Dio al femminile: la sfida della teologia femminista

La rappresentazione femminile nella TdL

la rappresentazione femminile nella TdL

 
 Adista Documenti n° 14 del 16/04/2016

 

Grazie alle conoscenze linguistiche e neurolinguistiche, sappiamo con certezza da più di un secolo che il linguaggio ci configura. Edward Sapir afferma nel 1921: «Non appena la parola è pronta, sentiamo in maniera istintiva, con una specie di sospiro di sollievo, che anche il concetto è pronto per l’uso… Saremmo così disposti a morire per la “libertà”, a lottare per i nostri “ideali”, se le parole stesse non risuonassero dentro di noi? E la parola, come sappiamo, non è solo una chiave, può essere anche un ostacolo» (Sapir, 1966).

Senza un linguaggio non è possibile pensare e ogni lingua, come ogni discorso, realizza la sua appropriazione e comprensione di ciò che chiamiamo realtà e ne configura l’espressione.

La teologia, così come tutti i campi della scienza e della riflessione gnoseologica, costruisce i suoi saperi nella misura in cui sviluppa il suo gioco linguistico, per usare i termini di Wittgenstein. In questo senso, il linguaggio usato non è neutro o trasparente, ma, al contrario, determina le esperienze e le pratiche religiose a partire dalle rappresentazioni elaborate. A partire da queste stesse rappresentazioni condiziona la costruzione di identità – individuali e collettive – e la ricerca di sé.

Riprendiamo le affermazioni di Elizabeth Johnson, nota teologa nordamericana: «L’insondabile mistero di Dio è sempre stato sottomesso alla mediazione del mutevole discorso storico. Il linguaggio su Dio ha una storia. Se evidenziamo questi cambiamenti tanto nel periodo delle Scritture quanto nel corso della storia successiva, ci renderemo conto che non è mai esistito un linguaggio atemporale su Dio nella tradizione ebraica e in quella cristiana. Bisogna pensare piuttosto che le parole su Dio sono creature culturali, intessute delle tradizioni e delle vicissitudini della comunità di fede che le usa. Nella misura in cui cambiano le culture, cambia la specificità del linguaggio su Dio» (Johnson, 2002).

Gli approcci alla Divinità sono attraversati dalle pratiche sociali, dalle ideologie, dalla conoscenza culturale a partire da cui si parla e si pensa. Per quanto riguarda il nostro studio, le costruzioni teologiche della tradizione cristiana sono state generate e sviluppate all’interno del sistema patriarcale in cui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo.

Le donne – se non sempre, perlomeno la maggior parte delle volte – sono state escluse dalla pratica teologica e per ciò stesso non hanno potuto sviluppare ampiamente le proprie proposte in questo senso e, soprattutto, non hanno trasmesso un’eredità propria. Tuttavia, risalendo al Medioevo, incontriamo alcune autrici e intellettuali che hanno rotto con la sfera istituzionale e trovato il proprio percorso per nominare il Mistero, questa Energia trascendente a cui miravano ad avvicinarsi.

Perché è necessario affermare che le donne non possono identificarsi sempre con un Lui trascendente nel quale la propria sessualità e il proprio genere non vengono rispecchiati. Per questo, o il trascendente consente loro una ricerca seria e profonda o esse devono allontanarsi dal paradigma che si presumeva comune.

Le teologhe dei secoli precedenti si sono sempre avvicinate a questa realtà denominata Dio in maniera diversa rispetto agli uomini. Nomi come quelli di Hildegarda di Bingen, Giuliana di Norwich, Hadewijch di Anversa ne sono una chiara dimostrazione. Invece del discorso razionalizzato e scolastico, queste donne hanno parlato della Divinità per metafore, visioni ed esperienze, senza per questo rinunciare a trasmettere trattati coerenti e profondi sugli aspetti della trascendenza affrontati.

Con l’avanzata e il predominio della dogmatica tomista, questi linguaggi sono stati esclusi dalla pratica teologica e le autrici messe a tacere e occasionalmente relegate sotto l’ambigua denominazione di mistiche.

LE ROTTURE DELLA TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE

La Teologia della Liberazione si è sviluppata inizialmente in America Latina a partire dagli anni ’60 e sistematizzata nelle sue intuizioni iniziali dal teologo peruviano Gustavo Gutiérrez. Si tratta di un discorso teologico che si inscrive maggioritariamente nel tronco della teologia cattolica europea, ma a partire da un nuovo punto di partenza: assumendo lo sguardo dei poveri, si ripensano alcuni presupposti della teologia politica sviluppata a metà del XX secolo in Europa. Se, tradizionalmente, la teologia costruisce il suo discorso a partire da presupposti filosofici, una delle rotture chiave in questa nuova pratica teologica è il ricorso all’economia e alle scienze sociali come fondamento delle proprie proposte: «La Teologia della Liberazione pone l’esigenza dell’interdisciplinarietà rispetto alle teorie sociali. È ciò che potremmo definire una mediazione socio-analitica. Postula allora una conoscenza positiva, contestuale e concreta della società. Da qui la sua critica al pensiero speculativo e astratto, considerato a-storico e alienante. La mediazione delle analisi sociali si presenta allora come un’esigenza della prassi di fede, nella misura in cui vuole essere una fede incarnata» (Boff, 1980).

Questa esigenza ha fatto sì che la TdL si inscrivesse in maniera realista e oggettiva nel mondo quotidiano e partendo da qui ripensasse le grandi questioni sempre affrontate dal pensiero teologico.

