ha né un centro né un possibile profilo gerarchico al suo interno. Quindi, quando ci si rivolge ad esso, ogni gruppo va studiato come una realtà a se stante, più o meno come accade per le sette cristiane protestanti (salvo le grandi Chiese riformate).
3. È vero che anche il mondo occidentale ha conosciuto l’intolleranza religiosa e la sovrapposizione tra religione e autorità statale: ma noi siamo usciti da tempo dal medioevo e abbiamo separato politica e religione. L’Islam invece vive ancora sotto la legge coranica, e da questo medioevo non sembra avere alcuna intenzione di uscire.

Il medioevo è una dimensione della storia solo occidentale e per giunta convenzionalmente elaborata: non è una fase necessaria che la storia di tutte le società umane debba forzatamente attraversare. Esso è stato “inventato” da umanisti tre-quattrocenteschi convinti che si potesse tornare a quella che a loro avviso era la “perfezione” della civiltà romana, raggiunta nell’età augustea, e che a separarla da loro ci fosse solo la palude di un “tempo-di-mezzo” impregnato di barbarie e di fanatismo. A rigore, “medioevo” non è nemmeno una definizione: è una non-definizione, se non un’antidefinizione. L’Occidente moderno, che lo ha inventato e ha al tempo stesso inventato se stesso, deve far attenzione a non ricaderci: ammesso (e assolutamente non concesso) che ciò, in termini propri, sia un vero problema storico. Le società musulmane sono strutturate in altro modo e non hanno mai scelto una distinzione netta e definitiva tra sfera religiosa e sfera civile e giuridica: il che, nella realtà storica e contrariamente a quel che noi pensiamo, ha però significato molto spesso, fino a tempi recentissimi, un prevalere della politica sulla religione. Il più grande sultano ottomano del Cinquecento, che noi conosciamo come Solimano “il Magnifico”, nel mondo musulmano è noto come ‘al-Qanuni’, il restauratore del Canon di Giustiniano (non della shar’ia).

4. Come minimo dovremmo far valere la legge della reciprocità: perché consentiamo a tante moschee di essere costruite e operare nel nostro territorio, diventando spesso centrali dell’odio senza chiedere ai paesi islamici di farci costruire altrettante Chiese cattoliche?

Una condizione giuridica indefettibile, per consentir l’applicazione del principio della reciprocità, è che essa venga esercitata tra soggetti suscettibili di porsi su un piano e un livello di omogeneità: ad esempio due stati, o due imprese, o due soggetti che esercitino la stessa attività. È ovvio che ‘Occidente’ e ‘Islam’ non sono due realtà omogenee né paragonabili, oltre a corrispondere entrambi a concetti largamente generici, all’interno dei quali si muove una molteplicità di valori, di istituzioni, di modi concreti di vivere e di pensare. Tra chi dovrebbe quindi esercitarsi tale reciprocità? Per esempio tra due stati? L’Italia, che è un paese laico per quanto abitato da una maggioranza di cittadini che si dicono o che vengono sociologicamente considerati cattolici, potrebbe ad esempio avviare una seria procedura istituzionale e diplomatica tesa a ottenere la reciprocità nell’apertura di luoghi di culto cattolico con ciascun paese musulmano. Ma con quale? Con l’Egitto, o la Giordania, o la Turchia, che hanno già comunità cristiane fiorenti e rispettate (anche se di questi tempi la sicurezza è purtroppo sempre pericolante)? O con l’Iraq e la Siria, dove tali comunità erano sicure prima che, per colpa degli occidentali, tutto si scompigliasse? O con gli emirati arabi, dove i cristiani sono pochissimi e i regimi emirali seguono la shar’ia ma sono alleati e partner commerciali e sicuri dei nostri governi i quali non hanno affatto voglia di crear problemi a tale armonia per motivi religiosi, né avrebbero – come governi appunto “laici” – il diritto di farlo? E se i nostri governi laici lo facessero, come la metteremmo con i cittadini non-credenti, o ebrei, o buddhisti, che magari potrebbero protestare per tale trattamento di riguardo accordato ai cristiani e che non li riguarda? E ancora, ammettendo che il nostro governo – facendosi indebitamente paladino della libertà della Chiesa – insistesse presso il re dell’Arabia saudita per l’apertura di chiese sul suo territorio, e ne ricevesse un rifiuto, dovrebbe per questo chiudere le moschee italiane impedendo di pregare anche a quei musulmani che non sono sudditi sauditi? Comunque lo si voglia affrontare, quest’argomento della “reciprocità” è giuridicamente, diplomaticamente e politicamente impraticabile. A livello morale, poi, è addirittura spregevole: se noi occidentali siamo sicuri dei nostri fondamenti etici che poggiano sulla tolleranza di lockiana e voltairiana memoria, non possiamo certo deflettere dai nostri convincimenti con l’alibi che gli altri non seguono i nostri princìpi. Io, come occidentale che crede fermamente nella tolleranza, mi rifiuto di obbedire a un emiro: come invece farei di fatto, se venissi meno ad essa con l’alibi che egli non intende accedervi e mi adeguassi quindi a lui.

