imparare a saper dire a chiunque ‘altro’ “tu non sei mio nemico” attraverso l’ospitalità

praticare l’ospitalità per dire all’altro «non sei mio nemico»

intervista a Michel Agier

a cura di Giampaolo Cherchi
in “il manifesto” del 13 settembre 2019

«Nel linguaggio etnologico la persona è l’informatore privilegiato, quell’individuo che rende comprensibile l’intero gruppo sociale»

A esserne sicuro è Michel Agier, directeur d’études presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, dove conduce ricerche in ambito etnografico sulla globalizzazione e sui fenomeni migratori, occupandosi anche di antropologia urbana. Quest’anno sarà per la prima volta ospite al FestivalFilosofia, dove domani terrà a Carpi una lectio magistralis sul divenire stranieri. Argomento che ben si attaglia al tema scelto per la nuova edizione del festival: Persona: questione delicata, da maneggiare con cura.

«Si tratta di un vecchio paradigma etnografico – continua Agier – che è andato incontro a diverse critiche e che oggi è stato portato fuori dalle sue cornici tradizionali, reso in qualche modo più funzionale a una società globalizzata e frammentata».

In che senso funzionale? Sia in un contesto come i legami di parentela che in quello moderno dello Stato, il concetto di persona si riferisce a una relazione fra la parte e il tutto. Una relazione fatta di vincoli e di libertà, di diritti e doveri. Ma nella definizione di questo concetto ne intervengono inevitabilmente altri, come quello di identità, che può tuttavia riferirsi non solo al lignaggio (genitori, antenati, discendenti) ma anche alla cittadinanza, ovvero alla precisa modalità di appartenenza istituzionale di un individuo alla società.

E che differenze ci sono fra la persona e il cittadino?

La domanda è mal posta. La cittadinanza non ha completamente soppresso la persona, proprio perché è sempre legata alla nozione di identità. Ci si dovrebbe piuttosto chiedere in che modo una persona immersa in una rete sociale (alla quale è legata da rapporti di parentela o alla quale ritiene per varie ragioni di appartenere) riesce a emanciparsi e diventa il soggetto di un discorso pubblico e di un agire politico? Questa è la domanda che mi pongo nel mio lavoro. E la risposta non si trova nella figura dell’individuo isolato ma piuttosto nei meccanismi di formazione di nuove comunità politiche, che danno senso alla nozione di persona, oggi in un modo più libero ed effimero rispetto al passato, più «liquido» come direbbe Bauman.

Nel suo lavoro fa spesso riferimento alla nozione di «campo» (si pensi al volume «Un monde de camps», ma anche al libro (tradotto da Ombre Corte)

«La giungla di Calais. I migranti, la frontiera e il campo). Cosa intende e qual è il suo coinvolgimento teorico e politico con il concetto di «campo»? A un certo punto le mie ricerche mi hanno imposto di dover dare un senso alla nozione di campo: in Africa o in Medioriente, per esempio, il «campo» non si riferisce affatto ai campi di sterminio o alla Shoah, come avviene invece in Europa, dove la dimensione tanatopolitica domina la riflessione (pensiamo ad Agamben). Certo, esiste una dimensione oscura in qualsiasi forma di campo, anche nei campi umanitari: una forma di «morte sociale» che anticipa e prepara alla morte fisica, come diceva Hannah Arendt. È qualcosa che ha a che fare con la scomparsa del quadro sociale ordinario delle persone e con la loro separazione in uno spazio la cui stessa esistenza, sociale e politica, è negata. Ma detto questo, il campo rimane anche uno spazio di vita: ogni agglomerato umano ricrea forme di vita, sociali, familiari, culturali, politiche. Il campo non è uno spazio isolato da tutto questo, anzi il contrario. Esso acquisisce assai presto una relativa autonomia che lo rende persino una città in via di realizzazione. Si è spesso visto nei campi di Africa, Kenya, Uganda, ecc. Così come nei campi palestinesi, che esistono da 70 anni. Lo abbiamo visto anche a Calais di recente, con il campo chiamato «giungla», che aveva raggiunto diecimila abitanti, e con all’interno ristoranti, scuole, chiese e moschee, e con una certa autonomia politica. Credo sia proprio questa trasformazione del campo in un luogo reso vivibile per i suoi abitanti che ha portato il governo francese a distruggerlo.

Un altro aspetto fondamentale del suo lavoro di ricerca è orientato verso una antropologia delle migrazioni, specialmente per quanto riguarda le logiche dello sviluppo urbano. Nel suo «Anthropologie de la ville» (purtroppo non tradotto in italiano) sottolinea l’attualità dell’idea lefebvriana del «diritto alla città» soffermandosi però sulle situazioni di transito e di passaggio, in modo particolare sulla condizione dei rifugiati e sulle dinamiche che portano alla produzione di figure quali l’escluso, o più genericamente lo straniero. Come si diventa stranieri?