La TdL ha appoggiato le comunità di cristiani e cristiane nel loro impegno in diversi processi di liberazione nel continente e in questo senso le donne del popolo si sono sentite sostenute nelle loro lotte per dare migliori condizioni di vita alle proprie famiglie. Riguardo al dibattito sull’attualità o meno di questa proposta teologica, è necessario annotare che le condizioni economiche e sociali di ingiustizia che ne hanno determinato la nascita e lo sviluppo non sono cambiate, a dimostrazione di quanto la TdL sia ancora attuale. Ma bisogna anche tener conto del fatto che i processi di costruzione dell’identità dei soggetti sociali sono invece cambiati e che forse i teologi del subcontinente non hanno rivolto ad essi la dovuta attenzione.

Un’altra delle rotture particolarmente significative è venuta dalla proposta di Gustavo Gutiérrez di fare teologia a partire dal rovescio della storia. Una posizione concettuale di grande portata: «Vivere e pensare la fede partendo dagli assenti della storia ridefinisce il modo di intendere il messaggio salvifico del vangelo. Collocarsi pienamente nel mondo dell’oppressione, partecipare alle lotte popolari per la liberazione, porta a una rilettura della fede, ma tale rilettura presuppone un’ubicazione nella storia differente da quella dei settori dominanti della società» (Gutiérrez, 1977).

Questo sguardo trasforma le analisi, i presupposti, i cammini del sapere. Si tratta di un punto di partenza che consente di comprendere molto meglio la dinamica storica e l’iscrizione in tale dinamica delle forze che muovono la sfera religiosa e sociale. Questa visione del rovescio della storia produce conseguenze in diversi ambiti dell’approccio al reale e della sua comprensione. Conseguenze che hanno condotto la TdL a proporre cammini alternativi al pensiero teologico tradizionale e, cosa più importante, l’hanno portata ad accompagnare lotte e rivendicazioni di molti gruppi sociali di Abyayala. Tuttavia, rispetto alla donna come soggetto, non si è avanzato rispetto a ciò che sarebbe stato improrogabile. Guardare la storia dal suo rovescio continua a essere necessario e pienamente attuale in un mondo sempre più ingiusto. Ma guardare la storia dal suo rovescio significa anche – in un mondo patriarcale – guardarla a partire dalle donne, tanto spesso ignorate, messe a tacere ed escluse.

LA DONNA IN QUESTO PARADIGMA

Per chiarire la nostra proposta, possiamo prendere un esempio praticamente a caso: esaminiamo uno dei Dizionari di Teologia della Liberazione più popolari nel subcontinente, quello pubblicato dal Centro Ecumenico Diego de Medellín, nel 1992.

Tra le voci del Dizionario (Rosales e Ferari, 1992), il termine “donna” non appare, a differenza dei termini “neri”, “meticci”, “poveri”, “povertà”… Naturalmente non appare neppure la parola “genere”, né alcuna altra voce che miri a pensare la differenza e la diversità sessuale. Non si tratta di una semplice dimenticanza: tale omissione si spiega con il fatto che le donne, malgrado siano un’immensa maggioranza all’interno delle Comunità Ecclesiali di Base, non sono mai state realmente viste come soggetti, all’interno di questo lungo e complesso cammino. Non si è mai considerata la donna nella sua autonomia, nelle sue necessità, nei suoi diritti e nelle sue aspettative. Si ignora anche Maria di Nazareth, così determinante nella visione teologica contemporanea delle donne.

In tutti i modi, prendendo in prestito un concetto di Bourdieu, possiamo parlare del campo teologico come si fa con quello letterario o artistico (cfr. Bourdieu, 1995). I fatti non sono univoci o trasparenti, non sono lineari e semplici: all’interno della teologia che analizziamo, si sviluppano contraddizioni e forze in lotta tra loro. Così, in uno dei compendi più importanti di questo pensiero, quello prodotto da Ignacio Ellacuría e Jon Sobrino con il titolo Mysterium liberationis. Concetti fondamentali della teologia della liberazione (Ellacuría e Sobrino, 1990), troviamo l’articolo di Ana María Tepedino e Margarida L. Ribeiro Brandäo sul tema “Teologia della donna nella teologia della liberazione”, che raccoglie i passi realizzati all’interno delle necessarie tensioni di genere.

Era dal 1985 che le teologhe dell’America Latina si riunivano periodicamente per avanzare nelle loro ricerche, sempre all’interno dello stesso paradigma. In questo quadro, le autrici scrivono: «Le teologhe latinoamericane, nella loro esperienza pastorale e cristiana, apprendono che l’opzione per i poveri si concretizza nell’opzione per la donna povera, che è oggi la più povera tra i poveri. In esse la forza di trasformazione delle donne può sintetizzarsi come resistenza per sopravvivere, come creatività per trovare un nuovo posto nella società e come libertà, in senso religioso, per vivire e parlare di Dio» (Tepedino e Ribeiro, 1990).

Neppure in questo caso la donna è guardata e scoperta in se stessa, bensì continua a essere relazionata ai poveri.

Muovendo alcuni passi avanti, Ivone Gebara propone: «Le donne, nella loro pratica teologica, cercano di recuperare le realtà esistenziali, lasciandole parlare liberamente e permettendo che si riorganizzino a partire dal contesto attuale, per legarle solo successivamente a una tradizione anteriore. Mediante questo procedimento, si tenta di restituire al linguaggio teologico la sua capacità di toccare alcuni centri vitali dell’esistenza umana. In altri termini, questo procedimento equivale, in un certo senso, a restituire alla teologia la dimensione poetica dell’esistenza, considerando che ciò che vi è di più profondo nell’essere umano si esprime solo per analogia; che il mistero si formula solo nella poesia; che la gratuità si traduce solo attraverso simboli» (Gebara, 1994).

