anche a Parigi i rom sono di ‘serie b’ rispetto alla legge

smantellato un accampamento Rom nella periferia di Parigi

scoppia la polemica

non concessa la sospensione dello sgombero, prevista dalla legge, perché hanno occupato con la forza il terreno dopo hanno realizzato l’insediamento

La baraccopoli Rom smantellata a Parigi

la baraccopoli Rom smantellata a Parigi

globalist 28 novembre 2017

La polizia ha smantellato, oggi, un accampamento Rom nella periferia nord di Parigi. All’operazione sono state interessate un centinaio di persone, che sono state ospitate altrove. Si tratta della quarta evacuazione dal 2015 attuato nella zona di Parigi.

Lo smantellamento dell’accampamento di Poissonniers, fatto di capanne di legno, a poca distanza da un tratto ferroviario in disuso, è cominciata intorno alle 7,30 quando un piccolo gruppo di donne e bambini è stato fatto salire su un bus.
“Centotredici persone tra cui 55 bambini (…) sono stati riprotetti”, ha detto, in una nota, la prefettura dell’Ile-de-France. Non ci sono stati problemi durante l’evacuazione, garantina da un centinaio di poliziotti.
In precedenza, circa 250-300 persone, dopo le procedure di identificazione, erano già partite e sistemate in strutture alberghiere o alloggi d’emegenza, cercando di non allontanare i nuclei familiari dalle scuole frequentate dai figli.
Una sistemazione abitativa sarà offerta principalmente a persone vulnerabili, genitori di bambini in età scolare e persone in un processo di integrazione, secondo le linee anticipate dalla prefettura regionale, ricordando che una analisi sociale era stata fatta sulla baraccopoli e la sua composizione.
In previsione dello sgombero, era stato concesso un termine – fino al 10 novembre – per lasciare l’area. Ma da parte delle associazioni che tutelano i diritti umani sono state sollevate perplessità perchè la legge sull’uguaglianza e la cittadinanza, approvata all’inizio di quest’anno, prevede l’estensione anche agli abitanti delle baraccopoli della sospensione degli sgomberi in questo periodo dell’anno. Ma un tribunale deciso che la sospensione non vale per gli abitanti della baraccopoli di Poissonniers, che hanno occupato con la forza il terreno su cui hanno costruito i loro alloggi.

la notte del ‘global debout’ #15M

tutti in piedi nella notte del «Global Debout»

Parigi

oggi è un nuovo #15M, giornata di mobilitazione internazionale per riprendersi le piazze e ripensare la società. Assemblee e dibattiti nelle città di tutto il mondo, tra cui Roma, Napoli e Milano

le manifestazioni a Parigi

 

Il 15 maggio è Global Debout, la prima «notte in piedi» globale. In centinaia di città si scende in piazza per riappropriarsi della parola e dello spazio pubblico rispondendo «alla competizione e all’egoismo con la solidarietà, la riflessione e l’azione collettiva».

Nuit Debout lancia una giornata di mobilitazione globale nel quinto anniversario del movimento spagnolo 15-M, invitando a occupare simultaneamente le piazze di paesi, città e metropoli. Londra, Berlino, Vienna, Madrid, Barcellona, Lisbona, Atene e diverse città italiane tra cui Roma, Napoli e Milano hanno aderito all’iniziativa. La manifestazione prevede lo svolgimento di assemblee di cittadini, dirette live tra le diverse località internazionali e alcune azioni comuni, come il lancio di una campagna di boicottaggio.
Global Debout, che punta a essere il laboratorio per una nuova Internazionale di movimenti e cittadini contro «la precarietà, i diktat dei mercati finanziari, la distruzione dell’ambiente, le guerre e

il degrado delle condizioni di vita », è stato concertato durante i dibattiti del 7 e 8 maggio a place de la République, cui hanno partecipato centinaia di attivisti provenienti da Europa, Turchia e Stati uniti.

«Le battaglie ambientali, per il lavoro e la scuola hanno una causa comune: l’oligarchia finanziaria. E fintanto che saremo divisi perderemo». Così scriveva il giornale francese Fakir a febbraio, poco prima che attorno alle proteste contro la Loi Travail e alla convergenza delle lotte si coagulasse il movimento Nuit Debout.

Da allora sono passati tre mesi e oggi la piazza parigina guarda oltre i confini nazionali: «La riforma del codice del Lavoro francese fa eco a numerose altre leggi adottate all’estero – scrivono gli organizzatori- che hanno diffuso precarietà e miseria. Al crescere delle disuguaglianze su scala globale, la nostra risposta deve essere globale.»

E la risposta è la coesione sociale e la partecipazione alla vita civile. Nelle piazze che hanno risposto all’appello di #globaldebout, come è stato rilanciato sui social media, si svolgeranno assemblee di cittadini con presa di parola libera. Collegamenti telefonici e tramite Periscope, applicazione di Twitter per la trasmissione di riprese in diretta, faciliteranno il dialogo tra le diverse piazze internazionali. Alle 20 (ora locale parigina), un minuto di silenzio, al termine del quale gli attivisti scatteranno in piedi con un urlo di gioia (debout significa «in piedi»). Il 15 maggio è anche un’occasione per lanciare un’azione di protesta comune: una campagna di boicottaggio internazionale. Il primo obiettivo è Coca Cola. Ma l’idea è creare una piattaforma globale su cui i cittadini possano confrontarsi e indicare ogni mese nuove multinazionali da ostacolare.

Poche linee guida e tanto spazio alle proposte locali: «L’obiettivo di Global Debout – spiegano i promotori- non è esportare il movimento di place de la République, ma creare mobilitazioni autonome che rilancino la partecipazione politica e il dibattito cittadino su questioni di comune interesse come il lavoro, le frontiere, l’austerità, il libero mercato». Le ambizioni di Global Debout vanno infatti ben oltre l’impatto mediatico ed estemporaneo di un’azione dimostrativa internazionale. L’intento è creare una rete permanente di movimenti che declini nei diversi contesti locali le medesime battaglie globali e proponga un nuovo modello sociale.

L’appello lanciato da Nuit Debout ha dunque destato l’interesse di chi da anni si muove negli spazi interstiziali della politica istituzionale, sperimentando nuove forme di democrazia dal basso. Il 7 e 8 maggio duecento attivisti internazionali, tra cui collettivi italiani di Venezia, Padova, Milano, Parma, Bologna, Pisa, Roma, Napoli, si sono ritrovati a place de la République «per condividere le pratiche di resistenza alle politiche neoliberiste, imparare dalle diverse esperienze di attivismo e trovare un terreno di lotta comune». Tra loro, c’è chi si batte per la riappropriazione dello spazio pubblico, chi per i beni comuni. Chi si oppone al precariato e alle frontiere.

