a proposito della satira di Charli Hebdo

“ridere è una cosa seria”   

  Lidia Maggi riflette sul massacro parigino di Charli Hebdo

Lidia Maggi

 

 

 

da grande credente ma al tempo stesso da persona che ha un approccio intelligentemente critico con le tradizioni e i simboli religiosi, Lidia Maggi trova nelle stessa bibbia una ‘scuola di ironia’ che ci sollecita ad evitare non solo ogni guerra di religione ma anche ogni contrapposizione religiosamente motivata
“Il divieto di nominare Dio o farsene immagina non è un interdetto all’ironia e alla satira, o alla critica in generale; piuttosto, è un monito contro gli usi impropri del divino. Anzi, è proprio quel divieto che ci spinge a valorizzare la satira in quanto anti-idolatrica, perché capace di smontare l’immagine fissa che ci facciamo di Dio”

 

 la Bibbia è una scuola di ironia, che ci educa a discutere con Dio

Nel massacro parigino di Charlie Hebdo, tra le tante vittime, è stata colpita anche la democrazia con il suo diritto alla satira, a poter deridere il potere, ogni potere, anche quello religioso. Qualcuno, in nome di un presunto Dio, ha ucciso un simbolo della libertà, giornalisti inermi, armati solo di una matita.  Ma perché l’accostamento tra satira e religione fa così paura? Perché denuncia e mette in discussione qualcosa che, nell’immaginario collettivo, è ritenuto intoccabile, ovvero il sacro.  Un proverbio recita: «scherza con i fanti, ma lascia stare i santi». Tu puoi addirittura scherzare con l’esercito, il potere costituito, ma non con il sacro, percepito come separato da ciò che è discutibile, opinabile, considerato come assoluto, sciolto da ogni possibilità di confronto.  Questa visione della fede genera atteggiamenti intolleranti verso tutti coloro che, invece, osano pensare che anche il sacro possa essere sottoposto alla critica, sia quella seria, tragica, di chi, nella disperazione, sente il cielo chiuso, come quella più irriverente, ironica, che osa prendere le distanze da un’immagine di Dio troppo granitica o obsoleta.  Il divieto di nominare Dio o farsene immagina non è un interdetto all’ironia e alla satira, o alla critica in generale; piuttosto, è un monito contro gli usi impropri del divino. Anzi, è proprio quel divieto che ci spinge a valorizzare la satira in quanto anti-idolatrica, perché capace di smontare l’immagine fissa che ci facciamo di Dio.  L’’idolo è la contraffazione di Dio. La critica ironica serve a prendere consapevolezza che il posto di Dio lo può prendere l’idolo. E l’idolo non è solo il dio degli altri, è soprattutto il proprio, come nella scena del vitello d’oro e delle altre false rappresentazioni della propria divinità. Questa riflessione sull’idolatria, che attraversa tutta la Scrittura fino alle ultime pagine (»figlioletti, guardatevi dagli idoli» I Giov. 5,21), trova nuovo vigore nel nostro contesto. Dovremmo tornare a riflettere sul senso profondo dell’idolatria, che non è questione di statue – come, qualche volta, banalizza la voce protestante; piuttosto, è la chiamata ad assumersi la fatica di fare i conti con un Dio sempre a rischio di essere sostituito. Insomma, l’immagine fissa del sacro, sottratto ad ogni critica, è messa in radicale discussione dal Dio biblico. Egli è santo, separato; e tuttavia, «Dio con noi, Dio nella storia, fino alla forma più radicale di contaminazione: l’incarnazione.  Nella Bibbia si discute con Dio, e Questi non si sottrae alla critica. Giobbe arriva fino a denunciarlo per vederlo seduto sul banco degli imputati. Anche nella la tradizione dei salmi, la preghiera del credente pio, Dio viene criticato quando non sembra agire e rimane lontano da chi lo invoca.  Non solo la critica seria, ma anche la satira, nella Bibbia, ha diritto di cittadinanza: ad iniziare da quella graffiante dei profeti, con la loro descrizione ironica e vignettistica degli idoli: «hanno occhi e non vedono..»; «l’uomo prende un pezzo di legno lo scolpisce e lo chiama dio».  Le vignette, proprio come queste descrizioni dei profeti, sono sarcastiche perché con pochi tratti devono pungere il cuore, esasperando alcuni aspetti, deformando la realtà, al fine di mettere in evidenza una verità dimenticata. Mettono una maschera proprio per smascherare il potere.  Un intero libro della Bibbia ricorre a questa tecnica e ci regala una descrizione satirica dei potenti: il libro di Ester. I personaggi sono caricature; il potere, apparentemente forte più che mai, è rappresentato come un palazzo di cartone, destinato a crollare grazie all’astuzia di una donna. Tutto è eccessivo, esagerato: i giardini, i banchetti, le leggi e i personaggi, proprio come a carnevale. Non è un caso che, nella liturgia ebraica, il libro di Ester viene letto a Purim, per fare memoria del ribaltamento delle sorti.  La Bibbia è una scuola di ironia, che ci educa a discutere con Dio. E nello stesso tempo, anche Dio è ironico con noi perché ci prospetta punti di vista differenti, mette il nostro mondo sotto-sopra, così che gli ultimi si ritrovano primi! L’ironia è un antidoto ai fondamentalismi perché prende le distanze, insegna a guardare il mondo da altre angolazioni, libera dallo sguardo fisso, idolatrico. Ridimensionando la pretesa di comprendere tutto, apre alla forma di ironia più frequentata nella Bibbia, ovvero l’autoironia. Ed è proprio questo sguardo autoironico che spinge Israele a raccontare la propria nascita non con il pianto delle doglie, ma attraverso il riso. Ride Abramo, nostro padre nella fede, davanti al Signore dell’universo, quando questi gli annuncia un figlio nella sua vecchiaia; e ride anche Sara, nostra madre, che origlia, da dietro la tenda, i discorsi tra i messaggeri divini ed il marito. Anche Dio ride: ed il figlio della promessa, Isacco, porterà questo riso divino inscritto nel suo nome. Noi tutti, figli di Abramo, discendenti di quella coppia originaria, siamo figli di una risata, allo stesso tempo umana e divina.  Insomma, per dirla con Rabelais, «ridere è una cosa seria».