E proprio qui tocchiamo i limiti di questo discorso teologico nella prospettiva femminista.

LINGUAGGI E IMMAGINARI

La TdL è rimasta e rimane legata a concezioni maschili e patriarcali della Divinità. È questo il principale problema per cui noi donne non ci sentiamo a nostro agio sotto questo ombrello e qui si inscrive una delle principali rotture realizzate da alcune delle teologie femministe. Nei progetti e nelle riflessioni teoriche dell’America Latina, non si è mai affrontato il problema del linguaggio sulla Divinità, delle sue immagini e dei suoi simboli. Ha sempre predominato e continua a farlo un approccio a un Dio che, oltre che liberatore e amorevole, è fondamentalmente maschile: il Dio dei poveri, il Dio della storia, il Dio liberatore dell’esodo… Un passo avanti rispetto alle precedenti teologie disincarnate, ma in nessun modo una casa per la donna in sé e per sé. La TdL ha di sicuro attribuito molta importanza alle immagini: tanto in campo pittorico, quanto in quello musicale e poetico, c’è stata una grande creatività, ma queste costruzioni poetiche, così ricche e a volte così esteticamente belle, non sono riuscite a parlare a partire dalla donna e alla donna in se stessa.

Gli immaginari ci costituiscono con la stessa forza delle esperienze vissute, perché queste esperienze le leggiamo a partire da questi immaginari e in questi le rovesciamo. Gli immaginari religiosi accompagnano permanentemente – in maniera cosciente o inconsciente – la costruzione della nostra identità: «La psicologia e l’antropologia hanno dimostrato come l’uso di simboli esclusivamente maschili di Dio neghi alle donne lo sviluppo della loro pienezza umana. La psicologa junghiana Toni Wolff ha descritto le conseguenze negative di questa situazione per la psiche femminile. “Immaginare Dio rappresenta il massimo simbolo delle migliori caratteristiche umane e delle idee più profonde dello spirito umano. Come può una donna trovare se stessa se i suoi stessi fondamenti psichici non sono oggettivati in un simbolo? Il simbolo mostrerà il suo effetto nell’essere umano sviluppando il suo significato nel tempo, a poco a poco”» (Seibert, 2010).

La pratica teologica deve essere intesa come un approccio a tentoni, balbuziente, alla Divinità, dovendo necessariamente rispondere, nella costruzione di metafore di avvicinamento, ai gruppi e ai soggetti sociali a partire dai quali pensa. Perché ciò di cui si tratta è proporre a persone non specializzate concetti e realtà che scivolano e sfuggono. L’esclusione tradizionale dal pensiero e dall’espressione teologica sofferta dalla donna ha contribuito al fatto che la rappresentazione di Dio si sia sempre data in termini maschili. La teologia cristiana ha preso corpo in una matrice patriarcale e in una forma intesa come naturale e Dio, al di là delle dichiarazioni ufficiali secondo cui non ha sesso, è stato sempre concepito come un maschio.

Questa realtà lascia le donne fuori da un immaginario che le costituisca nel loro essere donne, consentendo loro un’identificazione piena con la loro sessualità. Le lascia in un vicolo cieco.

Afferma giustamente Carol P. Christ: «Le religioni centrate sull’adorazione di un Dio maschile creano “disposizioni d’animo” e “motivazioni” che mantengono le donne in uno stato di dipendenza psicologica dagli uomini e dall’autorità maschile e che al tempo stesso legittimano l’autorità politica e sociale di padri e figli nelle istituzioni. I sistemi simbolici religiosi centrati esclusivamente su immagini maschili della Divinità creano l’impressione che il potere delle donne non potrà mai essere totalmente legittimo o benefico. Non c’è bisogno che questo messaggio sia espresso in maniera esplicita (come, per esempio, nella storia di Eva) perché se ne sentano gli effetti. Anche una donna che ignori totalmente i miti biblici della malvagità femminile riconoscerà l’anomalia del potere femminile pregando esclusivamente un Dio maschile. Potrà vedere se stessa simile a Dio (creata a immagine di Dio) solo negando la sua identità sessuale. Ma non potrà mai vivere l’esperienza di cui gode automaticamente ogni uomo e ogni bambino appartenenti alla sua cultura: affermare pienamente la propria identità sessuale per sentirsi fatta a immagine e somiglianza di Dio» (Christ 1997).

Pertanto, una pratica religiosa che abbia come orizzonte la configurazione del soggetto femminile dovrà perseguire un approccio al mistero e alla trascendenza che sia inclusivo e, poiché l’astratto e l’universale non toccano le fibre più intime dell’Io, saranno necessari un’appropriazione e uno sviluppo di tutte le espressioni della sessualità e della costruzione di genere. Se si parla del Dio dei poveri, bisogna chiedersi cosa avviene quando una donna povera subisce violenza dal suo compagno impegnato nel percorso delle Comunità Ecclesiali di Base… Come sperimenta questa donna che Dio sta dalla sua parte, che la ama e l’accompagna, che vuole la sua crescita e la sua autoaffermazione? Come sperimentare che Dio non è complice – in quanto maschio – del suo compagno “impegnato” che parla di Dio con tanta proprietà? Sono domande che la Teologia della Liberazione non ha mai formulato e a cui pertanto non ha mai risposto.

