i miracoli dell’accoglienza reciproca

un monaco e un imam, un dialogo che accomuna Cristianesimo e Islam

si presenta a Milano il film documentario “Sceicco Ibrahim, Fra’ Jihad”

presentazione diGelsomino Del Guercio
Sceicco Ibrahim, Fra' Jihad documentario cristiano musulmano Islam Cristianesimo Centro San Fedele monastero Mar Musa
Ⓒ Magisitalia.org
Sceicco Ibrahim, Fra’ Jihad è un documentario girato dal regista Andres Rump nel Monastero  di Mar Musa nel deserto della Siria, fondato dal gesuita Paolo Dall’Oglio, e a Damasco prima dell’inizio della guerra, nel 2010. Il film parla di un incontro, di due vocazioni e dell’amicizia tra un monaco della Comunità Al-Khalil, fra’ Jihad Youssef e un Sufi, sceicco Ibrahim, imam della Moschea di Sheikh Moschea Ad-Daghestani, situata in un quartiere popolare di Damasco (magis.gesuiti.it, 29 gennaio).

Un incontro che è soprattutto apertura e accoglienza dell’altro. Il film è anche l’occasione per descrivere la vita quotidiana, fatta di preghiera e di ospitalità del monastero nel deserto e della moschea in città: i momenti di silenzio, la preghiera individuale e comunitaria, il lavoro manuale. Una storia di dialogo e di amicizia possibile in un momento carico di tensioni, dopo gli attentati di Parigi e i numerosi segnali di espansione del fondamentalismo in Medio Oriente (aggiornamentisociali.it, 29 gennaio).

Il film, proiettato in anteprima il 15 gennaio all’Università Gregoriana di Roma, sarà presentato il 30 gennaio all’Auditorium San Fedele di Milano (via Hoepli/3, ingresso libero). Nel corso dell’evento interverranno lo stesso fra’ Jihad Youssef, uno dei due protagonisti, Ibrâhîm ‘Abd an-Nûr Gabriele Iungo, laureando in Legge e in Scienze islamiche tradizionali presso l’Università Islamica di Medinah e presso la Dar ul-‘Ilm di Birmingham, e Paolo Branca, docente di Lingua araba e Islamistica all’Università Cattolica di Milano. Modera: Stefano Femminis, della Fondazione culturale San Fedele. 

Promotori dell’evento sono Aggiornamenti Sociali, Associazione Khalil Allah – L’Amico di Dio, Fondazione Culturale San Fedele, Magis, Procultura Monzese.

LA SACRALITA’ DELL’UOMO E DIO
Ascoltando le parole di fra’ Jihad, contattato da Aleteia, si può notare come il dialogo e il punto di vista di un cristiano e di un islamico siano tutt’altro che lontani anni luce. «Ognuno parlava della propria vocazione – sottolinea il monaco – di come la viveva e la sperimentava, e abbiamo constatato che tra noi c’erano diversi elementi di convergenza. Il primo fa sicuramente riferimento alla sacralità dell’uomo davanti e Dio, cioè al Mistero dell’incontro tra l’uomo credente e Dio, un attimo che va rispettato»

LA CONVERSIONE DI SE STESSI
Un altro aspetto condiviso del pensiero dell’imam, prosegue fra’ Jihad, era la conversione. «E cioè che bisogna convertire prima se stessi e poi gli altri. Lui mi ha fatto l’esempio che gli ha inculcato il suo maestro, il Grande Sceicco Nazim, capo dell’Ordine Sufi Naqshbandi-Haqqani, di cui fa parte l’imam. “I buoni si convertiranno da sé, non ci sarà bisogno della conversione. Piuttosto bisogna pensare a se stessi“. La lezione dello sceicco Nazim è un messaggio molto simile a quello messianico della religione cattolica». 