5. C’è poco da fare, siamo in guerra. Dall’11 settembre a oggi, da New York a Parigi, le organizzazioni terroristiche, che siano Al Qaeda o Isis, fanno viaggiare il loro fanatismo sulla canna dei kalashnikov. Possiamo continuare a contrapporre a questa violenza una patetica idea di dialogo?

C’è poco da fare, siamo in guerra. Lo siamo forse dal 1918, quando le potenze vittoriose della prima guerra mondiale ingannarono il mondo arabo, al quale avevano promesso unità e libertà in un regime che si sarebbe rapidamente occidentalizzato, quello dello sceriffo della Mecca Hussein che aveva sollevato gli arabi contro il sultano di Istanbul (nonostante egli fosse anche califfo) e che era un sincero liberale e ammiratore soprattutto di Sua Maestà Britannica: inglesi e francesi gli avevano promesso una ‘Grande Arabia Libera’ e invece si spartirono il mondo arabo sottomettendolo al regime die mandati. Certo, siamo in guerra: da quando con l’alibi della cattura di Bin Laden senza prove autentiche delle sue responsabilità nei fatti dell’11 settembre gli USA e i loro complici hanno aggredito nel 2001 l’Afghanistan (allora governato da quei talebani che gli statunitensi stessi avevano introdotto in Afghanistan dall’Arabia saudita e dallo Yemen ai tempi della guerra contro l’occupazione sovietica), e da quando nel 2003 hanno aggredito l’Iraq di Saddam Hussein sventolando la balla delle “armi segrete di distruzione di massa”, che ora stanno di nuovo montando contro la Siria. Siamo in guerra da quando nel 2011 francesi e britannici hanno sostenuto, finanziato e armato gli oppositori di Gheddafi in Libia e di Assad in Siria pur sapendo bene che tra loro c’erano gruppi fondamentalisti (e ora Hollande ha la faccia di bronzo di sventolare il “pericolo fondamentalista”, che egli ha contribuito ad accrescere). Siamo in guerra da quando le lobby multinazionali in combutta con i governi occidentali e le classi dirigenti corrotte locali hanno cominciato a spogliare l’Africa di tutte le sue ricchezze provocando la disperata reazione di persone che hanno finito per accedere ai ranghi di organizzazioni fanatiche come il Boko Haram. Solo che, in tutti questi fatti, mi sfugge qualcosa che la domanda ha affermato: quale sarebbe la “patetica idea di dialogo” che l’Occidente starebbe portando avanti? Quella delle aggressioni militari o quella delle spoliazioni messe in atto dalle multinazionali?

6. Consentire a milioni di immigrati di entrare sul nostro territorio vuol dire far passare di fronte ai nostri occhi il cavallo di Troia del fanatismo islamico: la nostra cultura democratica e cristiana ci impedisce di chiudere le frontiere di fronte ai perseguitati politici e agli affamati; ma dovremmo ridurre drasticamente il numero di chi viene accolto e controllare ogni persona che arriva da un paese islamico accertandoci del suo atteggiamento verso le nostre società.

