l’Islam ci minaccia?

Islam, una minaccia per l’Europa?

 

   Franco Cardini (autore del volume Europa e Islam nella serie Fare l’Europa diretta da Jacques Le Goff)
Cardini
 
 
 
  commenta alcune affermazioni ispirate a interventi pubblici di chi ritiene l’Islam una minaccia per l’Europa, dopo gli attentati del 7 gennaio a Parigi.
 

 

 

1. Ancora una volta il cuore della civiltà occidentale è colpito dal terrorismo islamico. Possiamo ragionarci su quanto vogliamo ma sta di fatto che, se non tutti gli islamici sono terroristi, oggi e ormai da molto tempo tutti i terroristi sono islamici.

Per la verità in tutto il mondo si stanno segnalando attentati terroristici gravi o leggeri di varia matrice: quindi l’affermazione è in sé inesatta. Se poi mettiamo in discussione la nozione ufficiale e ristretta di terrorismo, la cosa cambia del tutto aspetto. Colpire con aerei o con droni oppure bombardare per rappresaglia unilateralmente valutata e decisa obiettivi isolati o centri urbani praticamente indifesi (salvo poi parlare delle vittime dicendo che “si facevano scudi umani” dei bambini: come si fa a farsi scudi umani quando si è vittime di un bombardamento?) è a sua volta terrorismo in senso proprio, in quanto azione violenta atta a spargere terrore”.
2. La distinzione tra Islam moderato e Islam fondamentalista è un’invenzione occidentale: la verità è che i musulmani ci considerano infedeli e come tali nutrono nei nostri confronti un atteggiamento ostile. Non è un caso se nel corso della storia Cristianità e Islam tante volte sono venuti alle armi.

Cristianità e Islam, finché c’è stata una Cristianità (vale a dire una società che anche sotto il profilo civile, giuridico, culturale si ispirava a principi cristiani come tali riconosciuti), e quindi un Occidente moderno e laico, e Islam, sono appunto “tante volte venuti alle armi” (sempre meno di quanto non abbiano fatto i cristiani e/o gli europei fra loro). Ma più spesso hanno allacciato rapporti economici, commerciali, diplomatici, culturali. Quanto alla distinzione tra “moderati” e “fondamentalisti”, è vero: è occidentale e arbitraria (tanto è vero che l’Occidente mostra di considerare in pratica moderati anche gli emiri della penisola arabica, che religiosamente parlando tali non sono ma tali vengono dichiarati ad honorem in quanto alleati e partner economici). In realtà l’Islam è una realtà immensa, quasi un miliardo e mezzo di persone, che non conosce istituzioni religioso-giuridiche normative (cioè vere e proprie “Chiese”) universalmente e concordemente tali considerate, ma che si organizza come un insieme di gruppi, sodalizi, scuole giuridiche, organizzazioni caritative, sette mistico-religiose ecc.; esso non ha né un centro né un possibile profilo gerarchico al suo interno. Quindi, quando ci si rivolge ad esso, ogni gruppo va studiato come una realtà a se stante, più o meno come accade per le sette cristiane protestanti (salvo le grandi Chiese riformate).
3. È vero che anche il mondo occidentale ha conosciuto l’intolleranza religiosa e la sovrapposizione tra religione e autorità statale: ma noi siamo usciti da tempo dal medioevo e abbiamo separato politica e religione. L’Islam invece vive ancora sotto la legge coranica, e da questo medioevo non sembra avere alcuna intenzione di uscire.

Il medioevo è una dimensione della storia solo occidentale e per giunta convenzionalmente elaborata: non è una fase necessaria che la storia di tutte le società umane debba forzatamente attraversare. Esso è stato “inventato” da umanisti tre-quattrocenteschi convinti che si potesse tornare a quella che a loro avviso era la “perfezione” della civiltà romana, raggiunta nell’età augustea, e che a separarla da loro ci fosse solo la palude di un “tempo-di-mezzo” impregnato di barbarie e di fanatismo. A rigore, “medioevo” non è nemmeno una definizione: è una non-definizione, se non un’antidefinizione. L’Occidente moderno, che lo ha inventato e ha al tempo stesso inventato se stesso, deve far attenzione a non ricaderci: ammesso (e assolutamente non concesso) che ciò, in termini propri, sia un vero problema storico. Le società musulmane sono strutturate in altro modo e non hanno mai scelto una distinzione netta e definitiva tra sfera religiosa e sfera civile e giuridica: il che, nella realtà storica e contrariamente a quel che noi pensiamo, ha però significato molto spesso, fino a tempi recentissimi, un prevalere della politica sulla religione. Il più grande sultano ottomano del Cinquecento, che noi conosciamo come Solimano “il Magnifico”, nel mondo musulmano è noto come ‘al-Qanuni’, il restauratore del Canon di Giustiniano (non della shar’ia).