E chi cerca di concertare le diverse lotte. Come l’atelier Esc di Roma, dove gli sportelli Clap (Camere del lavoro autonomo e precario) assistono i lavoratori tirocinanti, intermittenti e disoccupati, e dove il progetto «Decide Roma» ha portato alla stesura collettiva della Carta dei beni comuni, contro lo smantellamento del patrimonio pubblico: «Come Nuit Debout, cerchiamo di ricostruire uno spazio fisico di partecipazione politica secondo i principi di autonomia, autogestione e autogoverno», spiega Giansandro, arrivato a Parigi per condividere i progetti dello spazio romano. Isabella e Simone di Connessioni Precarie di Bologna raccontano l’esperienza dello sciopero sociale italiano contro il Jobs Act nel novembre 2014, e il tentativo di estenderlo oltre le frontiere nazionali attraverso la piattaforma Transnational Social Strike «per toccare tutte le forme di precariato, anche quelle che colpiscono i lavoratori migranti».

I temi della riappropriazione dello spazio pubblico, del rapporto tra precarietà, frontiere e libero mercato rimbalzano da un intervento all’altro. Martin, di Nuit Debout Londra, racconta che il movimento inglese, in mancanza di spazi pubblici, ha stabilito il proprio quartier generale sul marciapiede di Downing Street, di fronte alla residenza di David Cameron.

Dietro di lui, lo striscione appeso al monumento alla Repubblica recita: «Lo spazio pubblico non è in vendita». Alcuni francesi intervengono per denunciare «l’ipocrisia istituzionale sul tema dei rifugiati» e condividere le lotte a fianco dei migranti messi sul lastrico dagli sgomberi. Secondo Alex, di Bruxelles, «la convergenza europea deve avvenire sul lavoro e le frontiere, due temi caposaldo della società che, se rimessi in discussione, fanno crollare il modello attuale di Europa». Il dibattito è proseguito all’interno di gruppi di lavoro, in cui si è discusso di progetti a lungo termine, come il rigetto del Ttip, dei modi di produzione e consumo a danno dell’ambiente e delle persone, dell’Europa fortezza; e altri a breve termine, come l’organizzazione di scioperi sociali, occupazioni di siti emblematici, proteste simultanee, cortei silenziosi. «Il 15 maggio sarà un’opportunità per discuterne in tutte le piazze interessate.»

Lo slogan è stato adottato per accompagnare Global Debout, a ricordare la contrapposizione tra il 99% e l’1% che detiene il potere. Ma la convergenza è un processo complesso e tra gli attivisti internazionali c’è anche chi si dice scettico riguardo alla presa del movimento al di fuori della Francia: «Il 15 sarà un atto simbolico e importante, ma dubito che in Italia possa trasformarsi in qualcosa di continuativo ed efficace», sostiene un attivista di Pisa. Héctor, del movimento Barcelona en Comù e membro della Commissione Internazionale di Nuit Debout la pensa diversamente: «Far salire chi sta in basso e scendere chi sta in alto è un’utopia. Ma sapete una cosa? I have a dream».

10 proposte per la conferenza di Parigi sul clima

clima

le 10 proposte della Chiesa cattolica alla COP21 di Parigi 2015

Anche la Chiesa cattolica scende in campo nella lotta contro i cambiamenti climatici. Cardinali, Patriarchi e Vescovi di tutto il mondo, rappresentanti le istanze continentali delle Conferenze episcopali nazionali, hanno siglato un appello rivolto a quanti negoziano la COP21 a Parigi, invitandoli a lavorare per l’approvazione di un accordo sul clima che sia equo, giuridicamente vincolante e generatore di un vero cambiamento
in rappresentanza della Chiesa cattolica dei 5 continenti, cardinali, patriarchi e vescovi hanno messo a punto una proposta politica su 10 punti, formulata sulla base dell’esperienza concreta delle persone attraverso i vari continenti e associando i cambiamenti climatici all’ingiustizia e all’esclusione sociale dei più poveri e dei più vulnerabili dei cittadini.
Naturalmente, gran parte di questo slancio è legato alla presa di posizione di Papa Francesco e alla sua enciclica Laudato Si’, in cui i cambiamenti climatici vengono inquadrati come una delle sfide maggiori per l’umanità e il clima è un bene comune, condiviso, che appartiene a tutti e destinato a tutti, quindi responsabilità di tutti

Dal punto di vista della Chiesa, Dio ha creato il mondo per tutti, quindi ogni approccio ecologico deve incorporare una prospettiva sociale che tenga conto dei diritti fondamentali dei poveri e dei diseredati. E’ oggi utile più che mai ridefinire le nozioni di crescita e progresso,come la stessa enciclica invita a fare. Sono, com’era prevedibile, i più poveri a subire le conseguenze dei cambiamenti climatici.

Nel suo discorso alle Nazioni Unite, il Papa ha detto che l’abuso e la distruzione dell’ambiente sono accompagnati anche da un processo inarrestabile di esclusione. Ora gli esponenti della Chiesa cattolica si uniscono a Papa Francesco

nell’implorare un grande passo avanti a Parigi, per un accordo globale e generatore di un vero cambiamento sostenuto da tutti, basati su principi di solidarietà, di giustizia e di partecipazione, come si legge in una nota.

la richiesta alla COP 21 è quella di stringere un accordo internazionale per limitare l’aumento della temperatura globale entro i parametri attualmente proposti all’interno della comunità scientifica mondiale al fine di evitare impatti climatici catastrofici, soprattutto sulle comunità più povere e vulnerabili. Siamo d’accordo sul fatto che esiste una responsabilità comune, ma anche differenziata di tutte le nazioni.ecco allora le 10 proposte:

1. tenere a mente non solo le dimensioni tecniche, ma soprattutto quelle etiche e morali dei cambiamenti climatici, di cui all’articolo 3 della convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC);

2. accettare che il clima e l’atmosfera sono beni comuni globali appartenenti a tutti e destinati a tutti;

3. adottare un accordo globale equo, generatore di un vero cambiamento e giuridicamente vincolante sulla base della nostra visione del mondo che riconosce la necessità di vivere in armonia con la natura e di garantire il rispetto dei diritti umani per tutti, compresi quelli dei popoli indigeni, delle donne, dei giovani e dei lavoratori;

