l vangelo del primo dell’anno

 

 

 

I PASTORI TROVARONO MARIA E GIUSEPPE E IL BAMBINO.
DOPO OTTO GIORNI GLI FU MESSO NOME GESU’

 commento al Vangelo del 1 gennaio 2015 (solennità di ‘Maria madre di Dio’) di p. José María CASTILLO

Castillo

 

Lc 2,16-21
[In quel tempo, i pastori] andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino,  adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro.
Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua,  custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.
I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto,  com’era stato detto loro.
Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù,  come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo.

1. Il “mistero” di questa festività è più profondo di tutto quanto sicuramente possiamo immaginare noi mortali. Se Maria è la madre di Dio, la prima cosa  che logicamente ci dice la Chiesa, all’inizio del nuovo anno, è che Dio ha una madre. E l’ha perché Dio si dà a conoscere a noi e si rende presente in  Gesù. Il motivo di fondo di questa festività risiede nel fatto della “trascendenza di Dio”. Se Dio è il Trascendente, noi umani non possiamo “conoscere”  Dio. Lo possiamo “rappresentare”, ma questa non smetterebbe di essere una mera “rappresentazione” umana. Nella tradizione cristiana ci viene detto che  Dio si è rivelato a noi, si è dato a conoscere a noi in Gesù, la cui madre è stata Maria.
2. La prima cosa che impariamo quest’anno è che Dio non vuole ceti, categorie, piedistalli di gloria che separano, distinguono, dividono, allontanano e  creano persino scontri. Dio è il primo che dà l’esempio di quest’abbassamento e ci dice che il cammino per essere come Lui vuole non è divinizzarsi, ma  umanizzarsi. Perché in questo modo, mediante l’umanizzazione, si è realizzato l’incontro di Dio con gli esseri umani. Nell’essere umano che è stato Gesù  conosciamo Dio e ci mettiamo in relazione con Lui.
3. Dio in Gesù ha avuto una madre. Una semplice ed umile donna di quel villaggio che era Nazareth quando Gesù è venuto a questo mondo. Maria ha educato  Gesù come tutte le mamme educano i loro figli. Maria ha forgiato la sensibilità di Gesù, la sua bontà, la sua fermezza ed anche la sua libertà. Se Gesù  è stato così ammirevole al punto che, comunque sia, ci ha rivelato Dio, quale donna e quale madre ammirevole è stata Maria per essere stata capace di educare
in questo modo Gesù!

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le 15 malattie della chiesa

 

 

 

 

 

 

 

 

 

una chiesa gravemente malata

papa Francesco contro la Curia: “Gravissima la malattia della doppia vita”

dal sito di Haffington post:malattie curia

 

Ecco le malattie che il Papa, nella udienza alla curia per gli auguri di Natale, ha elencato e analizzato invitando alla riflessione, alla penitenza e alla confessione, in questi giorni che separano dal Natale: la prima è la “malattia del sentirsi immortali, immuni da difetti, trascurando i controlli” un corpo che non fa “autocritica, non aggiorna e non cerca di migliorarsi, è un corpo infermo”. Il Papa ha suggerito una “ordinaria visita ai cimiteri, dove vediamo i nomi di tante persone che si consideravano immuni e indispensabili”.Questa malattia, ha commentato il Papa, “deriva spesso dalla patologia del potere, dal narcisismo che guarda la propria immagine e non vede il volto di Dio impresso” negli altri, sopratutto “i più deboli”. “Antidoto a questa epidemia – ha suggerito il Pontefice – è la grazia di sentirci peccatori, e il dire ‘siamo servi inutili'”.La secondo è la “malattia del martalismo, che viene da marta, la malattia della eccessiva operosità”, di coloro che “si immergono nel lavoro trascurando inevitabilmente la parte migliore, il sedersi ai piedi di Gesù”. “Trascurare il necessario riposo – ha ammonito – porta allo stress e alla agitazione” un “tempo di riposo da trascorrere con i familiari è necessario”, come necessario è “rispettare le ferie come momenti di ricarica spirituale e fisica”, ricordando quanto dice il libro del biblico del Quelet, ‘c’è un tempo per ogni cosa”.La terza: “malattia dell’impietrimento mentale e spirituale”, “il cuore di pietra e duro collo di coloro che strada facendo perdono serenità interiore audacia e si nascondono sotto le carte diventando macchine di pratiche e non uomini di Dio”, “è pericoloso perdere la sensibilità umana, ed è la malattia di coloro che perdono i sentimenti di Gesù, il cuore col tempo si indurisce e diventa incapace di amare incondizionatamente il padre e il prossimo, essere cristiani infatti – ha ricordato il Papa – significa avere gli stessi sentimenti di distacco, donazione e generosità di Gesù”

La quarta è la “malattia della eccessiva pianificazione e funzionalismo, quando l’apostolo – ha osservato papa Bergoglio – pianifica tutto minuziosamente e crede che le cose progrediscono diventando così un contabile e un commercialista: preparare tutto e bene è necessario, ma senza voler mai richiudere e pilotare la libertà dello Spirito che è più generosa di ogni pianificazione”. “Si cade in questa malattia – ha denunciato papa Francesco – perché è più comodo adagiarsi nella proprie posizioni immutate”, voler “regolare e addomesticare lo Spirito Santo che è freschezza fantasia, novità”.

La successiva malattia in agguato per ogni chiesa, curia e gruppo di fedeli elencata dal Papa, la quinta, è la “malattia del mal coordinamento: quando i membri perdono coordinamento tra loro” la curia diventa “un’orchestra che produce chiasso, perché le sue membra non collaborano e non vivono lo Spirito di grazia”. Qui il Papa ha esemplificato parlando tra l’altro della “testa che dice al braccio ‘comando io'”.

La sesta è la “malattia dell’alzheimer spirituale, la dimenticanza della storia della salvezza, della storia personale con il Signore, del primo amore: si tratta – ha spiegato papa Francesco – di un declino progressivo delle facoltà spirituali” che “in un tempo più o meno lungo” rende la persona o il gruppo “incapace di un’attività autonoma, in uno stato di assoluta dipendenza dalle sue vedute spesso immaginarie: lo vediamo – ha rimarcato – in coloro che hanno perso la memoria del loro incontro con il Signore, dipendono dal loro presente, dalle loro passioni, capricci e manie, che costruiscono intorno a sé dei muri e delle abitudini e diventando sempre di più schiavi degli idoli che hanno scolpito con le loro stesse mani”.

La settima è “la malattia della vanità e vanagloria” di chi vede solo “l’apparenza, i colori delle vesti e le insegne di onorificenza come vero obiettivo della vita, dimenticando le parole di san Paolo”, e qui il Papa ha citato l’invito paolino a non considerare gli altri secondo il proprio interesse. “Questa malattia – ha denunciato il Pontefice davanti alla curia – ci porta ad essere uomini e donne falsi e a vivere un falso misticismo e un falso pietismo san paolo ‘nemici della croce di cristo’ perchè si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi”.

L’ottava è la “malattia della schizofrenia esistenziale: avere una doppia vita frutto della ipocrisia del mediocre” e “del progressivo vuoto spirituale che lauree o titoli accademici non possono colmare, coloro che abbandonando il servizio pastorale si limitano a pratiche burocratiche, vivono in un loro mondo parallelo dove mettono da parte ciò che insegnano agli altri e iniziano una vita dissoluta”. “La conversione per questa gravissima malattia – ha rimarcato il Papa dopo una frazione di silenzio – è urgente indispensabile”.

La nona malattia è quella “di chiacchiere, mormorazioni pettegolezzi, ne ho parlato tante volte – ha ricordato – ma non è mai abbastanza: è grave, inizia magari per fare due chiacchiere, e si impadronisce della persona facendola diventare seminatrice di zizzania come Satana”. Questa malattia è “delle persone vigliacche, che non avendo il coraggio di parlare direttamente, parlano dietro le spalle”, e anche a questo proposito il Papa ha citato san Paolo con il suo invito a agire senza mormorare, ed essere irreprensibili e puri. “Guardiamoci – ha ancora esortato papa Francesco – dal terrorismo delle chiacchiere”.

La decima è “la malattia di divinizzare i capi, di coloro che corteggiano i superiori sperando di ottenere la benevolenza. Sono vittime di carrierismo e opportunismo, onorano le persone e non Dio, sono persone meschine, infelici, ispirate solo dal proprio fatale egoismo. Questa malattia – ha osservato papa Bergoglio – potrebbe anche colpire i superiori quando corteggiano loro collaboratori per averne lealtà e dipendenza. Ma il risultato finale – ha sottolineato con forza – è una vera complicità”.