13 gennaio 2015

  http://www.riforma.it/it/articolo/2015/01/13/ridere-e-una-cosa-seria

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un vero businnes attorno ai campi rom

campi Rom, da Roma a Napoli, ecco un business tutto italiano

dopo l’inchiesta Mafia Capitale, anche a Napoli si apre un fascicolo sulla gestione dei campi nomadi. Le città sotto il mirino degli inquirenti aumentano, mentre l’Italia resta l’unico Paese europeo a finanziare campi rom con soldi pubblici. Una spesa per cui tra il 2005 e il 2011 solo le città di Napoli, Roma e Milano hanno stanziato oltre 100 milioni di euro

(Foto: Ap/LaPresse)

Un’emergenza che a Napoli andava avanti da decenni. Ma sembra esserci voluto lo scoppio dello scandalo di “Mafia capitale” per far partire le indagini anche nel capoluogo campano. La domanda a cui cercano di rispondere i pm è semplice: l’Ue nel 2003 ha stanziato 7 milioni di euro destinati alle baraccopoli dove vivono i rom partenopei, ma perché questi soldi non sono mai stati utilizzati e per quali mani sono passati? Finanziamenti che erano invece destinati alla riqualificazione del campo nomadi di via Brecce a Sant’Erasmo e di quello di Scampia. Container chiamati “casa” da circa 2.500 ex jugoslavi e rumeni che sembrano non aver ricevuto alcuna assistenza. Come nel campo di Scampia, dove per oltre 200 rom anche i servizi igienici sono un sogno lontano dalla realtà.