4. mantenere l’aumento della temperatura globale e di fissare un obiettivo per la completa decarbonizzazione entro la metà del secolo, al fine di proteggere le comunità che in prima linea soffrono gli impatti dei cambiamenti climatici, come quelle nelle isole del Pacifico e nelle regioni costiere;

– garantendo che la soglia della temperatura sia sancita in un accordo globale giuridicamente vincolante, con impegni ambiziosi di attenuazione ed azioni da parte di tutti i paesi che tengano pienamente conto delle loro responsabilità comuni ma differenziate e delle loro rispettive capacità (CBDRRC), sulla base di principi di equità, responsabilità storiche e sul diritto allo sviluppo sostenibile;

– per assicurare che le riduzioni delle emissioni dei governi siano in linea con l’obiettivo della decarbonizzazione, i governi devono svolgere dei riesami periodici degli impegni presi e dell’ambizione Affinché questi controlli vadano a buon fine, devono avere basi scientifiche, devono seguire il principio dell’equità e devono essere obbligatori;

5. generare nuovi modelli di sviluppo e stili di vita che siano compatibili con il clima, affrontare la disuguaglianza e portare le persone ad uscire dalla povertà. Fondamentale per questo è porre fine all’era dei combustibili fossili, eliminandone gradualmente le emissioni, comprese le emissioni provenienti da militari, aerei e marittimi, e fornendo a tutti l’accesso affidabile e sicuro alle energie rinnovabili, a prezzi accessibili;

6. garantire l’accesso delle persone all’acqua e alla terra per sistemi alimentari sostenibili e resistenti al clima, che privilegino le soluzioni in favore delle persone piuttosto che dei profitti.

7. garantire, a tutti i livelli del processo decisionale, l’inclusione e la partecipazione dei più poveri, dei più vulnerabili e dei più fortemente influenzati;

8. garantire che l’accordo 2015 offra un approccio di adattamento che risponda adeguatamente ai bisogni immediati delle comunità più vulnerabili e che si basi sulle alternative locali;

9. riconoscere che le esigenze di adattamento sono condizionate dal successo delle misure di attenuazione adottate. I responsabili del cambiamento climatico hanno l’onere di assistere i più vulnerabili nell’adattarsi e nel gestire le perdite e i danni e nel condividere la tecnologia e il know-how necessari;

10. fornire roadmap chiare su come i paesi faranno fronte alla fornitura di impegni finanziari prevedibili, coerenti ed aggiuntivi, garantendo un finanziamento equilibrato delle azioni di attenuazione e delle esigenze di adattamento.

 
da www.greenbiz.it

J. Sobrino e la violenza dell’Isis

l’orrore di Parigi e le vittime di tutto il mondo

 intervista a Jon Sobrino

Sobrino

è iniziato con una nota di profondo dolore, nel ricordo delle vittime degli attacchi di Parigi, il seminario su “Una Chiesa povera al servizio dei poveri”, svoltosi il 14 novembre, alla Pontificia Università Urbaniana di Roma, in occasione del 50° anniversario del Patto delle Catacombe, il documento firmato pochi giorni prima della fine del Concilio da circa quaranta vescovi impegnati a dar vita a una Chiesa dei poveri. E ci ha pensato il teologo della liberazione e gesuita salvadoregno Jon Sobrino, aprendo il suo intervento su “Il significato del Patto delle Catacombe per la Chiesa di oggi”, a ricordare, insieme alle vittime del massacro di Parigi, quelle di tutte le stragi, di oggi e di ieri, a cominciare dagli innocenti e indifesi contadini dei massacri del Sumpul e del Mozote, avvenuti in El Salvador durante gli anni del conflitto armato interno

al termine del suo intervento, il teologo, il quale ha incontrato papa Francesco il giorno precedente al seminario, durante la messa mattutina a Santa Marta, ha accettato di rispondere alle domande di alcuni giornalisti (di Adista, Radio Vaticana e Vida Nueva)

 l’intervista:

All’indomani dei fatti di Parigi, con gli occhi ancora pieni di quell’orrore, non si può non avvertire la sensazione che, un po’ su tutti i versanti, dal terrorismo fino al cambiamento climatico, tutti i nodi stiano venendo al pettine. È arrivato per l’ Occidente il momento di pagare i suoi errori?

Ellacuría denunciava le colpe di quella che chiamava “civiltà della ricchezza”, ritenendola responsabile della grave malattia di cui soffre il mondo. E non vi sono dubbi che essa sia presente soprattutto in Europa, prima e dopo la nascita dell’Unione Europea, e negli Stati Uniti. Credo che, nel loro insieme, questi Paesi non abbiano assunto la propria responsabilità, che va oltre quello che dicono i loro politici e i loro capi di governo. E penso che questa vicinanza con l’Africa, il fatto che l’Africa stia arrivando qui, sia un bene per l’Europa. Perché può aiutarla a comprendere cosa significa essere umani. L’auspicio è che l’orrore di Parigi ci faccia pensare a noi non solo come vittime. Siamo tutti noi, molto spesso, a creare un mondo ingiusto. Ma, una volta che l’orrore è stato commesso, cosa intendiamo fare? Protestare? Prendere il fucile e uccidere tutti gli islamici? Oppure, a piccoli passi, possiamo cercare un’altra strada, noi cristiani che vogliamo essere come Gesù e gli islamici che perseguono il bene? E, perlomeno, non dobbiamo perdere il senso del dolore altrui, dobbiamo fare in modo che le cose ci facciano male, oltre a spingerci alla protesta e all’indignazione, perché l’indignazione non è necessariamente dolore. Che ci sia indignazione, che ci sia dolore, e che ci sia volontà di camminare nella storia facendo giustizia e amando con tenerezza.

Qual è il cammino che la Chiesa è chiamata oggi a percorrere?