Il legame tra mobilità umana e città è sostanziale, perché la storia della città è sempre legata a quelle di migrazione, a insediamenti di gruppi provenienti da altri luoghi, più o meno vicini o lontani, che si sono stabiliti in un preciso posto disegnando dei confini. Ecco perché in quelli che definiamo «margini» urbani è possibile osservare dal vivo la genesi della città. Questo è ciò che chiamo antropologia della città: una genesi sociale, culturale, politica ed economica della città che può essere osservata direttamente. E ciò avviene anche nel campo, nella baraccopoli, come nelle favelas o negli slums: si tratta di mostrare la ricorrenza di questa dinamica di arrivo, occupazione e insediamento dell’habitat, e dell’assetto urbano che viene ad assumere. Il tutto «in tempo reale». I rifugiati che vivono nelle nostre città sono l’esempio di come spesso il diventare «straniero» comporti la perdita dello status giuridico di «persona».

Come si pone la questione dei diritti?

Un tema decisivo per la definizione dei rapporti tra lo straniero e lo stato di accoglienza, che misura la distanza dalla cittadinanza. Gli stranieri non sono uguali da questo punto di vista. Per esempio, in Francia, uno straniero europeo avrà il diritto di voto alle elezioni comunali, mentre questo non è il caso di un non europeo, anche se vive in Francia da anni. Oppure, a seconda del paese, il diritto al lavoro può essere concesso più o meno rapidamente o per niente ai richiedenti asilo. Tutti possiamo stare su un asse verticale di diritti e secondo i contesti vediamo che il cursore è più o meno alto o basso, in alto c’è l’ideale del cittadino del mondo, ovunque a casa, libero e dotato di tutti i diritti umani, praticamente non più straniero. E alla base di questo asse di diritti, al contrario troviamo lo straniero assoluto, senza alcun riconoscimento e senza un nome. Siamo tutti nello stesso mondo, collegati l’uno all’altro. Quel che oggi caratterizza le relazioni tra i paesi è la domanda di uguaglianza, nell’ottica di un cosmopolitismo sempre più necessario. La risposta può trovarsi solo nel riconoscimento di una pari condizione cosmopolita per tutti. E in che modo ritiene possa essere realizzabile, politicamente, una simile condizione? Esiste un diritto globale alla mobilità, che è ineludibile. Si tratta di attuarlo su un piano legale e politico. E credo che un modello valido sia il principio dell’ospitalità. Immanuel Kant diceva che l’ospitalità consiste semplicemente nel dire all’altro «non sei mio nemico». E i modelli per una sua applicazione concreta mi pare non manchino: lo stesso ospedale, in quanto luogo destinato al prossimo, costituisce un esempio storico concreto; e se non dovesse bastare si può guardare a fenomeni contemporanei, come Riace. Si tratta di dare una cornice giuridico-politica. Il dicembre scorso a Marrakech si è tenuta una conferenza intergovernativa organizzata dalle Nazioni Unite, per discutere sull’adozione di un patto globale sulla migrazione, e si è avuta l’impressione che si trattasse solo dell’ennesimo incontro fra stati per parlare della migrazione su scala globale. Tutto questo però è bastato per far reagire i partiti di estrema destra, soprattutto in Europa. La soluzione realistica in ogni caso è quella di procedere con determinazione in questa direzione. In Francia il Consiglio costituzionale ha fatto appello al concetto di «fraternità» nella Costituzione per invalidare una decisione del tribunale che penalizzava i gesti di solidarietà e accoglienza dei migranti in una situazione irregolare. Allo stesso modo la parola «ospitalità» può aiutare ad aprire le porte: ad affrontare i fenomeni e i problemi senza per forza adottare le logiche della destra.

il Dio straniero … che viene sempre da lontano e ha bisogno sempre di noi

anche Dio è straniero

Perché viene da lontano: dall’inizio dei tempi, fino a farsi prossimo, un giorno, improvvisamente.

Perché entra a casa nostra con un misto di aspettative e di timore: spesso non riconosce la nostra lingua particolare, lui che vorrebbe parlarne una universale.

Perché esiste, ma per manifestarsi, per avere un’identità, un passaporto, un timbro sul foglio di via, ha bisogno di noi. Dei nostri occhi, delle nostre mani, del nostro muoversi e camminare.

Perché non pretende alcunché da noi, ma, appena arrivato, si rende disponibile anche per i lavoretti in nero, prova a donarsi così com’è. Perché vuol solo essere accettato.

Perché sui barconi condivide il posto bagnato in cui coricarsi, alla mensa della Caritas il pane e la pastasciutta, coi compagni il dolore per una madre lasciata in Africa e l’incertezza della vita. Condivide. Sempre.

Perché serve: badante nelle case di chi non riesce obiettivamente ad accudire i propri vecchi, contadino dove nessuno raccoglie più i pomodori, manovale sotto il sole d’agosto. Serve, perché spesso gli mettono in tasca pochi spiccioli all’ora, e poco importa se si cade da un cornicione, se cade chi probabilmente non esiste.

