intervista a tutto campo del card. Marx su papa Francesco e le problematiche più vive

 

il Cardinal Marx su Francesco, sinodo, donne nella Chiesa e relazioni omosessuali

intervista  a cura di Luke Hansen
in “americamagazine.org” del 22 gennaio 2015 (traduzione: www.finesettimana.org):

 

Marx
Il cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco e Frisinga, è presidente della Conferenza episcopale tedesca, membro del Consiglio dei cardinali consiglieri di papa Francesco sul governo della Chiesa, coordinatore del Consiglio Vaticano per l’economia e autore di Das Kapital: Ein Plädoyer für den Menschen (in italiano per l’editore Rizzoli: Il capitale. Una critica cristiana alle ragioni del mercato, 2009). Il cardinal Marx ha tenuto l’annuale Roger W. Heynes Lecture il 15 gennaio alla Stanford University in California.

Questa intervista, che è stata rivista per la chiarezza e approvata dal cardinale, si è tenuta il 18 gennaio alla Memorial Church alla Stanford University.

La sua esperienza nel Consiglio dei Cardinali le ha offerto un prospettiva diversa sulla Chiesa?

Ho una nuova responsabilità. Quando vengo intervistato – come oggi – e mi viene chiesto: “Che cosa fate al Consiglio?” e “Che cosa significa lavorare con il papa?”, sento una responsabilità ancora maggiore. Non vedo la Chiesa in modo nuovo, però. Sono vescovo da 18 anni, cardinale da cinque, e ho preso parte a dei sinodi. Riconosco la mia nuova responsabilità e le nuove opportunità, e anche il momento storico per fare un passo avanti nella Chiesa e partecipare alla storia della Chiesa.

Quali sono le nuove opportunità?

Questo pontificato ha aperto nuove strade. Lo si può sentire. Qui negli Stati Uniti tutti parlano di Francesco, anche persone che non fanno parte della Chiesa cattolica. Devo dire che il papa non è la Chiesa. La Chiesa è più del papa. Ma c’è una nuova atmosfera. Un rabbino mi ha detto: “Dica al papa che ci sta aiutando, perché rafforza tutta la religione, non solo la Chiesa cattolica”. Quindi, c’è un nuovo movimento. Nel Consiglio dei cardinali abbiamo un compito speciale, creare una nuova costituzione per la curia romana, riformare la banca vaticana e discuter molte altre cose con il papa. Ma non possiamo essere presenti ogni giorno a Roma. Dobbiamo considerare questo pontificato, questo cammino, come un nuovo e grande passo. La mia impressione è che siamo su una nuova strada. Non stiamo creando una nuova Chiesa – è sempre la Chiesa cattolica – ma c’è aria fresca, un nuovo passo in avanti.

Quale sfida accompagna questa nuova era nella Chiesa?

La cosa migliore è leggere Evangelii Gaudium. A chi dice: “Non sappiamo che cosa voglia esattamente il papa”, io rispondo: “Leggete il testo”. Non dà risposte magiche a problemi complessi, piuttosto comunica la via dello Spirito, la strada dell’evangelizzazione, essere vicini alla gente, vicini ai poveri, vicini a coloro che hanno fallito, vicino ai peccatori, non una Chiesa narcisistica, non una Chiesa impaurita. C’è un impulso nuovo, essere liberi e uscire. Alcuni si preoccupano per quello che accadrà. Francesco usa un’immagine forte: “Preferisco una Chiesa incidentata, ferita e sporca per essere uscita nelle strade” piuttosto che una Chiesa che è molto pulita, e ha la verità e ogni cosa necessaria. Quest’ultima Chiesa non aiuta le persone. Il Vangelo non è nuovo, ma Francesco lo esprime in un modo nuovo e ispira molta gente, in tutto il mondo, che ora dice: “Sì, questa è la Chiesa”. È una grande dono per noi. È molto importante. Vedremo che cosa farà. È papa solo da due anni, non è molto.

Che cosa può dirci su papa Francesco, sulla sua persona, per il fatto di lavorare vicino a lui?

È molto autentico. È rilassato, calmo. Alla sua età non ha bisogno di realizzare chissà che o provare di essere qualcuno. È molto chiaro e aperto e assolutamente non orgoglioso. È forte. Non è una persona debole, ma forte. Non penso che sia così importante analizzare il carattere del papa, ma capisco che possa interessare. Ciò che è interessante è come, insieme a lui, potremo sviluppare il cammino in avanti della Chiesa.
Per esempio, in Evangelii Gaudium il papa esprime le sue idee sulle relazioni tra il centro a Roma e le conferenze episcopali, e anche sul lavoro pastorale nelle parrocchie, nelle Chiese locali e sul carattere dei sinodi. Queste cose sono molto importanti per il futuro della Chiesa. È anche importante avere un papa. Ora chiunque nel mondo parla della Chiesa cattolica, non sempre positivamente, ma nella maggior parte dei casi sì. Così Cristo ha fatto molto bene a creare il ruolo di San Pietro. Lo vediamo. Ma questo non vuol dire centralismo. Ho detto al papa: “Un’istituzione centralizzata non è un’istituzione forte. È un’istituzione debole”. Il Concilio Vaticano II ha iniziato a bilanciare tra il centro e la Chiesa locale, perché hanno visto, 50 anni fa, l’inizio della Chiesa universale. Ma questa trasformazione non è compiuta. Dobbiamo far sì che si realizzi per la prima volta. Ora 50 anni dopo, ci rendiamo conto di ciò che può essere la Chiesa in un mondo globalizzato, una Chiesa universale, globalizzata. Non l’abbiamo ancora organizzata in maniera sufficiente. Questo è un grande compito per questo secolo. La tentazione è quella di centralizzare, ma non funzionerà.

L’altra sfida è trovare un modo per spiegare la fede nelle diverse parti del mondo. Cosa possono fare i sinodi e le Chiese locali insieme a Roma? Come possiamo realizzare bene questa cooperazione? Due problemi nel sinodo attuale riguardano i cattolici divorziati e risposati e i cattolici omosessuali, specialmente le relazioni omosessuali. Ha avuto occasione di ascoltare direttamente questi cattolici nel suo attuale ministero?

Sono prete da 35 anni. Questo problema non è nuovo. Ho l’impressione che abbiamo molto lavoro da svolgere in campo teologico, non solo in relazione al problema del divorzio, ma anche alla teologia del matrimonio. Sono stupito che alcuni possano dire: “È tutto chiaro” su questo argomento. Le cose non sono chiare. Non è che i tempi moderni debbano determinare la dottrina della Chiesa. È una questione di aggiornamento, per dirla con parole che la gente può capire, e di adattare sempre la nostra dottrina al Vangelo, alla teologia, per trovare in modo nuovo il senso di ciò che Gesù ha detto, il significato della tradizione della Chiesa e della teologia, ecc. C’è molto da fare. Parlo con molti esperti – canonisti e teologi – che riconoscono molti problemi relativi alla sacramentalità e alla validità dei matrimoni. Un problema è: che cosa possiamo fare quando una persone si sposa, divorzia e poi trova un nuovo partner? Ci sono posizioni diverse. Alcuni vescovi al sinodi dicevano: “Vivono nel peccato”. Ma altri dicevano: “Non si può dire che qualcuno è nel peccato ogni giorno, questo non è possibile”. Vede, ci sono problemi su cui dobbiamo parlare. Abbiamo aperto una discussione su questo argomento nella conferenza episcopale tedesca. Ora il testo è pubblicato. Penso che sia un ottimo testo e che costituisca un buon contributo per la discussione del sinodo. È molto importante che il sinodo non abbia lo spirito del “o tutto o niente”. Non sarebbe un buon metodo. Il sinodo non può avere vincitori e perdenti. Non è questo lo spirito del sinodo. Lo spirito del sinodo è cercare una strada insieme, non dire: “Come posso trovare un modo per portare avanti la mia posizione?”. Invece: “Come posso comprendere la posizione dell’altro, e come possiamo trovare insieme una nuova posizione?” Questo è lo spirito del sinodo. Per questo è molto importante che lavoriamo su questi problemi. Spero che il papa ispiri il sinodo. Il sinodo non può decidere; solo un concilio o il papa possono decidere. Questi problemi devono quindi essere compresi in un contesto più ampio. Il compito è aiutare le persone a vivere. Come si dice in Evangelii Gaudium, non è come difendere la verità. È come aiutare le persone a trovare la verità. Questo è importante. L’eucaristia e la riconciliazione sono necessari per le persone. Diciamo ad alcune persone: “Lei non potrà essere riconciliato fino alla morte”. È impossibile crederci, quando si vedono le situazioni. Posso farle degli esempi. Nello spirito di Evangelii Gaudium, dobbiamo vedere come l’eucaristia è una medicina per le persone, per aiutare le persone. Dobbiamo cercare i modi per cui le persone possano ricevere l’eucaristia. Non cerchiamo modi per tenerle lontano! Dobbiamo trovare modi per accoglierle. Dobbiamo usare la nostra immaginazione chiedendoci: “Possiamo fare qualcosa?”. Forse in alcune situazioni non è possibile. Ma il problema non è questo. Il punto centrale deve essere come accogliere le persone.
Al sinodo lei ha riferito il caso di due omosessuali che hanno vissuto insieme per 35 anni e si sono presi cura l’uno dell’altro, anche nelle ultime fasi della loro vita, e chiedeva come avrebbe potuto dire che questa cosa non aveva valore. Che cosa ha imparato da queste relazioni,  tutto questo può avere influenza sull’etica sessuale oggi? Parlando di etica sessuale, forse non dobbiamo cominciare dal parlare di dormire insieme, ma dall’amore, dalla fedeltà e dalla ricerca di una relazione di tutta una vita. Sono sorpreso scoprendo che la maggior parte dei nostri giovani, anche omosessuali cattolici praticanti, desiderano una relazione che duri per sempre. La dottrina della Chiesa non è così strana per la gente. È vero. Dobbiamo cominciare con i punti importanti della dottrina per vedere il sogno: il sogno è che le persone, un uomo e una donna, possano dire: “Tu per sempre”. E noi come Chiesa diciamo: “Questo è assolutamente OK. La vostra visione è giusta!” Così troviamo la strada. Poi magari c’è un fallimento. Trovano la persona, e non è un successo. Ma la fedeltà per tutta la vita è giusta e buona. La Chiesa dice che una relazione omosessuale non è allo stesso livello di una relazione tra un uomo e una donna. Questo è chiaro. Ma quando sono dei fedeli credenti, quando sono impegnati a favore dei poveri, quando lavorano, non è possibile dire: “Qualsiasi cosa tu faccia, dato che sei omosessuale, è negativa”. Una cosa che deve essere detta, e su cui non ho sentito alcuna critica, è che non è possibile vedere una persona solo da un punto di vista, senza considerare tutta la situazione di una persona. Questo è molto importante per l’etica sessuale. La stessa cosa vale per le persone che convivono, ma si sposano in seguito, o quando vivono fedelmente insieme, ma solo con il matrimonio civile. Non si può dire che la relazione era tutta negativa se la coppia vive fedelmente insieme, e aspettano, o pianificano la loro vita, e dieci anni dopo trovano il modo di accostarsi al sacramento. Quando è possibile, dobbiamo aiutare la coppia a trovare il compimento nel sacramento del matrimonio. Abbiamo discusso di questo problema al sinodo, e molti padri sinodali condividono questa opinione. Non ero solo io ad avere questa opinione. Proprio il mese scorso, il vescovo Johan Bonny di Anversa, in Belgio, ha detto che la Chiesa dovrebbe riconoscere una “diversità di forme” e potrebbe benedire delle relazioni gay basate su questi valori di amore, fedeltà e impegno. È importante per la Chiesa discutere di queste possibilità? Al sinodo ho detto che Paolo VI ha avuto una grande visione nella Humanae Vitae. La relazione tra un uomo e una donna è molto importante. La relazione sessuale in una relazione fedele è fondata sul legame con la procreazione, dando amore, sessualità e apertura alla vita. Paolo VI credeva che questo legame avrebbe potuto andare distrutto. Aveva ragione, pensiamo a tutti i problemi relativi alla medicina riproduttiva, ecc. Non possiamo escludere questo grande modello di sessualità e dire: “Noi abbiamo una diversità”, oppure “Ognuno ha il diritto di…”. Il grande significato della sessualità è la relazione tra un uomo e una donna e l’apertura a dare la vita. E prima ho anche accennato al problema di accompagnare le persone, nel senso di vedere cosa le persone stanno facendo delle loro vite nella loro situazione personale.