Bisogna individuare quelle che sono le pietre miliari del nostro cammino. Io ho scelto quelle rappresentate da Giovanni XXIII, dal Patto delle Catacombe, da Medellín e da Puebla, dove si è affermato che i poveri, per il mero fatto di essere tali, Dio li difende e li ama. L’opzione per i poveri non vuol dire solo amare i poveri, ma anche difenderli da chi fa loro del male, difenderli da chi li impoverisce. E difendere chi sta in basso significa sempre storicamente correre rischi. Chi li difende deve essere aperto, preparato e disposto ad affrontare pericoli. Padre Arrupe, nel 1975, parlò in tal senso di una lotta cruciale, quella per la fede e per la giustizia. Non so se le nostre chiese, università, facoltà di teologia la pensano realmente così, se credono davvero alla necessità che ci si cali in questa lotta cruciale. E si è detto anche, nella scia dell’entusiasmo di padre Arrupe, che ciò non può avvenire senza pagare un prezzo. Io mi sento orgoglioso di alcune cose fatte da noi gesuiti, a cominciare dall’onestà nei confronti della realtà. Bisogna pagare un prezzo, e la Compagnia di Gesù lo sa molto bene: da quando si sono pronunciate queste parole, nel 1975, sono stati assassinati più o meno 60 gesuiti, tutti fondamentalmente colpevoli di aver difeso in qualche modo la giustizia. Il cammino, insomma, è già tracciato: dire la verità, ripeterla, insistere a dirla, pubblicarla. Dire una verità che, oltre a essere tale, sia a favore del povero. Comunicare il fatto che stiamo difendendo il povero, con la consapevolezza che, se lo facciamo, correremo rischi. Quando ci troviamo di fronte all’orrore, quando è in atto una persecuzione, occorre, certo, denunciarla, ma anche dire quello che affermava mons. Romero: «Mi rallegro fratelli che la Chiesa sia perseguitata… Sarebbe molto triste se nella nostra Chiesa non ci fossero sacerdoti assassinati». Perché, quando c’è persecuzione, vuol dire che qualcosa di buono sta avvenendo nella Chiesa. Ciò aiuta a umanizzare un pochino il pianeta. In gran parte l’aria che respiriamo è contaminata e questo cammino aiuta a purificarla, a camminare più umanamente insieme all’altro.

Cosa ha significato la beatificazione di mons. Romero?

Dinanzi a un gruppo di circa 500 salvadoregni, accompagnati dall’arcivescovo di San Salvador, il papa ha dichiarato che il martirio di mons. Romero non si è limitato al momento della sua morte, in quanto l’arcivescovo è stato perseguitato prima e anche successivamente al suo assassinio, «diffamato, calunniato e infangato» anche «dai suoi fratelli nel sacerdozio e nell’episcopato». I quali hanno continuato a ucciderlo anche dopo, con l’arma più potente e mortale, che è la parola. In questo quadro, qual è il significato della canonizzazione? Non si tratta di una riabilitazione: riabilitare significa restituire a qualcuno ciò che gli è stato tolto. Ma a mons. Romero non interessa una tale riabilitazione e io non credo che la beatificazione sia stato questo: è stato molto più di questo. A mio giudizio, per il papa, è stato un modo di animare la gente del mondo, e naturalmente di El Salvador, alla misericordia. Mons. Romero è stato assolutamente misericordioso. Che il papa affermi che mons. Romero è una persona buona è un fatto che dà molto animo, e in El Salvador credo che sia avvenuto questo. Poi, riguardo al modo in cui si è svolta la beatificazione, dal punto di vista del culto, della messa, delle parole pronunciate, degli inviati, della curia, non è stato nulla di speciale. Ma la gente ha comunque festeggiato e applaudito, senza interrogarsi se le parole del culto fossero giuste o meno. Penso che il papa si fosse proposto questo con la beatificazione di mons. Romero, ma, più in profondità, credo che l’intenzione sia quella di dare riconoscimento a un continente di martiri. Così, ora si parla di una canonizzazione di Angelelli in Argentina, di quella di Rutilio Grande in El Salvador… È, insomma, l’idea che non è possibile lasciar morire i martiri di silenzio. L’America Latina è un continente che è passato per un grande orrore: dittature, oligarchie, squadroni della morte, eserciti criminali. In questa situazione, molte persone di Chiesa, vari sacerdoti e alcuni vescovi sono andati incontro al martirio. Credo che il papa, riconoscendo questa realtà, voglia spingere perché si torni a un modello di Chiesa più simile a Gesù.

Come è andato il suo incontro con papa Francesco?

Quando il gesuita Martin Maier mi ha chiesto se volevo andare a una messa del papa, ho detto subito di sì. Per temperamento, non sono molto adatto a queste cose, ma questo papa è un buon papa e avere occasione di incontrarlo è un motivo di gioia. Al termine della messa, io e Martin siamo rimasti in fondo alla fila. Quando poi ci siamo avvicinati, gli ho detto: «Vengo da El Salvador, sono gesuita, compagno dei gesuiti della Uca che sono stati assassinati». E

mi ha detto: «Sobrino!». E siamo rimasti a parlare per un po’, semplicemente. Alla fine mi ha abbracciato e mi ha detto: «scriva, scriva».

testo Sobrino  : il testo della conferenza di Sobrino al seminario sul patto delle catacombe

dopo l’indignazione il tentativo di comprendere

per comprendere l’attentato terroristico di Parigi

di Leonardo Boff
Boff L.

Una cosa è indignarsi, con ogni ragione, contro l’atto terroristico nei confronti dei migliori vignettisti francesi: si tratta di un atto abominevole e criminale che nessuno può difendere.

Altra cosa è cercare di comprendere in maniera analitica il perché di tali eventi. Questi non cadono dal cielo. Dietro di questi c’è un fondo oscuro, fatto di storie tragiche, di umiliazioni e di discriminazioni, di stragi, quando non di vere guerre preventive che hanno provocato la morte di migliaia e migliaia di persone.

In questo, gli Stati Uniti e in generale l’Occidente hanno il primato. In Francia vivono circa cinque milioni di musulmani, la maggior parte dei quali abita nelle periferie in condizioni precarie. Sono profondamente discriminati, al punto che si può parlare di una vera islamofobia.

Subito dopo l’attentanto alla sede di Charlie Hebdo, si è sparato contro una moschea, un ristorante musulmano è stato incendiato e una casa di preghiera islamica è stata raggiunta da colpi di arma da fuoco.

Cosa significa? Lo spirito che ha provocato la tragedia contro i vignettisti è ugualmente presente in quei francesi che hanno commesso atti violenti contro istituzioni islamiche. Se Hannah Arendt, che seguì tutto il processo contro il criminale nazista Eichmann, fosse viva, farebbe un analogo commento, denunciando questo spirito vendicativo.

Si tratta di superare lo spirito di vendetta e di rinunciare ad affrontare la violenza con maggiore violenza, la quale crea una spirale di odio interminabile, provocando innumerevoli vittime, la maggior parte delle quali innocenti. 

L’attentato terroristico dell’11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti è paradigmatico. La reazione del presidente Bush è stata quella di dichiarare la “guerra infinita” contro il terrorismo; istituire il Patriot Act che viola diritti fondamentali consentendo di arrestare, sequestrare e sottoporre a durissime tecniche di interrogatorio persone sospettate; creare 17 agenzie di sicurezza in tutto il Paese e iniziare a spiare tutti, in tutto il mondo, oltre a sottomettere terroristi certi o presunti a condizioni disumane e a torture a Guantánamo.