Perché non giudica, ma è sempre giudicato: dal medico all’ingresso di frontiera, dal questurino, dal datore di lavoro, da noi che spesso lo guardiamo male perché un po’ sporco e strano. E, oggi, anche dai personaggi del finale dei vangeli: i nuovi governatori, i nuovi re edomiti o nabatei, e soprattutto, come allora, da un popolo intero che grida “crucifige”. Quando va male qualcosa, anziché incolpare noi stessi ce la prendiamo con lui, un Dio che è capro espiatorio.

Perché è sempre in croce: dell’ingiuria, della calunnia, della malafede, dell’ignominia, del crimine, della colpa, della miseria e della malattia.

Perché muore: di colpi di proiettile tirati per caso, di ruspa sui campi di soggiorno, di risse, di inseguimenti; per annegamento, per asfissia, per corpo contundente. Soprattutto, muore di indifferenza.

Perché risorge. In chi dice no alla cultura della paura e della morte. Nelle suore della Carità minacciate dai naziskin; nei preti di strada, di tutte le forme di strada. Nei sindacalisti e nei politici che hanno ancora una coscienza. In ciascuno di noi, se solo lo si vuole, senza fare chissà che.

papa Francesco contro la paura dello straniero

migranti

l’appello del papa

“no alla paura dello straniero”

il papa contro “chi alza nuovi muri”

“i cristiani sono fratelli di ogni uomo, serve una globalizzazione della solidarietà”

 papa Francesco torna a parlare di immigrazione e a chiedere accoglienza:
Le paure si concentrano spesso su chi è straniero, diverso da noi, povero, come se fosse un nemico“,
dice Bergoglio parlando nella basilica romana di Santa Maria in Trastevere, in occasione dei 50 anni della Comunità di Sant’Egidio

“Il mondo oggi è spesso abitato dalla paura”, aggiunge il Pontefice, “E anche dalla rabbia che è una sorella della paura. È una malattia antica. Il nostro tempo conosce grandi paure di fronte alle vaste dimensioni della globalizzazione. E allora ci si difende da queste persone, credendo di preservare quello che abbiamo o quello che siamo. L’atmosfera di paura può contagiare anche i cristiani che, come quel servo della parabola, nascondono il dono ricevuto. Se siamo soli, siamo presi facilmente dalla paura“.

Per questo Papa Francesco chiede di ripensare la globalizzazione: “Il mondo è diventato globale, l’economia e le comunicazioni si sono unificate. Ma per tanta gente, specialmente per i poveri, si sono alzati nuovi muri”, sottolinea il Capo della Chiesa,

Le diversità sono occasione di ostilità e di conflitto. È ancora da costruire una globalizzazione della solidarietà e dello spirito. Il futuro del mondo globale è vivere insieme: questo ideale richiede l’impegno di costruire ponti, di tenere aperto il dialogo, di continuare a incontrarsi. Il cristiano, per sua vocazione, è fratello di ogni uomo, specie se povero e anche se è nemico. La Chiesa è segno di unità del genere umano, tra i popoli, le famiglie, le culture. Dobbiamo creare una società in cui nessuno sia più straniero: è la missione di valicare i confini e i muri, per riunire“.

lo ‘straniero’ non esiste

e comunque “ero straniero e mi avete accolto”

 

ACCOGLIENZA

La visione del “Giudizio finale” nel Vangelo di Matteo fa parte della cultura universale. Ci ha pensato Michelangelo, con il magnifico affresco della Cappella Sistina, capolavoro assoluto dell’arte, a fissarla indelebilmente nella mente di ciascuno.

Di qua gli eletti, di là i dannati, nel mezzo Cristo giudice. Sono le parole di Gesù il metro con cui misurare il destino dell’umanità: “ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi“. Tutto qui: sei azioni concrete per avere in eredità il Regno.

La parabola è tanto chiara quanto antica. In fondo è il cuore della nonviolenza attiva. Se accogli e ti apri al prossimo, ognuno vivrà meglio. Il luogo dove sperimentare questa verità è la “casa comune”, il mondo in cui viviamo, che diventa Terra promessa, Regno di Dio, se i sei precetti (opere di misericordia corporale, dice la dottrina) vengono rispettati; se invece per paura o egoismo le sei buone azioni vengono disattese, la casa comune diventa un supplizio, un inferno (“ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato: via da me, maledetti!”).

Qui non c’entra l’essere credenti o atei, religiosi o laici, è l’esperienza concreta che ci dice chiaramente quanto sia vero l’insegnamento contenuto nel Vangelo di Matteo: la salvezza o la condanna non sono un premio o un castigo che arrivano dal cielo o dal divino, ma sono la conseguenza pratica, logica, inevitabile, frutto delle nostre scelte e della nostre azioni.

L’Europa di oggi lo sta sperimentando, sta vivendo questa prova decisiva di masse “straniere” che arrivano da lontano e chiedono di entrare. Si può tentare di chiudere la porta (muri, fili spinati, leggi escludenti, respingimenti, ecc.) ma verrebbe fatalmente sfondata, oppure tenerla aperta (governare il fenomeno con politiche di accoglienza, di cooperazione, creazione di opportunità, libertà di movimento, ecc.).