In base a quanto abbiamo visto nell’esempio del Dizionario, la TdL non ha mai nominato la donna e a chi non è nominato restano due possibilità: o semplicemente non esistere o venire repressi. Non nominare significa non riconoscere, non riconoscere significa non prendere coscienza dell’esistenza di chi è messo a tacere e, partendo da qui, si segue un cammino di disconoscimento e di radicale incomprensione. Per almeno tre decenni il discorso teologico latinoamericano non ha neppure utilizzato un linguaggio inclusivo, nel momento in cui organismi internazionali come le Nazioni Unite, l’Unesco e varie piattaforme educative avanzavano su questo terreno.

Alcuni dei limiti della Teologia della Liberazione, per esempio la sua scarsa comprensione delle diverse soggettività, hanno a che vedere precisamente con il fatto di aver disconosciuto il cammino femminile al sapere, allo studio e alla conoscenza. La sua matrice teologica non ha assunto uno sguardo femminile che consentisse la comprensione per altre vie.

La Teologia femminista ha implicato e presupposto un salto qualitativo rispetto a teologie anteriori tanto nei punti di partenza epistemologici quanto nel pensare ed elaborare gli immaginari, assumendo pertanto il linguaggio come uno dei suoi campi di battaglia. Perché non si tratta di rimescolare alcune cose in maniera che tutto resti uguale, ma di trasmettere alle donne credenti strumenti per la costruzione della loro identità nel senso di una radicale autoaffermazione. Sostiene Dorothee Sölle: «Nella teologia femminista non si tratta di cambiare pronomi, ma di concepire una diversa forma di trascendenza che non debba intendersi come indipendenza da tutto e dominio su tutte le cose, ma che sia legata al tessuto della vita… È necessario un avvicinamento alla mistica, che è quella che più ampiamente ha superato la comprensione gerarchica e maschile di Dio, una mistica, cioè, che non permetta alla sete di liberazione reale di perdersi nel mare dell’incosciente» (Sölle 1996).

Un lavoro interessante in questo senso è quello realizzato dalla teologa nordamericana Sallie McFague. Il punto di partenza di questa autrice è la certezza che vi sia uno strappo nel linguaggio su Dio e che sia necessario realizzare rotture che portino a una connessione più reale con le donne e gli uomini del XXI secolo, in quanto il riferimento al mistero trascendente non solo non suscita interesse, ma ha anche perso plausibilità nel mondo attuale. È diventata allora una sfida realizzare approcci nuovi e più coinvolgenti. Da qui la sua volontà di rischiare in tal senso: «È diventato sempre più dolorosamente evidente per molti occidentali – tanto per chi è all’interno della tradizione giudaico-cristiana quanto per chi ne è fuori, ma condizionato dalla sua iconografia, dai suoi valori e dai suoi concetti – che il linguaggio utilizzato per esprimere la relazione tra Dio e il mondo richiede una revisione. A mio giudizio, tale revisione deve iniziare sul piano dell’immaginario, in un esperimento mentale con quelle metafore – e i corrispondenti concetti – che, a differenza di quelle utilizzate principalmente dalla tradizione, propongano un quadro unificato e interdipendente per la comprensione delle relazioni Dio-mondo ed essere umano-mondo». (McFague 1994).

La sua visione mira a recuperare un discorso teologico di tipo metaforico e apofatico.

Per questa via, la teologia femminista può reincontrarsi con il linguaggio su Dio elaborato da donne medievali e da mistiche di diverse epoche, condotte dalla loro coscienza spirituale a vivere l’esperienza di Dio come mistero e pertanto a utilizzare in riferimento alla trascendenza esclusivamente metafore e visioni.

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il bel gesto di papa Francesco

papa Francesco ha fatto bene a portare via da Lesbo famiglie musulmane?

dopo la visita del pontefice ai rifugiati, un sacerdote risponde così a un giovane volontario della sua parrocchia che era furibondo…

Pope Francis greets migrants and refugees at the Moria refugee camp on April 16, 2016 near the port of Mytilene, on the Greek island of Lesbos. Pope Francis received an emotional welcome today on the Greek island of Lesbos during a visit aimed at showing solidarity with migrants fleeing war and poverty.  Pope Francis, Orthodox Patriarch Bartholomew and Archbishop Jerome visit Lesbos today to turn the spotlight on Europe's controversial deal with Turkey to end an unprecedented refugee crisis.  AFP PHOTO POOL / FILIPPO MONTEFORTE / AFP PHOTO / POOL / FILIPPO MONTEFORTE

Molti hanno criticato il gesto di papa Francesco di portare con sé, tornando da Lesbo, tre famiglie musulmane.

Alcuni la ritengono un’offesa e tacciano anche di insensibilità il sostegno del Vaticano a queste famiglie di fronte alla terribile situazione dei cristiani siriani e iracheni

Bisogna ricordare che in precedenza il papa aveva ospitato due famiglie cristiane rifugiate, e che la Santa Sede sta aiutando costantemente i cristiani del Medio Oriente.

Il gesto profetico del papa è rivolto soprattutto a un Occidente insensibile, che si fa scudo delle differenze di razza o di religione per chiudere le frontiere.

Se la guida della Chiesa cattolica porta con sé dei rifugiati di un’altra religione, che scusa resta all’Occidente? Le nostre nonne dicevano molto cristianamente “Fare il bene e non guardare a chi!”

Bisogna aprire il cuore, comprendendo che i rifugiati, prima che numeri o fedeli di una religione, sono persone, volti, nomi, storie.