4. Come minimo dovremmo far valere la legge della reciprocità: perché consentiamo a tante moschee di essere costruite e operare nel nostro territorio, diventando spesso centrali dell’odio senza chiedere ai paesi islamici di farci costruire altrettante Chiese cattoliche?

Una condizione giuridica indefettibile, per consentir l’applicazione del principio della reciprocità, è che essa venga esercitata tra soggetti suscettibili di porsi su un piano e un livello di omogeneità: ad esempio due stati, o due imprese, o due soggetti che esercitino la stessa attività. È ovvio che ‘Occidente’ e ‘Islam’ non sono due realtà omogenee né paragonabili, oltre a corrispondere entrambi a concetti largamente generici, all’interno dei quali si muove una molteplicità di valori, di istituzioni, di modi concreti di vivere e di pensare. Tra chi dovrebbe quindi esercitarsi tale reciprocità? Per esempio tra due stati? L’Italia, che è un paese laico per quanto abitato da una maggioranza di cittadini che si dicono o che vengono sociologicamente considerati cattolici, potrebbe ad esempio avviare una seria procedura istituzionale e diplomatica tesa a ottenere la reciprocità nell’apertura di luoghi di culto cattolico con ciascun paese musulmano. Ma con quale? Con l’Egitto, o la Giordania, o la Turchia, che hanno già comunità cristiane fiorenti e rispettate (anche se di questi tempi la sicurezza è purtroppo sempre pericolante)? O con l’Iraq e la Siria, dove tali comunità erano sicure prima che, per colpa degli occidentali, tutto si scompigliasse? O con gli emirati arabi, dove i cristiani sono pochissimi e i regimi emirali seguono la shar’ia ma sono alleati e partner commerciali e sicuri dei nostri governi i quali non hanno affatto voglia di crear problemi a tale armonia per motivi religiosi, né avrebbero – come governi appunto “laici” – il diritto di farlo? E se i nostri governi laici lo facessero, come la metteremmo con i cittadini non-credenti, o ebrei, o buddhisti, che magari potrebbero protestare per tale trattamento di riguardo accordato ai cristiani e che non li riguarda? E ancora, ammettendo che il nostro governo – facendosi indebitamente paladino della libertà della Chiesa – insistesse presso il re dell’Arabia saudita per l’apertura di chiese sul suo territorio, e ne ricevesse un rifiuto, dovrebbe per questo chiudere le moschee italiane impedendo di pregare anche a quei musulmani che non sono sudditi sauditi? Comunque lo si voglia affrontare, quest’argomento della “reciprocità” è giuridicamente, diplomaticamente e politicamente impraticabile. A livello morale, poi, è addirittura spregevole: se noi occidentali siamo sicuri dei nostri fondamenti etici che poggiano sulla tolleranza di lockiana e voltairiana memoria, non possiamo certo deflettere dai nostri convincimenti con l’alibi che gli altri non seguono i nostri princìpi. Io, come occidentale che crede fermamente nella tolleranza, mi rifiuto di obbedire a un emiro: come invece farei di fatto, se venissi meno ad essa con l’alibi che egli non intende accedervi e mi adeguassi quindi a lui.

5. C’è poco da fare, siamo in guerra. Dall’11 settembre a oggi, da New York a Parigi, le organizzazioni terroristiche, che siano Al Qaeda o Isis, fanno viaggiare il loro fanatismo sulla canna dei kalashnikov. Possiamo continuare a contrapporre a questa violenza una patetica idea di dialogo?