LA CULTURA DELL’INCONTRO
I punti in comune hanno riguardato anche la libertà della fede. «Ognuno creda come Dio gli dà di credere – sottolinea il monaco – è un altro dei messaggi che ci ha visto convergere, così come la cultura dell’incontro. L’imam mi diceva: “E’ Dio che ci ha fatto incontrare, poiché tra di noi non c’era interesse a farlo, e neppure avevamo delle esigenze di lavoro tali che stimolassero questo confronto“. E’ su queste basi che si è mosso un dialogo profondo tra credenti di religioni diverse». 

SILENZIO E TECNOLOGIA
E ancora, ricorda fra’ Jihad, l’importanza della preghiera, l’interesse per i poveri attraverso l’ospitalità – nel convento per il monaco, in moschea per l’imam – rappresentano momenti di dialogo convergente. «Il bisogno del silenzio e di luoghi dove l’uomo può ritrovarsi ci vedeva su una stessa lunghezza d’onda ma con sfaccettature diverse – spiega fra’ Jihad – nel senso che escludeva l’uso di computer, cellulari e di tutta quella tecnologia che ha reso meno semplice la vita, mentre io ne sostenevo un uso più ponderato, ragionevole, che non schiavizzi l’utilizzatore».   

L’UOMO E LA BESTIA
Insomma, il confronto con un’autorità della dottrina islamica «è stato tutt’altro che complicato. Le dirò – aggiunge il monaco – che il dialogo è alimentato dalla prontezza, dall’apertura, non dalle ideologie rigide e dal fondamentalismo. L’imam rappresenta un Islam spirituale, vero, riposato. Non abbiamo affrontato il tema del fondamentalismo perché nel 2010 la situazione era ancora abbastanza calma nel Medio Oriente, ma parlando della relazione tra gli uomini, rammento un’immagine che lui citò. L’uomo, disse, quando è lontano da Dio a volte è peggio della bestia. E fece il paragone tra un leone che quando è sazio non va a cacciare, e l’uomo di oggi che è troppo ambizioso e non è mai sazio: “uccide cento persone e non gli bastano”. Con questo esempio banale – conclude fra’ Jihad – l’imam voleva esprimere la sua condanna per ogni forma di violenza». 

sources: ALETEIA

teologa musulmana che invita al dialogo

una teologa musulmana: “generalizzare causa nuove violenze”

un invito a evitare critiche generalizzate al mondo islamico, dopo gli attacchi terroristici in Francia, arriva dalla teologa musulmana Shahrzad Houshmand, docente alla Pontificia Università Gregoriana di Islam sciita nella facoltà di Missiologia, e all’Università La Sapienza di Roma
l’intervista è di Fabio Colagrande:

 

«Quello che si sta un po’ facendo è questa generalizzazione che non sarà a favore di nessuno, non solo non a favore dei musulmani, ma nemmeno a favore dell’Occidente stesso, perché se non si usa con sapienza un atteggiamento accogliente, capace di un’analisi vera e profonda, questo non farà altro che causare altre forme di violenza. Io chiedo all’homo sapiens sapiens di oggi, che nonostante la sua sapienza ha messo in primo piano le fabbriche belliche e l’economia, di rivedere il messaggio profondo della rivoluzione francese: libertà, uguaglianza e fratellanza»

 