Il vecchio continente si gioca su questo il proprio futuro: se si chiude sarà condannato al declino. La fuga in atto dall’Africa e dal Medio Oriente ha cause ben precise, anche storiche, che sono di origine economica, un’economia distorta che uccide e provoca guerre. Il movente sono le materie prime e le fonti energetiche: non solo petrolio e gas, ma anche oro, uranio, coltan e altri minerali preziosi necessari all’elettronica. Dopo le conquiste e le colonie dei secoli scorsi, oggi assistiamo ad una nuova depredazione in atto, cui questa volta partecipa anche la Cina.

Territori impoveriti, deviazioni di bacini acquiferi, immissioni di gas serra in atmosfera, hanno causato variazioni climatiche, surriscaldamento, desertificazioni che aggiungono profughi ambientali ai profughi politici, profughi di guerra, profughi economici.

La geo-politica mondiale ha bisogno di essere difesa militarmente con le armi. Il nostro paese, schierato politicamente con l’alleanza atlantica, ma proiettato geograficamente nel Mediterraneo, ha un ruolo importante come accesso all’Europa per milioni di persone.

Siamo pienamente coinvolti, nel bene e nel male. Da una parte facciamo salvataggi, dall’altra esportiamo bombe. E dunque, in definitiva, piantiamo semi di guerra e raccogliamo rifugiati. Dentro alla grande storia delle migrazioni di oggi, ci sono milioni di storie individuali. Storie annegate in fondo al mare (saremo mai perdonati per questo?), o storie di salvezza e di speranza.

Ci vuole un punto di vista particolare per superare la paura, per scoprire storie positive, per mettere in relazione competenze e progetti. L’immigrazione coinvolge i temi dei diritti, dell’ambiente, della pace. Il forestiero che chiede ospitalità è una sfida alla nonviolenza: ci dice che sulla terra nessuno deve essere escluso.

 

“Amate il gher (lo straniero) perché foste gherim, stranieri!” Dt 10,19; 24,17

“io sono stato straniero”

di Enzo BianchiBianchi

in “la Repubblica” del 2 ottobre 2016

un estratto del discorso che Enzo Bianchi, priore della Comunità monastica di Bose, pronuncerà in Senato in occasione della Giornata nazionale per la memoria delle vittime dell’immigrazione

Il titolo assegnato a questo mio intervento riecheggia una parola indirizzata a più riprese nella Bibbia al popolo di Israele: “Ricorda che sei stato straniero nel paese di Egitto”, oppure: “Tu agirai così perché anche tu sei stato straniero!”. Parole che sono un invito a sentirsi stranieri e assumere la responsabilità verso gli stranieri che giungono a noi nella loro irriducibile e di primo acchito insondabile diversità.

Per questo risuona il comandamento: “Amate il gher (lo straniero) perché foste gherim, stranieri!” (Dt 10,19; 24,17; Esodo 22,20; 23,9; Lev 19,34). Ecco il paradigma: ciascuno di noi è straniero rispetto ad altri e proprio per questo può comportarsi rispetto allo straniero come lui vorrebbe che altri si comportassero nei suoi confronti. Ma vorrei affrontare questo tema usando come chiave interpretativa il testo attribuito a Shakespeare che ci invita a “vedere gli stranieri”. Rievocando la minaccia di espulsione dal paese di persone “diverse” per religione e nazionalità, il Bardo invita a interrogarsi sui motivi di questa migrazione, poi esorta a immedesimarsi nei fuggiaschi per trarne le conseguenze a livello di comportamento etico. “Vedere gli stranieri” può allora declinarsi in diverse modalità — vederli da lontano, vedere se stessi, vederli da vicino, vederli come concittadini — e sfociare in una dimensione inattesa: gli stranieri come dono.

1. Vedere gli stranieri da lontano: la lungimiranza. Di fronte al fenomeno migratorio — antico quanto il mondo — e alla connotazione assunta in Italia appare fuorviante definirlo “emergenza”. Sarebbe più sensato considerarlo un’inevitabile conseguenza di fattori legati ai nostri comportamenti, a cominciare da guerre, sete di potere e sfruttamento iniquo delle risorse del pianeta. Da sempre è la fame che va verso il pane, non viceversa, e non ci sono né muri né mari capaci di fermare chi è talmente disperato da considerare un viaggio senza speranza preferibile alla certezza di una morte atroce nella propria terra. O pensiamo che se uno avesse un’aspettativa di sopravvivenza “a casa sua”, metterebbe a repentaglio la vita in un’avventura bestiale? “Vedere gli stranieri” da lontano significa lungimiranza sulle cause che li muovono. Significa capacità di pensare in grande per agire “politicamente” in senso forte e responsabile, così da colpire poteri e persone che prosperano sulla morte degli altri, dai trafficanti di armi a quelli di esseri umani.