C’è poco da fare, siamo in guerra. Lo siamo forse dal 1918, quando le potenze vittoriose della prima guerra mondiale ingannarono il mondo arabo, al quale avevano promesso unità e libertà in un regime che si sarebbe rapidamente occidentalizzato, quello dello sceriffo della Mecca Hussein che aveva sollevato gli arabi contro il sultano di Istanbul (nonostante egli fosse anche califfo) e che era un sincero liberale e ammiratore soprattutto di Sua Maestà Britannica: inglesi e francesi gli avevano promesso una ‘Grande Arabia Libera’ e invece si spartirono il mondo arabo sottomettendolo al regime die mandati. Certo, siamo in guerra: da quando con l’alibi della cattura di Bin Laden senza prove autentiche delle sue responsabilità nei fatti dell’11 settembre gli USA e i loro complici hanno aggredito nel 2001 l’Afghanistan (allora governato da quei talebani che gli statunitensi stessi avevano introdotto in Afghanistan dall’Arabia saudita e dallo Yemen ai tempi della guerra contro l’occupazione sovietica), e da quando nel 2003 hanno aggredito l’Iraq di Saddam Hussein sventolando la balla delle “armi segrete di distruzione di massa”, che ora stanno di nuovo montando contro la Siria. Siamo in guerra da quando nel 2011 francesi e britannici hanno sostenuto, finanziato e armato gli oppositori di Gheddafi in Libia e di Assad in Siria pur sapendo bene che tra loro c’erano gruppi fondamentalisti (e ora Hollande ha la faccia di bronzo di sventolare il “pericolo fondamentalista”, che egli ha contribuito ad accrescere). Siamo in guerra da quando le lobby multinazionali in combutta con i governi occidentali e le classi dirigenti corrotte locali hanno cominciato a spogliare l’Africa di tutte le sue ricchezze provocando la disperata reazione di persone che hanno finito per accedere ai ranghi di organizzazioni fanatiche come il Boko Haram. Solo che, in tutti questi fatti, mi sfugge qualcosa che la domanda ha affermato: quale sarebbe la “patetica idea di dialogo” che l’Occidente starebbe portando avanti? Quella delle aggressioni militari o quella delle spoliazioni messe in atto dalle multinazionali?

6. Consentire a milioni di immigrati di entrare sul nostro territorio vuol dire far passare di fronte ai nostri occhi il cavallo di Troia del fanatismo islamico: la nostra cultura democratica e cristiana ci impedisce di chiudere le frontiere di fronte ai perseguitati politici e agli affamati; ma dovremmo ridurre drasticamente il numero di chi viene accolto e controllare ogni persona che arriva da un paese islamico accertandoci del suo atteggiamento verso le nostre società.

Temo che, nel consigliarci l’accoglienza, la nostra cultura democratica e cristiana c’entri poco. C’entra, invece, il fatto che finché servono come manodopera a buon mercato, magari al nero, quegli immigranti sono ben accetti. E c’entra quello che il sistema di spoliazione sistematica delle risorse soprattutto del continente africano, messo in atto dalle nostre lobby con l’appoggio dei governi sia nostri sia locali (questi ultimi da esse del resto messi in piedi, appoggiati e foraggiati), ha da tempo ridotto il continente africano alla miseria e alla disperazione, come ben sanno i nostri missionari e i nostri operatori umanitari. Stiamo proseguendo sulla via dello “scambio asimmetrico”, già inaugurato del nascente colonialismo nel XVI secolo: non importiamo da loro manodopera e materie prime al prezzo che stabiliamo noi, esportiamo alla loro volta prodotti finiti e “valori immateriali”, come la Libertà e i Diritti Umani, sempre al prezzo che stabiliamo noi. E, con questa premessa, poi ci meravigliamo della “guerra asimmetrica”? Ma siamo davvero sicuri di lasciar loro altra scelta, se non l’alternativa tra affogare nel Canale di Sicilia o prendere le armi?
7. A chi obietta che molti terroristi sono cittadini europei perché figli di immigrati nati in Europa la risposta sta in una forte stretta sulla sicurezza: sappiamo dove i ragazzi islamici si incontrano, che siano moschee o quartieri interi, e dove nascono i centri di indottrinamento alla violenza. Dobbiamo rafforzare i controlli di polizia e la presenza militare in quei territori. I buoni musulmani non avranno nulla da temere.