Quel che gli Stati Uniti e gli alleati occidentali hanno fatto in Iraq è stata una guerra preventiva che ha provocato innumerevoli morti tra i civili. Se in Iraq vi fossero state soltanto estese piantagioni di agrumi, nulla di tutto questo sarebbe accaduto. Ma vi sono grandi riserve di petrolio, il sangue del sistema produttivo mondiale.

Tale violenza barbarica, che ha distrutto i monumenti di una delle più antiche civiltà umane, ha lasciato una scia di rabbia, di odio e di volontà di vendetta.

In questo quadro, si può comprendere come l’abominevole attentato a Parigi sia il risultato di questa prima violenza. Lo scopo di questo attentato è provocare il panico in tutta la Francia e in generale in Europa. È questo l’effetto perseguito dal terrorismo: occupare le menti delle persone e mantenerle ostaggio della paura.

L’obiettivo principale del terrorismo non è occupare territori, come hanno fatto gli occidentali in Afghanistan e in Iraq, ma occupare le menti. Questa è la sua sinistra vittoria. 

La profezia del mandante degli attentati dell’11 settembre, l’allora ancora non assassinato Osama Bin Laden, espressa l’8 ottobre del 2001, si è purtroppo realizzata: «Gli Stati Uniti non saranno mai più sicuri, non avranno mai più pace».

Occupare le menti delle persone, destabilizzarle emotivamente, obbligarle a non fidarsi di alcun gesto, di alcuna persona estranea, ecco a cosa mira il terrorismo: in questo risiede la sua essenza. (…). 

Formalizziamo il concetto di terrorismo: è ogni violenza spettacolare praticata con l’obiettivo di occupare le menti riempiendole di paura. La cosa importante non è la violenza in sé, ma il suo carattere spettacolare, in grado di dominare le menti di tutti. 

Uno degli effetti più deleteri del terrorismo è stato quello di aver dato vita allo Stato terrorista che sono oggi gli Stati Uniti. Noam Chomsky cita un funzionario degli organi di sicurezza nordamericani che ha dichiarato: «Gli Stati Uniti sono uno Stato terrorista e ne siamo orgogliosi».

La speranza è che questo spirito non prenda il sopravvento nel mondo e specialmente in Occidente. Perché davvero in questo caso andremmo incontro al peggio.

l’ ’11 settembre’ di Parigi?

 

  • Parigi: uno chok senza fine

  • Parigi brucia
un’ampia rassegna stampa, coll’aiuto del prezioso sito ‘fine settimana’, sulla violenza gihadista per vendicare Maometto a motivo delle caricature e delle vignette satiriche nelle quali era stato raffigurato e deriso

un aiuto alla riflessione:

In un manifesto comune, i rappresentanti delle tre grandi religioni in Germania invitano a pregare in moschee, chiese e sinagoghe per le vittime dell’attentato di Parigi: “Non è lecito uccidere in nome di Dio”, scrivono alti rappresentanti di cattolici, protestanti, ebrei e musulmani. “La Bibbia, la Torah e il Corano sono libri dell’amore, non dell’odio”
“L’attentato contro il gruppo di Charlie Hebdo ha profondamente scosso i musulmani francesi. Ma per loro non c’è solo lo spavento. Ad esso si accompagna spesso un sentimento di preoccupazione per se stessi: questa aggressione non aggraverà le difficoltà che incontrano quotidianamente? Non attizzerà un’islamofobia di cui denunciano la diffusione crescente?”
L’ironia e la satira non sono nemiche dei credenti. Anzi, possono aiutarli a liberarsi dalla presunzione di “possedere” l’Altissimo, giocando così una funzione anti-idolatrica. Saper ridere di se stessi e rispettare la propria coscienza di credenti è dunque un modo per sconfiggere la follia assolutista di chi vorrebbe imporre con la forza della paura una caricatura impazzita e mortifera del Divino. Forse una risata non salverà il mondo. Ma almeno ci impedirà di trasformare Dio in un simbolo dell’odio.
Pax Christi Italia fa propria la dichiarazione di Pax Christi Francia: Di fronte a coloro che hanno scelto la violenza per far trionfare le propria ideologia distruttrice, noi scegliamo di rifiutare tutto ciò che divide ed esclude.
  • Religione come arma di Markus Dobstadt in www..publik-forum.de del 8 gennaio 2015 (nostra traduzione)
Gli attentatori di Parigi hanno colpito l’Europa al cuore. Chiese e associazioni musulmane sono sconvolte e indignate per l’attacco al settimanale satirico francese Charlie Hebdo e per il brutale assassinio di dodici persone. L’Occidente è scosso. E dovrebbe porsi alcune domande.
Condanna del terrore e difesa del vero Islam. C’è un filo comune che lega le diverse reazioni dei rappresentanti della comunità musulmana italiana, sotto choc dopo la mattanza di Charlie Hebdo. Da Nord a Sud, le voci raccolte dai leader religiosi delle città usano lo stesso registro.
“l’esistenza dello ‘Stato Islamico’ (con i suoi cloni) e di quello che rappresenta non è compatibile con la sopravvivenza stessa delle nostre democrazie.” Per invertire l’attuale tendenza “occorre dunque agire contemporaneamente sulle comunità musulmane presenti in Occidente e sullo ‘Stato Islamico’, perché solo rafforzando le prime e indebolendo il secondo noi – musulmani, cristiani, ebrei, atei ma comunque ‘fedeli’ della civiltà e della tolleranza – potremo sconfiggere gli alfieri della barbarie.
…tuttavia non ci piacciono quelle vignette neppure dopo l’enormità dell’atto terroristico e l’immenso dolore per la morte di 12 persone libere e innocenti. Appartengono infatti alla grammatica della blasfemia e non a quella della trasgressione “I 12 morti di Parigi sono come un richiamo della foresta per i nostri cristianisti con il Crocifisso tra i denti che papa Francesco aveva messo a cuccia, un ritorno alla natura per l’estrema destra razzista pronta alla difesa di una Francia e di un’Europa bianche e cristiane.”
Non so dire quale delle due posizioni sia la più realistica: quella che scommette sul potere delle maggioranze pacifiche o quella che prevede il prevalere delle minoranze radicali. So però, senza dubbio alcuno, quella per la quale vale la pena parteggiare e lavorare.
«Riconoscere che fino a quando non sarà abbattuto lo Stato islamico dobbiamo aspettarci il peggio. Ma lo si abbatte solo se non si invoca il conflitto di civiltà. Purtroppo quando la storia appare tragica si fa molto fatica a ragionare. È del tutto logico, e porta anche voti: ma è anche pericolosissimo.
Schieriamoci quindi con Charlie Hebdo, perché la solidarietà dimostrata a livello globale è ispirante. Denunciamo il terrorismo, l’oppressione e la misoginia nel mondo islamico, e in qualsiasi altro luogo. Ma cerchiamo di stare attenti a non rispondere all’intolleranza dei terroristi con la nostra.
l’esperienza del passato c’insegna che non è vero. La cultura non ha mai evitato le catastrofi. La Germania aveva la cultura più avanzata, ma questa non ha potuto evitare la Shoah. La cultura può alimentare le coscienze, non può disarmare gli assassini. Il che naturalmente non significa che non si debba continuare a battersi e a lottare contro tutte le forme d’intolleranza e di violenza
Ragionare in risposta agli omicidi di Parigi significa mettere da parte il compiacimento autocelebrativo del liberale permissivo e accettare che il conflitto tra la permissività liberale e il fondamentalismo in definitiva è un conflitto falso. …chi non è disposto a parlare in modo critico della democrazia liberale non dovrebbe contestare neppure il fondamentalismo religioso.
«Ahmed è stato ucciso come un animale. Ma le bestie sono i suoi assassini». Il dirigente di polizia Christophe Crepin conosceva Ahmed Merabet, 42 anni, l’agente che i fratelli Kouachi hanno ucciso in boulevard Richard- Lenoir. «Era un poliziotto coscienzioso, discreto, entusiasta del suo lavoro. Aveva origini tunisine ma era francese. Era un musulmano praticante. Frequentava la moschea. Per noi della polizia è un orgoglio mostrare che abbiamo agenti di ogni religione»
quando succederà che un ragazzo, una ragazza di una qualunque banlieue canterà in un rap trascinante l’orrore per le sue coetanee e correligionarie assassinate e stuprate in nome di Allah in Yemen, in Siria, in Iraq, in Nigeria, e per quelle cui è fatto divieto di cantare e far rumore coi propri passi in Afghanistan?
La pubblicazione coordinata delle vignette non è un gesto gratuito. Non è contro l’Islam. Al contrario, è proprio in difesa della realtà per cui i musulmani d’Europa – a differenza dei cristiani e degli atei in gran parte del Medio Oriente – possono esprimere liberamente le loro convinzioni più radicate e sfidare quelle altrui. È in gioco il destino dell’Europa e della libertà. La nostra convivenza nella libertà dipende da questo: che non prevalga il veto degli assassini».
  • Ridere di Alain Rémond in La Croix del 9 gennaio 2915 (nostra traduzione)
Bisogna indignarsi, gridare, protestare, manifestare. E poi riflettere, unirsi, pensare al nostro futuro. Ma soprattutto, molto presto, subito, bisognerà ricominciare a ridere. Perché è il riso, il diritto a ridere, che quei due assassini hanno voluto uccidere. La libertà di ridere, verso e contro tutto… quando Rabelais dice che il ridere è proprio dell’uomo, non lo dice per ridere: è una cosa seria”
“E adesso? «Il faut continuer à se moquer», dice Plantu, non dobbiamo smettere di prendere e prendersi in giro con i disegni… «Con “Cartoonist for piece” cerchiamo ogni giorno di dialogare con disegnatori cristiani, ebrei, musulmani, agnostici, atei e arriviamo talvolta a fare dei ponti con le nostre piccole matite là dove altri con le loro asce scavano fossati»”
“Nei giorni scorsi le tante manifestazioni a Parigi e in Europa hanno visto scendere in strada persone orgogliose di esser parte di una civiltà fondata sulla libertà di pensiero, di espressione ed anche di religione… Le libertà sono il fondamento irrinunciabile dell’Europa; non si può consentire, sotto il pretesto di culture diverse e intolleranti, ch’esse vengano limitate”
“Cosa ha in comune il personaggio di Houellebecq in «Sottomissione» con i giovani che… hanno fatto strage nella sede di Charlie Hebdo? Nulla, se non l’eccesso della realtà contemporanea che ne fa un’età dell’estremismo. La convinzione di Houellebecq è che l’Occidente non abbia più futuro e la depressione sia il nostro unico destino… Davanti all’attacco assassino bisogna issare il vessillo del nostro pensiero critico, che non deve indietreggiare nell’indagare anche quanto di oscuro c’è in noi”
“Dobbiamo imparare a tracciare i confini della nostra identità e a dare alla libertà il peso che merita non soltanto per i morti, anche per i vivi… per una questione morale profonda… che ci riguarda tutti in quanto individui di una società che trova il suo valore principale nella diversità di ciascuno e nel rispetto di questa diversità… proprio perché non siamo Charlie dobbiamo difendere strenuamente il diritto di Charlie alla sua libertà, che è la stessa nostra anche se siamo diversi da lui”
Per Stéphane Charbonnier, il direttore di Charlie Hebdo, la libertà di espressione non valeva nulla senza il diritto a offendere. Tutti, nessuno escluso. E senza limiti, neppure quelli della blasfemia e della volgarità. Un convincimento profondo, coraggiosamente applicato nella quotidianità del lavoro, che Charb e i suoi giornalisti hanno pagato con la vita. E che oggi provoca reazioni diverse nei media occidentali.
È passato oltre un quarto di secolo, ventisei anni per la precisione, da quel gennaio-febbraio 1989 quando noi occidentali, per la prima volta, vedemmo il nuovo volto che l’Islam intendeva mostrarci. Nell’autunno precedente era stato pubblicato da Penguin Satanic Verses, il nuovo romanzo di Salman Rushdie, giudicato blasfemo da molti religiosi islamici.
Su Twitter e su Facebook il poliziotto è stato scelto come simbolo: «Je suis Ahmed» (assieme alla solidarietà di «Je suis Charlie») hanno rilanciato in migliaia. Perché hanno voluto celebrare «l’eroe morto per difendere il diritto di Charlie Hebdo alla libertà di espressione, anche quando attaccava la sua religione».
Davanti a noi – ormai è chiaro – abbiamo una prova lunga e terribile. Ma dobbiamo affrontarla senza alzare le mura di una fortezza assediata, superando la paura, evitando di reagire al terrore con lo spavento. Chi segue l’islam ha la responsabilità di affrancare la sua fede dalla malattia estremista
Il confronto con l’Islam è un tema che attraverserà le nostre vite. Chiama in causa non soltanto le capacità militari e di intelligence dell’Europa; ne sollecita l’identità culturale, la coesione sociale. Contrapporre violenza a violenza, uniformare tutti i musulmani in un’unica condanna farebbe il gioco degli assassini di Parigi
L’islamismo armato e persecutore non va affrontato e respinto perché islamismo. Ma perché armato e persecutore. Ovvero identico al cristianesimo delle guerre contro i non cristiani, delle guerre fra cristiani …, delle Inquisizioni capaci, in nome di Dio, di crudeltà spaventose. Ma anche perché è stata la civiltà ospite, in parte assecondante e benevola, dello sterminio chiamato Shoah. Ogni dibattito senza questi richiami fondamentali è falsato fin dall’inizio.
Ma con l’illuminismo hanno poco da spartire le vignette apparse nel giornale della tragedia. “Merde” al Corano, “merde” a Maometto devono aver rallegrato il cuore di Marine Le Pen, leader ariana del razzismo francese.
La laicità più rigorosa, che esclude Dio, qualsiasi Dio, dalla vita pubblica (scuole, tribunali, comizi elettorali, salotti televisivi, ecc.), è perciò l’unica salvaguardia contro l’incubazione di un brodo di coltura clericale che inevitabilmente può diventare pallottola fondamentalista. (ndr.: una laicità fondamentalista? tutta per sottrazione?)
La demonizzazione fa gioco solo a chi ci vuole speculare politicamente, ma la cosa più importante in questo caos è proprio mantenere la freddezza e la tolleranza, intendo da entrambe le parti. “Francesco è l’esempio perfetto di questa attenzione per il diverso, l’uomo che in assoluto ha capito meglio i tempi. Eppure attorno a lui c’è una cattiveria impressionante”
Parla Hamza Piccardo: «Azione aberrante. Di certo, secondo il nostro punto di vista, le vignette del Charlie Hebdo offendevano il profeta. Ma nella nostra pratica religiosa quotidiana a un’azione si risponde con un’azione simile, non si imbraccia il kalashnikov». ” le moschee non hanno nulla a che fare con il terrorismo…. Chi organizza attentati come questi lo fa fuori dalle moschee”
si chiede alla comunità musulmana di condannare il terrorismo, di farlo più esplicitamente. Questo indubbiamente serve a isolare i jihadisti, ma non basta farlo quando c’è l’emergenza, la paura, occorre prestare maggiore attenzione a quelle forze, a quei religiosi, che dentro il mondo islamico si battono, a loro rischio e pericolo, per una secolarizzazione dell’islam. Non serve condannare le atrocità commesse in nome dell’islam solo quando toccano l’occidente, perché le principali vittime del fanatismo non siamo noi ma i musulmani moderati e laici.
Gli errori occidentali e i danni neo-liberisti: Saddam Hussein e Gheddafi sapevano contenere la deriva islamista, ma sono stati abbattuti. In Libia Parigi e Washington hanno sbagliato tutto. “La maggioranza schiacciante degli immigrati che vivono in Francia, credenti e non, non sono per nulla fanatici dell’Islam reazionario. Invece non è da sottovalutare che siano coinvolti molti atei e convertiti in questi movimenti radicali.”
Parla il sociologo Vincent Geisser, tra i maggiori studiosi dell’Islam francese e del radicalismo. Come nascono i terroristi islamici europei: non solo figli di immigrati, trovano nelle guerre di religione il fascino assurdo dell’estremo. «Disturbati emotivi, sostituiscono i simboli con la realtà. In prigione, il contatto con i musulmani». ” l’immigrazione non c’entra proprio nulla con questi fenomeni e dall’altro che sembra entrarci poco anche la pratica e la cultura religiosa” “una cosa è la fede, un’altra le rivolte urbane, altro ancora il terrorismo.”
Credenti o non credenti, dobbiamo accettare – anche se ci fa orrore – l’idea che il nome di Dio non è assente in questi atti, perché dei terroristi lo proclamano alto e forte. Perché in altri periodi neri della storia, fu abbondantemente utilizzato dai cristiani. Accettare l’idea e contestarla…
“Anche se gli assassini hanno gridato “Allah akbar”, è anche contro l’islam e contro i musulmani che hanno agito. È una guerra dichiarata contro la democrazia le cui istituzioni e le cui leggi rendono possibile un islam repubblicano… Al di là dell’emozione e della collera… bisogna che noi tutti, prendiamo coscienza… che c’è una volontà radicale e feroce… di isolare i musulmani, di farne i nemici della Francia. Per questo dobbiamo tutti resistere, perché tutti siamo coinvolti
“Il massacro segna l’irruzione in seno alla società francese della guerra del Medio Oriente, dove le nazioni occidentali hanno fatto gli apprendisti stregoni… L’anti-islamismo diventa sempre più radicale e ossessivo e tende a stigmatizzare tutta una popolazione… La paura si aggrava tra i Francesi di origine cristiana, tra quelli di origine araba, tra quelli di origine ebraica. Gli uni si sentono minacciati dagli altri… la risposta è l’unione di tutti… di tutte le etnie, di tutte le religioni e di tutte le componenti politiche”