fedeli musulmani in preghiera

Generalizzare, atto di ignoranza
R. –    E’ chiaro che non si può in nessun campo giustificare un atto violento e l’uccisione di persone innocenti, questo è senz’altro condannato da tutti i capi religiosi, non solo islamici, perché qui non si tratta della violenza islamica ma è la violenza che ha colpito il cuore dell’uomo, in sé. Come diceva Ghandi: chi non è in pace con sé stesso è in guerra col mondo intero. Riprendo le parole anche di questo grande messaggero di pace che è Papa Francesco, che riprende, illumina, ci sveglia, ci scuote – come ripete sempre – da questa “globalizzazione dell’indifferenza” che alla fine è, anch’essa, la causa del malessere che viviamo oggi. Lui, infatti, ripete spesso di non generalizzare. Questo sarebbe un atto di grande ignoranza e un’altra violenza verso una grande fetta dell’umanità che comprende un miliardo e mezzo di persone. Quello che si sta un po’ facendo è questa generalizzazione che non sarà a favore di nessuno, non solo non a favore dei musulmani, ma nemmeno a favore dell’Occidente stesso, perché se non si usa con sapienza un atteggiamento accogliente, capace di un’analisi vera e profonda, questo non farà altro che causare altre forme di violenza. Io chiedo all’homo sapiens sapiens di oggi, che nonostante la sua sapienza ha messo in primo piano le fabbriche belliche e l’economia, di rivedere il messaggio profondo della rivoluzione francese: libertà, uguaglianza e fratellanza. Se non approfondiamo questo terzo slogan – fratellanza – fin quando l’homo sapiens sapiens, che pensiamo di essere noi, non punterà su questo terzo punto, discrimina una fetta dell’umanità e non sceglie politiche sociali intelligenti per l’integrazione, per la dignità e per il rispetto, ma sceglie la generalizzazione, andremo a cadere in altre forme di violenze.

L’Islam, ma non solo, ha bisogno di riforma
D. – C’è chi dice che eventi tragici come quello di Parigi si ripeteranno fino a che non verranno purificate le fonti di questa violenza che sono in alcune forme di cultura islamista…

R. – Ogni essere umano ha bisogno di riformarsi sempre. L’individuo ha bisogno di riformarsi, come le comunità, le società, anche le religioni. Tutti questi eventi ci portano a riflettere e rivedere alcune delle nostre posizioni. Questo vale anche per una fetta dei musulmani nel mondo che hanno una visione stretta dell’islam, soprattutto quelle scuole coraniche: lo Stato del Pakistan dice di non avere le risorse sufficienti per aumentare le scuole pubbliche e i privati – che non si sa da dove esattamente vengono – costruiscono queste scuole coraniche che danno una visione particolarissima del Corano. Allora, la riforma dovrebbe avvenire sicuramente nell’islam ma anche l’Europa ha bisogno di una riforma, di uscire da questo eurocentrismo profondo che non vede nelle altre culture nessuna positività, nessuna forma di democrazia, di benessere. Allora, questo atteggiamento dovrebbe essere reciproco. Abbiamo bisogno di riformarci a livello umano, di ripensare la fraternità e di medicare le ferite non con le bombe ma con l’istruzione, il dialogo e l’incontro. Infatti, leggo il paragrafo 253 della bellissima Esortazione “Evangelii Gaudium” di Papa Francesco: “Per sostenere il dialogo con l’Islam è indispensabile la formazione adeguata degli interlocutori, non solo perché siano solidamente e gioiosamente radicati nella loro identità, ma perché siano capaci di riconoscere i valori degli altri, di comprendere le preoccupazioni soggiacenti alle loro richieste e di fare emergere le convinzioni comuni”. Dobbiamo riformarci tutti, veramente.

il dialogo interreligioso

croce

 

Il dialogo interreligioso

di Andrés Torres Queiruga
in “Missione Oggi” n. 7 del agosto-settembre 2013

Dagli atti del convegno di Missione Oggi, su “Siamo gli ultimi cristiani? Alle soglie di un nuovo mondo”, riprendiamo l’intervento del teologo spagnolo Andrés Torres Queiruga sulla missione in tempo di pluralismo religioso. Il problema del dialogo tra le religioni oggi si pone in modo nuovo e richiede un cambiamento di mentalità: vedere l’altro non più come un concorrente, ma come un compagno di ricerca. Ogni religione è vera, nel senso che tutte le religioni sono parzialmente vere e quindi non nella stessa misura, tutte hanno qualcosa da insegnare e da imparare. Il dialogo religioso è un vero processo. Accanto alla Bibbia (ritenuta dai cristiani la rivelazione più completa) altre rivelazioni. Gesù unico salvatore e volontà salvifica universale: una unicità non escludente. Oltre l’esclusivismo  (nessuna salvezza fuori della chiesa), oltre l’inclusivismo (tutta la verità delle altre religioni è già inclusa nel cristianesimo). Per l’universalismo asimmetrico (‘finesettimana’-rassegna stampa)