Temo che, nel consigliarci l’accoglienza, la nostra cultura democratica e cristiana c’entri poco. C’entra, invece, il fatto che finché servono come manodopera a buon mercato, magari al nero, quegli immigranti sono ben accetti. E c’entra quello che il sistema di spoliazione sistematica delle risorse soprattutto del continente africano, messo in atto dalle nostre lobby con l’appoggio dei governi sia nostri sia locali (questi ultimi da esse del resto messi in piedi, appoggiati e foraggiati), ha da tempo ridotto il continente africano alla miseria e alla disperazione, come ben sanno i nostri missionari e i nostri operatori umanitari. Stiamo proseguendo sulla via dello “scambio asimmetrico”, già inaugurato del nascente colonialismo nel XVI secolo: non importiamo da loro manodopera e materie prime al prezzo che stabiliamo noi, esportiamo alla loro volta prodotti finiti e “valori immateriali”, come la Libertà e i Diritti Umani, sempre al prezzo che stabiliamo noi. E, con questa premessa, poi ci meravigliamo della “guerra asimmetrica”? Ma siamo davvero sicuri di lasciar loro altra scelta, se non l’alternativa tra affogare nel Canale di Sicilia o prendere le armi?
7. A chi obietta che molti terroristi sono cittadini europei perché figli di immigrati nati in Europa la risposta sta in una forte stretta sulla sicurezza: sappiamo dove i ragazzi islamici si incontrano, che siano moschee o quartieri interi, e dove nascono i centri di indottrinamento alla violenza. Dobbiamo rafforzare i controlli di polizia e la presenza militare in quei territori. I buoni musulmani non avranno nulla da temere.

Bene: ammettiamo pure di conoscere davvero i centri di reclutamento dei terroristi e di addestramento alla violenza: allora il gioco è fatto. Basta chiuderli ed arrestarne i responsabili. Ma se abbiamo solo indizi e sospetti, allora la “stretta di sicurezza” è necessaria, ma insufficiente. Da sola, la “stretta di sicurezza”, a parte i costi e le difficoltà organizzative e pratiche (siamo davvero sicuri di conoscerli, i centri ‘dove nascono i centri di indottrinamento e di violenza’? Siamo certi che le moschee siano tutte e sempre tali? Ne abbiamo le prove? Se fossimo nei loro panni, accetteremmo pacificamente di venir sorvegliati durante le nostre attività religiose e culturali sulla base di un pregiudizio, salvi i casi di illegalità comprovate?) contribuirebbe a creare nuove ostilità e si risolverebbe in un potente aiuto alla propaganda terroristica, vale a dire che conseguirebbe esattamente gli effetti contrari rispetto a quelli che vogliamo. Per evitare ciò, bisogna accompagnare la “stretta di sicurezza” a un’organica e capillare politica dell’accoglienza: e qui in primo piano entrano le scuole, i sodalizi culturali e assistenziali a tutti i livelli, le iniziative che creino occasioni d’incontro e si scambio. C’è un modo sicuro per odiare la cultura dell’Altro: ignorarla e ritenerla quindi pregiudizialmente inferiore o pericolosa. E c’è un modo sicuro per amarla e ammirarla: imparare a conoscerla. Io non sono né un arabista né un islamista, ma ho qualche esperienza orientalista sul piano storico-antropologico: in quanto cattolico, non ho mai amato tanto la tradizione cattolica come ho fatto da quando ho imparato ad apprezzare quello che ad esempio la teologia musulmana dice, scrive e pensa sulla Vergine Maria.

8. Oltre alle misure di sicurezza dobbiamo rilanciare con forza la nostra identità europea, fondata sulle nostre tradizioni, sulla nostra civiltà greco-romana, sulle radici cristiane della nostra libertà. Solo attraverso una rinnovata fiducia in noi stessi potremo farci rispettare anche dagli altri.