Come vivranno la Chiesa cattolica e la Chiesa protestante il 500° anniversario della Riforma nel 2017? Quali sono le possibilità per una maggiore cooperazione tra le nostre Chiese?

Siamo sulla buona strada in Germania e a livello della Santa Sede, con la Federazione Mondiale Luterana, per vivere insieme la nostra memoria di quel tempo. Noi come Chiesa cattolica non possiamo “celebrare” questo anniversario, dato che non è una cosa buona che la Chiesa sia stata divisa durante questi secoli. Ma dobbiamo sanare le nostre memorie – il che è un punto importante e un buon passo avanti nelle nostre relazioni. In Germania, sono molto contento che i capi della Chiesa protestante siano molto chiari, non vogliono celebrare l’anniversario senza i cattolici. Cento anni fa, o anche solo 50 anni fa, un vescovo protestante non avrebbe detto: “Voglio celebrare solo se sono presenti i cattolici”. Così stiamo organizzando gli eventi. “Risanamento delle memorie” sarà una celebrazione insieme. In Germania, i capi della Chiesa protestante e della Chiesa cattolica faranno anche un pellegrinaggio in Terra Santa, per tornare alle nostre radici. Faremo una grande celebrazione, non di Martin Lutero, ma di Cristo, “la festa di Cristo”, per guardare avanti: qual è la nostra testimonianza  adesso, che cosa possiamo fare, qual è il futuro delle fede cristiana e che cosa possiamo fare insieme. Questi sono i nostri programmi per vivere il 500° anniversario.

Papa Francesco ha chiesto che il ruolo delle donne sia accresciuto nella Chiesa. Che cosa pensa sia possibile? Che cosa aiuterebbe meglio la Chiesa a compiere la sua missione?

La declericalizzazione del potere è molto importante nella curia romana e nelle amministrazioni delle diocesi. Dobbiamo prendere in considerazione il diritto canonico e riflettere teologicamente, per vedere quali ruoli richiedono necessariamente dei preti; e poi tutti gli altri ruoli, nel senso più ampio possibile, devono essere aperti ai laici, uomini e donne, ma specialmente donne. Nell’amministrazione vaticana non è necessario che alla guida di tutte le congregazioni, consigli, dipartimenti, ci sia qualcuno del clero. È un peccato che non ci siano donne tra i laici nel Consiglio dell’Economia. Gli specialisti sono stati scelti prima che io diventassi coordinatore, ma cercherò delle donne che possano svolgere quel ruolo. Per la prima volta in Vaticano il nostro consiglio ha dei laici con le stesse responsabilità e gli stessi diritti dei cardinali. Non sembra una gran cosa, ma le cose grandi cominciano con piccoli passi, non è vero? Lo dico e lo ripeto anche nella mia diocesi: vi prego che vedere che cosa potete fare per portare dei laici, specialmente donne, a posizioni di responsabilità nell’amministrazione diocesana. Abbiamo fatto un piano per la Chiesa cattolica in Germania per avere più posti direttivi nell’amministrazione che siano coperti da donne. Tra tre anni vedremo che cosa è stato fatto. Su questo, dobbiamo fare un grande sforzo per il futuro, non solo per essere moderni o per imitare il mondo, ma nel renderci conto che l’esclusione delle donne non è nello spirito del Vangelo. Talvolta lo sviluppo del mondo ci dà un’indicazione – vox temporis vox Dei (voce del tempo, voce di Dio). Lo sviluppo del mondo ci invia dei segni, i segni dei tempi. Giovanni XXIII e il Concilio Vaticano II hanno detto che dobbiamo interpretare i segni del tempo alla luce del Vangelo. Uno di questi segni riguarda i diritti delle donne, l’emancipazione delle donne. Giovanni XXIII lo ha detto più di 50 anni fa. Stiamo ancora cercando di realizzarlo. Non è che si vedano progressi. Talvolta le cose cono peggiorate. Quali ostacoli occorre superare? La mentalità! La mentalità! La mentalità! E le decisioni delle persone responsabili. È chiaro che sono i vescovi che devono decidere. I vescovi e il Santo Padre devono cominciare a cambiare. È stato ripetuto spesso in seminari e corsi per leader, ed è sempre stato chiaro: le scale si puliscono dall’alto, non dal basso. Così, i leader devono cominciare, i capi devono cominciare. La mentalità deve cambiare. La Chiesa non è un’azienda, ma i metodi non sono molto diversi. Dobbiamo lavorare di più in gruppi, per progetti. La domanda è: chi ha le risorse per portare avanti queste idee? E non: chi è clericale? Dio ci dà tutte queste persone, e noi diciamo: “No, non è un prete, non può fare questo lavoro, oppure: la sua idea non è importante”. No, questo non è accettabile. No, no, no.

Papa Francesco farà la sua prima visita negli Stati Uniti in settembre. Qual è la sua speranza per questa visita?

Sono sempre sorpreso per la capacità del papa di riunire la gente e di ispirarla. Spero che la gente negli Stati Uniti possa fare anch’essa questa esperienza. Uno dei compiti e delle sfide principali per un vescovo, e per il papa, è unire le persone, e unificare il mondo. La Chiesa è instrumentum unitatis, uno strumento e sacramento di unità tra le persone, e tra Dio e le persone. Spero che quando il papa visiterà gli Stati Uniti, la Chiesa possa mostrare al mondo di voler essere uno strumento non per se stessa ma per l’unità della nazione e del mondo.

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27 gennaio giornata della memoria

 

Il Giorno della Memoria

giornata della memoria

27 gennaio 2015

 

 

“La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz,

auschwitz

Giorno della Memoria“, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte,

e coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.”

il porrajmos dimenticato (il tentativo di sterminio anche del popolo rom):

porrajmos

 

 

 

 

 

Questo è il testo integrale della legge del 20 luglio 2000 in cui viene istituito il Giorno della Memoria.

 

 

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il commento al vangelo della domenica

 

 

 

commento al vangelo della terza domenica del tempo ordinario (25 gennaio 2015):

Mc 1,14-20

Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono.
Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, mentre anch’essi nella barca riparavano le reti. E subito li chiamò. Ed essi lasciarono il loro padre Zebedèo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui.