Parigi: ragazzo rom linciato

Rom 16enne linciato a Parigi
Hollande: «Ingiustificabile»

Prelevato da un commando e massacrato di botte in una cantina perché considerato «colpevole» di un furto. Il presidente francese: «Viola i principi della Repubblica»

Un’immagine del campo rom dove viveva Darius (Afp)Un’immagine del campo rom dove viveva Darius

Il linciaggio dopo un furto

Il ragazzino, identificato solo come Darius, è stato trovato venerdì notte, in fin di vita dentro un carrello di supermercato abbandonato sulla strada nazionale numero 1, presso Pierrefitte-sur-Seine, un sobborgo settentrionale della banlieue parigina, nel dipartimento di Seine-Saint-Denis. Il ragazzino viveva da meno di un mese con la famiglia e altri 200 rom romeni nella bidonville. Venerdì sera un commando («una dozzina di persone» a volto coperto armati di spranghe) lo ha prelevato con la forza e portato in una cantina vicina. Li Darius è stato massacrato di botte. Secondo il commando era il colpevole di un furto in un’abitazione vicina. Dopo il linciaggio Darius è stato abbandonato agonizzante.

L’allarme

L’allarme è partito dalla madre che intorno alle 22:30 ha contattato la polizia per denunciare la scomparsa del figlio. La donna ha raccontato che qualcuno l’aveva chiamata poco prima dal cellulare di Darius chiedendo 15 mila euro di riscatto. Il giovane è stato ritrovato un’ora dopo, incosciente, con diverse fratture alla testa. Abbandonato poco lontano da un quartiere popolare dove nelle ultime settimane erano stati denunciati furti che gli abitanti della cité attribuiscono ai rom del campo vicino. Hollande ha promesso che «sarà fatto tutto il possibile per ritrovare gli autori dell’aggressione».