Certo: ma bisogna agire con la ferma consapevolezza che non v’è identità che non sia imperfetta e dotata di una sua dinamica interna, che non v’è tradizione che non debba qualcosa nella sua genesi alle tradizioni altrui. Le nostre radici sono ellenistico-romene (le definirei così piuttosto che propriamente greco-romane, poiché la cultura ellenica entrata in Roma fra IV e II sec. A.C. era già fortemente passata attraverso la sintesi ellenistica da essa attingendo a molteplici valori culturali “orientali” (cioè soprattutto egizi, caldei, siromesopotamici, persiani). Poi, con il cristianesimo, giunsero gli influssi ebraici, neoplatonici, gnostici. Poi ecco il contributo dei popoli “barbari”: gli illirici, i celti, i galli, i germani, gli arabo-musulmani. La coscienza della relatività delle differenze e dell’abbondanza delle analogie e delle somiglianze tra la nostra cultura e quelle altrui non potrà che accrescere il senso di vicinanza e facilitare dialogo e convivenza.

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35 anni di inquisizione nella chiesa odierna

1978-2013

IL “MARTIROLOGIO” LAICO
DELLE VITTIME DI RATZINGER E WOJTYLA

Woitila

l

 

 

a lista dei teologi, dei preti, dei religiosi e delle religiose, oltre che dei laici variamente impegnati in ambito ecclesiale, puniti dal Vaticano sotto gli ultimi pontefici  è lunghissima

 

Senza contare tutti gli innumerevoli casi in cui ad intervenire sono state le Curie locali, e non il Vaticano; anche se spesso il vescovo diocesano ha agito dopo aver avuto parere favorevole dalle Congregazioni romane, quando non è stato addirittura sollecitato da esse ad intervenire in maniera repressiva.

Ratzinger
I casi più eclatanti

La vicenda più eclatante, limitandoci ai pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI (perfettamente sovrapponibili, poiché Ratzinger è stato dal 1981 al 2005 il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede proprio sotto papa Wojtyla cui è poi subentrato nel ministero petrino), è quella di Hans Küng, forse il più noto tra tutti i teologi progressisti, quello che con più forza aveva messo in discussione il dogma della «infallibilità papale», parlando invece di «indefettibilità» della Chiesa.

Kung

Il procedimento nei suoi confronti comincia quando è ancora papa Paolo VI, ma si conclude nel dicembre 1979, sotto Giovanni Paolo II. Per il Vaticano, Küng «non può più essere considerato teologo cattolico né può, come tale, esercitare il compito di insegnare».

In ambito italiano è altrettanto famosa la vicenda di Giovanni Franzoni, già abate di S. Paolo Fuori le Mura, assieme a mons. Luigi Bettazzi l’unico tra i padri conciliari italiani ad essere ancora in vita, costretto a dimettersi da abate (1973) e poi sospeso a divinis (1974) e dimesso dallo stato clericale (1976) per le sue posizioni politico-ecclesiali considerate inconciliabili con il Magistero della Chiesa (divorzio, sostegno al Pci, impegno contro la speculazione edilizia, la guerra nel Vietnam, la contiguità tra gerarchia ecclesiastica e Dc, ecc.). Condannato sotto Paolo VI, nell’epoca di Wojtyla e Ratzinger il nome stesso di Giovanni Franzoni, tra i più autorevoli animatori del movimento delle Comunità Cristiane di Base, negli ambienti ecclesiali ha rappresentato sempre un tabù, una figura da ostracizzare.

Nel 2003 un altro prete italiano delle CdB, don Franco Barbero, viene dimesso dallo stato clericale senza processo e senza preavviso. Sotto accusa la sua pastorale con le persone omosessuali e le sue benedizioni di coppie gay in Chiesa. Oggi il papa sembra aprire alle coppie gay, ma la porta nei confronti di Barbero, che dagli anni ‘60 ha iniziato una riflessione teologica e pastorale sul rapporto tra fede ed omosessualità, resta saldamente chiusa.

C’è poi il caso del religioso redentorista tedesco Bernhard Häring (1912-1998), tra i teologi che avevano preparato il Concilio Vaticano II e redatto la Costituzione Gaudium et spes sulla Chiesa e il mondo contemporaneo.