CONVERTITEVI E CREDETE AL VANGELO 

il commento di p. Maggi:

maggi

L’evangelista Marco denuncia la stupidità del potere. Ogniqualvolta il potente crede di soffocare una voce di denuncia il Signore ne suscita una ancora più forte. E’ quello che ci scrive Marco nel suo vangelo, al capitolo 1, dal versetto 14.
“Dopo che Giovanni fu arrestato”, è il primo conflitto tra il potere e un inviato di Dio. Ma ogni volta Dio suscita sempre una voce ancora più forte. “Dopo che Giovanni fu arrestato”, letteralmente ‘consegnato’, “Gesù andò nella Galilea”. Gesù incomincia nella regione lontana dall’istituzione religiosa giudaica, una regione a contatto con i pagani dove la mentalità poteva essere un poco più aperta.
“Proclamando il vangelo di Dio”, cioè la buona notizia di Dio. E qual è la buona notizia di Dio? Che Dio è diverso da come i sacerdoti l’avevano presentato. E’ un Dio completamente diverso. Non è un Dio che chiede, ma un Dio che dà. Non è un Dio che castiga, ma un Dio che perdona, non un Dio buono, ma esclusivamente buono.
Questo è il contenuto della buona notizia del vangelo di Dio che Gesù proclamerà. Dio è amore e il suo amore viene offerto in maniera incondizionata ad ogni persona. Questa è la buona notizia che Gesù proclama. “E diceva: «Il tempo è compiuto»”. Per esprimere il tempo l’evangelista adopera un termine che significa l’occasione perduta, l’occasione propizia, da prendere al volo perché poi rischia di non ripresentarsi. “«E il regno di Dio è vicino»”.
Per Regno di Dio si intende la signoria di Dio. Nella nuova relazione con Dio che Gesù propone, quella con il Padre, non c’è più una legge, un codice esterno all’uomo che l’individuo deve osservare, ma c’è l’accoglienza e la pratica di un amore simile al suo. Il Dio di Gesù non governa gli uomini emanando leggi che questi devono osservare, ma comunicando loro interiormente la sua stessa forza, il suo stesso Spirito che li rende capaci di amare generosamente come da lui si sentono amati.
Il regno di Dio è vicino, ma per far sì che questo diventi realtà, c’è bisogno di una decisione da parte dell’uomo, la conversione. L’evangelista non adopera il verbo convertire che indica un ritorno alla religione, a Dio, ma indica un cambio di mentalità che incide profondamente nel comportamento, una rinuncia all’ingiustizia e l’orientamento della propria esistenza al bene degli altri.
Questa è la conversione alla quale Gesù chiama, alla quale Gesù invita, perché il regno di Dio diventi realtà. Per regno di Dio in questo vangelo si intende una società alternativa, una società dove anziché il salire ci sia lo scendere, dove anziché comandare ci sia il servire e soprattutto dove anziché l’accumulo dei beni ci sia la condivisione. Allora per far questo ci vuole una conversione, un cambiamento di rotta.
E Gesù invita a credere in questa buona notizia. E qual è la buona notizia? Che Dio governa gli uomini e che è possibile una società alternativa. Ma Gesù per fare questo ha bisogno della collaborazione degli uomini. Ecco perché “passando lungo il mare di Galilea …”. Qui l’evangelista parla di mare di Galilea, in realtà è un lago. Perché l’evangelista adopera il termine “mare”? Perché il mare era il confine con la terra pagana e soprattutto il mare è quello che gli ebrei hanno dovuto varcare per entrare nella terra promessa.
Quindi l’evangelista amplia l’orizzonte del messaggio di Gesù, che non è rivolto soltanto alla Galilea, ma è rivolto a tutto il mondo pagano. “… Vide Simone e Andrea”; sono due nomi di origine greca, quindi una comunità mentalmente più aperta. “Mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro di me»”, questo sarà l’invito che Gesù continuamente farà risuonare nel vangelo ieri e ancora oggi: andare dietro di lui, perché lui sa come realizzare questa società alternativa, il regno di Dio.
“«Vi farò diventare pescatori di uomini»”. Il riferimento dell’evangelista è al capitolo 47 di Ezechiele dove vengono presentate coppie di fratelli che ricevono la terra promessa. Quindi il regno di Dio è una realtà che adesso già sta emergendo attraverso la chiamata dei fratelli. Ma perché Gesà li chiama a diventare pescatori di uomini? Gesù non li invita ad essere pastori, non li invita ad essere guide, non li invita ad essere maestri, ma pescatori.
Qual è il significato? Pescare un pesce significa tirar fuori un animale dal suo habitat naturale per dargli la morte. E si fa per il proprio interesse, si pesca per il proprio beneficio. Pescare gli uomini significa tirarli fuori dall’acqua, ciò che rischia di dar loro la morte; quindi è un ambiente ostile all’uomo, un ambiente nel quale l’uomo può perire, e non si fa per il proprio interesse, ma per l’interesse degli altri.
Questa è la conversione. La conversione alla quale Gesù richiama e invita è: mentre fino ad ora hai vissuto per il tuo interesse, adesso vivi per l’interesse degli altri; mentre fino ad ora hai pescato per te, adesso pesca per gli altri, per comunicare vita agli altri. Allora Gesù li invita a collaborare alla sua azione nel proporre e praticare concretamente uno stile diverso per rendere possibile una società alternativa, quella che viene chiamata regno di Dio, e la prima azione che si fa è quella di togliere gli uomini da ciò che può dar loro la morte. Se ciò che da la vita è la rinuncia al proprio interesse, quello che da la morte è vivere esclusivamente centrati sul proprio interesse, sulla convenienza.
E saranno proprio coloro che sono centrati sulla propria convenienza, sul loro interesse, gli acerrimi nemici di Gesù.
“Subito lasciarono le reti e lo seguirono”, quindi immediatamente questi personaggi, questi primi discepoli, accolgono l’invito di Gesù, ma Gesù continua. E questa volta lo rivolge a due fratelli che hanno nomi ebraici; sono Giacomo e Giovanni, quindi più attaccati alla tradizione e saranno quelli che nel vangelo poi mostreranno delle difficoltà nel seguire Gesù. Ma anche questi al momento lasciano il padre Zebedeo “sulla barca con i garzoni e andarono dietro di lui”.
Quindi l’intento di Gesù è quello di chiamare persone che con lui collaborino facendosi portatori di vita a quanti vivono in un habitat di morte.

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Andarono dietro a lui.”

 

il commento di p. Agostino Rota Martir:

p. agostino

Maestro. Dove abiti?”. Era la domanda dei discepoli di Giovanni Battista, rivolta a Gesù nel Vangelo di domenica scorsa. Domanda semplice, spontanea e del tutto lecita, ma la risposta non stava tanto in un indirizzo anagrafico, ma era in un cammino continuo: da Nazareth a Cafarnao, da lì verso i villaggi della Galilea per annunciare il Vangelo del Regno ormai vicino a tutti, non più asserragliato dentro il tempio santo di Gerusalemme, o nella dimora-scuola stabile di un rabbi, ma ovunque, anche lungo le rive del mare di Galilea, e da lì nelle dimore della gente, nel cuore dilatato dei peccatori e dei poveri.

Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il Vangelo di Dio.”

Non fu un semplice trasloco il suo..ma di certo era la conseguenza di un cambio di situazione, nel senso che le cose stavano mettendosi un po’ male a causa della morte del Battista, eppure Gesù non si nasconde, anzi la morte del cugino è la molla che lo spinge a percorrere la Galilea delle Genti: incoscienza, gusto di sfida o altro?

Stattene un po’ buono, lascia che le acque si calmino un pochino..” In genere è il saggio consiglio che spesso offriamo agli amici, quando la situazione si fa un po’ “movimentata”. Gesù, invece se ne va in giro a trovarsi i suoi primi discepoli, come preso dal desiderio di far conoscere al più presto le strade del Regno di Dio.

La situazione è preoccupante, ma non sono un impedimento per le prime chiamate, che avvengono proprio in questo contesto, perché la notizia dell’uccisione del Battista correva sulla bocca di tutti. Anzi: “Venite dietro a me.”

Gesù non aspetta un momento più tranquillo, che passi la bufera per coinvolgere Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni nella sua sequela..penso ai contesti di tante proposte vocazionali, in genere fatte in ambienti asettici, in spazi artificiosi, avvolti da un silenzio suggestivo e volutamente in disparte dalla realtà e dalle sue preoccupazioni, viste più come un disturbo, che un’occasione. Mentre Gesù si mescola nella vita della gente che incontra: Vi farò diventare pescatori di uomini.” E’ proprio nel “mare della vita” che Gesù rivolge la chiamata ad essere pescatori di uomini, non li conduce in “un’oasi spirituale artificiale”. Lo sfondo delle prime chiamate è proprio l’arresto del profeta Giovanni Battista e la sua uccisione.

Mons. Romero, vescovo del Salvador di fronte all’uccisione del suo amico p.Rutilio Grande, ad opera dell’esercito, cambia radicalmente il suo modo di leggere ed annunciare il Vangelo, ponendosi dalla parte dei poveri e oppressi, questo lo porterà a sua volta, ad essere ucciso dagli stessi sull’altare nel 1984, proprio mentre celebra la Memoria di Gesù: Crocifisso e Risorto.

Gesù non chiede l’autorizzazione ad Erode (spazi, favori..) per iniziare la sua missione di annuncio del Vangelo di Dio, si mette in cammino e chiede ai suoi discepoli di fare altrettanto.

Andarono dietro a lui..” Questo cammino continua, è presente ancora oggi, anche grazie a tanti profeti che camminano lungo le strade del mondo, sparpagliando nei solchi della storia semi di Vangelo, semi di pace, di Giustizia e di Beatitudine..incuranti degli Erode di oggi.