Un giovane volontario molto impegnato nella raccolta di donazioni per aiutare i cristiani perseguitati nel mondo ha posto una domanda al suo parroco, padre Damián: “Papa Francesco ha fatto bene a tornare dal suo viaggio a Lesbo con 12 rifugiati, tutti musulmani? E i cristiani perseguitati? Non avevano più diritto di essere aiutati?”

il sacerdote lo ha guardato negli occhi con affetto e gli ha raccontato una storia:

“Il diluvio colpì un arcipelago, terra di pescatori. Le famiglie di varie confessioni aspettavano sui tetti di essere salvate.
Le case di paglia e bambù non resistevano alla calamità. Un pescatore non esitò a salire sulla sua imbarcazione e a sfidare la tormenta. Era consapevole di non poter salvare tutti.
L’uomo si trovò davanti all’odissea di una famiglia che aveva l’acqua ormai al collo, e chiese al padre che lottava con le onde per tenere a galla un bambino piccolo: ‘Fratello, sei cristiano?’
Poi alzò la voce di fronte al rimbombo del mare: ‘Sei cristiano?’
A questa domanda insistente, il papà preoccupato non sapeva come rispondere mentre l’acqua gli entrava nella gola e le sue forze venivano meno nel tentativo disperato di salvare la creatura. Alla fine entrambi scomparvero inghiottiti dalla burrasca.
Il pescatore vide poi una donna che, aggrappata al bordo del tetto della capanna, saltò nell’acqua senza pensarci due volte, sconvolta dalla sorte del marito e del suo bambino, per non riemergere più.
Il pescatore proseguì con maggior lena la sua ricerca di cristiani da salvare. Poi un’onda anomala travolse la barca, e i remi gli sbatterono sulla testa.
L’uomo iniziò ad affogare. Poi venne una luce dal cielo e una voce di tuono gli chiese: ‘Sei cristiano?’
Stordito dai colpi, il pescatore gridò con tutte le sue forze: ‘Sì, sono cristiano, sono cristiano. Signore, sono cristiano’. La voce dal cielo gli rimbombò nella testa dicendo: ‘Perché non hai salvato i tuoi fratelli e hai lasciato che affogassero?’
Da lontano un’imbarcazione infranse le onde del mare grosso per andare a salvare l’uomo. Una mano callosa lo tirò quasi per i capelli salvandolo da una morte certa.
‘Sei un buon cristiano! Ti ha mandato il Signore!’, disse con gioia il pescatore. L’uomo lo guardò sorpreso dicendo: ‘Non sono cristiano’.
E aggiunse; ‘Ma sono certo che tu avresti fatto lo stesso per me’. E il pescatore iniziò a piangere senza riuscire a fermarsi”.
Il giovane volontario è rimasto senza parole. Stringendolo in un abbraccio, il sacerdote gli ha detto: “Ricordati del buon samaritano”.

 

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20 aprile: giorno anniversario della morte di don Tonino Bello

caro don Tonino…

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lettera aperta a don Tonino Bello

nel giorno dell’anniversario della sua morte


20 aprile 2016

 Renato Sacco

coordinatore nazionale di Pax Christi

Caro don Tonino,
nell’anniversario della tua nascita al cielo pensavo di scrivere alcune righe per ricordare, anche a chi non ti ha conosciuto, le tante cose belle che hai fatto durante la tua vita. Ma non ci sono riuscito, e allora scrivo direttamente a te, non per imitare la tua grande capacità di scrivere lettere personali un po’ a tutti, non ne sono capace, ma perché così posso dirti liberamente alcuni pensieri, come mi vengono…
Volevo dirti che qui, sulla terra, abbiamo ancora bisogno di te: aiutaci a non perdere il coraggio di essere “in piedi, anzi in marcia, costruttori di pace”. Perché tira un’aria di guerra mica male.
Nel 2015 si sono spesi nel mondo quasi 1700 miliardi di dollari in armamenti.
Ti sarà giunta notizia anche lassù che l’Italia vende armi un po’ a tutti, anche ai Paesi sostenitori dell’Isis: Arabia Saudita, Qatar. Facciamo affari d’oro proprio con le armi! Altro che sogno di Isaia “forgeranno le lance in falci…”! Ma di guerre ce sono un mucchio, più o meno dimenticate. Ovviamente continua il progetto degli aerei F35 e qualcuno ha brindato perché Finmeccanica ha venduto al Kuwait ben 28 aerei da guerra Eurofighter Typhoon. Pensa che qualche autorevole quotidiano titolava mesi fa: “Quelle idee appassite: essere pacifisti in un mondo così bellicoso”.
Come vedi non è cambiato molto dai tuoi tempi, la cultura della guerra ha buone radici e forti sponsor. Insomma, come scrivevi tu, nella tua lettera ad Abramo, c’è ancora “nell’aria odore di zolfo”.