 

Il problema del dialogo tra le religioni è antico quanto l’umanità, poiché in un modo o nell’altro le diverse tradizioni religiose sono sempre state in contatto e si sono sempre influenzate reciprocamente. La stessa Bibbia, quanto più ne conosciamo la genesi e le complesse evoluzioni nella storia, appare un modello di questo dialogo interno: religioni molto più antiche, come quelle mesopotamiche ed egizie, ne accompagnarono la formazione, influenzando profondamente tanto i libri cosiddetti storici quanto quelli profetici, dei salmi e sapienziali. Ma indubbiamente il fenomeno acquista oggi un’intensità eccezionale, non solo per l’esponenziale intensificazione dei contatti, ma anche perché la necessità di un dialogo aperto e riflessivo tra le diverse religioni si è imposto con evidenza nel pensiero religioso attuale. In realtà il problema è divenuto così urgente che comporta un radicale cambiamento nel modo di affrontarlo, un autentico mutamento di paradigma. E questo implica la necessità di una profonda trasformazione non solo nei nuovi concetti, ma anche negli atteggiamenti e nei sentimenti. Un nuovo modo di avvicinarsi all’altro, in cui è opportuno vedere non più un concorrente, ma un compagno di ricerca; perciò davanti al Mistero comune risulta privo di senso insistere sul “tuo” e sul “mio”, giacché, essendo identica la ricerca e comune il Mistero, il mio è anche tuo come il tuo è ugualmente mio e tutto è di tutti.
ogni religione è vera Troppe volte ci è stato detto che Dio ci ha creato “per la sua gloria” o affinché “lo servissimo”; un’idea che — almeno in senso letterale — risulta chiaramente contraddittoria col suo Essere. Infatti, persino sul piano filosofico — Dio come Pienezza assoluta — e naturalmente in una concezione cristiana — Dio come amore (1Gv 2,4-8) — è ovvio che, se Dio crea, può essere solo per dare, per regalare. Nella creazione, ben intesa, l’unico interesse di Dio siamo noi: tutto in noi e tutti e tutte noi. Per questo la teologia attenta a questo dato fondamentale deve ripensare molto a fondo l’idea di rivelazione. Si deve capire che dall’inizio della creazione Dio, come Padre/Madre che crea per amore, cerca di manifestarsi nel modo migliore e più pieno possibile a ogni donna e a ogni uomo, a ogni razza e a ogni cultura. La creazione è già salvezza, sforzo amoroso di Dio per manifestarsi e salvarci. I limiti — che, per disgrazia, sono così certi, duri ed evidenti — non derivano dalla sua mancanza di generosità, ma dalla nostra piccolezza: finiti, non siamo capaci di comprendere l’infinito; mondani, ci è molto difficile cogliere in qualche modo il Trascendente; finitamente liberi, resistiamo spesso ad accoglierne la manifestazione. Però qualcosa Dio riesce a ottenere nella lunga pazienza storica della sua “lotta amorosa” coi nostri limiti e le nostre resistenze. Osservando bene, questo spiega la storia delle religioni, che, in definitiva, consiste nella lenta, difficile e tortuosa percezione umana di quanto Dio cerca da sempre di rivelare. Ogni religione è un modo di configurare in credenza, rito e prassi questa percezione nel proprio tempo e nella propria cultura. Per questo —varrebbe la pena dilungarsi su questo punto —non c’è privilegio né “elezione”: gli stessi profeti sono stati nella Bibbia molto critici su questa categoria e, contro le pretese elitarie, lo stesso Giovanni Battista avvisava che “Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre” (Mt 3,9; cfr. le parole di Gesù in Gv 8,33-40). Di conseguenza, e col massimo rigore, è opportuno porre come principio fondamentale: ogni religione è vera. In questo senso fondamentale ciò, infatti, equivale esattamente ad affermare che ogni religione è una percezione della presenza rivelatrice e salvatrice di Dio. Lo è, certo, in modo umano, cioè carente e limitato, con una mescolanza di errori e oscurità, progressi e passi indietro, deformazioni e persino perversioni molte volte terribili. Cosa che vale per tutte, compresa quella biblica nella sua storia reale, e non solo, come si potrebbe pensare, per le religioni più “arretrate” o “primitive”. In realtà, il principio deve, allora, essere riformulato: “Tutte le religioni sono