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al di là degli stereotipi

 

 

 

‘Sette Donne Rom’: un libro contro gli stereotipi

una testimonianza ‘dentro il campo’

sette donne

gli stereotipi sono difficili da contrastare, vivono di odio sottile e carsico, s’infilano nella nostra quotidianità e si basano spesso sull’ignoranza di entrambe le parti coinvolte. La paura “dell’altro” e “dello straniero” è vecchia come il mondo e in un mondo globalizzato come il nostro diventa sempre più difficile capire tutto ciò che richiede uno sforzo maggiore della semplice “visione di superficie”. Il libro “Sette donne rom” di Cristina Mattiello, con la prefazione di Moni Ovadia e le illustrazioni di Lorenzo Terranera, della casa editrice Cambiaunavirgola, prova a compiere questo percorso: andare oltre “il campo rom”, raccogliendo le testimonianze di sette donne che hanno partecipato al programma “Or.Me.” (Orientamento Mediatori), promosso dall’Arci Solidarietà Onlus per facilitare il legame tra la loro popolazione e le strutture socio-sanitarie del territorio. Un percorso a tappe che prevede un corso di alfabetizzazione della lingua italiana e di formazione sulle tematiche sanitarie, seguito da un tirocinio in strutture pubbliche e laboratori della Croce Rossa e, infine, la ricerca di un impiego. Abbiamo intervistato l’autrice per capire meglio alcuni punti critici di questo viaggio dentro una cultura “altra”, con le sue peculiarità, i suoi limiti ma anche le sue speranze.

 
 

Quali difficoltà avete incontrato nel parlare e nel relazionarvi con le donne di cui avete raccontato le storie?

Tutte le donne avevano già un rapporto personale molto stretto e “caldo” con Alessia Damiani, operatrice sociale nel campo della maggior parte delle protagoniste e coordinatrice del progetto di formazione di cui si racconta la storia. La fiducia era data per scontata e io sono facilmente entrata emotivamente in contatto con tutte loro, come dentro a un cerchio affettivo, ponendomi in una situazione “vera” di ascolto e comunicazione fra donne. Non ho gestito le interviste pensando alle “regole” precostituite del giornalismo o della ricerca socio-antropologica, o anche della storia orale. Ho cercato di essere “autentica” nel rapporto, il più informale possibile. Ho semplicemente detto loro: “Raccontatemi quello che è successo e vi aiuto a scriverlo: lo fate voi il libro! Perché è importante farlo!”. Il resto è venuto da sè. Il livello emozionale è stato sempre in primo piano. Spesso io e Alessia quasi ci commuovevamo per la corrente empatica che si veniva a creare. E’ successo anche nella prima presentazione. Lo scambio andava sempre ben al di là dell’intervista per il libro: entravano in gioco i loro problemi, i loro stati d’animo e io, noi, ci mettevamo veramente in gioco, pur mantenendo in qualche modo anche i nostri ruoli professionali. Ma le interviste erano sempre soprattutto un momento di scambio personale reale.

Nel libro molte di loro descrivono la vita del campo “come una gabbia”, uno spazio che le protegge ma che le rende anche isolate dal resto del mondo. È una condizione che avete riscontrato anche in altre occasioni e con altre donne rom?

Sì, è una condizione molto diffusa, in genere, però è il desiderio di una vita nuova che prevale. Ma che si scontra inevitabilmente con l’impossibilità di pensare davvero a “uscire”: manca il lavoro, la casa, tutto … Il “campo”, contrariamente a quanto si crede, è un’invenzione italiana, assolutamente non un modo di vivere tradizionale. E’ di fatto un ghetto etnico, un microcosmo chiuso che non può che alimentare la spirale del degrado, dell’emarginazione e della passività. Oggi le associazioni solidali chiedono con forza il superamento di tutti i campi e la riconversione dei fondi – molti, che l’Europa continua a darci – in progetti di vera inclusione. Sarebbe possibile, basta volerlo! .

Uscire dal campo per molte è anche un modo “per sentirsi utili” o per “svegliarsi e avere qualcosa da fare” come affermano alcune di loro (molte dichiarano “voglio fare qualcosa anch’io per i miei figli”). Quali sono le resistenze che avete incontrato da parte della loro comunità e da parte di quella “ospitante” (in questo caso italiana)?

Le donne hanno parlato con sincerità delle difficoltà incontrate a volte in famiglia per gli spazi anomali di libertà dai doveri domestici che il progetto comportava. Ma hanno anche raccontato come i mariti alla fine hanno accettato di aiutarle, gestendo loro i bambini quando era necessario. C’è da dire che tutti i componenti delle famiglie hanno un rapporto stretto con gli operatori del campo e questo credo che abbia giovato. All’esterno, invece, è stato del tutto positivo il rapporto non solo con i formatori, ma anche con tutte le persone incontrate durante i tirocini in ambiente sanitario, inclusi i pazienti stessi – cosa che non era scontata! Il servizio sanitario pubblico in particolare si è dimostrato molto accogliente. Le donne si trovavano bene, si sentivano accettate: è un aspetto che mi interessava molto e ho insistito con le domande per esplorarlo a fondo. Invece il libro mette in luce efficacemente, secondo me, le difficoltà con cui sempre i rom e le romnì si scontrano nella ricerca di un lavoro. E’ questo il momento in cui la discriminazione e gli stereotipi sono un ostacolo spesso insormontabile. Nel caso delle protagoniste del libro, però, per fortuna, ci sono stati anche risultati positivi e assunzioni.

Ci sono stati casi in cui il percorso di “ponte” tra le due comunità è stato traumatico e non ha portato a nulla e quali volete indicare invece come brillanti e pieni di speranza?

Un operatore della CRI ha raccontato il suo sgomento e la sua indignazione quando, accompagnando una delle donne a conclusione del percorso formativo ad un colloquio di lavoro, l’ha vista rifiutare, esplicitamente “perché rom”, nonostante lei avesse una “borsa lavoro” istituzionale (sarebbe stato quindi lavoro gratis per loro!). Credo che questo episodio dia un buon argomento per rispondere a tutti quelli che dicono che i rom non vogliono lavorare. Segnali di speranza, momenti di luce: molti, davvero molti. Penso a Doina, che ha il coraggio di andare a un colloquio senza “mimetizzarsi”, senza cioè nascondere l’identità di rom, e, bellissima nel suo abito bianco con la gonna a balze, viene assunta. A Elvira che alla ASL aiuta una ragazza poverissima e del tutto inesperta e le insegna come tenere il bambino, fuori da ogni protocollo. O a Mara, capace di parlare a tutte noi emozionandoci con la sua saggezza e sensibilità. O al coraggio di Simona, che, dopo mesi di ospedale, mentre lottava per riprendersi da una malattia che poi purtroppo l’ha sopraffatta, mi diceva: “Il sorriso resta sempre”. E faceva battute: “Mi fai sempre ridere e piangere quando facciamo le interviste”, dicevo io … E tanti altri episodi, tanti. E’ un libro di speranza, sicuramente.

Non solo essere rom ma essere una donna quali problematiche aggiuntive può avere nel percorso di avvicinamento alla comunità che li dovrebbe accogliere? Ci sono casi particolari che volete segnalare?

Essere donna comporta difficoltà in più per la resistenza che può fare la comunità rom rispetto a un percorso di emancipazione, o per i condizionamenti soggettivi, quelli che la donna vive dentro di sé a prescindere dalle pressioni esterne, i sensi di colpa, i legami affettivi familiari, ecc. Ma una volta che si sia reso possibile l’andare “fuori”, credo che l’essere donna aiuti invece molto nella comunicazione. Le donne sanno stabilire ponti e legami soprattutto attraverso il canale emotivo. Una volta aperto il contatto, è facile per le donne romnì renderlo intenso. E in genere sono molto coinvolgenti. Come dice Moni Ovadia nella prefazione, sono “donne che ascoltano il cuore” e la riposta quasi sempre arriva. Il libro è un libro al femminile, e sono tanti i casi in cui queste dinamiche positive fra donne sono evidenti: nella fase preparatoria, nel percorso di formazione, nei tirocini, nelle esperienze che le donne raccontano, e anche nelle interviste con me, arrivata da poco fra loro. Come il rapporto tra Elvira e l’anziana signora da cui lavorava, o il confronto sui temi della maternità e della contraccezione. Molto bella è anche la figura della d.ssa Leotta, che lavora alla ASL nel servizio per gli stranieri e le fasce a rischio: “più che un medico, un’amica, la madre di tutte noi”, la definiscono le donne del campo di Candoni, è un loro punto di riferimento costante, anche sul piano emotivo.

Quali sono i programmi messi in atto che hanno portato i maggiori benefici per la comunità? (nel libro si parla spesso di molti miti legati alla salute che vengono sfatati, aspetti legati alla gravidanza e all’assistenza di persone invalide). Quali sono invece quelli che andrebbero fatti con maggiore convinzione?

Tutto il contesto sociale crea e alimenta l’emarginazione di queste comunità, tutto “rema contro”. Un percorso di crescita come quello descritto, quindi, è di per sè molto positivo per tutti, perché dimostra che si può uscire dalla condizione passiva a cui spinge la vita nel campo. E che anche i rom, se se ne dà loro l’occasione, possono farcela ad esser qualcosa di diverso dall’immagine negativa che si trovano buttata addosso costantemente. Sono questi i progetti che andrebbero incentivati, generalizzati. Basta con i ghetti: bisogna aiutare le comunità rom a vivere una vita dignitosa, nel rispetto della loro specificità culturale, ma come tutti gli altri in quanto a diritti e condizioni sociali. L’esperienza descritta nel libro è stata una goccia nel mare, ma importantissima, perché può – dovrebbe – dare spunti per tante altre esperienze simili. Per quanto riguarda la salute, certo è emersa un distanza forte tra quello che le donne hanno imparato fuori e il modello tradizionale, soprattutto nel campo della contraccezione, e anche nella gestione del neonato. Ma l’obiettivo generale, che era quello di avvicinare la comunità alla sanità pubblica e ai servizi, e di fornire al campo figure interne di mediatrici che possano facilitare questo rapporto, mi sembra che sia stato raggiunto. Anche in questo caso, però: a mio avviso la formazione andrebbe offerta a tutti, molto più di quanto si fa.