Tonino Bello
A dire il vero c’è papa Francesco (sai che molti vedono grandi somiglianze tra voi due) che continua a denunciare questa follia delle armi e della guerra, è arrivato anche a dire “Maledetti”. Ma per lui tira un’aria un po’ difficile. Molti lo criticano in modo esplicito, altri in modo più sottile. E tu sai bene cosa vuol dire essere criticato, anche pesantemente: lettere inviate a Roma con i tuoi scritti giudicati poco ortodossi, critiche per non aver usato il “pilleolo” durante una celebrazione, critiche per essere andato a Bari, allo stadio, nel luglio 1991 quando arrivarono migliaia di profughi dall’Albania. “A fame peste et bello… libera nos domine”, scrisse qualcuno.
E Francesco viene criticato per le sue aperture che “rovinano” la Chiesa, per essere andato l’altro giorno a Lesbo e aver portato con sé al ritorno 12 profughi. Tu ne sai qualcosa, visto che avevi ospitato in casa tua alcune famiglie sfrattate…
E allora ti chiedo, cerca (cercate un po’ tra tutti voi di lassù) di sostenere questo Papa. Anche noi ci proviamo a non lasciarlo solo, ma un vostro aiutino dall’alto non guasta. E, già che ci sei, dai un occhio anche a tutto il popolo della pace e anche a noi di Pax Christi che ci troviamo in assemblea nei prossimi giorni ad Assisi, (Misericordia è disarmo, giustizia, condivisione) proprio nella città di un altro Francesco, a te molto caro, visto che sulla tua tomba c’è scritto ‘terziario francescano’.
Che dire ancora? Grazie don Tonino!!
d. Renato Sacco,
coordinatore nazionale di Pax Christi

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contro il conformismo, anche in teologia

la teologia non conformista fa bene alla Chiesa

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 Adista Segni Nuovi n° 15 del 23/04/2016

nell’ambito di un dibattito apertosi in Germania sul rapporto tra teologia accademica e magistero del papa e dei vescovi, il vescovo di Passau, mons. Stefan Oster, ha affermato che la teologia progressista può intaccare la fede degli studenti, condividendo l’opinione del vescovo di Regensburg, mons. Rudolf Voderholzer, secondo cui la teologia dovrebbe essere maggiormente subordinata al magistero. Anne Strotmann, redattrice della rivista tedesca “Publik-Forum” ha completato recentemente i suoi studi in teologia e ha un’opinione diversa. Ecco la sua lettera aperta al vescovo, pubblicata sulla rivista il 25 marzo scorso 


Ho constatato nelle ultime settimane come un’antica controversia possa  acquistare nuova forza. Si tratta del rapporto tra magistero del vescovo e teologia accademica. Mi sono guardata intorno abbastanza per sapere che ci sono ancora fantastici teologi e soprattutto teologhe che non ottengono mai il nulla osta, cioè l’autorizzazione all’insegnamento da parte della Chiesa. Eppure sono persone come loro che mi hanno ridato il desiderio di essere cristiana. Sono coloro a cui Lei rimprovera di impedire agli studenti di credere ad avermi aiutato, spiegandomi contenuti di fede ingombranti. Proprio come Lei, ritengo necessario che la Chiesa sia indipendente, che sia una cosa diversa da società e popolo. Che possa parlare ed esprimere le sue opinioni. In questo siamo d’accordo. Ma l’affermazione che i professori progressisti vogliono costruire un contro-magistero rispetto a Roma, la ritengo esagerata, o meglio, un cliché. E poiché stiamo parlando di cliché: anch’io ne soffro insieme a loro. Mi irritano le critiche stupide alla Chiesa e alla religione, perché so che la Chiesa è una cosa diversa. Ma posso capire la frustrazione che ci sta dietro. Lei lamenta che i giovani non trovano la Chiesa e la fede perché non vanno oltre le eterne controversie dell’ordinazione delle donne, della contraccezione, del matrimonio gay, della comunione per i divorziati risposati. È triste, ma la cosa può anche essere vista in senso opposto: se tradizioni e dogmi finiscono in una retorica di esclusione, si può anche diventare furenti. Furenti per amore.

Dalle strutture autoritarie traggono profitto i conformisti

I giovani teologi e le giovani teologhe conoscono il potere del magistero. Studiano, pensano, credono, amano con delle forbici nella testa. Dalle strutture autoritarie traggono profitto principalmente i conformisti. Non meraviglia che manchi loro il fuoco per accendere in altri l’entusiasmo per la fede cristiana. Di fatto pensavo che il rapporto tra il magistero vescovile e la teologia accademica fosse diventato meno teso. I vescovi esitano a sanzionare insegnanti e professori con il divieto di insegnamento, e vivono il dialogo. Ma, oggi come un tempo, spetta a loro l’ultima parola, la decisione finale. Io mi augurerei che i vescovi avessero ancor più fiducia e i teologi ancor più coraggio nel parlare chiaramente.

Solo se io posso dichiarare onestamente ciò che credo o non credo, dire quelli che sono davvero i miei problemi, nasce qualcosa di diverso dello pseudo-dialogo del catechismo. Sono stati dei teologi “progressisti” a costruirmi i primi ponti. Se qualcuno mi avesse risposto con gli schemi delle formule cristiane, avrei abbandonato le lezioni delusa. Naturalmente bisogna prima conoscere le tradizioni, Lei ha ragione (e io ho la fortuna di una socializzazione cattolica ampiamente senza incidenti). Ma le controversie scientifiche sono super. Sono riconoscente per il fatto di aver avuto molti formidabili insegnanti (uomini e donne) di diverse discipline che naturalmente non erano sempre d’accordo. Non esiste una univocità. Non solo i teologi, la Scrittura stessa si contraddice spesso su singole questioni. Ciò che io trovo affascinante è che attraverso tutte queste narrazioni, attualizzazioni, traduzioni risplenda la verità del Vangelo. Che evidentemente non è riducibile ad una frase, altrimenti il nostro canone (il Nuovo Testamento, ndr) non avrebbe 27 libri. Per me, la lingua dei teologi progressisti era quella giusta per parlare di Gesù.

Perché aver paura di una teologia libera?