L’undicesima: “la malattia dell’indifferenza verso gli altri, quando ognuno pensa solo a se stesso e perde la sincerità dei rapporti umani, quando si viene a conoscenza di qualcosa e la si tiene per sé invece di condividerla positivamente con gli atri, quando per gelosia o scaltrezza si prova gioia nel vedere altro cadere invece di incoraggiarlo e rialzarlo”.

La dodicesima è “la malattia della faccia funerea, delle persone burbere e arcigne che ritengono che per essere seri occorra dipingere il volto di malinconia e trattare gli altri, soprattutto quelli ritenuti inferiori, con rigidezza e arroganza”. La “severità teatrale e pessimismo sterile sono spesso sintomo di insicurezza di sé” ha detto il Papa, che ha invitato a “sforzarsi di essere una persona entusiasta e allegra che trasmette gioia: un cuore pieno di Dio è felice e contagia con la gioia attorno a sè; non perdiamo quello spirito gioioso, pieno di humour e persino autoironico che ci rende persone anche nella situazioni difficili. Quanto bene ci fa una buona dose di santo umorismo e ci farà bene recitare spesso la preghiera di Thomas Moore: io la prego tutti i giorni, mi fa bene”.

La tredicesima malattia, ha spiegato Bergoglio, è quella “dell’accumulare, di chi cerca di riempire un vuoto esistenziale accumulando beni materiali, non per necessità ma solo per sentirsi sicuro”. Il Papa ha ribadito che “il sudario non ha tasche”, cioè che morendo non ci si porta dietro niente “e – ha sottolineato – tutti i tesori terreni, anche se sono regali, non riempiranno quel vuoto”. “A queste persone – ha aggiunto il pontefice – il Signore ripete ‘tu dici sono ricco, non ho bisogno di niente, ma non sai di essere un povero cieco’.

L’accumulo appesantisce solamente e rallenta il cammino inesorabilmente”. Ha quindi raccontato un aneddoto: “Un tempo – ha ricordato – i gesuiti spagnoli descrivevano la Compagnia di Gesù come la ‘cavalleria leggera della Chiesa; ebbene, un giovane gesuita che doveva traslocare e stava sistemando il suo bagaglio, tanti regali, oggetti, si sente dire da un vecchio gesuita saggio, ‘questa sarebbe la cavalleria leggera della Chiesa?’ I nostri traslochi”.

Quattordicesima malattia quella “dei circoli chiusi, dove la appartenenza al gruppetto diventa più forte di quella al corpo e a Cristo stesso. Anche questa inizia sempre da buone intenzioni, ma con il passare del tempo schiavizza diventando un cancro” che causa tanto male e scandali, specialmente ai nostri fratelli più piccoli. La autodistruzione o il fuoco amico dei commilitoni è il pericolo più subdolo”: ‘ogni Regno bene diviso in se stesso va in rovina’”.

Infine, “l’ultima malattia – ha detto Bergoglio alla curia romana – è quella del profitto mondano, degli esibizionismi, quando l’apostolo trasforma il suo servizio in potere e il suo potere in merce per ottenere profitti mondani, o per ottenere più potere”. E’ la malattia “delle persone che cercano insaziabilmente di moltiplicare poteri e per questo capaci di calunniare, diffamare e screditare gli altri, persino su giornali e riviste, naturalmente per esibirsi e mostrarsi più capaci degli altri. Fa male al corpo – ha sottolineato il Pontefice – perché porta a usare qualsiasi scopo, spesso in nome della giustizia e della trasparenza”. E a questo punto il Papa ha raccontato del prete che chiamava i giornalisti per spiattellargli i difetti dei confratelli, e lo ha chiamato “poverino”.

di seguito alcuni degli articoli che il sito ‘finesettimana’ ha raccolto come approfondimento di questa diagnosi di papa Francesco:
“Francesco è stato minuzioso e non ha fatto sconti. Da buon conoscitore della macchina curiale, ha elencato i peccati che vede attorno a sé e li ha chiamati con il loro nome. Dovevano essere auguri di Natale: è diventata una strigliata in piena regola, condita dal consiglio di fare una bella confessione.” “ha fatto capire secondo quali linee procederà in quel lavoro di riforma della curia che resta uno dei suoi compiti prioritari, in base al mandato ricevuto dai cardinali elettori.”
“Quanto bene ci fa una buona dose di sano umorismo”. Così, fate una bella risata, venerati confratelli. …” Quindici sfumature di peccato: un “catalogo delle malattie curiali” di tale severità che quasi tutti gli anticlericali di professione non saprebbero tenere il passo” (ndr.: come diluire, snervare, mascherare e dileggiare)
La «curialite» è un virus contagioso. Una brutta malattia. I sintomi sono evidenti. Francesco osserva preoccupato la salute dell’intero sistema, poi elenca tutti gli aspetti patologici, descrivendoli uno per uno, dal più trascurabile al più serio. Monsignori che si credono «immortali» e agiscono come «burocrati indispensabili»
Ancora una volta le parole del Papa non hanno bisogno di particolari esegesi. Sono chiare da sé. Si riferiscono a mali di cui è infetta la Curia romana e per i quali egli ha sentito la necessità di chiedere «perdono » davanti ai dipendenti della Santa Sede ricevuti ieri in separata sede. Perdono «per le mancanze» sue e dei suoi collaboratori, «e anche per alcuni scandali che fanno tanto male».
Francesco incontra la Curia romana per gli auguri natalizi e, al posto dei consueti bilanci di fine anno, snocciola con la pacatezza di chi sa di che cosa parla le quindici malattie da cui emendarsi. «Malattie » e «tentazioni» che non riguardano soltanto la Curia, ma che sono «un pericolo per ogni cristiano e per ogni comunità». Per queste il Papa ha chiesto «perdono », per sé e per i suoi collaboratori, ricevendo successivamente i dipendenti della Santa Sede.
La Curia romana non è piovuta in Vaticano dal cielo, né è stata messa lì da qualche potentato straniero, ma è sorta quale logica emanazione della politica ecclesiastica papale che ha fatto del Vaticano un centro di potere assoluto, e non un organo di servizio come vorrebbe oggi papa Francesco. Se si vuole la coerenza del ragionamento,.., occorre concludere che i mali della Curia romana non possono non essere esattamente i mali dello stesso potere pontificio. “la riforma della curia non può che condurre a una riforma del papato. Avrà la forza papa Francesco per intraprendere questa strada? La volontà, di sicuro, sì.
Ha chiesto «un vero esame di coscienza», il Papa, a cominciare dalla «patologia del potere». Più tardi incontrerà i dipendenti vaticani e chiederà loro «perdono» per «le mancanze, mie e dei collaboratori, e anche per alcuni scandali che fanno tanto male: perdonatemi».
“Papa Francesco ha fatto ieri gli auguri ai vertici della Curia e ai dipendenti vaticani… I primi li ha invitati ad un severo esame di coscienza. I secondi a curarsi dalle mancanze, chiedendo comunque loro perdono per le mancanze e gli scandali «mie e dei miei collaboratori»… Prendendo spunto dall’etimologia della parola ‘Curia’, li ha esortati a trasformare il Natale «in una vera occasione per ‘curare’ ogni ferita e per ‘curarsi’ da ogni mancanza»”
Si intuisce tutta la difficoltà di conciliare la sua idea di una «Chiesa in uscita» con la realtà vaticana di una Chiesa tendenzialmente sulla difensiva, trincerata in antiche certezze: per quanto smentite dalla storia recente. La prospettiva che di questo passo aumentino le distanze tra il papa latinoamericano e una parte delle gerarchie, proprio mentre cresce la sintonia tra Francesco e le folle, non va sottovalutata.
dicembre 2014

Le proposte immediate di riforma per contrastare i mali della curia denunciati da papa Francesco di Noi Siamo Chiesa: abolizione titoli onorifici, ingresso donne, sobrietà, incarichi a tempo, decentramento funzioni
il mio compito come evangelico non è dare consigli al papa su quello che ancora va fatto: io apprezzo quel che ha detto, le conseguenze per quanto riguarda lo stesso ministero pontificio le deve trarre lui. … La riforma del papato, come la propone Mancuso da cattolico è soltanto una delle soluzioni, da cinquecento anni la storia ne propone un’altra, e cioè una chiesa senza papa e senza curia».
“Per la curia romana, il tradizionale scambio di auguri con il papa, all’avvicinarsi del Natale, si è trasformato quest’anno in una seduta di ammonizione. Immobili sulle loro sedie allineate nella solenne sala Clementina… cardinali e vescovi hanno ascoltato Francesco portare avanti, per mezz’ora, la carica più incisiva del suo pontificato contro i mali di cui soffre… l’amministrazione vaticana” Ritorno sui temi della ristrutturazione della governance e sulle poste in gioco del sinodo.
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il vangelo della domenica

IL BAMBINO CRESCEVA, PIENO DI SAPIENZA

 commento al Vangelo della domenica dopo natale (SACRA FAMIGLIA – 28 dicembre 2014) di p. José María CASTILLO

Castillo

 

 

 

 

Lc 2, 22-40

Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè,  portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del   Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» – e per offrire in sacrificio una coppia   di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore. Ora a Gerusalemme c’era
un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo   Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la   morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e,   mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo
riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo:
«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo
vada in pace, secondo la tua parola,
perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza,
preparata da te davanti a tutti i popoli:
luce per rivelarti alle genti
e gloria del tuo popolo, Israele».
Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a   Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come   segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i  pensieri di molti cuori». C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser.
Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi   rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo   Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a   lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme.
Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla   loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era  su di lui.