Quali sono stati gli stereotipi che avete visto privi di fondamento nell’avvicinarvi alla loro comunità?

Tra tutti gli stereotipi, quello più ingiusto è quello terribile della “zingara rapitrice” di bambini. Secondo tutte le ricerche, non c’è un solo caso dimostrato! Ci sono stati nel tempo anche diversi processi, tutti conclusi con un’assoluzione. E entrando in contatto con queste comunità, davvero ci si chiede come sia possibile lanciare loro addosso un’immagine così pesante e infondata. Quando si entra in contatto con loro, ci si rende subito conto che sono persone come tutti noi, con pregi e difetti individuali, con personalità diverse fra loro, come tutti, insomma, cosa che gli stereotipi e la discriminazione ci vorrebbero far dimenticare. E si diventa facilmente loro amici. Sono però persone che vivono in condizioni disumane – anche senza acqua e senza luce, molte volte – condizioni che spesso rendono impossibile, ad esempio, non essere “sporchi”. Ma questo non vuol dire che i rom siano tutti “sporchi” per scelta o, peggio, per “natura”. Anzi, ci si sorprende di quanto curino la loro casa e la loro immagine, quando possono: alcuni ce la fanno anche in condizioni davvero difficili, dovremmo chiederci che cosa faremmo noi al posto loro. Vale per tutti gli stereotipi, ma nel caso dei rom, davvero, lo stereotipo è rafforzato dalle condizioni in cui li facciamo vivere: è un circolo vizioso. Più sono emarginati, più vengono loro negati i diritti minimi, più si rafforza l’immagine negativa, più vengono emarginati, ecc. E il campo da questo punto di vista, sì, è veramente una gabbia. Come ho già detto, bisogna dare loro l’opportunità di percorsi di formazione, una situazione abitativa decente, bisogna aiutarli a costruirsi occasioni di lavoro. In quei pochi casi in cui ciò si verifica, gli stereotipi si smontano da soli.

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Ascanio Celestini e tutti quelli che ‘se la vanno a cercare’

in difesa di chi ‘se la va a cercare’


di Ascanio Celestini

Greta e Vanessa se la sono andata a cercare. Ma chi gliel’ha fatto fare di andarsene a fare le superdonne in un posto dove ci sta la guerra? Se la vanno a cercare? Come quelle diciottenni che vanno in giro in minigonna alle due di notte nelle stradine buie delle città e poi si lamentano se qualcuno se le violenta. Perché se la vanno a cercare?

E Saviano? Poteva scrivere una bella guida turistica di Napoli, o in alternativa una cosa intellettuale su qualche rivista intellettuale che si leggono gli intellettuali. Perché s’è messo in mezzo a una cosa più grossa di lui? Non gli basta di guadagnare un sacco di soldi? Si lamenta perché vive sotto scorta? Colpa sua, se l’è andata a cercare.

Pure James Wright Foley se l’è andata a cercare, l’ha detto Edward Luttwak che non è mica l’ultimo arrivato. “Se l’è cercata totalmente… Il suo, come quello della vostra Sgrena, non è giornalismo, ma protagonismo” così dice Luttwak. E infatti è pieno di giornalisti che se la vanno a cercare. A Luttwak non gli capita davvero di farsi decapitare. Non si capisce perché il mondo è pieno di gente che se la cerca.

Per esempio ti ricordi di Ernesto Guevara detto Che? La sua faccia è stampata su un sacco di magliette. Pure lui è uno che se l’è andata a cercare. C’aveva pure l’asma e dopo la rivoluzione cubana, invece di aprirsi uno studio medico, se n’è andato a sparare e a esportare la rivoluzione in Bolivia. L’hanno ammazzato. Cavoli suoi… se l’è andata a cercare.

Come quell’altro famoso comunista di Trockij che pure lui se l’è andata a cercare. Poteva mettere le mani su un ministero nella grande Unione Sovietica e invece è andato a fare l’esiliato in Messico. Chi gliel’ha fatto fare? L’hanno ammazzato? Embè, se l’è andata a cercare. E i desaparecidos in Cile e in Argentina e in chissà quanti altri posti? Pensi che i militari avrebbero fatto scomparire il mio vicino di casa che si fa i fatti suoi? Nossignore. Con tutto il rispetto verso quei morti, però era gente che stava contro il regime.

Pure in Italia c’abbiamo avuto il fascismo, ma mica ammazzavano a tutti. Se facevi il dovere tuo senza rompere troppo le scatole vivevi come cristo comanda. Mussolini ti dava pure i soldi quando davi un figlio alla patria. Eppure sotto al fascismo ci stava un sacco di gente che se l’andava a cercare lo stesso. E mica era gente scema. Lo sapevano a che andavano incontro.

Mio nonno mica aveva studiato eppure lo sapeva che era meglio non prendersela troppo col fascismo. Se l’hanno preso sott’occhio è stato solo per una battuta. A quel tempo il cesso si chiamava anche “ritirata”. Mio nonno lavorava al cinema Iris e quando un fascista gli ha chiesto “dove sta la ritirata?” lui ha risposto “in Grecia!”. Per questo l’hanno preso sott’occhio, ma mica si metteva a parlare contro il Duce. Mica era scemo. E pure Matteotti non era mica scemo, lo sapeva che sarebbe finito male se andava avanti a parlare contro il fascismo. E infatti è andata proprio così.

E ti ricordi i confinati? Per esempio ti ricordi Leone Ginzburg? L’avevano mandato a Pizzoli. Gli è andata male perché altri come lui venivano spediti in certe isole che oggi la gente ci va in vacanza. Eppure continuava a tradurre dal russo come se non ci fosse la guerra. Ma dove hanno la testa questi intellettuali? Per non parlare di Gramsci che ha fatto i salti mortali per far uscire i suoi quaderni dalla cella del carcere. Un altro avrebbe abbassato la testa, chiesto scusa e sperato nei domiciliari. Lui no. Continuava a scrivere contro questo e contro quello. Almeno Saviano e Rushdie si prendono le royalties, il sardo invece non ha preso manco quelle. Lo sapeva che non c’avrebbe guadagnato. Perché se l’è andata a cercare?

Mia madre dice “attacca l’asino dove vuole il padrone!” è un modo saggio per campare cent’anni. E invece pare che sia ancora pieno di gente che non attacca mai l’asino al posto giusto. Guarda per esempio quei blasfemi di Charlie Hebdo. L’hanno ammazzati e il primo giorno stavamo tutti dalla parte loro. Pure i commentatori dei giornali della borghesia europea.

Certo che è bastato che passasse un giorno o al massimo due che tutti erano d’accordo su un fatto: gli anarchici del giornaletto comico francese se la sono andata a cercare! Se la prendono col profeta e con il dio dei cristiani, con gli ebrei e chissà contro quali altre religioni. Come pensano di poterla fare franca? Puntano sul fatto che, tutto sommato, anche Gesucristo se l’è andata a cercare? E gli ebrei? C’hanno messo un mucchio di secoli prima di prendersi uno stato come si deve e nel frattempo se la sono andata a cercare. Se Hitler e tanti altri ce l’avevano con loro mica sarà un caso!

Ornella oggi mi scrive che si trova “a discutere con tante persone, anche colte e non votanti Lega, che additano Greta e Vanessa come frikkettone e si piangono i soldi del riscatto, anzi chiedono che adesso venga restituito all’Italia il maltolto e che quindi lavorino gratis a vita per risarcirci del danno”. Loro come tutti gli altri sono gli squinternati che se la sono cercata. “Ma – scrive Ornella – cosa sarebbe questo mondo se nessuno se la fosse andata a cercare?”.

(21 gennaio 2015)

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il vangelo della domenica

VIDERO DOVE DIMORAVA E RESTARONO CON LUI 

commento al vangelo della II domenica del tempo ordinario (18 gennaio 2015) di p. Alberto Maggi

maggi

Gv 1,35-42

In quel tempo Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù.
Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì – che, tradotto, significa maestro –, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio.
Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» – che si traduce Cristo – e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» – che significa Pietro.

Nel libro dell’Esodo, nel capitolo 12, si descrive la Pasqua, la liberazione degli ebrei dalla schiavitù egiziana. In questo capitolo Dio comanda, attraverso Mosè, a ogni famiglia israelita, di prendere un agnello ucciderlo e mangiarlo. Perché? La carne dell’agnello avrebbe trasmesso l’energia per iniziare questo cammino di liberazione verso la terra della libertà e il sangue li avrebbe preservati dal passaggio dell’angelo sterminatore che avrebbe seminato la morte.
Ebbene l’evangelista Giovanni tiene molto presenti queste linee teologiche per presentare la figura di Gesù. Leggiamo.
Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli, e, fissando lo sguardo … Il verbo “fissare”  nel vangelo di Giovanni appare soltanto due volte e unicamente in questo episodio. Fissare significa svelare la realtà più profonda di un individuo. Qui Giovanni Battista fissa, cioè svela la realtà più profonda di Gesù, e poi alla fine del brano sarà Gesù che fisserà Simone, svelandone la realtà più profonda.