Ci avevano visto lungo le associazioni Berenice, Compare, Lunaria e OsservAzione quando, un anno prima dello scoppio dello scandalo di Roma, avevano diffuso il rapporto Segregare Costa. Qui erano già stati segnalati i 7 milioni di euro inutilizzati dall’amministrazione napoletana. Ma c’è dell’altro. Secondo le ong tra il 2005 e il 2011 a Napoli, Roma e Milano (le città che ospitano le più numerose comunità di rom) sono stati stanziati almeno 100 milioni di euro per allestire e mantenere i campi nomadi. Il report denuncia “la scarsa trasparenza e l’insufficiente livello di dettaglio dei documenti contabili, la difficoltà a reperire delibere comunali con cui si provvede all’erogazione dei fondi”, oltre alla “reticenza di alcuni tra i referenti istituzionali a fornire la documentazione richiesta”. Oltre al finanziamento dell’Ue a Napoli ora nel mirino della Procura, per il report la problematica potrebbe essere più ampia. Quanti sono quindi i fondi stanziati e quanti i soldi effettivamente spesi per le politiche dei campi rom? Dal 2005 al 2011 oltre 24 milioni di euro stanziati a Napoli, ma di questi meno della metà è stata effettivamente impegnata.

Allargando il focus a livello nazionale, “il caso di Milano si contraddistingue per le criticità nella fase di raccolta dati” che hanno impedito di offrire una ricostruzione “dei costi effettivi”, continua il rapporto, segnalando come il business dei campi rom nel capoluogo lombardo si traduca in 2,1 milioni di euro di stanziamenti accertati. Che dire poi dei campi nomadi della Capitale dove, sempre tra il 2005 e il 2011, gli stanziamenti hanno superato i 69 milioni di euro? Una situazione che può essere ben riassunta dalle intercettazioni di Salvatore Buzzi, capo della cooperativa 29 giugno al centro dell’inchiesta Mafia Capitale: “Con i rom si fanno più soldi che con la droga”. Un meccanismo, quello per guadagnare dalla gestione dei campi rom, basato sull’assegnazione di appalti in via diretta, senza gara. Solo nel 2013 – si legge del report di Associazione 21 luglio “Campi Nomadi spa” – per la gestione degli 11 insediamenti dove vivono 5mila degli 8mila nomadi della Capitale, a Roma sono stati spesi 24 milioni di euro, un fiume incontrollato e difficilmente rintracciabile di denaro pubblico – denuncia l’ong – Di questi, l’86% è destinato alla gestione e alla sicurezza”, mentre solo il 13% alla scolarizzazione e lo 0,4% a progetti di inclusione. Un danno non solo per la finanza locale, ma anche per l’integrazione di questa comunità.

L’Italia è l’unico paese in Europa a chiedere alla comunità rom di vivere in campi finanziati da soldi pubblici. Nel 2012 per la prima volta è stata adottata una strategia nazionale che sottolinea il carattere discriminatorio dei campi nomadi, con l’obiettivo di un loro superamento. Ma i soldi attorno alla gestione dei campi sono tanti. E le inchieste di questi mesi fanno intuire quali siano i veri motivi dietro la volontà politica di non chiudere i campi rom.

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quando i rom erano gli italiani

 

“La zingarata della verginella di via Ormea”

quando i rom erano gli italiani

di Elisa Murgese |

15 gennaio 2015

si tratta dell’ultimo romanzo dell’algerino Amara Lakhous. Il giallo parte da un fatto di cronaca – una 15enne torinese inventa di essere stata stuprata da due zingari – per attraversare le radici degli italiani, popolo di migranti, e le leggende sui gitani

algerino

 

 