Haring

Da sempre molto critico rispetto alla morale sessuale della Chiesa e il divieto degli anticoncezionali sancito con l’enciclica Humanae vitae, Häring viene convocato nel febbraio 1979 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede che gli chiede l’impegno solenne di non criticare più l’enciclica di Paolo VI. Il teologo rifiuta. Da allora in poi subisce un processo di progressiva emarginazione che non si è concluso nemmeno dopo la sua morte; e nemmeno sotto il pontificato di Francesco.

Sempre nel 1979, a maggio, dopo lunga attesa, e diverse richieste andate a vuoto, mons. Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador viene ricevuto dal papa.

Romero

Nel suo martoriato Paese Romero è da tempo punto di riferimento dei più poveri, per il suo impegno a sostegno dei diritti umani e contro le azioni degli squadroni della morte, gruppi paramilitari di estrema destra, che svolgevano azioni terroristiche contro gli oppositori politici del governo. «Lei, signor arcivescovo, deve sforzarsi di avere una relazione migliore con il governo del suo Paese», dice Wojtyła a Romero, sfiduciandone l’operato. Una seconda udienza avviene il 21 gennaio 1980. L’incontro va un po’ meglio di quello dell’anno precedente. Ma la sostanza non cambia: di lì a poco Romero riceve il terzo visitatore apostolico (all’interno della Chiesa si tratta di una sorta di ispezione disciplinare che può preludere al “commissariamento” della diocesi o a provvedimenti disciplinari) in 12 mesi. Il 24 marzo del 1980 Romero viene ucciso da un sicario mentre celebra l’eucarestia. Wojtyła non prende nemmeno parte ai funerali. Oggi papa Francesco vorrebbe farlo santo. Ma nessuna parola è sinora stata ufficialmente spesa sulla solitudine e il clima di ostilità che Wojtyla e la gerarchia vaticana hanno creato prima, durante e dopo la morte attorno al vescovo martire.

Tra i casi più clamorosi di repressione ecclesiastica degli ultimi decenni va certamente annoverato anche quello del più celebre teologo della Teologia della Liberazione, il frate francescano Leonardo Boff, condannato nel 1985 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede per il suo libro Chiesa, carisma e potere.

Boff L.

Per l’ex Sant’Uffizio «le opzioni di Leonardo Boff sono tali da mettere in pericolo la sana dottrina della fede». Boff lascia l’ordine nel 1992.
Vescovi “scomodi”

La scure della repressione vaticana, cui oggi un gesto di papa Francesco potrebbe porre almeno parziale rimedio, non ha risparmiato nemmeno i vescovi, quando la loro azione pastorale era in odore di comunismo o “sinistrismo”.

Nel 1993 viene rimosso dalla diocesi messicana di San Cristóbal de las Casas il vescovo mons. Samuel Ruiz (1925-2011), solidale con la causa degli indios e in dialogo con il movimento zapatista. A seguito dell’enorme clamore della notizia, il provvedimento viene però «congelato». Ma Ruiz sarà comunque affiancato da un altro vescovo incaricato di controllarlo e indotto a lasciare nel 2000, non appena compiuta l’età canonica.

Nel 1983 l’arcivescovo di Seattle, mons. Raymond Hunthausen, viene indagato e, tre anni dopo, esautorato dal Vaticano di alcune funzioni pastorali per il suo impegno su disarmo e obiezione fiscale.

Va ancora peggio (1995) a mons. Jacques Gaillot, vescovo di évreux (Francia), costretto alle dimissioni dalla guida della sua diocesi per il suo impegno a favore degli immigrati, delle prostitute, degli omosessuali e degli emarginati, nonché per l’esplicito sostegno all’uso del preservativo.

Gaillot

Gli viene affidata una diocesi senza popolo, Partenia, che esiste solo sulla carta. E di cui è tuttora titolare.

Nel 2011 il vescovo australiano, mons. William Morris, viene rimosso dal suo incarico episcopale semplicemente per aver ipotizzato un’apertura al sacerdozio femminile come possibile soluzione alla cronica carenza di preti. Il tutto senza un debito processo.