2. Vedere se stessi negli stranieri: immedesimazione e identità. Non dovrebbe essere difficile per noi applicare questo paradigma, la nostra “stranierità” è ancor oggi riscontrabile e vissuta. Lo straniero è lo specchio della stranierità che ci abita, è la faccia nascosta della nostra identità. Riconoscendo la stranierità in noi, possiamo compiere un cammino che non rimuove, non teme, non demonizza il forestiero. Scrive Julia Kristeva: “Lo straniero ci abita: è la faccia oscura della nostra identità. Riconoscendo lo straniero in noi, possiamo non detestarlo in lui”. E Edmond Jabès: “Lo straniero ti permette di essere te stesso, facendo di te uno straniero”. Questo atteggiamento eviterebbe il rischio di assolutizzare la propria identità, con arroccamenti difensivi dei valori. L’identità, sia personale che comunitaria, si costruisce attraverso l’incontro e la relazione con gli altri, diversi e stranieri. L’identità non è statica ma un divenire, non è monolitica ma plurale. I risorgenti localismi generano spinte xenofobe e razziste, tendono all’esclusione dell’altro. Lo straniero invece è portatore di una relazione che riguarda il nostro essere più profondo e ci fa cogliere il significato del monito biblico: “Ama lo straniero perché tu sei stato straniero” e continui ad esserlo rispetto a un orizzonte che non hai ancora attraversato.

3. Vedere gli stranieri da vicino: vincere le paure. Giunto da lontano, lo straniero è radicalmente altro. È altro da me: era lontano e ora mi è vicino. Ora compete a me farmi suo prossimo, avvicinarmi a lui. Ma proprio in questo incontro emerge la paura. Anzi, due paure: la mia paura e quella dello straniero. Innanzitutto la sua paura, quella di chi è venuto in un mondo a lui estraneo, dove non è di casa e non ha casa. La mia paura, invece, è quella di ritrovarmi di fronte a uno sconosciuto entrato nella “mia” terra. Due paure a confronto. La paura va superata, ma per farlo è necessario affrontarla e non rimuoverla. Lasciata nelle mani degli imprenditori della paura, essa lievita fino a paralizzare ogni azione e a sprigionare mostri. Se la si nega, si rischia di idealizzare la differenza dello straniero. La paura va razionalizzata, assunta, così da trasformarla in stimolo e in ingrediente per soluzioni.

4. Vedere gli stranieri come concittadini. La razionalizzazione delle paure richiede che ci si interroghi su quali modelli di incontro tra stranieri e italiani attuare. Potremmo identificare quattro modelli: assimilazione, inserimento, integrazione, cittadinanza. Con una domanda di fondo: quando e fino a quando una persona è considerata straniera? È straniero l’immigrato giunto come tale, anche se infante, e lo rimane per tutta la vita? La con-cittadinanza è lo spazio comune in cui diviene impossibile continuare a parlare di “noi” e “loro” e in cui la logica dell’uguaglianza attiva diviene abito mentale e culturale dell’insieme della società.

5. Vedere gli stranieri per quello che portano in dono: la relazione. Ogni essere umano è razionale e relazionale, ed è grazie alle relazioni che può costruire se stesso e diventare un soggetto. Ma la relazione con gli altri non va da sé: si tratta di assumere comportamenti che rendano possibile l’incontro nel riconoscimento della dignità dell’altro. Il cammino è esigente e faticoso, ma senza l’altro non è possibile avanzare nella propria umanizzazione. Riconoscere l’altro nella sua differenza significa ammetterlo e, quindi, accettarlo. Il dialogo non può avere come fine l’uniformità, ma il fare cammino insieme, il ricercare un “consenso”, un senso condiviso a partire da presupposti differenti. Nel dialogo si modificano i pregiudizi che abbiamo degli altri e di noi stessi. Senza affermare e vivere in primo luogo la fraternità, anche la libertà e l’uguaglianza sono fragili. Vedere gli stranieri come compagni di umanità restituisce pienezza al meglio di noi stessi e della società. Conclusione. In uno splendido libro sui lavoratori immigrati in Europa uscito negli anni ‘70, John Berger afferma: “Per mostrare la vita dei lavoratori ci occorrevano soprattutto le fotografie”. La fotografia è un mezzo potente per metterci di fronte al dolore degli altri. Ricordo una foto del 2009 su Paris Match: un immigrato respinto in Libia, inginocchiato, afferra implorante con le mani nude la mano coperta da un guanto azzurro di chi lo sta riportando là da dove lui voleva andarsene, foto che contiene più verità di ogni ragionamento. Ecco la verità che non andrebbe mai dimenticata, ecco il momento applicativo di una politica di respingimento colto nella fisicità del “no” a un disperato. Le affermazioni di principio devono confrontarsi con un volto preciso, entrare in un faccia a faccia con una persona che chiede asilo, futuro, accoglienza. Dietro alle decisioni sull’immigrazione vi è la sfida che il corpo del povero porta con sé: e la nostra risposta non può essere un piede che schiaccia la mano appesa a un barcone. La fotografia coglie l’elementare verità che sta dietro a ogni decisione: che interferirà con il corpo di un uomo, con il suo volto, dunque con la sua anima, la sua storia, la sua famiglia. Fino al punto di aiutare la vita o di farsi complice della morte. Scrive Edmond Jabès: “Avvicìnati, dice lo straniero. A due passi da me sei ancora troppo lontano. Mi vedi per quello che sei tu e non per quello che io sono”. Stiamo parlando di vedere gli stranieri, ma l’unica cosa seria è incontrarli nel faccia a faccia, ascoltare direttamente le loro storie, vederli nell’occhio contro occhio.