Bene: ammettiamo pure di conoscere davvero i centri di reclutamento dei terroristi e di addestramento alla violenza: allora il gioco è fatto. Basta chiuderli ed arrestarne i responsabili. Ma se abbiamo solo indizi e sospetti, allora la “stretta di sicurezza” è necessaria, ma insufficiente. Da sola, la “stretta di sicurezza”, a parte i costi e le difficoltà organizzative e pratiche (siamo davvero sicuri di conoscerli, i centri ‘dove nascono i centri di indottrinamento e di violenza’? Siamo certi che le moschee siano tutte e sempre tali? Ne abbiamo le prove? Se fossimo nei loro panni, accetteremmo pacificamente di venir sorvegliati durante le nostre attività religiose e culturali sulla base di un pregiudizio, salvi i casi di illegalità comprovate?) contribuirebbe a creare nuove ostilità e si risolverebbe in un potente aiuto alla propaganda terroristica, vale a dire che conseguirebbe esattamente gli effetti contrari rispetto a quelli che vogliamo. Per evitare ciò, bisogna accompagnare la “stretta di sicurezza” a un’organica e capillare politica dell’accoglienza: e qui in primo piano entrano le scuole, i sodalizi culturali e assistenziali a tutti i livelli, le iniziative che creino occasioni d’incontro e si scambio. C’è un modo sicuro per odiare la cultura dell’Altro: ignorarla e ritenerla quindi pregiudizialmente inferiore o pericolosa. E c’è un modo sicuro per amarla e ammirarla: imparare a conoscerla. Io non sono né un arabista né un islamista, ma ho qualche esperienza orientalista sul piano storico-antropologico: in quanto cattolico, non ho mai amato tanto la tradizione cattolica come ho fatto da quando ho imparato ad apprezzare quello che ad esempio la teologia musulmana dice, scrive e pensa sulla Vergine Maria.

8. Oltre alle misure di sicurezza dobbiamo rilanciare con forza la nostra identità europea, fondata sulle nostre tradizioni, sulla nostra civiltà greco-romana, sulle radici cristiane della nostra libertà. Solo attraverso una rinnovata fiducia in noi stessi potremo farci rispettare anche dagli altri.

Certo: ma bisogna agire con la ferma consapevolezza che non v’è identità che non sia imperfetta e dotata di una sua dinamica interna, che non v’è tradizione che non debba qualcosa nella sua genesi alle tradizioni altrui. Le nostre radici sono ellenistico-romene (le definirei così piuttosto che propriamente greco-romane, poiché la cultura ellenica entrata in Roma fra IV e II sec. A.C. era già fortemente passata attraverso la sintesi ellenistica da essa attingendo a molteplici valori culturali “orientali” (cioè soprattutto egizi, caldei, siromesopotamici, persiani). Poi, con il cristianesimo, giunsero gli influssi ebraici, neoplatonici, gnostici. Poi ecco il contributo dei popoli “barbari”: gli illirici, i celti, i galli, i germani, gli arabo-musulmani. La coscienza della relatività delle differenze e dell’abbondanza delle analogie e delle somiglianze tra la nostra cultura e quelle altrui non potrà che accrescere il senso di vicinanza e facilitare dialogo e convivenza.

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35 anni di inquisizione nella chiesa odierna

1978-2013

IL “MARTIROLOGIO” LAICO
DELLE VITTIME DI RATZINGER E WOJTYLA

Woitila

l

 

 

a lista dei teologi, dei preti, dei religiosi e delle religiose, oltre che dei laici variamente impegnati in ambito ecclesiale, puniti dal Vaticano sotto gli ultimi pontefici  è lunghissima

 

Senza contare tutti gli innumerevoli casi in cui ad intervenire sono state le Curie locali, e non il Vaticano; anche se spesso il vescovo diocesano ha agito dopo aver avuto parere favorevole dalle Congregazioni romane, quando non è stato addirittura sollecitato da esse ad intervenire in maniera repressiva.

Ratzinger
I casi più eclatanti

La vicenda più eclatante, limitandoci ai pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI (perfettamente sovrapponibili, poiché Ratzinger è stato dal 1981 al 2005 il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede proprio sotto papa Wojtyla cui è poi subentrato nel ministero petrino), è quella di Hans Küng, forse il più noto tra tutti i teologi progressisti, quello che con più forza aveva messo in discussione il dogma della «infallibilità papale», parlando invece di «indefettibilità» della Chiesa.

Kung

Il procedimento nei suoi confronti comincia quando è ancora papa Paolo VI, ma si conclude nel dicembre 1979, sotto Giovanni Paolo II. Per il Vaticano, Küng «non può più essere considerato teologo cattolico né può, come tale, esercitare il compito di insegnare».