Nemmeno il generale dei gesuiti sfugge alla repressione vaticana quando, nel 1981, Wojtyla decide il commissariamento della Compagnia di Gesù, guidata dal 1965 da p. Pedro Arrupe, religioso e teologo che aveva accettato che all’interno dell’Ordine, specie nei Paesi latinoamericani (erano i tempi in cui Bergoglio era provinciale dei gesuiti in Argentina, ma su posizioni diverse da Arrupe), i gesuiti più sensibili alle istanze della Chiesa dei poveri portassero avanti una pastorale sociale molto avanzata, che si poneva in dialogo e non in contrapposizione con le forze progressiste e il marxismo. Arrupe, costretto al ritiro, muore isolato e malato nel 1991.
Teologia “spinosa”

Sul fronte dei teologi le cose non sono andate meglio. A partire dal teologo domenicano francese Jacques Pohier, già decano alla Facoltà Teologica di Le Saulchoir, cui nel 1979 viene impedito di presiedere assemblee liturgiche e di insegnare pubblicamente. Nel suo celebre libro Quand je dis Dieu (“Quando dico Dio”), il teologo aveva infatti espresso idee non conformi al Magistero su resurrezione, divinità di Gesù, presenza reale nell’eucarestia. Dopo il Vaticano II, era la prima volta che la Curia colpiva in questa misura un teologo.

C’è poi Edward Schillebeeckx (1914-2009), domenicano belga, ispiratore negli anni Sessanta del celebre «nuovo catechismo olandese», tra i promotori dei più importanti documenti del Concilio Vaticano II, fondatore – nel 1965, insieme a personalità del calibro di Marie-Dominique Chenu, Yves Congar, Karl Rahner e Küng – di Concilium, la più prestigiosa rivista teologica progressista.

Schillebeex

Il Vaticano lo accusa formalmente e in più occasioni (1979, 1980, 1984 e 1986) di essere contiguo al marxismo e di insegnare una cristologia che nega la risurrezione di Cristo come un fatto oggettivo della fede.

E ancora: nel 1986 Charles Curran, gesuita, teologo morale che, nel 1968, insieme a un gruppo di circa 600 teologi, aveva scritto una «risposta» alla Humanae vitae di papa Paolo VI contestando il divieto alla contraccezione artificiale, viene condannato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede che lo dichiara «non idoneo all’insegnamento della teologia cattolica» per le sue posizioni e per aver sostenuto «la legittimità del dissenso dall’autorità».

Due anni dopo (1988), la destituzione arriva anche per altri due teologi gesuiti, professori di Dogmatica all’Università di Granata, José Maria Castillo (che lascia nel 2007 la Compagnia di Gesù) e Juan Antonio Estrada, cui viene revocata l’idoneità all’insegnamento. Immediatamente dopo di loro stessa sorte la subisce anche il teologo e religioso clarettiano Benjamín Forcano, punta della teologia spagnola ed esponente della Teologia della Liberazione, destituito dalla direzione della rivista Misión Abierta.

Ancora nel 1988, l’allora card. Ratzinger obbliga il teologo domenicano Matthew Fox ad un anno di silenzio, prendendo come casus belli il rifiuto di Fox di condannare lo stile di vita e la pratica dell’omosessualità, ma contestandogli più in generale la sua teologia della Creation Spirituality, considerata sincretista. Nel 1992 Fox viene espulso dal suo Ordine e vengono interrotti i suoi corsi tenuti all’Holy Names College di Oakland. Oggi Matthew Fox è un prete episcopaliano. André Guindon, teologo canadese esperto di temi morali viene invece censurato nel 1992: le sue tesi – soprattutto sui temi della sessualità – contenevano secondo Ratzinger «gravi dissonanze non solo con l’insegnamento del Magistero più recente, ma anche con la dottrina tradizionale della Chiesa»; mentre ancora un altro gesuita, Jacques Dupuis, viene estromesso nel 1998 dall’insegnamento alla Pontificia Università Gregoriana per il suo libro Verso una teologia del pluralismo religioso, all’interno del quale, due anni dopo, la Congregazione per la Dottrina della Fede rintraccerà la presenza di «notevoli ambiguità e difficoltà su punti dottrinali di portata rilevante, che possono condurre il lettore a opinioni erronee o pericolose».