il pasticcio leghista di allontanare il Crocifisso dai crocifissi

il crocifisso e lo stranierocroce fiorita

prendendo spunto da alcune vicende che hanno avuto luogo a Cascina, dove da poco è stata eletta sindaco un’esponente della Lega nord, il teologo don Severino Dianich  ha formulato  una riflessione sul rapporto tra certi segni esteriori della fede – come il crocifisso – e i comportamenti di accoglienza che dovrebbero caratterizzare sempre il cristiano

 
Il Crocifisso e lo straniero

Il suo ufficio ne era sprovvisto: Susanna Ceccardi, esponente della Lega, neo sindaca di Cascina, ha deciso di affiggere un crocifisso a una delle pareti del suo ufficio. Postando su facebook il gesto (vedi foto). Pochi giorni prima, in Prefettura, la Ceccardi aveva partecipato a una assemblea dei sindaci sull’accoglienza dei profughi. Ci sarebbero, infatti, nuovi profughi da ripartire sulla provincia di Pisa e la Prefettura chiede di innalzare le quote per ciascun comune. Rompendo il silenzio, la sindaca di Cascina aveva manifestato la sua contrarietà al fatto che «arrivino altri finti profughi nel nostro comune». I due gesti sono in contraddizione? Il teologo don Severino Dianich sostiene di sì e lo motiva in questo intervento:

di Severino Dianich

Dianich

Le chiese di altre regioni d’Italia da anni stanno sperimentando, come «caso serio» per la fede, il confronto con le tesi politiche di coloro che esibiscono la loro sedicente difesa della tradizione cristiana, intendendo bloccare l’accoglienza degli immigrati e dei profughi che fuggono dalle regioni funestate dalla persecuzione e dalla guerra. Il fenomeno sta ora coinvolgendo anche le comunità cristiane della nostra regione.

I drammi delle migrazioni di massa nel mondo, che agitano oggi, come del resto è avvenuto sempre, lungo tutta la storia, la vita sociale e politica delle nazioni, sono di grande complessità. È quindi inevitabile che anche i fra i credenti nel vangelo di Gesù si diano valutazioni diverse e si propongano soluzione assai differenziate. In questa legittima e feconda pluralità c’è però un limite, che il grande teologo Von Balthasar negli anni Sessanta avrebbe definito «il caso serio». Egli sostiene che è «caso serio» per la fede, dal quale non si può deflettere, la presa di posizione del credente di fronte alla croce: accettare che sia considerata un mito, un’analogia, un simbolo è una negazione del cristianesimo. È ciò che sta avvenendo quando si mette la difesa dell’identità dell’Europa sotto l’egida del crocifisso e, allo stesso tempo, si intendono sbarrare le porte della nostra terra di fronte alla tragedia di coloro che fuggono dalle loro case a causa della persecuzione e della guerra, con la pretesa di difendere in tal modo la «civiltà cristiana».

Il crocifisso attaccato alla parete, che nel passato rappresentava la fede nel vangelo di Gesù, viene trasformato nel simbolo di una identità etnica e culturale, diventa un puro oggetto che, al modo del logo di una corporation, dovrebbe avere la funzione di rappresentarne gli interessi. A questo punto il crocifisso affisso alla parete non ha più nulla a che fare con il Crocifisso. C’è un uomo, infatti, su quella croce, a cui si è tolta la parola, visto che Gesù vi fu inchiodato, fra gli altri motivi, anche perché ha voluto che il suo popolo rompesse i confini della sua antica identità di unico popolo di Dio e accettasse di diventare un popolo universale.

Anche in Israele al tempo di Gesù, in una situazione ben più tragica, si poneva la questione della preservazione dell’identità del popolo di Dio, l’Israele dalla grande tradizione della legge di Mosé, con la sua imposizione di non allacciare rapporti con lo straniero. Ma la predicazione di quel pretendente messia sembrava la mettesse in pericolo, con quel suo predicare che Dio ama tutti, al di là di ogni confine. Quando nella sinagoga di Nazaret Gesù volle ricordare che Eliseo aveva guarito Naaman il siriano, invece dei molti lebbrosi di casa sua, tutti i presenti «si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù» (Lc 4,20-29). Quando in seguito dirà: «Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio», le sue parole dovettero suonare pericolosamente sovversive, se «in quel momento si avvicinarono alcuni farisei a dirgli: “Parti e vattene via di qui, perché Erode ti vuole uccidere”» (Lc 13,29-31).