In ambito italiano è altrettanto famosa la vicenda di Giovanni Franzoni, già abate di S. Paolo Fuori le Mura, assieme a mons. Luigi Bettazzi l’unico tra i padri conciliari italiani ad essere ancora in vita, costretto a dimettersi da abate (1973) e poi sospeso a divinis (1974) e dimesso dallo stato clericale (1976) per le sue posizioni politico-ecclesiali considerate inconciliabili con il Magistero della Chiesa (divorzio, sostegno al Pci, impegno contro la speculazione edilizia, la guerra nel Vietnam, la contiguità tra gerarchia ecclesiastica e Dc, ecc.). Condannato sotto Paolo VI, nell’epoca di Wojtyla e Ratzinger il nome stesso di Giovanni Franzoni, tra i più autorevoli animatori del movimento delle Comunità Cristiane di Base, negli ambienti ecclesiali ha rappresentato sempre un tabù, una figura da ostracizzare.

Nel 2003 un altro prete italiano delle CdB, don Franco Barbero, viene dimesso dallo stato clericale senza processo e senza preavviso. Sotto accusa la sua pastorale con le persone omosessuali e le sue benedizioni di coppie gay in Chiesa. Oggi il papa sembra aprire alle coppie gay, ma la porta nei confronti di Barbero, che dagli anni ‘60 ha iniziato una riflessione teologica e pastorale sul rapporto tra fede ed omosessualità, resta saldamente chiusa.

C’è poi il caso del religioso redentorista tedesco Bernhard Häring (1912-1998), tra i teologi che avevano preparato il Concilio Vaticano II e redatto la Costituzione Gaudium et spes sulla Chiesa e il mondo contemporaneo.

Haring

Da sempre molto critico rispetto alla morale sessuale della Chiesa e il divieto degli anticoncezionali sancito con l’enciclica Humanae vitae, Häring viene convocato nel febbraio 1979 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede che gli chiede l’impegno solenne di non criticare più l’enciclica di Paolo VI. Il teologo rifiuta. Da allora in poi subisce un processo di progressiva emarginazione che non si è concluso nemmeno dopo la sua morte; e nemmeno sotto il pontificato di Francesco.

Sempre nel 1979, a maggio, dopo lunga attesa, e diverse richieste andate a vuoto, mons. Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador viene ricevuto dal papa.

Romero

Nel suo martoriato Paese Romero è da tempo punto di riferimento dei più poveri, per il suo impegno a sostegno dei diritti umani e contro le azioni degli squadroni della morte, gruppi paramilitari di estrema destra, che svolgevano azioni terroristiche contro gli oppositori politici del governo. «Lei, signor arcivescovo, deve sforzarsi di avere una relazione migliore con il governo del suo Paese», dice Wojtyła a Romero, sfiduciandone l’operato. Una seconda udienza avviene il 21 gennaio 1980. L’incontro va un po’ meglio di quello dell’anno precedente. Ma la sostanza non cambia: di lì a poco Romero riceve il terzo visitatore apostolico (all’interno della Chiesa si tratta di una sorta di ispezione disciplinare che può preludere al “commissariamento” della diocesi o a provvedimenti disciplinari) in 12 mesi. Il 24 marzo del 1980 Romero viene ucciso da un sicario mentre celebra l’eucarestia. Wojtyła non prende nemmeno parte ai funerali. Oggi papa Francesco vorrebbe farlo santo. Ma nessuna parola è sinora stata ufficialmente spesa sulla solitudine e il clima di ostilità che Wojtyla e la gerarchia vaticana hanno creato prima, durante e dopo la morte attorno al vescovo martire.

Tra i casi più clamorosi di repressione ecclesiastica degli ultimi decenni va certamente annoverato anche quello del più celebre teologo della Teologia della Liberazione, il frate francescano Leonardo Boff, condannato nel 1985 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede per il suo libro Chiesa, carisma e potere.

Boff L.

Per l’ex Sant’Uffizio «le opzioni di Leonardo Boff sono tali da mettere in pericolo la sana dottrina della fede». Boff lascia l’ordine nel 1992.
Vescovi “scomodi”

La scure della repressione vaticana, cui oggi un gesto di papa Francesco potrebbe porre almeno parziale rimedio, non ha risparmiato nemmeno i vescovi, quando la loro azione pastorale era in odore di comunismo o “sinistrismo”.

Nel 1993 viene rimosso dalla diocesi messicana di San Cristóbal de las Casas il vescovo mons. Samuel Ruiz (1925-2011), solidale con la causa degli indios e in dialogo con il movimento zapatista. A seguito dell’enorme clamore della notizia, il provvedimento viene però «congelato». Ma Ruiz sarà comunque affiancato da un altro vescovo incaricato di controllarlo e indotto a lasciare nel 2000, non appena compiuta l’età canonica.