Nel 2001 lascia il sacerdozio il teologo australiano Paul Collins, religioso dell’ordine dei Missionari del Sacro Cuore, messo sotto accusa sin dal 1997 dall’ex Sant’Uffizio per il suo libro Il potere papale. Una proposta di cambiamento per il cattolicesimo del Terzo millennio. Le affermazioni che gli vengono contestate riguardano la negazione della rivelazione, dell’identificazione della Chiesa di Cristo con la Chiesa cattolica e dell’infallibilità papale e l’affermazione che la dottrina della Chiesa deve essere approvata non solo dai vescovi e dai teologi, ma anche dai fedeli stessi.

Riguardo ai teologi, in Italia il caso che ha fatto più scalpore è quello di don Luigi Sartori (1924-2007). Nel 1989 la Congregazione per l’Educazione cattolica interviene presso la Pontificia Università Lateranense per sollevarlo dalla cattedra di Ecumenismo. Don Sartori, perito al Concilio Vaticano II, era stato tra i più noti teologi italiani, oltre che presidente dell’Ati, l’Associazione teologi italiani.

Altro caso italiano quello di Luigi Lombardi Vallauri, che nel 1998 l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano estromette dall’insegnamento su pressioni della Congregazione per l’Educazione cattolica presieduta dal card. Pio Laghi. Le opinioni di Vallauri sarebbero «nettamente contrarie alla dottrina cattolica». Alla fine la Corte europea dei Diritti dell’uomo di Strasburgo, il 20 ottobre 2009 darà ragione a Vallauri, condannando l’Italia per avere violato la libertà d’espressione del professore e il suo diritto a un giusto processo, e definirà «priva di motivazione e presa in assenza di un reale contraddittorio» la decisione dell’Università Cattolica. Ma Vallauri sulla sua cattedra non è più tornato.

La lista dei teologi in vario modo puniti dal Vaticano è ancora lunga. C’è il gesuita indiano Anthony de Mello che a più di dieci anni dalla morte (avvenuta nel 1987), viene accusato di «apofatismo radicale» per i suoi libri di spiritualità, tradotti e venduti in tutto il mondo. C’è poi il caso del tedesco Eugen Drewermann, teologo e psicanalista, privato nel 1991 dell’insegnamento e poi della predicazione per le sue posizioni sul celibato obbligatorio e sul ruolo del prete nella Chiesa. Lascerà il sacerdozio e poi la Chiesa cattolica. E ancora il caso di Reinhard Meßner, teologo austriaco obbligato all’abiura (2000) per aver sostenuto come «in caso di conflitto è sempre la tradizione, ovvero la teologia, che deve essere corretta a partire dalla Scrittura» e non quest’ultima interpretata alla luce di una tradizione successiva. Senza dimenticare il teologo redentorista spagnolo p. Marciano Vidal, indotto (2001) a ritrattare le sue tesi su contraccezione, aborto, omosessualità; il frate minore francescano svizzero Josef Imbach, spinto nel 2002 a lasciare la docenza di Teologia fondamentale alla Pontificia Facoltà teologica San Bonaventura di Roma, perché scettico sull’esistenza dei miracoli e critico verso i metodi usati dalla Congregazione per la Dottrina della Fede per limitare la libertà del dibattito teologico nella Chiesa. E infine p. Roger Haight, gesuita, a cui nel 2004 viene vietato l’insegnamento a causa della sua visione cristologica, giudicata non ortodossa.
Preti e religiosi fuori dai “canoni”

Anche a molti preti impegnati sul fronte della politica, dell’animazione e della pastorale sociale e dell’informazione non è andata meglio. Nel 1987 il comboniano p. Alex Zanotelli è costretto a dimettersi dalla direzione (assunta nel 1978) del mensile Nigrizia, per le sue ripetute denunce sull’utilizzo dei fondi destinati alla cooperazione italiana e finiti nel commercio delle armi.