1. Questo racconto vuole, prima di tutto, evidenziare la fedeltà dei genitori di Gesù alle osservanze che imponeva la religione di Israele. In una famiglia
così fu educato Gesù. È una cosa che impressiona, se pensiamo alla grande libertà poi avuta da Gesù di fronte a non poche osservanze di quella religione.

2. D’altra parte, in questo testo si parla di “purificazione”. Secondo la Legge di Mosé (Lv 12, 2-8), il parto e la mestruazione rendevano impure le donne.
E, secondo Es 13, 1-2, i maschi primogeniti dovevano essere consacrati al Signore. In non poche cose la religione non accetta la nostra natura e la nostra
umanità così com’è e stabilisce norme e riti per “purificare” quello che secondo le nostre convinzioni Dio ha fatto. Spesso le norme ed i rituali religiosi
pretendono di imporsi alla natura ed all’umanità, in maniera tale che pretendono di essere più importanti di quello che ha fatto Dio. Queste cose generano
resistenza e rifiuto della religione in non pochi ambienti. E così allontanano la gente da Dio, dalla fede, dalla Chiesa….
3. Simeone ed Anna sono persone esemplari in onestà, bontà, desideri di incontro con la salvezza e la soluzione che non diamo a questo mondo forse può
venire da coloro che cercano Dio e credono in Lui. Questo rispetto verso gli anziani, verso la loro esperienza e la loro esemplarità si dovrebbe promuovere
soprattutto in un tempo in cui gli eventi si succedono con tanta rapidità che ci sconcertano. In maniera tale che noi anziani corriamo oramai il pericolo
di non voler imparare dai giovani. Così come i giovani possono anche disinteressarsi della cultura accumulata nell’esperienza degli anziani. Tutti dobbiamo
rispettarci reciprocamente ed imparare gli uni dagli altri.

Gesù era clandestino: la vera storia di Natale

Gesù era clandestino e i suoi genitori varcarono le frontiere in modo irregolare. La vera storia del 25 dicembre e il racconto del compleanno di Gesù bambino.

Gesù era clandestino

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p. Maggi commenta il vangelo del natale

 

NATALE: UN DIO DAL VOLTO UMANO  

          Solo un dio pazzo poteva pensare di diventare un uomo

p. Maggi

 

 

 

 

 

 

Ma chi glielo faceva fare al Signore di lasciare i privilegi della condizione divina per assumere le debolezze della condizione umana?

Da sempre gli uomini hanno cercato di diventare dèi, di innalzarsi sugli altri uomini, di considerarsi delle star al di sopra di tutti. Non si era mai sentito parlare di un dio che diventava uomo e lo rimaneva, abbassandosi al livello di ogni altra creatura. Il Signore l’ha fatto, per amore, per amore della sua creazione, l’umanità. Con la nascita di Gesù, Dio non è più lo stesso e l’uomo neanche. È cambiato completamente il rapporto tra Dio e gli uomini e tra questi e il loro Signore. Gli uomini avevano collocato la divinità nel più alto dei cieli, e pensavano di doverla raggiungere separandosi dalle altre creature attraverso particolari stili di vita, preghiere, sacrifici. Più l’uomo era religioso e più si separava da quanti non condividevano il suo stile di vita: le sue preghiere e le sue virtù lo allontanavano dalla gente comune, le sue devozioni lo separavano dal mondo. Ma più l’uomo religioso si separava dagli altri per incontrare Dio e più questi pareva allontanarsi, diventare irraggiungibile. Con Gesù si è capito perché. Con Gesù Dio non è più da cercare, ma da accogliere. Non bisogna salire per incontrare il Signore, ma scendere, perché in Gesù Dio si è fatto uomo, profondamente umano e si è messo a servizio degli uomini. Il dramma della persona religiosa era che più saliva e si separava dai suoi simili, e meno incontrava un Dio che invece scendeva e si poneva a livello degli uomini. L’uno saliva, l’altro scendeva, e non c’era possibilità alcuna di incontro o di contatto. Non solo: più la persona diventava religiosa, più si sentiva assorbita dalle cose divine, e più perdeva la sua umanità. Desiderava diventare spirituale come un angelo e non si accorgeva di essere soltanto disumana. Tutta presa a onorare Dio, la persona religiosa non si rendeva conto di disonorare il fratello che chiedeva attenzione. Si sentiva assorbita dal Signore, ma si allontanava dai fratelli. Tanta religione, tanta devozione, tante preghiere e sacrifici, non avevano prodotto che una persona atea. Che una persona sia religiosa o meno non si vede da quel che crede, ma da come ama, non da quanto prega, ma da quanto presta ascolto ai bisogni degli altri, non dai sacrifici, ma dal sapersi sacrificare per il bene dell’altro. Con Gesù, il Dio diventato uomo, l’uomo non deve salire per incontrare il Signore, ma scendere, e, come lui mettersi a servizio degli altri. In Gesù Dio si è rivelato profondamente umano, attento e sensibile alle sofferenze degli uomini e alle loro necessità. Più si è umani e più scopre il divino che è in noi. È questa la meravigliosa sorpresa del Natale del Signore: un Dio che non assorbe le energie degli uomini ma gli comunica le sue, un Dio che non chiede di vivere per lui, ma di lui, e, con lui e come lui, irradiare amore, tenerezza e compassione per ogni creatura. Auguri!

natale 2014

https://www.youtube.com/watch?v=gzpMZ-X8tXs&feature=share

 

 

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la nascita di Gesù bambino ‘in una grotta’: un commento appropriato

presepe innevato

 

 

 

A Natale hanno cacciato fuori Dio. Ma non è detto che a Lui dispiaccia.

un bel commento di don Cristiano Mauri:

don cristiano mauri

La grotta – o capanna che sia – ha il suo fascino, ammettiamolo. «E vieni in una grotta al freddo e al gelo»: ci piace, suona bene, ha persino il vago sapore romantico della semplicità, del “poveri ma belli” e della felicità per le piccole cose, in barba al disagio. Che tenerezza il bimbo nella mangiatoia, vero? D’altronde il Natale si nutre di buoni sentimenti e il quadretto della grotta di Betlemme ne è un serbatoio inesauribile.

Il fatto è che Gesù non nacque in una grotta. Gesù nacque fuori. Il che, di romantico e poetico ha ben poco. Ma i Vangeli non si preoccupano di far poesia e vanno al nocciolo, dichiarando con semplicità che per Lui non ci fu posto dentro la «stanza principale» di quella casa e perciò rimase fuori. Vero: la mangiatoia ci suggerisce che trovò posto nella stalla adiacente la sala principale, ma il concetto resta: rispetto al cuore pulsante della casa Gesù nacque fuori.

Non distante, per la verità, anzi vicino, vicinissimo. Però ai margini. Dell’ospitalità, della vita sociale, del mondo di relazioni familiari e non che riempiva la casa quella notte Gesù si sedette ai bordi, praticamente in uno sgabuzzino, discosto e come un po’ in disparte, senza prendere le distanze ma senza invadere il campo.

Una beffa, oltretutto. Perché non pareva esserci posto migliore: era la casa di Giuseppe, anzitutto, con tutte le garanzie che i legami di parentela possono offrire; e poi terra di Efrata, che significa terra feconda e ricca di frutti; infine a Betlemme che coi suoi molteplici significati (“casa del pane” in ebraico, “casa della carne” in arabo, “casa del dio della fertilità” nella radice etimologica più antica) suggeriva l’abbondanza come cornice sicura di quella nascita. D’altronde, da che mondo è mondo, la ricchezza è segno della benevolenza di Dio e di una sua speciale benedizione. Invece no, fuori. Non solo dai palazzi dei re, ma anche dal contesto sociale e familiare più normale e ordinario. Fuori dalla stanza apparecchiata, fuori dai riti di accoglienza, fuori dall’abbondanza di umanità: Gesù sta all’esterno. Là dove si portano i rifiuti, dove stanno i poveri, dove vivono i miserabili, dove c’è la solitudine e l’abbandono, la precarietà e la paura del futuro, dove si cerca di confinare il nemico e ogni presenza sgradita. Dentro stanno i ricchi, le cose preziose, i tesori da esibire o nascondere a seconda delle circostanze, dentro stanno gli amici e gli ospiti di riguardo, dentro c’è l’accoglienza, la fraternità, la sicurezza e la serenità.