parzialmente vere”. Constatazione decisiva per tre fondamentali motivi. Prima di tutto, perché proprio per questo una riflessione realista comprende che, come succede in tutto ciò che è umano, pur essendo tutte vere, non lo sono nella stessa misura: per eliminare ogni dubbio è sufficiente uno sguardo alla storia delle religioni o alla stessa attualità, In secondo luogo, perché allora diventa evidente che, nessuna essendo perfetta e conclusa, tutte hanno qualcosa che alle altre manca e quindi in tutte e in ciascuna c’è sempre qualcosa che possono insegnare e qualcosa che devono apprendere. Il che, in terzo luogo, mostra qualcosa di decisivo: che il dialogo religioso, qualunque siano i partecipanti, può e deve essere un processo reale, che chiede al contempo apertura e umiltà, disponibilità a dare e a ricevere, atteggiamento critico e recettività autocritica.
fine del “bibliocentrismo” Riconoscere la nuova situazione e accettare gli atteggiamenti che essa comporta implica una disposizione esigente a non resistere al cambiamento e ad aprirsi al rinnovamento. In termini religiosi, implica una metanoia, cioè un “cambiamento di mente”, una conversione. Una cosa che non accade mai senza inevitabili rinunce, ma che, se ben condotta, è anche sempre carica di promesse. Questo coinvolge, come è logico, tutte le religioni, ma qui, per realismo e modestia, dobbiamo concentrarci sulla nostra. Al suo interno ci sono due punti che devono essere posti in primo piano. Il primo è l’inevitabile fine del “bibliocentrismo”. Se, come si è detto, tutte le religioni sono — nella propria, ma reale, misura — rivelate, risulta evidentemente impensabile che la Bibbia sia un libro assolutamente unico, per cui solo in esso sia adeguato parlare di rivelazione divina. Riconoscerlo implica situarla nel continuum dei diversi libri e delle diverse tradizioni sacre dell’umanità. Il che, in partenza, non le concede alcun privilegio; ma ha il grande vantaggio di rendere possibile il dialogo critico reale con tutte. In questo modo, senza pericolo di imposizione di alcun tipo, la tradizione biblica può dispiegare la propria profondità e ricchezza, offrendola alle altre religioni, mentre si lascia interrogare e, a sua volta, arricchire da loro. Perché allora, all’interno di questo dialogo e ormai a posteriori, ci sarà spazio per stabilire paragoni e rendere evidenti i motivi per cui noi cristiani crediamo che nella Bibbia si sia raggiunta una rivelazione che nel suo insieme — non in tutti i dettagli! — risulta la più completa e riveste addirittura carattere ultimo e definitivo.
significato della rivelazione in Cristo Si tratta, come si vede, di un tema delicato e decisivo. Però più delicato e decisivo risulta il secondo, peraltro intimamente collegato: il significato che noi cristiani attribuiamo al culminare della rivelazione in Cristo. Nel linguaggio della “confessione” gli Atti degli Apostoli arrivano ad affermare: “In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,12). Però la riflessione più austera della “teo- logia” deve precisare l’intenzione oggettiva, cercandone il vero significato, in modo che non contraddica la volontà salvifica universale di Dio, “il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati” (1 Tm 2,4) né, come ha detto il Concilio, neghi tutto quanto nelle altre religioni “c’è di vero e santo”. Da subito è opportuno riconoscere, allora, che non può trattarsi di una negazione che escluda gli altri, ma di un’affermazione cordiale ed entusiasta del proprio vissuto, così tipica del linguaggio dell’amore: “Tu sei unica o unico per me”. Per tanto non può mai indicare una dialettica intransigente del tutto o niente, del vero e falso, ma un dialogo cordiale del buono e migliore, del vero o più vero, nella consapevolezza che la conclusione non si può proclamare a priori né, tanto meno, imporre con la forza, ma deve essere frutto di analisi critica e discussione dialogante. Questo è peraltro quanto accade di fatto: chi sceglie di appartenere a una religione sta manifestando, con coscienza più o meno esplicita e rigorosa, che nel suo insieme la considera migliore, più completa e convincente delle altre. Il che succede anche in religioni che, come l’induismo o il buddhismo, paiono proclamare l’uguaglianza di tutte. “Coloro che adorano altri dei con fede e devozione, adorano anche me, anche quando non osservano le forme usuali. Io sono l’oggetto di ogni adorazione, il suo recettore e Signore”, dice Krishna (Bhagavad-Gita IX). Pericolosa non è la
scelta, ma il dogmatismo; non è la scelta, ma l’esclusivismo. Inoltre, com’è indicato all’inizio, un atteggiamento aperto e umile davanti al Mistero non cerca di appropriarsi di nulla, ma di condividere tutto, vedendo in ogni differenza non una minaccia, ma una promessa di progresso e completamento.