Nel 1983 l’arcivescovo di Seattle, mons. Raymond Hunthausen, viene indagato e, tre anni dopo, esautorato dal Vaticano di alcune funzioni pastorali per il suo impegno su disarmo e obiezione fiscale.

Va ancora peggio (1995) a mons. Jacques Gaillot, vescovo di évreux (Francia), costretto alle dimissioni dalla guida della sua diocesi per il suo impegno a favore degli immigrati, delle prostitute, degli omosessuali e degli emarginati, nonché per l’esplicito sostegno all’uso del preservativo.

Gaillot

Gli viene affidata una diocesi senza popolo, Partenia, che esiste solo sulla carta. E di cui è tuttora titolare.

Nel 2011 il vescovo australiano, mons. William Morris, viene rimosso dal suo incarico episcopale semplicemente per aver ipotizzato un’apertura al sacerdozio femminile come possibile soluzione alla cronica carenza di preti. Il tutto senza un debito processo.

Nemmeno il generale dei gesuiti sfugge alla repressione vaticana quando, nel 1981, Wojtyla decide il commissariamento della Compagnia di Gesù, guidata dal 1965 da p. Pedro Arrupe, religioso e teologo che aveva accettato che all’interno dell’Ordine, specie nei Paesi latinoamericani (erano i tempi in cui Bergoglio era provinciale dei gesuiti in Argentina, ma su posizioni diverse da Arrupe), i gesuiti più sensibili alle istanze della Chiesa dei poveri portassero avanti una pastorale sociale molto avanzata, che si poneva in dialogo e non in contrapposizione con le forze progressiste e il marxismo. Arrupe, costretto al ritiro, muore isolato e malato nel 1991.
Teologia “spinosa”

Sul fronte dei teologi le cose non sono andate meglio. A partire dal teologo domenicano francese Jacques Pohier, già decano alla Facoltà Teologica di Le Saulchoir, cui nel 1979 viene impedito di presiedere assemblee liturgiche e di insegnare pubblicamente. Nel suo celebre libro Quand je dis Dieu (“Quando dico Dio”), il teologo aveva infatti espresso idee non conformi al Magistero su resurrezione, divinità di Gesù, presenza reale nell’eucarestia. Dopo il Vaticano II, era la prima volta che la Curia colpiva in questa misura un teologo.

C’è poi Edward Schillebeeckx (1914-2009), domenicano belga, ispiratore negli anni Sessanta del celebre «nuovo catechismo olandese», tra i promotori dei più importanti documenti del Concilio Vaticano II, fondatore – nel 1965, insieme a personalità del calibro di Marie-Dominique Chenu, Yves Congar, Karl Rahner e Küng – di Concilium, la più prestigiosa rivista teologica progressista.

Schillebeex

Il Vaticano lo accusa formalmente e in più occasioni (1979, 1980, 1984 e 1986) di essere contiguo al marxismo e di insegnare una cristologia che nega la risurrezione di Cristo come un fatto oggettivo della fede.

E ancora: nel 1986 Charles Curran, gesuita, teologo morale che, nel 1968, insieme a un gruppo di circa 600 teologi, aveva scritto una «risposta» alla Humanae vitae di papa Paolo VI contestando il divieto alla contraccezione artificiale, viene condannato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede che lo dichiara «non idoneo all’insegnamento della teologia cattolica» per le sue posizioni e per aver sostenuto «la legittimità del dissenso dall’autorità».

Due anni dopo (1988), la destituzione arriva anche per altri due teologi gesuiti, professori di Dogmatica all’Università di Granata, José Maria Castillo (che lascia nel 2007 la Compagnia di Gesù) e Juan Antonio Estrada, cui viene revocata l’idoneità all’insegnamento. Immediatamente dopo di loro stessa sorte la subisce anche il teologo e religioso clarettiano Benjamín Forcano, punta della teologia spagnola ed esponente della Teologia della Liberazione, destituito dalla direzione della rivista Misión Abierta.