Nel 1988 anche Eugenio Melandri, missionario saveriano, dal 1978 direttore del mensile Missione Oggi, è costretto alle dimissioni. La sua rivista sosteneva il Nicaragua sandinista e si era impegnata nella denuncia della gestione fatta dal governo italiano dei fondi destinati alla cooperazione. Dopo aver accettato la candidatura con Democrazia Proletaria alle elezioni europee, nel 1989 Eugenio Melandri viene anche sospeso a divinis.

Simile la sorte (1995) del comboniano p. Renato “Kizito” Sesana, destituito dal suo incarico di direttore della rivista keniana New People, periodico dell’Africa anglofona, per le sue prese di posizione ed i suoi giudizi critici sul Sinodo africano che si era da poco concluso in Vaticano. Più recente la vicenda di don Vitaliano Della Sala, che in conseguenza della sua partecipazione al World Gay Pride del 2000, nella quale aveva criticato pubblicamente il card. Angelo Sodano per i suoi rapporti con il dittatore cileno Augusto Pinochet, viene rimosso dalla funzione di parroco della parrocchia di San Giacomo, a Sant’Angelo a Scala (Av). Nel 2009 gli viene restituita la guida di una parrocchia (a Mercogliano), ma mai il titolo di parroco.

In Francia (1989) è il gesuita Paul Valadier a venire rimosso dalla direzione della rivista dei gesuiti francesi Études: era tra i teologi che avevano sottoscritto la cosiddetta “Dichiarazione di Colonia” (1989), nella quale si muovevano aperte critiche al pontificato di Giovanni Paolo II.

Negli Usa la Congregazione per la Dottrina della Fede vieta (2000) «permanentemente ogni attività pastorale in favore delle persone omosessuali» a suor Jeannine Gramick e a p. Robert Nugent, cofondatori del progetto pastorale New Ways Ministry, rivolto a gay e lesbiche, perché i due non condannano «la malizia intrinseca degli atti omosessuali». Per continuare la sua attività a favore delle persone lgbt Gramick (2001) è anche costretta a cambiare congregazione religiosa.

Restando negli States, è del 2005 l’esonero del direttore del settimanale gesuita statunitense America p. Thomas Reese, giudicato di orientamento troppo liberal per aver avuto il coraggio di ospitare sul suo giornale dibattiti e approfondimenti su molte questioni di scottante attualità. E ancora negli Usa (2013) p. Roy Bourgeois, prete pacifista della congregazione di Maryknoll, viene punito dal Vaticano con l’estromissione dalla sua congregazione, la dimissione dallo stato clericale e la scomunica per il suo appoggio al sacerdozio femminile

(da valerio gigante in ‘finesettimana’)

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i transessuali non sono ‘figli del diavolo’

 

 

il Papa riceve in Vaticano un transessuale spagnolo con la sua fidanzata

l’uomo, un’ex donna di 48 anni, gli aveva scritto perché si sentiva emarginato dalla Chiesa dopo aver cambiato sesso

per il suo parroco è solo ‘figlia del diavolo’

 

Il Papa riceve in Vaticano un transessuale spagnolo con la sua fidanzata

Il Papa gli avrebbe quindi telefonato due volte in dicembre e sabato scorso l’ha ricevuto a Santa Marta.

Interpellate sulla vicenda, le fonti ufficiali vaticane non hanno rilasciato commenti. Nella sua lettera al Papa – secondo quanto da lui riferito al quotidiano spagnolo – Neria, credente e praticante, denunciava che, dopo essersi sottoposto all’operazione per il cambio di sesso, nella sua città in Estremadura era stato respinto da componenti della parrocchia da lui frequentata, e che il parroco l’aveva persino chiamato “la figlia del diavolo”.

Dopo aver scritto al Papa, una prima chiamata del Pontefice gli arrivò il giorno dell’Immacolata e una seconda nei giorni precedenti il Natale, quando il Papa lo invitò a recarsi in Vaticano con la fidanzata. L’incontro, strettamente privato, è quindi avvenuto sabato 24 gennaio, alle cinque del pomeriggio.

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