Ma lì non ci va per “stare con i poveri”. Ci nasce. Gesù,  fuori – e non dentro – ci nasce, come ogni povero. Non si mette, cioè, semplicemente a loro fianco, bensì diviene uno di loro, povero a sua volta. Perché solo un povero può amare davvero i poveri, mentre da ricchi si finisce – anche involontariamente – con l’esercitare sempre un potere da un gradino superiore, quello della ricchezza che può fare beneficenza. Non poteva osare che in questo modo l’impresa di salvare l’uomo, ogni uomo: che ce ne saremmo fatti, del resto, di un Dio giustapposto? Come poter considerare Salvezza l’amore di Uno che semplicemente si siede accanto? Doveva prendere la carne, la mia, la nostra stessa carne per abitarne anzitutto i margini e le periferie, al di là di quella «stanza principale» che sono i tratti più nobili e presentabili di noi, quelli in cui volentieri si ospita il prossimo. In quel nascere fuori il Figlio di Dio doveva raggiungere le zone più oscure della nostra umanità, quelle di cui ci libereremmo volentieri mettendole alla porta, per il ribrezzo che abbiamo anche solo a considerarle. Così avviene: ai margini dell’abbondanza di Betlemme ogni fibra della nostra povertà umana viene abitata da Dio, il Dio che è povero fino alla fine perché nessuna nostra miseria sia mai una lontananza definitiva da Lui, il Dio che sta fuori perché è l’unico luogo in cui c’è così tanto posto da non escludere nessuno.

In quello spazio aperto, ai bordi di atmosfere casalinghe e familiari, il bambino nella mangiatoia fonda la Sacra Famiglia. Maria e Giuseppe, certo, ma soprattutto i pastori, coloro che – come gli sposi di Nazareth – hanno cercato il Figlio obbedendo alla voce del Padre. Non sono quelli della sala adiacente che già «avevano la loro ricompensa» di quel dentro ad essere chiamati dagli angeli, ma coloro che stavano fuori, ed erano abituati a starci, periferie umane, bassifondi della società. Giungono la solitudine, la fame, l’emarginazione, la pessima reputazione a fargli visita. Arrivano quelli “sbagliati”, quelli che non è bene fare entrare, dei quali è opportuno diffidare e che, se proprio devono star dentro, che almeno si diano una ripulita. Ma anche quelli a cui nessuno pensa, quelli tagliati fuori, di cui nessuno si ricorda, quelli della cui disponibilità ci si approfitta perché «non hanno una famiglia a cui badare», che non appartengono a nessuna categoria e dunque non possono accampar diritti. Attorno al Dio povero si raduna una comunità in virtù di una Parola udita, accolta, praticata. È la famiglia del Vangelo, la vera Sacra Famiglia, quella in cui si entra solo da poveri, spogli e liberi di ogni ricchezza e privilegio, persino quella dei legami di sangue. Quella Famiglia, fondata sull’obbedienza alla volontà di Dio e sulla Sua giustizia, sarà descritta da Gesù nel Suo ministero pubblico come il canale in cui scorrono la Misericordia, la Compassione, la Carità di Dio al di sopra di ogni cosa. È il dono del Dio povero ai poveri che hanno il coraggio di restare fuori, smettendo di invidiare chi sta dentro e di considerare la ricchezza come propria salvezza. È lo spazio – l’unico e il solo – in cui le miserie, mediocrità, solitudini, paure e insicurezze possono realmente essere deposte, curate, guarite senza vergogne e umiliazioni in relazioni che sono Salvezza.

Questi che osano rimanere poveri insieme al Povero saranno forse quelli capaci di costruire la Chiesa povera; certo non lo saranno coloro che da ricchi si travestono da poveri per recitare la parte del buon cristiano.

Chi non teme di esser fuori forse costruirà una Chiesa dalla quale nessuno – realmente nessuno – sarà mai e in alcun modo allontanato; certo non potrà farlo chi è occupato a dettare a chi sta fuori le condizioni per entrare.

Colui che si spoglierà della propria abbondanza per ricevere in dono la Sacra Famiglia forse saprà edificare la Chiesa della Compassione; certo non lo farà chi si affanna senza posa nell’allestire lo spettacolo della carità cristiana.

Ti pare di non trovare Gesù a Natale?

Cerca fuori. Chissà mai…

 

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‘auguri scomodi’ per un buon natale

 

 

in occasione delle festività natalizie mi piace rivolgere a tutti gli amici i migliori auguri, i meno scontati e formali, i più sentiti, convinti e ‘forti’: lo faccio con il testo e il video degli ‘auguri scomodi’  che il Vescovo Don Tonino Bello rivolgeva alla sua Diocesi, sempre attuali, anzi i migliori che riescano a toccare ancora oggi, a distanza di anni, le corde più profonde dell’animo umano e cristiano (solo un genio e un gigante della spiritualità poteva formularli così!):

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“Carissimi, non obbedirei al mio dovere di vescovo se vi dicessi “Buon Natale” senza darvi disturbo.
Io, invece, vi voglio infastidire. Non sopporto infatti l’idea di dover rivolgere auguri innocui, formali, imposti dalla routine di calendario.
Mi lusinga addirittura l’ipotesi che qualcuno li respinga al mittente come indesiderati.
Tanti auguri scomodi, allora, miei cari fratelli!
  • Gesù che nasce per amore vi dia la nausea di una vita egoista, assurda, senza spinte verticali e vi conceda di inventarvi una vita carica di donazione, di preghiera, di silenzio, di coraggio.
  • Il Bambino che dorme sulla paglia vi tolga il sonno e faccia sentire il guanciale del vostro letto duro come un macigno, finché non avrete dato ospitalità a uno sfrattato, a un marocchino, a un povero di passaggio.
  • Dio che diventa uomo vi faccia sentire dei vermi ogni volta che la vostra carriera diventa idolo della vostra vita; il sorpasso, il progetto dei vostri giorni; la schiena del prossimo, strumento delle vostre scalate.
  • Maria, che trova solo nello sterco degli animali la culla dove deporre con tenerezza il frutto del suo grembo, vi costringa con i suoi occhi feriti a sospendere lo struggimento di tutte le nenie natalizie, finché la vostra coscienza ipocrita accetterà che il bidone della spazzatura, l’inceneritore di una clinica diventino tomba senza croce di una vita soppressa.
  • Giuseppe, che nell’affronto di mille porte chiuse è il simbolo di tutte le delusioni paterne, disturbi le sbornie dei vostri cenoni, rimproveri i tepori delle vostre tombolate, provochi corti circuiti allo spreco delle vostre luminarie, fino a quando non vi lascerete mettere in crisi dalla sofferenza di tanti genitori che versano lacrime segrete per i loro figli senza fortuna, senza salute, senza lavoro.
  • Gli angeli che annunciano la pace portino ancora guerra alla vostra sonnolenta tranquillità incapace di vedere che poco più lontano di una spanna, con l’aggravante del vostro complice silenzio, si consumano ingiustizie, si sfratta la gente, si fabbricano armi, si militarizza la terra degli umili, si condannano popoli allo sterminio della fame.
  • I Poveri che accorrono alla grotta, mentre i potenti tramano nell’oscurità e la città dorme nell’indifferenza, vi facciano capire che, se anche voi volete vedere “una gran luce” dovete partire dagli ultimi.
  • Che le elemosine di chi gioca sulla pelle della gente sono tranquillanti inutili.
  • Che le pellicce comprate con le tredicesime di stipendi multipli fanno bella figura, ma non scaldano.
  • Che i ritardi dell’edilizia popolare sono atti di sacrilegio, se provocati da speculazioni corporative.
  • I pastori che vegliano nella notte, “facendo la guardia al gregge ”, e scrutano l’aurora, vi diano il senso della storia, l’ebbrezza delle attese, il gaudio dell’abbandono in Dio.
  • E vi ispirino il desiderio profondo di vivere poveri che è poi l’unico modo per morire ricchi.
  • Buon Natale! Sul nostro vecchio mondo che muore, nasca la speranza.”
  • Tonino Bello

 

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il vangelo della domenica commentato da p. Maggi

 

 

ECCO CONCEPIRAI UN FIGLIO E LO DARAI ALLA LUCE

 commento al Vangelo della quarta domenica d’avvento ( 21 dicembre 2014)di p. Alberto Maggi:

p. Maggi

Lc 1,26-38

In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te». A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco  uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.