Ancora nel 1988, l’allora card. Ratzinger obbliga il teologo domenicano Matthew Fox ad un anno di silenzio, prendendo come casus belli il rifiuto di Fox di condannare lo stile di vita e la pratica dell’omosessualità, ma contestandogli più in generale la sua teologia della Creation Spirituality, considerata sincretista. Nel 1992 Fox viene espulso dal suo Ordine e vengono interrotti i suoi corsi tenuti all’Holy Names College di Oakland. Oggi Matthew Fox è un prete episcopaliano. André Guindon, teologo canadese esperto di temi morali viene invece censurato nel 1992: le sue tesi – soprattutto sui temi della sessualità – contenevano secondo Ratzinger «gravi dissonanze non solo con l’insegnamento del Magistero più recente, ma anche con la dottrina tradizionale della Chiesa»; mentre ancora un altro gesuita, Jacques Dupuis, viene estromesso nel 1998 dall’insegnamento alla Pontificia Università Gregoriana per il suo libro Verso una teologia del pluralismo religioso, all’interno del quale, due anni dopo, la Congregazione per la Dottrina della Fede rintraccerà la presenza di «notevoli ambiguità e difficoltà su punti dottrinali di portata rilevante, che possono condurre il lettore a opinioni erronee o pericolose».

Nel 2001 lascia il sacerdozio il teologo australiano Paul Collins, religioso dell’ordine dei Missionari del Sacro Cuore, messo sotto accusa sin dal 1997 dall’ex Sant’Uffizio per il suo libro Il potere papale. Una proposta di cambiamento per il cattolicesimo del Terzo millennio. Le affermazioni che gli vengono contestate riguardano la negazione della rivelazione, dell’identificazione della Chiesa di Cristo con la Chiesa cattolica e dell’infallibilità papale e l’affermazione che la dottrina della Chiesa deve essere approvata non solo dai vescovi e dai teologi, ma anche dai fedeli stessi.

Riguardo ai teologi, in Italia il caso che ha fatto più scalpore è quello di don Luigi Sartori (1924-2007). Nel 1989 la Congregazione per l’Educazione cattolica interviene presso la Pontificia Università Lateranense per sollevarlo dalla cattedra di Ecumenismo. Don Sartori, perito al Concilio Vaticano II, era stato tra i più noti teologi italiani, oltre che presidente dell’Ati, l’Associazione teologi italiani.

Altro caso italiano quello di Luigi Lombardi Vallauri, che nel 1998 l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano estromette dall’insegnamento su pressioni della Congregazione per l’Educazione cattolica presieduta dal card. Pio Laghi. Le opinioni di Vallauri sarebbero «nettamente contrarie alla dottrina cattolica». Alla fine la Corte europea dei Diritti dell’uomo di Strasburgo, il 20 ottobre 2009 darà ragione a Vallauri, condannando l’Italia per avere violato la libertà d’espressione del professore e il suo diritto a un giusto processo, e definirà «priva di motivazione e presa in assenza di un reale contraddittorio» la decisione dell’Università Cattolica. Ma Vallauri sulla sua cattedra non è più tornato.

La lista dei teologi in vario modo puniti dal Vaticano è ancora lunga. C’è il gesuita indiano Anthony de Mello che a più di dieci anni dalla morte (avvenuta nel 1987), viene accusato di «apofatismo radicale» per i suoi libri di spiritualità, tradotti e venduti in tutto il mondo. C’è poi il caso del tedesco Eugen Drewermann, teologo e psicanalista, privato nel 1991 dell’insegnamento e poi della predicazione per le sue posizioni sul celibato obbligatorio e sul ruolo del prete nella Chiesa. Lascerà il sacerdozio e poi la Chiesa cattolica. E ancora il caso di Reinhard Meßner, teologo austriaco obbligato all’abiura (2000) per aver sostenuto come «in caso di conflitto è sempre la tradizione, ovvero la teologia, che deve essere corretta a partire dalla Scrittura» e non quest’ultima interpretata alla luce di una tradizione successiva. Senza dimenticare il teologo redentorista spagnolo p. Marciano Vidal, indotto (2001) a ritrattare le sue tesi su contraccezione, aborto, omosessualità; il frate minore francescano svizzero Josef Imbach, spinto nel 2002 a lasciare la docenza di Teologia fondamentale alla Pontificia Facoltà teologica San Bonaventura di Roma, perché scettico sull’esistenza dei miracoli e critico verso i metodi usati dalla Congregazione per la Dottrina della Fede per limitare la libertà del dibattito teologico nella Chiesa. E infine p. Roger Haight, gesuita, a cui nel 2004 viene vietato l’insegnamento a causa della sua visione cristologica, giudicata non ortodossa.
Preti e religiosi fuori dai “canoni”

Anche a molti preti impegnati sul fronte della politica, dell’animazione e della pastorale sociale e dell’informazione non è andata meglio. Nel 1987 il comboniano p. Alex Zanotelli è costretto a dimettersi dalla direzione (assunta nel 1978) del mensile Nigrizia, per le sue ripetute denunce sull’utilizzo dei fondi destinati alla cooperazione italiana e finiti nel commercio delle armi.