Fissando lo sguardo su Gesù che passava disse: “Ecco l’agnello di Dio”, ecco l’agnello che Dio ha mandato al suo popolo. La carne di Gesù darà la capacità, la forza e l’energia per iniziare questo cammino di pienezza verso la liberazione. E il sangue non libererà dalla morte fisica, ma libererà dalla morte per sempre. Il sangue dell’agnello trasmetterà all’uomo la stessa vita divina. Per questo gli conferirà una vita che è chiamata “eterna” non tanto per la durata (per sempre), quanto per la qualità indistruttibile.
Ebbene, i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, lo seguirono. Quindi inizia questo processo di liberazione. Gesù è indicato come l’agnello e ci sono già i primi discepoli che lasciano Giovanni Battista e seguono Gesù perché dentro di sé sentono questo bisogno di pienezza di vita, di liberazione.
Infatti Gesù, che va incontro ai desideri degli uomini, vedendo che questi lo seguono, si voltò, osservando che essi lo seguivano, disse loro: “Che cosa cercate?”. Gesù non chiede “Chi cercate”, ma “che cosa cercate”. Se cercano pienezza di vita, se cercano la risposta al proprio desiderio di vita, di felicità, possono andare, ma se cercano onori, potere e ricchezze inevitabilmente rimarranno delusi dalla figura di Gesù.
Gli risposero: “Rabbì” – che, tradotto, significa maestro -, dove dimori?”  Ebbene Gesù risponde: “Venite e vedrete”. Il luogo dove Gesù dimora non può conoscersi per una informazione, ma per una esperienza, perché Gesù dimora nella pienezza della sfera, dell’amore divino. Gesù in questo vangelo è stato indicato come “il verbo, la parola di Dio che ha messo la tenda in noi, dimora in noi”, quindi andare verso Gesù significa entrare nella dimensione dell’amore di Dio.
Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui. E’ l’inizio di una tappa di fusione tra Gesù e i suoi discepoli. Ora i discepoli vanno a dimorare con Gesù, ma poi sarà Gesù più avanti, nel capitolo 14-23 che chiederà ai discepoli di dimorare in loro. Gesù dirà: “A chi mi ama, io e il padre mio verremo in lui e prenderemo dimora in lui”. Quindi c’è una fusione tra i discepoli e Gesù per diventare – quello che sarà il tema conduttore di questo vangelo – una unica realtà che esprima la manifestazione di Dio.
L’evangelista sottolinea che erano circa le quattro del pomeriggio, ogni indicazione che troviamo nei vangeli non è superflua, ma ha un profondo significato. Il giorno sta per tramontare e sta per iniziare il nuovo giorno. Con i primi discepoli che seguono Gesù inizia una nuova realtà.
L’evangelista ci sottolinea che uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea. Andrea comparirà ancora due volte in questo vangelo, insieme a Filippo, nell’episodio della condivisione dei pani e quando dei greci chiederanno di vedere Gesù. Fratello di Simon Pietro. Egli incontro per primo suo fratello Simone e gli disse: “Abbiamo trovato il Messia” – che si traduce Cristo.
Stranamente da parte di Simone non c’è nessuna reazione, nessuna risposta e nessun entusiasmo, ma deve essere il fratello che lo conduce a Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, quindi Gesù svela la realtà più profonda di questo Simone, Gesù disse: “Tu sei Simone, il figlio di Giovanni”. Ponendo l’articolo determinativo, “il” figlio significa che è figlio unico. Ma qui abbiamo visto che Simone ha un fratello, Andrea, per cui Giovanni non può essere il nome del padre di Simone e di Andrea.

Cosa vuol dire allora “il figlio di Giovanni”? E chi è questo Giovanni? E’ Giovanni Battista. Anche Simone era discepolo di Giovanni Battista, anzi era il discepolo ideale, per questo Gesù lo chiama “il figlio”. Era il discepolo modello di Giovanni Battista.
E Gesù, fissandolo, quindi svela la realtà più profonda, dice:  “Sarai chiamato Cefa”, che significa Pietro”. Pietro indica la durezza, la cocciutaggine, al testardaggine. Per ora questo soprannome legato a Simone rimane misterioso, ma andrà svelandosi lungo tutto il vangelo perché vedrà sempre questo discepolo essere contrario, essere in opposizione a quello che Gesù farà.

 

 

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a proposito della satira di Charli Hebdo

“ridere è una cosa seria”   

  Lidia Maggi riflette sul massacro parigino di Charli Hebdo

Lidia Maggi

 

 

 

da grande credente ma al tempo stesso da persona che ha un approccio intelligentemente critico con le tradizioni e i simboli religiosi, Lidia Maggi trova nelle stessa bibbia una ‘scuola di ironia’ che ci sollecita ad evitare non solo ogni guerra di religione ma anche ogni contrapposizione religiosamente motivata
“Il divieto di nominare Dio o farsene immagina non è un interdetto all’ironia e alla satira, o alla critica in generale; piuttosto, è un monito contro gli usi impropri del divino. Anzi, è proprio quel divieto che ci spinge a valorizzare la satira in quanto anti-idolatrica, perché capace di smontare l’immagine fissa che ci facciamo di Dio”

 

 la Bibbia è una scuola di ironia, che ci educa a discutere con Dio

Nel massacro parigino di Charlie Hebdo, tra le tante vittime, è stata colpita anche la democrazia con il suo diritto alla satira, a poter deridere il potere, ogni potere, anche quello religioso. Qualcuno, in nome di un presunto Dio, ha ucciso un simbolo della libertà, giornalisti inermi, armati solo di una matita.  Ma perché l’accostamento tra satira e religione fa così paura? Perché denuncia e mette in discussione qualcosa che, nell’immaginario collettivo, è ritenuto intoccabile, ovvero il sacro.  Un proverbio recita: «scherza con i fanti, ma lascia stare i santi». Tu puoi addirittura scherzare con l’esercito, il potere costituito, ma non con il sacro, percepito come separato da ciò che è discutibile, opinabile, considerato come assoluto, sciolto da ogni possibilità di confronto.  Questa visione della fede genera atteggiamenti intolleranti verso tutti coloro che, invece, osano pensare che anche il sacro possa essere sottoposto alla critica, sia quella seria, tragica, di chi, nella disperazione, sente il cielo chiuso, come quella più irriverente, ironica, che osa prendere le distanze da un’immagine di Dio troppo granitica o obsoleta.  Il divieto di nominare Dio o farsene immagina non è un interdetto all’ironia e alla satira, o alla critica in generale; piuttosto, è un monito contro gli usi impropri del divino. Anzi, è proprio quel divieto che ci spinge a valorizzare la satira in quanto anti-idolatrica, perché capace di smontare l’immagine fissa che ci facciamo di Dio.  L’’idolo è la contraffazione di Dio. La critica ironica serve a prendere consapevolezza che il posto di Dio lo può prendere l’idolo. E l’idolo non è solo il dio degli altri, è soprattutto il proprio, come nella scena del vitello d’oro e delle altre false rappresentazioni della propria divinità. Questa riflessione sull’idolatria, che attraversa tutta la Scrittura fino alle ultime pagine (»figlioletti, guardatevi dagli idoli» I Giov. 5,21), trova nuovo vigore nel nostro contesto. Dovremmo tornare a riflettere sul senso profondo dell’idolatria, che non è questione di statue – come, qualche volta, banalizza la voce protestante; piuttosto, è la chiamata ad assumersi la fatica di fare i conti con un Dio sempre a rischio di essere sostituito. Insomma, l’immagine fissa del sacro, sottratto ad ogni critica, è messa in radicale discussione dal Dio biblico. Egli è santo, separato; e tuttavia, «Dio con noi, Dio nella storia, fino alla forma più radicale di contaminazione: l’incarnazione.  Nella Bibbia si discute con Dio, e Questi non si sottrae alla critica. Giobbe arriva fino a denunciarlo per vederlo seduto sul banco degli imputati. Anche nella la tradizione dei salmi, la preghiera del credente pio, Dio viene criticato quando non sembra agire e rimane lontano da chi lo invoca.  Non solo la critica seria, ma anche la satira, nella Bibbia, ha diritto di cittadinanza: ad iniziare da quella graffiante dei profeti, con la loro descrizione ironica e vignettistica degli idoli: «hanno occhi e non vedono..»; «l’uomo prende un pezzo di legno lo scolpisce e lo chiama dio».  Le vignette, proprio come queste descrizioni dei profeti, sono sarcastiche perché con pochi tratti devono pungere il cuore, esasperando alcuni aspetti, deformando la realtà, al fine di mettere in evidenza una verità dimenticata. Mettono una maschera proprio per smascherare il potere.  Un intero libro della Bibbia ricorre a questa tecnica e ci regala una descrizione satirica dei potenti: il libro di Ester. I personaggi sono caricature; il potere, apparentemente forte più che mai, è rappresentato come un palazzo di cartone, destinato a crollare grazie all’astuzia di una donna. Tutto è eccessivo, esagerato: i giardini, i banchetti, le leggi e i personaggi, proprio come a carnevale. Non è un caso che, nella liturgia ebraica, il libro di Ester viene letto a Purim, per fare memoria del ribaltamento delle sorti.  La Bibbia è una scuola di ironia, che ci educa a discutere con Dio. E nello stesso tempo, anche Dio è ironico con noi perché ci prospetta punti di vista differenti, mette il nostro mondo sotto-sopra, così che gli ultimi si ritrovano primi! L’ironia è un antidoto ai fondamentalismi perché prende le distanze, insegna a guardare il mondo da altre angolazioni, libera dallo sguardo fisso, idolatrico. Ridimensionando la pretesa di comprendere tutto, apre alla forma di ironia più frequentata nella Bibbia, ovvero l’autoironia. Ed è proprio questo sguardo autoironico che spinge Israele a raccontare la propria nascita non con il pianto delle doglie, ma attraverso il riso. Ride Abramo, nostro padre nella fede, davanti al Signore dell’universo, quando questi gli annuncia un figlio nella sua vecchiaia; e ride anche Sara, nostra madre, che origlia, da dietro la tenda, i discorsi tra i messaggeri divini ed il marito. Anche Dio ride: ed il figlio della promessa, Isacco, porterà questo riso divino inscritto nel suo nome. Noi tutti, figli di Abramo, discendenti di quella coppia originaria, siamo figli di una risata, allo stesso tempo umana e divina.  Insomma, per dirla con Rabelais, «ridere è una cosa seria».