Nulla è impossibile a Dio. E’ con queste parole che si chiude l’episodio dell’annunciazione dell’angelo Gabriele a Maria. Perché nulla sia impossibile a Dio si esige l’ascolto della sua parola, fidarsi di questa e poi ci vuole l’azione. L’evangelista chiude con questa assicurazione – che nulla è impossibile a Dio – l’episodio dell’annunciazione perché veramente la strada è tutta in salita. San Paolo nella prima lettera ai Corinzi dice che Dio ha scelto quello che è disprezzato, quello che è ignobile al mondo, quello che noi mai avremmo scelto per le nostre imprese. E’ quello che ha fatto Dio. Leggiamo il vangelo di Luca. Al sesto mese l’angelo Gabriele …. Gabriele in ebraico Gabri-el significa “la forza di Dio”, quindi è la forza della creazione che è capace di vincere qualunque resistenza. Fu mandato da Dio in una città della Galilea. Ecco cominciano già le difficoltà perché l’angelo di Dio non viene inviato  nella regione santa della Giudea, che aveva il nome del capostipite delle 12 tribù d’Israele, Giuda, il luogo dove risiedeva la presenza di Dio, nel tempio di Gerusalemme, ma in una regione talmente disprezzata che deve il nome al profeta Isaia che nel suo libro, al capitolo 28, versetto 23, indica questo posto come “il distretto dei Gentili”, cioè dei pagani, dei miscredenti. “Distretto” in ebraico si dice Ghelil, da cui Galilea. Quindi è la regione disprezzata, la regione delle persone che si credeva neanche sarebbero potute risuscitare, comunque esclusa dall’azione di Dio. E questa città della Galilea è chiamata Nazaret, mai nominata nell’Antico Testamento, mai nominata nella Bibbia. Un borgo selvatico abitato da trogloditi, vivevano nelle grotte, gente bellicosa. Giuseppe Flavio,  contemporaneo dei vangeli, dice che i Galilei sono bellicosi fin da piccoli. Ma c’è ancora di più … a una vergine, sposata … L’indicazione che ci dà l’evangelista facciamo difficoltà a comprenderla perché gli usi matrimoniali del tempo sono tanto lontani e diversi dai nostri. Il matrimonio avveniva in due tappe, una prima tappa chiamata sposalizio, quando la donna aveva 12 anni e il maschio 18, e dopo un anno la seconda fase del matrimonio chiamate nozze. Quindi qui abbiamo questa ragazza che era nella prima fase del matrimonio, quando ancora non era possibile che i coniugi vivessero insieme e avessero rapporti tra di loro. Questa donna è sposata. Quindi l’angelo è inviato a una donna. Dio mai aveva rivolto la parola a una donna, anche questo è tutto in salita, dice la Bibbia che dalla donna ha inizio il peccato e per causa sua tutti moriamo. Sposata a un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Ecco ancora la strada in salita, tra tanti nomi che si potevano scegliere per questa ragazza che doveva dare alla luce Gesù viene scelto proprio il nome che nella Bibbia portava sfortuna. Perché? E’ il nome della sorella di Mosè, donna ambiziosa, castigata, punita severamente da Dio con la lebbra. E da quella volta il nome Maria non compare più nella Bibbia. E’ come un po’ nel nostro mondo cristiano il nome Giuda, che è un bellissimo nome e tra l’altro è il nome di uno degli apostoli (non solo il traditore di Gesù), ma siccome ricorda il tradimento nessuno mette al bambino il nome Giuda. E così non si metteva a una bambina il nome Maria perché ricordava una donna castigata da Dio. Quindi come vediamo la strada è tutta in salita. In Galilea, a Nazaret, una donna con questo nome che porta sventura; Entrando da lei, disse: “Rallegrati”, cioè gioisci, “Piena di grazia”, che non è una constatazione che l’angelo fa delle virtù di Maria, ma dice “riempita dalla grazia”. Dio non è attratto dai meriti di Maria, ma la riempie del suo amore. “Il Signore è con te”, è l’espressione con la quale Dio confermava la sua presenza a coloro che chiamava a compiere le sue azioni, come per esempio Gedeone. A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: “Non t mere, Maria, ecco hai trovato grazia presso Dio.” Quindi è Dio che la riempie del suo amore. “Concepirai un figlio”, e qui cominciano le novità che poi matureranno  lungo la vita di Gesù e il suo insegnamento. “Lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù”. Ma questo è inaudito, la donna non può dare il nome al bambino che nasce. E poi il nome del bambino che nasce è lo stesso del padre, qui invece è la donna che è chiamata a rompere con la tradizione, a rompere col passato, ad aprirsi al nuovo. E’ lei che deve dare il nome al bambino e non lo deve chiamare con il nome del marito, Giuseppe, come da tradizione, ma lo deve chiamare con questo nome Gesù. L’angelo dice che questo bambino “sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono”, non erediterà il trono, ma è un’azione nuova. “Di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine”. Questa è la promessa che l’angelo fa a Maria. Ebbene Maria non si scompone di fronte a questa novità e chiede soltanto le modalità. Allora Maria disse all’angelo: “Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?” appunto perché non era passata alla seconda fase del matrimonio, le nozze, quando cominciava la convivenza. Le rispose l’angelo … l’evangelista racchiude l’esistenza di Maria tra le due discese dello Spirito Santo, all’annunciazione e nel cenacolo con la Pentecoste. “Lo Spirito Santo scenderà su di te”, in Maria c’è una nuova creazione, una nuova generazione, “e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio”. Modi di dire per far comprendere che colui che nascerà sarà il messia, l’inviato da Dio, il liberatore del popolo. Quindi su Maria scende lo Spirito Santo come al momento della creazione, quello che nasce è qualcosa di completamente nuovo. Perché l’angelo esclude in tutto questo Giuseppe? Perché il padre trasmetteva al figlio non soltanto la vita biologica, ma anche la tradizione religiosa, morale. Ebbene Gesù non seguirà i padri d’Israele, ma Gesù seguirà il padre, che è Dio. E l’angelo conferma: “Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio”. Le parole che Dio aveva detto a Sara, anche lei anziana, con Abramo che non credeva nella possibilità di poter mettere al mondo un bambino, l’angelo le conferma a Maria, nulla è impossibile a Dio. L’azione di Dio con la sua forza creatrice non ha limiti, ma, come ricordavamo all’inizio, ha bisogno dell’ascolto da parte dell’uomo, di fidarsi di questa parola e poi la sua collaborazione. Allora Maria disse: “Ecco la serva del Signore”, non una serva. “Serva del Signore” era uno dei titoli che aveva il popolo di Israele, quindi Maria per l’evangelista identifica il popolo. “Avvenga di me secondo la tua parola”. E l’angelo si allontanò da lei. Maria si fida, si fida completamente del Dio dei suoi padri, ora l’aspetta il compito più difficile: accogliere ed accettare il Dio di suo figlio, Gesù.

 

 

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il biblista Maggi applaude Benigni

dopo la lettura di Benigni i 10 comandamenti non sono più gli stessi

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su Rai1 trionfo d’ascolti per il comico toscano. Su IlLibraio.it l’analisi di Alberto Maggi, studioso di temi biblici, oltre che autore di “Chi non muore si rivede”: “Benigni è riuscito a scontentare tutti, sia i conservatori, sia i reazionari, sia i progressisti…”

di Alberto Maggi

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Dopo la lettura di Benigni i comandamenti non sono più gli stessi. Chi potrà mai dimenticare che il comandamento “Non rubare”, Dio l’ha scritto direttamente nella lingua italiana, in quanto insegnamento esclusivo per la corrotta Italia! Forse se la Chiesa avesse insistito meno sul sesso (tema ignorato da Gesù nel suo insegnamento) e più sul peccato di corruzione, sull’avidità, sull’ingordigia – atteggiamenti denunciati con forza da Gesù in quanto ritenuti la causa di ogni ingiustizia umana – la società sarebbe differente. E si spera che la Chiesa cattolica di Papa Francesco cancelli definitivamente dal Catechismo della Chiesa l’infelice articolo nel quale si legittima la pena di morte. In uno dei momenti più alti di tutto il programma, l’attore, con i tratti del volto tesi, ha infatti denunciato una società omicida che sopprime solo per legittimare i propri interessi e mai per giustizia.

Alla fine comunque Roberto Benigni è riuscito a scontentare tutti, sia i conservatori reazionari (come si è permesso ridicolizzare l’insegnamento della Chiesa cattolica sulla sessualità?) sia i progressisti, sempre con la puzza sotto il naso, che hanno trovato non abbastanza provocatoria l’interpretazione che ha dato dei comandamenti di Mosè. Eppure nella prima serata i tradizionalisti avevano esultato vedendo con quale enfasi, quasi da telepredicatore pentecostale, Benigni aveva presentato i primi tre comandamenti, quelli esclusivi del popolo di Israele, centrati sull’unicità di Dio. Ma poi Benigni ha rovinato tutto ieri sera, denunciando il crimine di una Chiesa sessuofoba che ha manipolato la stessa parola di Dio e trasformato il comandamento “Non commettere adulterio” in “Non commettere atti impuri”, rovinando così generazioni di adolescenti che si sono sentiti colpevolizzati per quelli che erano solo fenomeni dovuti all’esuberanza di ormoni in circolo.