insufficienza delle categorie: esclusivismo, inclusivismo, universalismo Il cambiamento che tutto ciò presuppone fa sì che le categorie finora usate per affrontare il problema risultino oggi insufficienti. Alcune in modo così chiaro da esigere semplicemente un rifiuto. Altre, mostrandosi utili, chiedono di essere profondamente riformulate. Alle prime appartiene, senza dubbio, l’esclusivismo, il quale presupponeva — letteralmente —che tutte le persone collocate fuori dall’orbita cristiana fossero destinate alla condanna eterna: è il famoso “Nessuna salvezza fuori della Chiesa”. Francis A. Sullivan, che fa la storia dettagliata della “atroce formulazione di questa dottrina”, indica che su questo punto ancora “nell’ultimo quarto del XVIII secolo erano sostanzialmente d’accordo” cattolici e protestanti. Oggi la semplice formulazione suscita un rifiuto così istintivo che costituisce la migliore dimostrazione della sua falsità. Si capisce che di fronte a questa teoria sia nato l’ inclusivismo, che ha costituito un grande progresso. Il suo fondamento cordiale, che costituisce la sua verità incancellabile, si radica nel riconoscimento che salvezza e bontà non sono esclusive dei cristiani, ma sono anche lì dove qualcuno, a partire dalla propria religione, risponde all’appello profondo del Signore. Qualcosa che, in definitiva, è già stato detto da Gesù di Nazaret negli stessi Vangeli: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21); o, con maggior rigore, quando nella parabola del giudizio finale afferma che chi conosce davvero Dio è colui o colei che pratica l’amore reale, sebbene teoricamente non professi la fede. In questa linea si muoveva la teoria patristica dei logoi spermatikoi, che nelle verità dei filosofi vedeva i “semi di verità” che non venivano annullati, ma, al contrario, arrivavano alla loro pienezza nella rivelazione di Gesù. Karl Rahner, col suo “cristianesimo anonimo”, ha aperto strade e detto cose memorabili in materia. E a partire dal Vaticano II l’accettazione di questa visione di fondo è divenuta patrimonio praticamente unanime della teologia. Però il limite di questa categoria consiste in due punti importanti. Da una parte, nella mancanza di realismo storico, quando pretende che sia la “grazia cristiana” a operare in tutte le religioni. Dall’altra, nel fatto che, pretendendo che “tutta la verità” delle altre religioni sia già inclusa nel cristianesimo, rende impossibile un dialogo realista, che non si riduca a mera strategia retorica. Non possiamo dare l’impressione che tutte le religioni, per il fatto di essere vere e condurre a Dio, debbano passare per la fede cristiana, poiché la storia mostra che Dio, a seconda delle circostanze e delle possibilità, ha seguito e segue vie specifiche con ciascuna. L’alternativa all’inclusivismo è rappresentata dal pluralismo o universalismo, sostenuto principalmente da John Hick e, poi, da molti altri. Anche questa categoria riconosce qualcosa di fondamentale e indiscutibile: il fatto che la risposta a Dio è data sempre nel proprio tempo e nella propria cultura. Per questo dicevamo che tutte le religioni sono vere. E per questo non può stupire che questa posizione, per il superamento dell’etnocentrismo e per il suo spirito di rispetto e tolleranza, susciti oggi una spontanea simpatia. Tuttavia, se prima parlavamo di mancanza di realismo storico, adesso bisogna parlare anche di mancanza di realismo antropologico. Se da parte di Dio l’universalismo è totale e assoluto, senza favoritismi, “elezioni” o “preferenza di persone”, da parte umana le risposte non sono mai uguali né simmetriche. Da ciò deriva il fatto che perfino nello stesso ambito culturale esistano religioni diverse e addirittura contraddittorie in aspetti importanti. Ancor più decisivo: in ogni religione c’è sempre un’insoddisfazione, una necessità di cambiamento e purificazione, che si manifesta in movimenti profetici e di rinnovamento, quando non in conflitti e rotture (si pensi pure che quanto più si studia lo stesso Nuovo Testamento, tanto più si apprezzano le profonde differenze e contrapposizioni tra le diverse teologie contenutevi). Il fatto stesso che i più radicali sostenitori dell’universalismo debbano distinguere tra “grandi” e “piccole” religioni indica in modo incontrovertibile che esistono criteri di discriminazione per distinguere la maggiore o minore profondità, completezza o purezza; altrimenti il mero numero di adepti diventerebbe criterio
di verità.