13 gennaio 2015

  http://www.riforma.it/it/articolo/2015/01/13/ridere-e-una-cosa-seria

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un vero businnes attorno ai campi rom

campi Rom, da Roma a Napoli, ecco un business tutto italiano

dopo l’inchiesta Mafia Capitale, anche a Napoli si apre un fascicolo sulla gestione dei campi nomadi. Le città sotto il mirino degli inquirenti aumentano, mentre l’Italia resta l’unico Paese europeo a finanziare campi rom con soldi pubblici. Una spesa per cui tra il 2005 e il 2011 solo le città di Napoli, Roma e Milano hanno stanziato oltre 100 milioni di euro

(Foto: Ap/LaPresse)

Un’emergenza che a Napoli andava avanti da decenni. Ma sembra esserci voluto lo scoppio dello scandalo di “Mafia capitale” per far partire le indagini anche nel capoluogo campano. La domanda a cui cercano di rispondere i pm è semplice: l’Ue nel 2003 ha stanziato 7 milioni di euro destinati alle baraccopoli dove vivono i rom partenopei, ma perché questi soldi non sono mai stati utilizzati e per quali mani sono passati? Finanziamenti che erano invece destinati alla riqualificazione del campo nomadi di via Brecce a Sant’Erasmo e di quello di Scampia. Container chiamati “casa” da circa 2.500 ex jugoslavi e rumeni che sembrano non aver ricevuto alcuna assistenza. Come nel campo di Scampia, dove per oltre 200 rom anche i servizi igienici sono un sogno lontano dalla realtà.

Ci avevano visto lungo le associazioni Berenice, Compare, Lunaria e OsservAzione quando, un anno prima dello scoppio dello scandalo di Roma, avevano diffuso il rapporto Segregare Costa. Qui erano già stati segnalati i 7 milioni di euro inutilizzati dall’amministrazione napoletana. Ma c’è dell’altro. Secondo le ong tra il 2005 e il 2011 a Napoli, Roma e Milano (le città che ospitano le più numerose comunità di rom) sono stati stanziati almeno 100 milioni di euro per allestire e mantenere i campi nomadi. Il report denuncia “la scarsa trasparenza e l’insufficiente livello di dettaglio dei documenti contabili, la difficoltà a reperire delibere comunali con cui si provvede all’erogazione dei fondi”, oltre alla “reticenza di alcuni tra i referenti istituzionali a fornire la documentazione richiesta”. Oltre al finanziamento dell’Ue a Napoli ora nel mirino della Procura, per il report la problematica potrebbe essere più ampia. Quanti sono quindi i fondi stanziati e quanti i soldi effettivamente spesi per le politiche dei campi rom? Dal 2005 al 2011 oltre 24 milioni di euro stanziati a Napoli, ma di questi meno della metà è stata effettivamente impegnata.

Allargando il focus a livello nazionale, “il caso di Milano si contraddistingue per le criticità nella fase di raccolta dati” che hanno impedito di offrire una ricostruzione “dei costi effettivi”, continua il rapporto, segnalando come il business dei campi rom nel capoluogo lombardo si traduca in 2,1 milioni di euro di stanziamenti accertati. Che dire poi dei campi nomadi della Capitale dove, sempre tra il 2005 e il 2011, gli stanziamenti hanno superato i 69 milioni di euro? Una situazione che può essere ben riassunta dalle intercettazioni di Salvatore Buzzi, capo della cooperativa 29 giugno al centro dell’inchiesta Mafia Capitale: “Con i rom si fanno più soldi che con la droga”. Un meccanismo, quello per guadagnare dalla gestione dei campi rom, basato sull’assegnazione di appalti in via diretta, senza gara. Solo nel 2013 – si legge del report di Associazione 21 luglio “Campi Nomadi spa” – per la gestione degli 11 insediamenti dove vivono 5mila degli 8mila nomadi della Capitale, a Roma sono stati spesi 24 milioni di euro, un fiume incontrollato e difficilmente rintracciabile di denaro pubblico – denuncia l’ong – Di questi, l’86% è destinato alla gestione e alla sicurezza”, mentre solo il 13% alla scolarizzazione e lo 0,4% a progetti di inclusione. Un danno non solo per la finanza locale, ma anche per l’integrazione di questa comunità.

L’Italia è l’unico paese in Europa a chiedere alla comunità rom di vivere in campi finanziati da soldi pubblici. Nel 2012 per la prima volta è stata adottata una strategia nazionale che sottolinea il carattere discriminatorio dei campi nomadi, con l’obiettivo di un loro superamento. Ma i soldi attorno alla gestione dei campi sono tanti. E le inchieste di questi mesi fanno intuire quali siano i veri motivi dietro la volontà politica di non chiudere i campi rom.

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quando i rom erano gli italiani

 

“La zingarata della verginella di via Ormea”

quando i rom erano gli italiani

di Elisa Murgese |

15 gennaio 2015

si tratta dell’ultimo romanzo dell’algerino Amara Lakhous. Il giallo parte da un fatto di cronaca – una 15enne torinese inventa di essere stata stuprata da due zingari – per attraversare le radici degli italiani, popolo di migranti, e le leggende sui gitani

algerino

 

 

  •  ”Rovistano tra i rifiuti nelle nostre strade, i loro bambini crescono in luridi scantinati e poi vengono spediti nelle strade a fare soldi”. Non è una frase tratta da un giornale italiano e riferita ai rom, ma un articolo del New York Times del 1882 in cui un giornalista descrive gli italiani d’America. Questa l’epigrafe di La zingarata della verginella di via Ormea, ultimo romanzo di Amara Lakhous (edizioni e/o). Nato ad Algeri nel 1970 e fuggito in Italia all’età di 25 anni, Lakhous è una delle voci che meglio ha saputo rappresentare il rapporto degli italiani con i nuovi italiani e gli anti-italiani. Il romanzo, metà commedia all’italiana e metà giallo, si basa su un fatto di cronaca: una 15enne del quartiere torinese di San Salvario finge di essere stata violentata da due rom. Pochi giorni dopo un campo nomadi è dato alle fiamme, ferendo anche una donna e il suo bambino. Sarà il giornalista di cronaca nera Enzo Laganà a dover chiarire se lo stupro è avvenuto davvero. E la cronaca farà giustizia: la ragazza si era inventata tutto.
  • Quando è stato il suo primo incontro con i rom? In una leggenda di mia madre. Sono il sesto di nove figlie e i miei genitori non potevano controllare tutti. Per metterci in guardia, i miei genitori hanno inventato la storia di una giovane donna era andata in ospedale con il suo bambino. Dovendo andare in bagno, ha chiesto ad una vecchia di curare suo figlio. Ma quando è tornata la vecchia e il bambino erano spariti. La giovane donna non si era accorta che la vecchia fosse una zingara.
  • Quindi? Non sono d’accordo sul bisogno di insistere sulla moralità dei giornalisti e sul fatto che debbano essere. Loro rispecchiano la società in cui lavorano. E comunque, i danni fatti dai giornali sono sempre minori di quelli della tv. Pensiamo ai danni fatti da Emilio Fede e Bruno Vespa: sono incalcolabili.
  • Cosa l’ha spinta a scrivere sui rom e sull’Italia? Ho scritto questo libro partendo da due assurdità. La prima è che nonostante i rom siano arrivati in Piemonte nel Medioevo, ci troviamo ancora a parlare della paura che hanno gli italiani nei loro confronti. La seconda è una domanda: fa più danno un rom che ruba un portafogli o le banche che mi hanno cercato di vendere le azioni Parmalat?
  • Cosa intende? Il vostro immaginario è turbato dalla storia. Non esiste un altro popolo che è emigrato tanto in tutto il mondo come gli italiani. A questo si aggiunge chi dal meridione è venuto al nord. Questo passato per voi è ancora una ferita. Invece l’Italia dovrebbe guardare al passato dei suoi cittadini e ricordarsi che c’è una differenza tra il povero e il poveraccio.
  • Da qualche mese dall’Italia si è trasferito a New York. Perché? Mia moglie sta facendo un dottorato e l’ho seguita. Sto facendo l’immigrato. La vita è sempre fatta di sfide. Non si può crescere senza sfide e a me piace giocare in attacco.
  • Cioè? I migranti che arrivano oggi in Italia non sono poveracci, sono persone coraggiose e spesso istruite. I vigliacchi non emigrano. E questo gli italiani dovrebbero saperlo bene. L’immigrazione è una grande sfida ma come tutte le sfide se non sei attrezzato non vinci. E in questo l’Italia sta perdendo. Basti pensare agli immigrati di seconda generazione a cui non viene neppure riconosciuta la cittadinanza.
  • E’ il quarto romanzo sull’Italia. E’ la chiusura di un ciclo? Si, proprio così. Ho voluto scrivere tanto su questo Paese che mi ha accolto quando sono scappato dall’Algeria nel 1995. Ho cercato di lavorare sulla memoria italiana e di tranquillizzarne l’immaginario.
  • Crede che l’Italia sai un Paese accogliente? L’Italia non lo so, alcuni italiani di certo. C’è poi un grande paradosso tutto vostro: avete una grande diffidenza nei confronti degli immigrati e allo stesso tempo affidate i vostri genitori a donne straniere.
  • Quali sono secondo lei le origini di questo racconto? Siamo spaventati da povertà e malattia. E vediamo nei rom quello che non vogliamo essere. Sei anni fa ho collaborato a Barbari, un programma su La7. Volevamo raccontare la vita delle comunità straniere in Italia. Siamo anche entrati nei campi rom. La loro è una vita molto dura. Non so quante persone sarebbero in grado di vivere in quelle condizioni.
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i 50 anni della rivista teologica ‘Concilium’