Comunque, dal suo appello posso trarre qualcosa e rispetto alla realtà dell’islam in Germania, porre anche delle domande autocritiche: io stessa ho notato come il contatto con un’altra pratica di fede vissuta con entusiasmo abbia arricchito la mia. Ho imparato ad amare aspetti della mia confessione che prima non avevano alcun significato per me. E questo non per un atteggiamento di difesa, ma perché ho innanzitutto preso sul serio l’“Altro”. Questo aiuta contro le proprie zone d’ombra.

Evidentemente Lei non ha paura dell’altro. Perché allora aver paura che la teologia libera faccia vacillare il fondamento della fede cristiana? La Chiesa è sempre stata cambiamento. È sempre stata cultura. Ed è stata illuminata al massimo dallo Spirito Santo proprio dove essa era sovversiva nell’amore. Come agisca in modo nuovo il Vangelo in questo tempo, entrambi siamo curiosi di scoprirlo. Continuiamo a discutere. Le contrapposizioni tra “conservatori” e “progressisti” sono sempre più assurde. Non si tratta piuttosto di differenza tra conformisti senza amore e persone appassionate che riflettono? 

 
 
 
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la presenza dei rom al CCIT 2016 a Esztgom in Ungheria

sono stati il colore, il gusto, il sapore del CCIT 2016

sono stati molto presenti, accompagnandoci in tutto lo svolgimento del CCIT, ancorché con molta discrezione senza minimamente interferire nei lavori, accogliendoci anzi come ‘padroni di casa’ cercando di farci trovare sempre a nostro agio

sono stati:

 

  • la colonna sonora del CCIT

  • gruppo rom suontori

 

 

 

 

 

  •  la leggerezza e l’eleganza giovanile

  • ballerine

 aiuto nella animazione liturgica nella forma anche di teatro sacro

 

sacra rappresentazione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

padre nostrodacci oggi

  • la gentilezza di una cena preparata per noi con dedizione e squisito senso di accoglienza

 

 

cena rom1

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

GRAZIE CARISSIMI ROM UNGHERESI!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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lo schiaffo di papa Francesco al mondo che neanche se ne accorge …

quella carezza schiaffo al mondo

di Alberto Melloni

lesbo

in “la Repubblica” del 17 aprile 2016

con la visita a Lesbo papa Francesco ha deciso di esporre, sul fronte politico più caldo di questo momento, tutta la sua forza e tutta la sua impotenza

Ha compiuto un gesto che s’iscrive nel quadro dei grandi gesti profetici e apocalittici mancati ai decenni recenti e affidati ad una impossibile storia dei “se”: se Pio XII fosse andato a Palazzo Salviati a via della Lungara, la sera del 16 ottobre 1943, dove erano stati portati gli ebrei di Roma…; se Giovanni Paolo II in visita in Cile avesse chiesto a Pinochet di accompagnarlo al forte “Silva Palma” a Valparaiso, dove si torturavano i desaparecidos… La ricerca storica ci insegna la ragioni per cui questo non accadde: la convinzione di dover agire diplomaticamente, di poter far meglio dialogando con quei poteri, qualche illusione politicistica, e via dicendo. Davanti al dramma di popoli in fuga da un segno apocalittico come la guerra – «a bello fame et peste», dicevano le litanie – è accaduta, invece, la visita di Francesco a Lesbo. Dove arriva una disperazione che non ha nulla di comparabile alla Shoah, che non ha dietro la spietatezza della realpolitik americana: ma che imponeva anche al papato delle scelte. E Francesco ha fatto le sue. Ha compiuto un atto liturgico di intercomunione con l’ortodossia, toccando insieme la carne del Cristo povero nei poveri. Ha scelto di compiere un gesto di umiliazione: e alla propaganda jihadista sui crociati mostra un credente disarmato che può solo carezzare qualche viso di quelli che hanno vissuto per decenni sotto le bombe e devono fuggire portandosi la vita come bottino. E ha compiuto un grande gesto politico.

papa Lesbo1 Che consiste nel girare le spalle alla politica, volgersi dalla parte delle vittime e parlare (anche alla politica) solo rimanendo lì, accanto al corpo di Abele: l’Abele dei morti distesi sul fondo dei mari che separano le terre della guerra dalle terre della paura; l’Abele degli innocenti vivi e piangenti che gli sono parati innanzi con gesti che mimavano gli episodi stessi del Vangelo. «Troverete qualche lacrima da asciugare» disse papa Giovanni la sera del discorso della Luna; Francesco è andato a dare la carezza del Papa ai bambini che piangevano disperati, che si sono prostrati davanti a lui in un gesto straziante che consegnava ad un uomo andato a dire «non perdete la speranza», tutta la disperazione inconsolabile di chi è in fuga e rischia di essere ributtato nelle mani di chi ha caricato i propri campi di profughi da usare come arma e come leva di un ricatto che ha funzionato benino. Da quel punto-Abele ha lanciato un messaggio politico che denuncia l’impotenza di un’Europa che si misura con questi drammi, o facendosi portare dagli amici – Tajani ne ha fatto un mestiere – simpatici capi religiosi che rassicurano una società secolarizzata sulla bontà delle “religioni” o facendo qualche domanda sbagliata alla sociologia religiosa di solito francese… La soluzione che Francesco ha “implorato” infatti non è fatta di principi: legge naturale, norme morali, concetti di civiltà; ma di una prossimità reale di cui ha dato l’esempio andando solo (si portasse il presidente della conferenza episcopale europea non sarebbe male) insieme al Patriarca Ecumenico e ai suoi metropoliti.