Un’altra volta ancora, quando, raccontando la parabola della vigna e dei contadini ribelli, Gesù prospettò che «la vigna» potesse venir tolta agli ebrei e il regno di Dio essere dato ad altri popoli, proprio «in quel momento, gli scribi e i capi dei sacerdoti cercarono di mettergli le mani addosso» e, se non fu linciato in quella occasione, fu solo perché ebbero «timore della folla» (Lc 20,9-19). Certamente se ne saranno ben ricordati quando, seduti nel sinedrio, procederanno alla sua condanna. Per lui, invece, si trattava di un messaggio così decisivo, da avanzarlo come uno dei criteri con cui egli alla fine dei tempi giudicherà il mondo: «Ero straniero e non mi avete accolto» (Mt 25,43).

È quanto basta per ritenere, anche se non lo avesse detto il papa quando lo interrogarono a proposito dei progetti politici di Donald Trump, che «una persona che pensa soltanto a fare muri e non ponti, non è cristiana». Con tutto ciò, chi ne condivide l’impostazione avanzi le sue idee e se ne discuta liberamente nel dibattito politico, né i cristiani avranno alcun motivo per ritrarsene, partecipando liberamente e civilmente al confronto. Ma non possono accettare che si affigga il crocifisso sulla stessa parete sulla quale si progetta di affiggere le ordinanze necessarie per innalzare contro gli stranieri quelle barriere che il Crocifisso, quello in carne ed ossa, sacrificando la sua vita, volle fossero abbattute una volta per sempre.

 

Quando si innalza un muro è come se si dichiarasse guerra. A un popolo. All’umanità intera

non passa lo straniero?

editoriale di Mosaico di pace – maggio 2016 – 
http://www.mosaicodipace.it
Renato Sacco – coordinatore nazionale di Pax Christi

muro3

“(…) Quando si innalza un muro è come se si dichiarasse guerra. A un popolo. All’umanità intera, che ha diritto a vivere in pace al di là del luogo in cui si è nati. E che dire del principio inviolabile del ripudio della guerra, (esiste ancora!) sancito nell’articolo 11 della Costituzione italiana, ridotto a brandelli?
Sì, perché oggi le guerre non si dichiarano, si fanno e basta. (…)
Guerre che si fanno anche con i muri. Come se veramente gli stranieri fossero invasori, come se veramente potessimo credere che la sicurezza dipenda dal trincerarci tra fili spinati a destra e a manca. Come se si potesse interrompere questo esilio forzato di gente senza nome né volti senza fermare subito il commercio delle armi, in Paesi in guerra o in altri Stati che fanno da tramite.

muro1 E continuiamo a concludere ben più che redditizi accordi con il Qatar (dove ci saranno i mondiali di calcio nel 2022) o a inviare missili in Kuwait. Anche al Brennero, ora, si vuol costruire un muro. Stessi luoghi, stesse guerre, stesse retoriche. E spesso in nome di radici cristiane dell’Europa! E perché non ripartire proprio dal Brennero per indicare strade nuove? Pensiamoci.  (…)  Insomma, dal non passa lo straniero della prima guerra mondiale ai ghetti della seconda… sino ai muri della terza? No! Noi non ci stiamo.  Non ci resta, che resistere, sempre. Anche alle guerre non dichiarate. “

il messaggio biblico nei confronti dello straniero

e la bibbia accolse lo straniero

di Gianfranco Ravasi 

in “Avvenire” del 22 gennaio 2015

 