 

 

«Concilium», 50 anni agli avamposti”

di Filippo Rizzi
 
in maggio convegno a Rio de Janeiro

Sacra Scrittura, teologia morale e dogmatica, diritto canonico, liturgia, spiritualità e storia della Chiesa. Sfogliando l’immensa bibliografia della rivista «Concilium» sono queste le voci più ricorrenti e gli argomenti finiti più volentieri nel focus del periodico internazionale. Temi e questioni cruciali che vanno dalla teologia dei diritti umani alle «vie del cristianesimo in Africa», alla cruciale teologia della liberazione in America Latina… In questi 50 anni tante le firme di autori autorevoli – teologi e no – ospitate dalla rivista (edita in 7 lingue e con una comunità redazionale composta da circa 300 teologi): da Gustavo Gutierrez a Jon Sobrino, dai domenicani parigini Claude Geffré e Marie-Dominique Chenu al gesuita Cristoph Théobald, dallo storico Giuseppe Alberigo al teologo ortodosso Olivier Clément, fino al «teologo della speranza» Jürgen Moltmann. Senza dimenticare il grande esegeta dell’«École Biblique» Pierre Benoit. «Alla rivista hanno dato il loro contributo anche scrittori non necessariamente teologi – spiega Rosino Gibellini –, come il pedagogista brasiliano Paulo Freire o i filosofi francesi Paul Ricoeur ed Emmanuel Lévinas. Una tradizione culturale da potenziare». L’anniversario del 2015 aiuterà anche a ripartire del programma iniziale della rivista che – come recita l’editoriale del gennaio 1965 – è costruita sul «fondamento del Vaticano II». «Il 50° anniversario – spiega il presidente della Fondazione Concilium Felix Wilfred – verrà celebrato a maggio con una conferenza internazionale a Rio de Janeiro. C’è molto interesse attorno a questo appuntamento soprattutto tra le Chiese di nuova cristianità, per la forma di teologia e cultura dell’incontro portata avanti da Concilium»

«Concilium tenta di essere un radar, che prolunga nella mutazione contemporanea la grande tradizione teologica. La teologia è sempre in ricerca. Ciò è importante nel momento in cui siamo aggrediti da tanti problemi nuovi»

 

Queste parole quasi dal sapore profetico ma anche programmatico di uno dei padri nobili della Nouvelle théologie, il domenicano francese Yves-Marie Congar, fotografano ancora oggi l’attualità della rivista internazionale di teologia Concilium, che questo giovedì varcherà il 50° anno di vita. Fu infatti il 15 gennaio 1965 (pochi mesi prima della chiusura del Vaticano II, avvenuta l’8 dicembre di quell’anno) che, dopo un lungo travaglio redazionale, comparve il primo numero – consegnato per l’occasione a tutti i padri conciliari – della pubblicazione che avrebbe rappresentato una bussola di orientamento per la teologia post-conciliare e non solo. Tra i collaboratori di quell’esordio figurava anche il teologo Joseph Ratzinger e futuro papa Benedetto XVI, autore del saggio «Le implicazioni pastorali della dottrina della collegialità dei vescovi».

Eppure, nel corso della sua lunga vita, Concilium è sempre stata percepita all’interno del complesso arcipelago della teologica cattolica come «di rottura» rispetto alla più tradizionale pubblicazione Communio, nata nel 1972; per certuni addirittura un contraltare rispetto al periodico di stampo conservatore Renovatio, voluto dal cardinale Giuseppe Siri, mentre per altri era il fedele erede degli insegnamenti del Vaticano II (come enunciava del resto l’editoriale programmatico del 1965 «Una nuova rivista di teologia. Perché e per chi?» di Karl Rahner e Edward Schillebeeckx).

Il traguardo del mezzo secolo viene ora letto con grande carico di speranza e di gratitudine dal «padre nobile» dell’edizione italiana, il teologo Rosino Gibellini: «I primi teologi ad aggregarsi furono proprio il domenicano Schillebeeckx di Nimega e il gesuita Rahner di Innsbruck – rivela lo studioso piamartino – e due giovani teologi di lingua tedesca: Hans Küng di Tubinga e Johann Baptist Metz di Münster. Sono questi i fondatori di Concilium, cui si devono aggiungere l’editore Paul Brand e l’amministratore presidente Anton von den Boogaard».

 

Padre Gibellini nel suo articolato ragionamento rievoca l’importanza di questa rivista («alla cui stesura partecipano oggi un ugual numero di collaboratori e collaboratrici»), che ha sempre cercato di dialogare con i lontani, di «leggere i segni dei tempi», di affrontare temi scottanti come l’ecologia, l’ecumenismo, il ruolo delle donne all’interno del cattolicesimo, il Terzo mondo, e di dare ampio spazio a tutto ciò che proviene dalla teologia extraeuropea.

Uno sguardo verso l’Asia e le Chiese giovani confermato dalla scelta di trasferire la sede centrale di Concilium da Nimega (Olanda) a Madras in India. «Il fatto stesso che la rivista abbia scelto come sede di riferimento un Paese in via di sviluppo è un chiaro messaggio del viaggio compiuto attraverso dei confini e dei legami – spiega da Madras il teologo indiano e presidente della Fondazione Concilium, Felix Wilfred –. Si è trattato di una scelta strategica alla luce anche del fatto che l’asse della cristianità si è spostato verso Sud, dove è vivace pur in mezzo a molte difficoltà, mentre vediamo una situazione completamente diversa in Europa e nel Nord America, dove le chiese si stanno svuotando».

E aggiunge un particolare: «La rivista vuole rimanere fedele al suo grande passato e ai padri fondatori, ma contemporaneamente desidera tenere aperto un varco di dialogo nel campo del pluralismo religioso come sua istanza primaria, tramite anche una visione teologica che vada oltre la cosiddetta sua matrice di origine “euro-americana”. Per questo è divenuto per noi di primaria importanza dare più voce al nuovo cristianesimo presente in Africa, Asia e Oceania. Una strategia editoriale che ci pare in linea con l’impronta pastorale di papa Francesco e del suo sguardo sul mondo. Tutto questo si presenta per noi come una sfida a costruire una nuova identità in risposta anche ai tempi che cambiano».

Una rivista teologica d’avanguardia in cui è sempre stato vivo il dibattito, il confronto tra i saperi, ma che forse è divenuta – per sua stessa ammissione e anche per la forza capillare del suo think thank di esperti – «un movimento nella Chiesa?» (come si interrogava in un famoso editoriale del 1992 il teologo domenicano Jean Pierre Jossua). «Sicuramente – rileva Elio Guerriero, direttore per tanti anni dell’edizione italiana di Communio – è stata una pubblicazione che ci ha aiutato a capire il fermento che stava dietro al Vaticano II.

Ci ha offerto tanti strumenti per capire il valore di quell’assise ecumenica. Ha aiutato ad esempio molti studiosi a capire il valore della teologia nera o i segni di fecondità che provenivano dalla teologia studiata e interpretata dalle donne. Proprio per la sua diversità da Communio in un contesto di pluralismo, ha rappresentato una voce diversa all’interno della Chiesa; complementare ma non rivale, per celebrare con note diverse quella “verità sinfonica” tanto amata dal teologo svizzero Hans Urs von Balthasar».

Guerriero ritorna con la mente anche alla nascita di Communio, al circolo di teologi (molti dei quali provenienti dall’esperienza di Concilium) come Joseph Ratzinger e Henri de Lubac, a cui si aggiunsero Hans Urs von Balthasar e Louis Bouyer, e ai motivi che spinsero alla genesi di quella pubblicazione nel lontano 1972: «Mi hanno sempre colpito le parole che in questi ultimi anni ci ha indirizzato Joseph Ratzinger, le esortazioni cioè ad avere il “coraggio di andare avanti” e di parlare con chiarezza e senza infingimenti pensando solo al futuro e al bene della Chiesa.Ed è lo stesso coraggio che mi sento di indirizzare a Concilium, andando oltre i piccoli campanilismi che ci dividono o le polemiche clericali, ad esempio su quale ruolo attribuire alle donne nella Chiesa». E aggiunge un particolare: «Credo che uno degli aspetti su cui investire di più, proprio alla luce degli insegnamenti del Concilio, sia il recupero dell’universale vocazione alla santità della Chiesa: uno dei tratti essenziali del Vaticano II e più ribaditi da padri conciliari. Ma quest’aspetto è scomparso prestissimo dai dibattiti teologici».
Concilium ha dunque un ruolo di pungolo nei confronti della teologia contemporanea, proiettato verso il futuro «senza vergognarsi del suo passato», come direbbe Karl Rahner, e continuando ad «assolvere il proprio compito opportune et importune»…«Credo e spero che questo anniversario – è la riflessione finale di Gibellini – aiuti tutti a ritornare alla radici fondative della rivista, cattolica con apertura ecumenica. La nostra pubblicazione non intende, come spesso si pensa, essere “di rottura”, ma espressione di una new catholicity, di una “nuova cattolicità” che rispetta le differenze e le accoglie in un orizzonte ampiamente ecumenico. Il filo rosso del nostro progetto è quello di sempre: continuare a convivere senza rivalità e tratti polemici con le altre riviste all’insegna di una “responsabilità reciproca e condivisa” nei confronti della causa del Vangelo nel mondo».

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