“one natio one blood”

abbraccio

un piccolo grande gesto dal valore incommensurabile!

Ieri a Islamabad in Pakistan si è ripetuto un piccolo gesto che meriterebbe le prime pagine dei giornali e che, al contrario, viene pressoché ignorato. Una catena umana di più di 300 musulmani hanno composto una catena umana per circondare e proteggere simbolicamente come “scudi umani” la chiesa di Our Lady of Fatima mentre era in corso la celebrazione della Messa. Una risposta all’attacco che era avvenuto il 22 settembre scorso a Peshawar provocando oltre 100 vittime. Nel corso della manifestazione organizzata dal gruppo Pakistan For All, il Mufti ha letto alcuni passi del Corano che invitano alla tolleranza e alla pace e il parroco, dopo la celebrazione è uscito per unirsi al gruppo dei manifestanti e stringere la mano al religioso islamico e al coordinatore del gruppo, il musulmano Mohammad Jibran Nasir. La gente innalzava cartelli con la scritta One Nation one blood (Una Nazione un sangue). È la terza manifestazione di questo genere dopo quelle organizzate nelle scorse domeniche a Karachi e a Lahore. Ogni ulteriore commento rischia soltanto di sminuire la portata di queste iniziative che parlano già da sé. Di incontro, di umanità, di fraternità, di pace ben oltre la semplice tolleranza. La cronaca sembra dare più ascolto (ed eco) al tragico fragore delle bombe che a queste iniziative, ma siamo convinti che la storia scriverà pagine nuove proprio a partire da questi gesti.

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