Nel 1988 anche Eugenio Melandri, missionario saveriano, dal 1978 direttore del mensile Missione Oggi, è costretto alle dimissioni. La sua rivista sosteneva il Nicaragua sandinista e si era impegnata nella denuncia della gestione fatta dal governo italiano dei fondi destinati alla cooperazione. Dopo aver accettato la candidatura con Democrazia Proletaria alle elezioni europee, nel 1989 Eugenio Melandri viene anche sospeso a divinis.

Simile la sorte (1995) del comboniano p. Renato “Kizito” Sesana, destituito dal suo incarico di direttore della rivista keniana New People, periodico dell’Africa anglofona, per le sue prese di posizione ed i suoi giudizi critici sul Sinodo africano che si era da poco concluso in Vaticano. Più recente la vicenda di don Vitaliano Della Sala, che in conseguenza della sua partecipazione al World Gay Pride del 2000, nella quale aveva criticato pubblicamente il card. Angelo Sodano per i suoi rapporti con il dittatore cileno Augusto Pinochet, viene rimosso dalla funzione di parroco della parrocchia di San Giacomo, a Sant’Angelo a Scala (Av). Nel 2009 gli viene restituita la guida di una parrocchia (a Mercogliano), ma mai il titolo di parroco.

In Francia (1989) è il gesuita Paul Valadier a venire rimosso dalla direzione della rivista dei gesuiti francesi Études: era tra i teologi che avevano sottoscritto la cosiddetta “Dichiarazione di Colonia” (1989), nella quale si muovevano aperte critiche al pontificato di Giovanni Paolo II.

Negli Usa la Congregazione per la Dottrina della Fede vieta (2000) «permanentemente ogni attività pastorale in favore delle persone omosessuali» a suor Jeannine Gramick e a p. Robert Nugent, cofondatori del progetto pastorale New Ways Ministry, rivolto a gay e lesbiche, perché i due non condannano «la malizia intrinseca degli atti omosessuali». Per continuare la sua attività a favore delle persone lgbt Gramick (2001) è anche costretta a cambiare congregazione religiosa.

Restando negli States, è del 2005 l’esonero del direttore del settimanale gesuita statunitense America p. Thomas Reese, giudicato di orientamento troppo liberal per aver avuto il coraggio di ospitare sul suo giornale dibattiti e approfondimenti su molte questioni di scottante attualità. E ancora negli Usa (2013) p. Roy Bourgeois, prete pacifista della congregazione di Maryknoll, viene punito dal Vaticano con l’estromissione dalla sua congregazione, la dimissione dallo stato clericale e la scomunica per il suo appoggio al sacerdozio femminile

(da valerio gigante in ‘finesettimana’)

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i transessuali non sono ‘figli del diavolo’

 

 

il Papa riceve in Vaticano un transessuale spagnolo con la sua fidanzata

l’uomo, un’ex donna di 48 anni, gli aveva scritto perché si sentiva emarginato dalla Chiesa dopo aver cambiato sesso

per il suo parroco è solo ‘figlia del diavolo’

 

Il Papa riceve in Vaticano un transessuale spagnolo con la sua fidanzata

Il Papa gli avrebbe quindi telefonato due volte in dicembre e sabato scorso l’ha ricevuto a Santa Marta.

Interpellate sulla vicenda, le fonti ufficiali vaticane non hanno rilasciato commenti. Nella sua lettera al Papa – secondo quanto da lui riferito al quotidiano spagnolo – Neria, credente e praticante, denunciava che, dopo essersi sottoposto all’operazione per il cambio di sesso, nella sua città in Estremadura era stato respinto da componenti della parrocchia da lui frequentata, e che il parroco l’aveva persino chiamato “la figlia del diavolo”.

Dopo aver scritto al Papa, una prima chiamata del Pontefice gli arrivò il giorno dell’Immacolata e una seconda nei giorni precedenti il Natale, quando il Papa lo invitò a recarsi in Vaticano con la fidanzata. L’incontro, strettamente privato, è quindi avvenuto sabato 24 gennaio, alle cinque del pomeriggio.

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