Ravasi

Non è difficile rilevare nella Bibbia, dopo una logica dell’esclusione, una dell’accoglienza, che costituisce l’ambito in cui Dio agisce per portare i figli d’Israele a essergli testimoni tra le genti. Come si è visto, Dio, per educare il suo popolo a non sentirsi un privilegiato, invia profeti, che invitano ad aprire il cuore e le braccia a tutti, e sapienti, che trovano i semi di verità dispersi in tutte le culture. A proposito dell’accoglienza rituale prendiamo ad esempio una pagina cruciale della Bibbia come il Decalogo. Cosa si legge nel comandamento del sabato? Che il riposo sabbatico deve essere praticato anche dal forestiero che dimora presso l’israelita (Es 20,10); anche lui ha diritto al riposo con l’ebreo. In alcuni passi legislativi dell’Antico Testamento, come nei libri del Levitico (16,29) e dei Numeri (9,14), si andrà oltre, affermando che anche lo straniero ha diritto a far festa nel giorno di Pasqua, e a partecipare addirittura a quella celebrazione che è forse la più ebraica di tutte: il Kippur, la solennità del digiuno, dell’espiazione delle colpe. Per il culto sinagogale il Kippur è la celebrazione che in assoluto contraddistingue l’ebreo nell’ambito della liturgia. Ecco, anche questa festa è aperta allo straniero, se vuole partecipare. E come non ricordare il Terzo Isaia che al capitolo 56 arriva al punto di definire il tempio di Sion come «casa di preghiera per tutti i popoli»? La stessa direzione è percorsa anche dal Primo Isaia al capitolo 2, quando descrive la scena di un’immensa processione di popoli attratti dalla parola del Signore e pronti a ritrovare la pace e la fraternità, «a non alzare più la spada contro un altro popolo» (2,2-5). Un passo poco conosciuto del profeta Sofonia, più o meno contemporaneo o di poco precedente a Geremia, ci presenta in proposito in un solo versetto un sorprendente bozzetto del tempio di Gerusalemme e del suo culto. Potrebbe trattarsi forse di un sogno, e sicuramente lo è ancora per noi cristiani che non possiamo attuarlo nell’interno delle nostre chiese con tutte le diverse confessioni dei credenti in Cristo. Ecco il ritratto di Sofonia 3,9 con una traduzione italiana molto vicina all’originale ebraico: «Io – dice il Signore – darò a tutti i popoli un labbro puro perché invochino il nome del Signore e lo servano tutti spalla a spalla». È bella quest’immagine del vedere gli uomini tutti uguali, non ce n’è uno che è più su, che sta sulla predella o nel recinto sacro, come avveniva nel tempio di Gerusalemme, perché più importante e più puro degli altri. Nessuno è inferiore all’altro quando si trova nel luogo di preghiera perché impuro o indegno, ma tutti sono spalla a spalla. Tutti aderiscono allo stesso Dio e tutti hanno il labbro puro quando pregano, anche se le loro invocazioni non sono forse formulate secondo i canoni necessari della ritualità. «Non dica lo straniero che ha aderito al Signore – sarà ancora la voce del Terzo Isaia al capitolo 56,3 –: certo il Signore mi escluderà dal suo popolo». La seconda logica dell’accoglienza, dopo quella cultuale, è quella sociale; un tema, tra l’altro, che sentiamo attuale e che è continuamente all’ordine del giorno nella nostra società. Stiamo vivendo un’esperienza che per molti versi sarà epocale e che qualcuno definisce come qualcosa di simile a quando ci furono le grandi immigrazioni e migrazioni dei cosiddetti barbari. In fin dei conti quelle genti erano semplicemente altre popolazioni, con un differente tipo di società e di civiltà, che nello scontro venivano però concepite come diverse, come molto più primitive. Tra parentesi, ricordiamo che, se è vero che talvolta l’evoluzione registra diversità, tuttavia non dobbiamo dimenticare che spesso il concetto di progresso è veramente molto relativo. Ebbene già nell’Antico Testamento, in diversi passi, troviamo un’importante ammissione che si estende poi anche a livello sociale e politico: «Vi sarà una sola legge per il nativo e per lo straniero che è residente in mezzo a voi» (Es 12,49). Unica è la legislazione quindi per l’ebreo e per lo straniero. Si potrebbe obiettare che dal punto di vista storico Israele probabilmente non ha messo in pratica questa norma, ma questo è un altro discorso. Molti, ancora ai nostri giorni, chiedono di
evitare assolutamente di parlare di qualsiasi vaga idea di parità di diritti tra nativi e stranieri. E questo è segno di paura. Tuttavia non ci dobbiamo dimenticare che la storia concreta ha il suo peso; la comprensione, quindi, è d’obbligo per capire meglio le ragioni dell’altro, sperando che ne abbia, e per giudicare le sue convinzioni non sempre e solo come primitive e istintive. Tuttavia, è necessario essere favorevoli e sostenitori di una cultura incline al dialogo e a uno stile multietnico, senza per questo scadere in una visione irenica che vede l’approccio tra i diversi popoli come una sorta di incontro facile, gioioso e danzato. Anche nel mondo biblico ci troviamo di fronte a culture che spesso tra loro si respingono e che pongono gravi problemi di tipo sociale. Il principio da cui partire e la meta da raggiungere rimangono, comunque e sempre, non l’esclusione e il rigetto, ma lo spirito di accoglienza, anche se le forze dei popoli nella storia, andando oltre i nostri desideri, premono e risultano essere incontrollabili nel loro flusso e nel loro confronto concreto. Nella Scrittura anche lo straniero ha diritto al rispetto, alla tutela, all’amore. In Lv 19,33-34, in un’opera che parla dei principi di purità, si legge: «Quando un forestiero dimorerà presso di voi, nel vostro paese, non gli farete torto. Il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi. Tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto». E quanto questo testo dovrebbe far ricordare agli italiani il loro essere stati emigranti nei secoli scorsi! In questi due versetti è profondamente sottolineato il fatto che occorre amare lo straniero come se stessi, perché anche Israele ha provato cosa vuol dire essere straniero. Certo, qui si distingue tra il forestiero che è residente rispetto agli stranieri di tutto il mondo, però si osserva che la persona pur «diversa» che abita nella tua stessa via deve aver assicurata la stessa legge, lo stesso trattamento e la stessa tutela e persino l’amore.

image_pdfimage_print