La condanna

Il linciaggio era stato precedentemente condannato con forza sia dal primo ministro Manuel Valls che dal ministro degli Interni Bernard Cazeneuve. L’aggressione è stata condannata anche da Louis Alliot, vice presidente del Front National e compagno della sua leader Marine Le Pen. Ma Alliot ha voluto anche sottolineare che i cittadini «hanno l’impressione di non essere difesi» e quindi «si difendono da soli

Razzismo e persecuzioni

Negli ultimi anni il governo francese ha attuato una politica repressiva nei confronti dei rom. Circa 20mila famiglie – riporta Amnesty – sono state cacciate dai campi nel 2013 in Francia, in gran parte d’estate. Nuove espulsioni sono attese a breve, tra cui quelle nel campo rom di Marsiglia. Il governo ritiene che i campi siano una violazione agli «standard di salute pubblica», ma secondo i critici le condizioni peggiorano soltanto quando le famiglie vengono cacciate e i campi demoliti. Ad aprile un rapporto di Amnety ha criticato i Paesi Ue per non aver fatto abbastanza per proteggere i rom e in particolare ha attaccato la Francia. Sos Racisme, dopo il linciaggio del ragazzino a Parigi, ha parlato dell’«ovvio risultato delle nauseanti tensioni a cui sono sottoposti dei concittadini». «Un cambiamento radicale» dei toni sui rom e una chiara denuncia delle violenze a cui sono esposti, è stata chiesta da Benjamin Abtan, presidente del Movimento antirazzista europeo di base (Egam)

.«Un atto innominabile e ingiustificabile, che si scontra con tutti i principi sui quali è fondata la nostra Repubblica». Il presidente francese Francois Hollande interviene con fermezza dopo il pestaggio di un sedicenne rom, in ospedale in coma e in pericolo di vita, che ha scioccato la Francia.

Darius

il ragazzo rom linciato e papa Francesco

Il giovane rom, accusato di furto, aggredito e abbandonato in coma in un caddy di supermercato lungo la Nazionale 1, alla periferia di Parigi. L’indignazione dei politici. Le denunce delle associazioni. Il disastro di una guerra tra poveri che travolge i più deboli nell’indifferenza (o nel disprezzo) generale e tuttora in pericolo di vita, adducendo la scusa di un piccolo furto (nella foto il campo dove viveva), con il Front National che, usando la scusa dell’esasperazione per l’insicurezza, ammicca ai linciatori, ricorda un caso argentino di non più di tre mesi fa che causò un’importante intervento di Jorge Bergoglio.David Moreira era un ragazzo di 18 anni di Rosario, senza precedenti. Lavorava dalla mattina alla sera in un cantiere come muratore ma fu linciato a morte lo scorso 25 marzo da decine di vicini che gli attribuivano uno scippo. Il suo povero corpo fu letteralmente disfatto dalla turba di assassini anonimi nascosti dietro un’anomia momentanea. Non era il primo caso di linciaggio nell’Argentina dove l’allarme sicurezza è il principale cavallo di battaglia delle destre. Prima di lui, solo nel 2014, sarebbero stati una ventina gli adolescenti massacrati, spesso solo perché portatori di faccia, poveri e dalla pelle scura. Le fonti riportano che tra tre e nove sarebbero morti per le ferite riportate. La politica e soprattutto i media, con quegli orribili canali all-news tutti incentrati sulla cronaca nera e che si spacciano per informazione, avevano subito preso una linea pienamente giustificazionista: la gente è stanca, il governo è inerte, la giusta rabbia… di una società che va verso il medioevo prossimo venturo.In Italia è di pochi giorni fa l’oscuro caso della morte di un cittadino rumeno presunto autore di un furto, poi derubricata come malore. Hanno fatto bene, erano già i commenti del ventre della società abituata da anni di balbettii o connivenze aperte della politica. Di fronte all’instaurarsi del linciaggio come possibilità concreta e semi-legittima nella repressione di una piccola criminalità sempre identificata con tratti razziali o classisti (il lumpen, il Rom, l’immigrato, il ragazzo con tratti somatici “scuri”), in Argentina è però intervenuto un fatto nuovo che parla alla Francia, all’Italia e all’Europa.Due fratelli esiliati e tuttora residenti in Svezia hanno scritto a Jorge Bergoglio. Questi ha replicato nel giro di poche ore citando Lope de Vega con parole inequivocabili: «Ho immaginato la scena e ho sentito quei calci nella mia anima. Non era un marziano, era un ragazzo. Un delinquente, ma un ragazzo del popolo. Ho ricordato Gesù: che avrebbe detto se fosse stato lì? Chi è senza peccato scagli il primo calcio? Mi doleva tutto, sentivo il dolore del corpo del ragazzo, sentivo il dolore del cuore di quelli che lo scalciavano […]».Bergoglio prende atto della colpevolezza di David, sbagliando. Ma quel salto logico è una scorciatoia che non indebolisce ma rafforza il messaggio e mette la presunzione di colpevolezza in prospettiva: era, innanzitutto, un ragazzo del popolo. In Argentina le parole di Francesco, quel «ho sentito quei calci nella mia anima», arrivano come un raggio di luce sul perverso dibattito sulla presunta legittimità dei linciaggi, lo sbaragliano e lo delegittimano completamente. Nessuno, neanche il più cinico dei politici può più cavalcare quell’onda di fronte al corpo del papa dolente. Potranno esserci altre violenze dei deboli sul più debole ma non già più approvazione e giustificazione. Soprattutto quella spersonalizzazione della sanzione, in quell’orribile linciaggio che disumanizza sia la vittima che i carnefici, torna biopolitico nell’identificarsi nel corpo del papa.Non sto evocando un papa taumaturgo per i mali della società. Sono cosciente che non bastano le parole di Bergoglio per curare i guasti di un modello economico ingiusto. Questo mette le classi medie contro quelle popolari per farne nella difesa di un sempre più traballante benessere la prima linea della trincea del sistema rispetto alle masse di esclusi additate ai primi come nemico. La cronaca nera è in questo la più conservatrice delle pagine dei giornali. È necessario evocare l’umanità (laica o credente, non vedo troppa differenza) come unica speranza di salvezza terrena: solo sentendo sul proprio corpo i calci che ha sentito Francesco su quello di David e le sprangate su quello di Darius saremo capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo (cit.). E che sia il Vangelo, o Che Guevara poco importa.

 

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