Ma da vero genio dello spettacolo, l’asso nella manica Roberto l’ha tirato fuori proprio verso la fine della seconda serata. Dopo aver presentato in maniera teologicamente corretta e profonda i comandamenti, e la figura di Mosè e del Dio d’Israele, accentuando e magnificandone le luci e tacendo o sorvolando sulle ombre (secondo la Bibbia ha ammazzato più ebrei Mosè per liberarli dalla schiavitù egiziana che il faraone per trattenerli), il grande attore, con nonchalance, ha assestato il colpo basso. Roberto Benigni ha raccontato infatti, come Gesù interrogato da uno degli scribi – i teologi ufficiali dell’istituzione religiosa – su quale fosse il comandamento più importante, nella sua risposta abbia ignorato provocatoriamente le tavole di Mosè, e si sia rifatto all’“Ascolta Israele”, il “Credo” che gli ebrei recitavano due volte il giorno: “Il più importante è “Ascolta Israele. Il Signore Dio nostro è l’unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. La domanda dello scriba concerneva un solo comandamento, il più importante. Ma secondo Gesù l’amore per Dio non è completo se non si traduce in amore per il prossimo, e per questo aggiunge alla sua risposta un precetto contenuto nel libro del Levitico: “E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c’è altro comandamento più importante di questi”.

La disinvoltura di Gesù verso i comandamenti di Mosè è infatti a dir poco sconcertante. Quando l’uomo ricco gli chiese quali comandamenti osservare per ottenere la vita eterna, Gesù nella sua risposta omise quelli che riguardavano gli obblighi verso Dio e gli elencò solo i doveri verso gli uomini. Per Gesù non sono indispensabili per la salvezza i tre comandamenti esclusivi di Israele, la cui osservanza garantiva a questa nazione lo “status” di popolo eletto: Cristo ha preferito ribadire il valore di cinque essenziali comandamenti validi per ogni uomo, ebreo o pagano, credente o no, che riguardano basilari atteggiamenti di giustizia nei confronti del prossimo: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, onora tuo padre e la madre”.

“Con dieci parole fu creato il mondo” (Pirqé Aboth 5,1), insegnava la teologica ebraica con riferimento al¬le dieci parole di Esodo 34,28: “Scrisse sulle tavole le parole dell’alleanza, le dieci parole”. L’evangelista Giovanni nel prologo al suo vangelo non è d’accordo. Prima ancora della creazione del mondo c’era il Logos, un’unica Parola in base alla quale tutto fu creato (“In principio era la Parola”, Gv 1,1), una sola Parola che si formulerà nell’unico comandamento che Gesù lascerà ai suoi: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,34). Con Gesù il credente non è più colui che ubbidisce a Dio osservando le sue Leggi, ma colui che assomiglia al Padre praticando un amore uguale a quello che del Padre è proprio.

 

L’AUTORE – Alberto Maggi, frate dell’Ordine dei Servi di Maria, ha studiato nelle Pontificie Facoltà Teologiche Marianum e Gregoriana di Roma e all’École Biblique et Archéologique française di Gerusalemme. Fondatore del Centro Studi Biblici «G. Vannucci» (www.studibiblici.it) a Montefano (Macerata), cura la divulgazione delle sacre scritture interpretandole sempre al servizio della giustizia, mai del potere. Ha pubblicato, tra gli altri: Roba da preti; Nostra Signora degli eretici; Come leggere il Vangelo (e non perdere la fede); Parabole come pietre; La follia di Dio e Versetti pericolosi. E’ in libreria con Garzanti
Chi non muore si rivede – Il mio viaggio di fede e allegria tra il dolore e la vita

 

 

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“sulla pelle dei rom”

le ‘emergenze rom’ che i rom pagano ‘sulla propria pelle’


negli ultimi anni la “questione Rom” è stata agitata con particolare cinismo per raccogliere un facile consenso elettorale. Nel libro “Sulla pelle dei rom” di Carlo Stasolla un’approfondita analisi delle politiche promosse da amministrazioni di ogni colore, culminate in un colossale fallimento sociale ed economico.

di Ulderico Daniele

Al di là di qualsiasi valutazione politica o morale, e a prescindere, se mai possibile, dalla spessissima coltre di pregiudizi che ricopre la “questione zingari”, il libro che Carlo Stasolla ha pubblicato per i tipi di Alegre ha un pregio fondamentale: il volume descrive con dovizia di particolari gli interventi realizzati a Roma verso i “nomadi” negli ultimi quattro anni, rivelando, grazie ad un prezioso lavoro di indagine e di documentazione, gli ingenti stanziamenti economici e raccontando al lettore le conseguenze delle rituali emergenze che i rom pagano “sulla pelle”.

Se confrontato al quadro spesso deprimente dell’informazione nel nostro paese e alla difficoltà che la ricerca scientifica ha di essere riconosciuta come strumento utile all’elaborazione delle politiche, il volume merita una ampia visibilità e una attenzione non superficiale da parte della classe politica, chiamata a non commettere gli stessi drammatici errori del passato, e da parte degli elettori, che potranno quantificare i costi, economici e sociali, che la comunità paga quando cede alle ossessioni della sicurezza e del controllo.

Questa operazione culturale e politica, frutto del lungo lavoro di indagine che Stasolla e i suoi collaboratori dell’Associazione 21 luglio portano avanti da diversi anni, risulta ancora più meritoria perché permette di vedere sotto una luce diversa un tema come quello di “zingari” e “nomadi” che storicamente, come segnalato nell’introduzione dall’antropologo Leonardo Piasere, ha funzionato da terreno di esercizio delle peggiori forme di razzismo e che negli ultimi anni è stato innalzato, come racconta l’autore, a strumento elettivo per raccogliere un facile consenso elettorale.

Il tema principale di interesse è il Piano Nomadi della giunta Alemanno, elaborato e realizzato all’interno dello Stato d’Emergenza dichiarato dal governo Berlusconi e recentemente difeso anche dal governo tecnico di Monti & Riccardi. Di questo “rivoluzionario” piano di interventi, presentato dall’allora ministro Maroni come una “buona pratica a livello europeo”, l’autore rintraccia le origini in quella lunga “notte della ragione” che a cavallo fra 2007 e 2008 ha preparato le elezioni politiche e amministrative a suon di episodi di cronaca nera che vedevano sempre i rom come colpevoli di atti efferati e disumani: dal tentato rapimento di un bambino a Ponticelli, rivelatosi in seguito come un affaire molto più complesso che nascondeva interessi camorristici e piani di riqualificazione, all’omicidio della signora Reggiani a Roma.

A questi eventi sono immancabilmente seguiti incredibili episodi di razzismo popolare, la cacciata dei rom di Ponticelli e l’incendio dei campi festeggiato da schiere di cittadini, ma anche iniziative politiche di stampo sempre più repressivo: l’emanazione da parte del governo Prodi del decreto n.181 fortemente voluto dall’allora sindaco Veltroni che limitava il diritto al libero movimento dei cittadini rumeni e ne facilitava l’espulsione, e poi la dichiarazione dello Stato d’Emergenza da parte del neoeletto governo Berlusconi, a cui sono seguiti i famigerati censimenti dei rom e, a Roma, il Piano Nomadi di Alemanno.

A quattro anni dall’emanazione di questo Piano, il bilancio che il volume di Stasolla presenta appare drammatico, soprattutto in tempi di spending review: 60 milioni di euro investiti per poco meno di 8000 rom residenti in città; quattro vecchi campi-nomadi chiusi, al costo dell’aumento dei residenti in alcuni grandi insediamenti che hanno già attirato le attenzioni e le denunce di numerosi organismi e istituzioni internazionali perché collocati al di fuori del perimetro urbano ed in pessime condizioni igieniche; un nuovo mega campo costruito ancora fuori città, per una spesa di soli 10 milioni di euro; centinaia di operazioni di sgombero degli insediamenti informali, quelli dove hanno perso la vita 5 bambini negli ultimi tre anni, che, al costo di diverse centinaia di migliaia di euro per il contribuente, hanno portato semplicemente alla ulteriore moltiplicazione degli insediamenti; infine, nessun visibile miglioramento né sul piano della legalità e della sicurezza per la cittadinanza, né, se a qualcuno interessa davvero, sul piano dell’integrazione dei rom.