  •  ”Rovistano tra i rifiuti nelle nostre strade, i loro bambini crescono in luridi scantinati e poi vengono spediti nelle strade a fare soldi”. Non è una frase tratta da un giornale italiano e riferita ai rom, ma un articolo del New York Times del 1882 in cui un giornalista descrive gli italiani d’America. Questa l’epigrafe di La zingarata della verginella di via Ormea, ultimo romanzo di Amara Lakhous (edizioni e/o). Nato ad Algeri nel 1970 e fuggito in Italia all’età di 25 anni, Lakhous è una delle voci che meglio ha saputo rappresentare il rapporto degli italiani con i nuovi italiani e gli anti-italiani. Il romanzo, metà commedia all’italiana e metà giallo, si basa su un fatto di cronaca: una 15enne del quartiere torinese di San Salvario finge di essere stata violentata da due rom. Pochi giorni dopo un campo nomadi è dato alle fiamme, ferendo anche una donna e il suo bambino. Sarà il giornalista di cronaca nera Enzo Laganà a dover chiarire se lo stupro è avvenuto davvero. E la cronaca farà giustizia: la ragazza si era inventata tutto.
  • Quando è stato il suo primo incontro con i rom? In una leggenda di mia madre. Sono il sesto di nove figlie e i miei genitori non potevano controllare tutti. Per metterci in guardia, i miei genitori hanno inventato la storia di una giovane donna era andata in ospedale con il suo bambino. Dovendo andare in bagno, ha chiesto ad una vecchia di curare suo figlio. Ma quando è tornata la vecchia e il bambino erano spariti. La giovane donna non si era accorta che la vecchia fosse una zingara.
  • Quindi? Non sono d’accordo sul bisogno di insistere sulla moralità dei giornalisti e sul fatto che debbano essere. Loro rispecchiano la società in cui lavorano. E comunque, i danni fatti dai giornali sono sempre minori di quelli della tv. Pensiamo ai danni fatti da Emilio Fede e Bruno Vespa: sono incalcolabili.
  • Cosa l’ha spinta a scrivere sui rom e sull’Italia? Ho scritto questo libro partendo da due assurdità. La prima è che nonostante i rom siano arrivati in Piemonte nel Medioevo, ci troviamo ancora a parlare della paura che hanno gli italiani nei loro confronti. La seconda è una domanda: fa più danno un rom che ruba un portafogli o le banche che mi hanno cercato di vendere le azioni Parmalat?
  • Cosa intende? Il vostro immaginario è turbato dalla storia. Non esiste un altro popolo che è emigrato tanto in tutto il mondo come gli italiani. A questo si aggiunge chi dal meridione è venuto al nord. Questo passato per voi è ancora una ferita. Invece l’Italia dovrebbe guardare al passato dei suoi cittadini e ricordarsi che c’è una differenza tra il povero e il poveraccio.
  • Da qualche mese dall’Italia si è trasferito a New York. Perché? Mia moglie sta facendo un dottorato e l’ho seguita. Sto facendo l’immigrato. La vita è sempre fatta di sfide. Non si può crescere senza sfide e a me piace giocare in attacco.
  • Cioè? I migranti che arrivano oggi in Italia non sono poveracci, sono persone coraggiose e spesso istruite. I vigliacchi non emigrano. E questo gli italiani dovrebbero saperlo bene. L’immigrazione è una grande sfida ma come tutte le sfide se non sei attrezzato non vinci. E in questo l’Italia sta perdendo. Basti pensare agli immigrati di seconda generazione a cui non viene neppure riconosciuta la cittadinanza.
  • E’ il quarto romanzo sull’Italia. E’ la chiusura di un ciclo? Si, proprio così. Ho voluto scrivere tanto su questo Paese che mi ha accolto quando sono scappato dall’Algeria nel 1995. Ho cercato di lavorare sulla memoria italiana e di tranquillizzarne l’immaginario.
  • Crede che l’Italia sai un Paese accogliente? L’Italia non lo so, alcuni italiani di certo. C’è poi un grande paradosso tutto vostro: avete una grande diffidenza nei confronti degli immigrati e allo stesso tempo affidate i vostri genitori a donne straniere.
  • Quali sono secondo lei le origini di questo racconto? Siamo spaventati da povertà e malattia. E vediamo nei rom quello che non vogliamo essere. Sei anni fa ho collaborato a Barbari, un programma su La7. Volevamo raccontare la vita delle comunità straniere in Italia. Siamo anche entrati nei campi rom. La loro è una vita molto dura. Non so quante persone sarebbero in grado di vivere in quelle condizioni.
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