Ma accanto a questo importantissimo lavoro di indagine, che dovrebbe far riflettere sui costi e sulle conseguenze delle politiche elettoralistiche basate sulla sicurezza, il lavoro di Carlo Stasolla ha anche un altro merito fondamentale. Il testo mostra che la politica di allontanamento dei rom dalla città, la loro separazione e il loro concentramento nei “campi nomadi” rappresenta un elemento di forte continuità che lega senza differenze rilevanti gli interventi promossi da Alemmano a quelli dei suoi predecessori sullo scranno capitolino: i “buonisti” Veltroni e Rutelli, anche loro autori di piani risolutivi per “il problema nomadi”.

Il libro di Stasolla mostra come le ormai decennali politiche di espulsione e di concentramento dei rom nei campi-nomadi, mentre da un lato aggravano la condizione di segregazione dei rom ostacolando i percorsi di inclusione sociale, hanno creato, dall’altro lato, un sistema largo di interessi che si nutre delle risorse pubbliche investite e sopravvive nell’opacità grazie alle proroghe e alle procedure d’emergenza. Le transizioni per l’acquisto o l’affitto delle aree su cui vengono costruiti i campi-nomadi, l’acquisto e la manutenzione di container da 30 mq. dove vivono famiglie di 8 persone, l’acquisto della strumentazione per la videosorveglianza, i servizi di guardiania e di vigilanza e infine i progetti sociali che, anche questi a prescindere dalle diverse amministrazioni, si ripetono uguali a se stessi nei campi-nomadi, sono le principali voci di spesa di un modello di interventi che porta a spendere circa 250 euro al mese per ciascun individuo, senza alcuna valutazione dei risultati effettivamente raggiunti.

Di questo sistema che, come racconta l’autore, ha un fatturato paragonabile a quello di una media-grande impresa, non partecipano soltanto una serie di soggetti politici, imprenditoriali e associativi collegati a tutto il panorama politico-ideologico romano (dalla sinistra cooperativa, al mondo cattolico, fino alle neonate associazioni di destra), ma anche una fascia di rom “collaborazionisti”, pronti ad accettare qualsiasi inasprimento delle politiche in cambio delle briciole, a volte anche avvelenate, delle fette di finanziamento spartite sui tavoli delle amministrazioni.

In fondo a questo sistema si trovano, invece, le decine di operatori sociali, impiegati con contratti a progetto che durano pochi mesi, pagati, sempre in ritardo, molto meno di dieci euro l’ora, per un servizio di frontiera che raramente, date queste condizioni strutturali, può innescare cambiamenti. In fondo a questo sistema ci si trovano, soprattutto, le tante decine di rom che non partecipano della spartizione e che in alcuni momenti hanno dato vita ad inediti episodi di “resistenza”, come quello della Basilica di San Paolo durante la Pasqua 2011. Rom che si trovano immobilizzati da una rete di pregiudizi, di atteggiamenti strumentali e razzisti, di violenze simboliche e materiali, che li costringono a vivere, e a morire, all’interno di quel buco nero dei diritti e della cittadinanza che sono i campi-nomadi a Roma.

PREFAZIONE
di Leonardo Piasere, Università di Verona

Credo che il Piano Nomadi dell’amministrazione Alemanno entrerà nella storia dei rom, e non solo della storia italiana dei rom. Entrerà nella storia dei rom come uno degli esempi della capacità metamorfica dell’antiziganismo.

L’antiziganismo della tarda modernità è quello che ti confina in un lager proclamando che lo fa per il tuo bene. L’antiziganismo della tarda modernità non va per le spicce come si faceva in altri tempi, non ammazza rom e sinti a destra e a sinistra, non sputa loro direttamente in faccia chiamandoli “sporchi zingari”. No, li chiama “nomadi” e magari anche “Rom” (assolutamente con la “R” maiuscola), fornisce loro container e corrente elettrica, servizi sanitari e materiale scolastico. Assieme a vigilantes, telecamere a circuito chiuso e campi recintati. Ma guai a chiamarli “campi”, traduzione troppo letterale di “lager”: il termine bucolico di “villaggio” esprime meglio l’ipocrisia degli amministratori, e se poi sono “villaggi della solidarietà”, la coscienza segregatrice è proprio salva. In modo bipartisan.

L’antiziganismo della tarda modernità è quello che attua gli sgomberi per il bene degli zingari, non perché li odia, è quello che preferisce l’impiego dell’associazionismo all’esercito, dei volontari alle squadracce, anche se, a volte, quando ci vuole, ci vuole: e poliziotti, statali e locali, che sfondano povere baracche turandosi il naso schifati e con la paura di prendersi i pidocchi, e ragazzacci che lanciano molotov, non mancano e non si tirano indietro. L’antiziganismo della tarda modernità può essere ricco, molto ricco, e solidale, certo: mette a disposizione milioni di euro, milioni: per i campi recintati, per i vigilantes, per le associazioni che devono mantenere i propri membri altrimenti disoccupati, per opuscoli, video, conferenze, convegni, rimborsi. Ma anche per i rom: per tutti? Beh no, impossibile! Solo per alcuni, solo per i buoni, per quelli che fanno quello che dico io, io che in fin dei conti tiro fuori i soldi, per quelli che si vendono per cavare dalla miseria per lo meno la propria famiglia e i propri parenti, per i collaborazionisti disposti ad accettare un posto che ti fanno credere essere di prestigio, per cercare di dimenticare almeno per un momento di sapere che comunque sempre uno sporco zingaro sei considerato. I collaborazionisti sono sempre esistiti, non c’è da scandalizzarsi per la loro presenza. Ma è segno finalmente di maturità politica quando un’associazione di rom caccia il collaborazionista rom.

L’antiziganismo della tarda modernità è quello che si lascia vedere: non si realizza in lager segreti, da tenere nascosti (anche se non a tutti è permesso di entrare), ma in “villaggi” di cui ci si vanta, villaggi da esportazione. Fra gli altri, attirano gli sguardi di ricercatori postmoderni e postcoloniali giunti a Roma a frotte da vicino e da lontano (America, Francia, Inghilterra, Australia…), ai quali non sembra vero di trovare un esempio così trasparente di applicazione della foucaultiana biopolitica quale è insegnata nelle loro lontane Università, esempio bell’e pronto da spiattellare nei loro saggi peer reviewed, con un titolo pure preconfezionato ma accattivante per un’audience angloglobalizzata: “Rom in Rome”! Meglio di così! Ma sono puntualmente irriconoscenti: nessuno ringrazia, con l’usuale nota a piè di pagina, Veltroni o Amato, Pecoraro o Alemanno o Maroni d’aver dato loro questa insperata e al contempo facile opportunità di dimostrare le ragioni di Foucault…

La potenza di questo libro di Carlo Stasolla sta nella sua essenzialità, nella sua cruda esposizione, concatenazione e cronologia dei fatti. La potenza di questo libro sta nella sua dettagliata precisione, elencata da chi quei fatti li ha vissuti, li ha combattuti, ha avuto e continua ad avere il coraggio di denunciarli, cantando spesso fuori da un coro di associazioni colluse o zittite a suon di sovvenzioni.

Forse, solo il lettore più sensibilizzato leggerà con orrore il dispiegarsi di queste pagine, perché, come ha scritto Lorenzo Guadagnucci nel suo Parole sporche, “ciò che oggi condanna i rom, è la mancata elaborazione storica, culturale, sociale dell’antiziganismo”. E per cominciare ad elaborare questa forma di razzismo che abbiamo criptato nelle nostre coscienze, invito anch’io, come fa lui e come hanno suggerito di fare altrove il gruppo dei “Giornalisti contro il razzismo”, di mettere, nella lettura del presente libro, la parola “ebreo” ogni volta che compare “rom” o “zingaro” o “nomade”. Prima si legga il libro, e poi si rifletta sull’effetto che farebbe di sentire parlare del “Piano Ebrei”; del “Centro di Raccolta Ebrei”; dei “villaggi della solidarietà per ebrei”; delle “prime elezioni di un campo ebrei d’Europa”; che “la gestione della pulizia del ‘villaggio attrezzato’ di Castel Romano è stata destinata ai presidenti delle cooperative ebree per ripagarli di aver accettato il trasferimento”; che “nel 2006 il Comune di Roma ha speso per i 5.200 ebrei regolarmente presenti, 15 milioni di euro. Circa 250 euro a ebreo al mese”; di sentire le parole dell’assessore Belviso: “noi non ci siamo mai impegnati sul fronte case che sarebbero certo la soluzione finale migliore, ma non riguarda il Piano Ebrei di Roma capitale”, dove l’espressione “soluzione finale” fa da sola accapponare la pelle; o le parole di quest’”ebrea” che vive in un centro di accoglienza fuori città: “Ho sentito che vogliono toglierci i bambini (…) a me questo non potrà mai accadere, se ci provano scateno la fine del mondo”, forse sapendo che tante, tante, altre madri “ebree” in questi anni non sono state in grado di scatenare la fine del mondo, come ci aggiorna Carlotta Saletti Salza nel suo Dalla tutela al genocidio? – che effetto fa tutto ciò, appunto?

Se riusciremo a liberare le nostre coscienze dalla mancata elaborazione di quell’antiziganismo che abbiamo succhiato dal latte delle nostre madri, questo libro ci apparirà quale è: un monumento alla denuncia della democrazia razzista di tanti benpensanti e un monumento alla denuncia del razzismo applicato di stampo post-fascista.

“Sulla pelle dei rom” di Carlo Stasolla
con la prefazione di Leonardo Piasere
Edizioni Alegre, pp. 128, 2012

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S. Spinelli contro la ‘segregazione razziale dei rom’

 

 

Santino Spinelli: “la segregazione razziale dei Rom è criminale”

 

 intervista di Marco Cinque su ‘il Manifesto’

ROMA,

 

Alexian Santino Spinelli 

San­tino Spi­nelli, alias Ale­xian, é un Rom ita­liano appar­te­nente alla comu­nità roma­nès, il più antico inse­dia­mento in Ita­lia. Arti­sta di fama inter­na­zio­nale, rap­pre­senta anche le comu­nità roma­nès presso l’O.N.U. ed è stato nomi­nato “Amba­scia­tore dell’arte e della cul­tura romanì nel mondo”.
Musi­ci­sta, com­po­si­tore, can­tau­tore, inse­gnante, sag­gi­sta e poeta, la sua poe­sia Ausch­witz è incisa sul monu­mento che si trova davanti al Par­la­mento tede­sco a Ber­lino, dedi­cato al geno­ci­dio di Rom e Sinti. Un’altra sua testi­mo­nianza in versi, Per non dimen­ti­care, è invece incisa sulla lapide in rame che si trova presso il Museo dell’Internato a Padova.
Venerdì 12 dicem­bre San­tino sarà l’ospite spe­ciale, col suo gruppo Ale­xian group, di un grande evento mul­ti­cul­tu­rale presso il tea­tro di For­mello (RM), assieme ad altri arti­sti, musi­ci­sti, poeti, foto­grafi, etc., per un incon­tro inti­to­lato “Arte in musica”: una sorta di viag­gio attra­verso i dif­fe­renti lin­guaggi dell’arte e della comu­ni­ca­zione, cioè un per­corso che cer­cherà di indi­care nuovi modi e sen­tieri dove costruire ponti, soprat­tutto in que­sti tempi di muri, con­flitti, pre­giu­dizi e discri­mi­na­zioni. In occa­sione di que­sta ini­zia­tiva, abbiamo rivolto ad Ale­xian alcune domande.

La sto­ria pas­sata e recente ci rac­conta di comu­nità che nel mondo cer­cano di soprav­vi­vere in con­te­sti di repres­sione, sof­fe­renza e degrado, come ad esem­pio i popoli Nativi ame­ri­cani, rele­gati nelle cosid­dette Riserve o i pale­sti­nesi, asse­diati bru­tal­mente in lembi di ter­ri­tori sovraf­fol­lati e senza risorse. Qui in Ita­lia ci sono tan­tis­sime asso­cia­zioni o anche sin­goli cit­ta­dini che ne sosten­gono le rispet­tive cause con pas­sione e deter­mi­na­zione, ma la stessa cosa, pur­troppo, non accade anche all’interno dei nostri con­fini rispetto ai popoli Rom e Sinti, pre­giu­di­zial­mente discri­mi­nati e dete­stati da gran parte della popo­la­zione. Cosa ne pensi?

Come sta emer­gendo, la segre­ga­zione raz­ziale dei Rom è frutto di una atti­vità cri­mi­nale e disu­mana. Sono anni che denun­cio que­sta situa­zione, nono­stante sia un arti­sta e non un repor­ter d’inchiesta. Ma a molti ha fatto comodo fare orec­chie da mer­cante. Per decenni e ancora oggi, donne, bam­bini e anziani sono costretti a vivere in con­di­zioni disu­mane, men­tre poli­tici e asso­cia­zioni di pseudo volon­ta­riato si arric­chi­scono con la com­pli­cità di certa stampa e di certi gior­na­li­sti con­ni­venti. La segre­ga­zione raz­ziale è un cri­mine con­tro l’umanità, ma in Ita­lia è stata fatta pas­sare come la vera cul­tura dei Rom, per­ché sono stati con­si­de­rati con molta for­za­tura dei nomadi. I Rom non sono mai stati nomadi per cul­tura, ma la loro mobi­lità è sem­pre stata coatta e con­se­guenza di poli­ti­che per­se­cu­to­rie e repres­sive. I campi nomadi sono un retag­gio della cul­tura nazi­fa­sci­sta. Mi mera­vi­glio di chi oggi si mera­vi­glia nello sco­per­chiare ciò che per anni ho defi­nito Zin­ga­ro­poli, cioè un vero e pro­prio “sistema” col­lau­dato e con­dan­nato anche dall’Unione europea.

E’ evi­dente che tutto ciò che viene rele­gato in un ghetto, che si chiami Riserva, Campo Nomadi, Cen­tro per immi­grati, peri­fe­ria urbana o simili, tra­sforma coloro che sono costretti a viverci in “nemici” della col­let­ti­vità, ber­sa­gli per­fetti per le più varie­gate forme di intol­le­ranza e raz­zi­smo. In que­sta deriva sociale, poli­tica e cul­tu­rale, quali per­corsi alter­na­tivi e con­creti potreb­bero essere intrapresi?

Sono solo vit­time di una poli­tica per­versa, cri­mi­nale e disu­mana. Si spe­cula sulla pelle dei più deboli in maniera vigliacca. Le alter­na­tive sono il supe­ra­mento dei Campi Nomadi, visto che tra l’altro i Rom non sono nem­meno nomadi e, tolto l’Apartheid, ini­ziare reali poli­ti­che di inclu­sione sociale e di valo­riz­za­zione cul­tu­rale. I Rom sono una grande ric­chezza arti­stica e cul­tu­rale e non un pro­blema sociale, come una distorta poli­tica cri­mi­nale ha soste­nuto per anni. Le asso­cia­zioni e Fede­ra­zioni di Rom sono da pre­di­li­gere come inter­lo­cu­tori, soprat­tutto coloro che hanno qua­li­fi­che reali e non millantate.

Rom e Sinti spesso ven­gono rap­pre­sen­tati dai media in modo alquanto super­fi­ciale e ste­reo­ti­pato. Cosa biso­gna fare per impe­dire il per­pe­tuarsi di que­sti cli­chè, che di certo non gio­vano alla con­vi­venza e alla paci­fica coesistenza?

Infor­mare cor­ret­ta­mente sul mondo Rom pro­muo­ven­done arte e cul­tura e valo­riz­zando gli eventi come semi­nari, cine­fo­rum, con­certi, festi­val, con­corsi, con­ve­gni, pre­sen­ta­zione di libri, video, cd e tutti gli eventi che per­met­tono di incon­trarsi e con­fron­tarsi costruttivamente.

L’appuntamento romano nel Tea­tro di For­mello, dove si rea­liz­zerà una sorta di viag­gio inte­rat­tivo e inter­cul­tu­rale attra­verso cui si incon­tre­ranno i più varie­gati e diversi lin­guaggi arti­stici: cosa pensi di comu­ni­care, quali i mes­saggi, i con­te­nuti, ma anche quale rispo­sta ti aspetti dal pubblico?

Il mes­sag­gio prin­ci­pale è quello di cer­care di arric­chirsi con l’arte e l’intercultura. Mi aspetto che il pub­blico possa essere tra­sci­nato e coin­volto da que­sta serata inter­cul­tu­rale ed inter­di­sci­pli­nare, un’opportunità per appro­fon­dire la cono­scenza della sto­ria, dell’arte e della cul­tura romani pre­sente in Ita­lia da oltre 6 secoli, ma che nes­suno cono­sce a causa degli ste­reo­tipi nega­tivi e delle poli­ti­che scel­le­rate del pas­sato. Occorre com­pren­dere che l’altro siamo noi stessi e che esi­ste una sola razza, quella umana, con tante e diverse cul­ture tutte meri­te­voli dello stesso rispetto. L’arte, la lin­gua e la cul­tura romanì rap­pre­sen­tano un patri­mo­nio impor­tante per l’intera uma­nità. Chi verrà al tea­tro sco­prirà il valore e l’apporto della musica romani all’Europa. Un saluto calo­roso e fra­terno But baxt ta sastipe! (Che voi pos­siate essere sani e felici / fortunati).

 

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