lesbo3 Esattamente come ha imposto ai vescovi cattolici di prendere in mano le situazioni “cosiddette irregolari” così ha fatto coi migranti. Il Papa ha stabilito che i vescovi debbano prender in mano personalmente quei drammi e i disastri degli amori estinti non perché pensi che i vescovi sappiano dire parole appropriate: ma perché pensa che sia indispensabile ai vescovi per essere vescovi. E allo stesso modo il papa sa che non saranno le parrocchie dello staterello Vaticano o gli episcopi che aprono qualche stanza ad alcune famiglie a risolvere il dramma di milioni di persone cacciate da casa da guerre lucrose e da lucrosi maneggi politico-petroliferi: sa, però, che aver vicino anche solo un poco di quel disastro rende umano chi lo fa, e disumano chi non lo fa. «Chi alza muri non è cristiano» ha detto rispondendo a una battuta di Trump che credeva di poter fare lo strafottente col vescovo di Roma.

lesbo1 A Lesbo ha spiegato che chi non vuol vedere la sofferenza del carcerato – che “è” il Cristo dice Matteo 25 – non è umano.
Perché come dice Francesco «siamo tutti migranti»: e a forza di muri e confini questo continente che ha inventato le guerre di religione, la guerra totale, il colonialismo, i totalitarismi, lo sterminio e la pulizia etnica, finirà per ripetersi. E perché come dice Bartholomeos «la società sarà giudicata per come vi tratta»: in senso etimologico una Europa “se-cura” – cioè che si libera dal prendersi “cura” degli altri – è una utopia destinata a dar frutti malvagi. Per una Europa che si “cura” della pace e della giustizia di terre dimenticate, dove i grandi affari generano grandi cinismi, non basta il disegno di un bambino afghano messo sul tavolo del Papa. Le tre famiglie che diventano rifugiati in Vaticano non sono “la” soluzione di questo dramma epocale: hanno senso se sono un promemoria, un gesto che suscita qualche santa emulazione nei vescovi, nei credenti, negli europei.

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il forte gesto di papa Francesco a Lesbo

papa Francesco a Lesbo

«Siamo tutti migranti»

di Mariano Giustino
in “il manifesto” del 17 aprile 2016

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Forte il gesto di Papa Francesco che alla fine della toccante visita a Lesbo ha voluto portare con sé, in aereo, 12 rifugiati bloccati in un campo dalla cinica indifferenza di un’Unione europea che non ha ancora saputo dare risposte adeguate dinanzi alla tragedia di persone in fuga.

Bergoglio è giunto su quell’isola greca, che come Lampedusa è diventata simbolo della fuga di centinaia di migliaia di disperati dall’orrore della guerra, per dire loro di non perdere la speranza e che non sono soli; e ha compiuto un gesto che rimarrà scolpito sulla coscienza di quei governi che si illudono di poter affrontare l’emergenza alzando muri e barriere di filo spinato. Francesco, che così era invocato dai rifugiati del campo di accoglienza di Moria, è tornato in Vaticano con tre famiglie siriane, musulmane, e i loro sei figli. Dodici rifugiati, scelti tra chi era già presente nel campo profughi a Lesbo prima della firma del recente accordo sui rinvii tra Ue e Turchia, entrato in vigore il 20 marzo scorso. Il direttore della sala stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi, ha detto che il papa ha voluto fare un gesto di accoglienza e di solidarietà a favore dei rifugiati e che l’iniziativa era stata organizzata e resa possibile durante un vertice tra Segreteria di Stato vaticana, le autorità greche e quelle italiane. Due delle tre famiglie provengono da Damasco e la terza da Deir Ezzor, un’area controllata dal cosiddetto Stato islamico. Le loro case sono state distrutte dai bombardamenti. Sant’Egidio fornirà un iniziale ricovero, il Vaticano sosterrà il costo degli alloggi e si prenderà cura di loro.papa Lesbo

Il momento più intenso

Il momento più intenso della visita del papa si è verificato la mattina, al campo di identificazione e di espulsione di Moria. Il pontefice ha toccato con mano, come ama fare lui, la sofferenza delle oltre 3000 persone che secondo l’ultimo report dell’Unhcr vi sono recluse. Il suo è stato un incontro denso di commozione con i rifugiati inginocchiati ai suoi piedi; alcuni piangevano, mostrando tutta la loro disperazione. Un’immagine forte, drammatica, un monito severo per un’Unione europea che ha smarrito i suoi valori e la sua funzione. Bergoglio è apparso molto commosso, così come il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I, e l’arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia, Ieronymos, che lo accompagnavano in questa visita. Un altro segnale lanciato al mondo: quello dei leader cristiani unitisi tra i rifugiati per condividerne le sofferenze. Cattolici e ortodossi insieme non per discutere di questioni ideologiche, ma per un impegno umanitario verso coloro che soffrono. Più di un milione di rifugiati ha attraversato l’anno scorso il breve tratto di Egeo che divide la costa turca da quella dell’Unione europea, e circa la metà di essi è approdata sull’isola di Lesbo, per poi dirigersi verso i paesi del nord Europa Le spiagge sono ancora disseminate di giubbotti di salvataggio di colore arancione.

Una struttura al collasso

Sull’isola attualmente sono presenti settemila profughi. Il flusso si è interrotto all’inizio di quest’anno dopo che Austria e Paesi balcanici hanno imposto severi controlli alle loro frontiere per poi sbarrare il passaggio, lasciando circa 50 mila persone bloccate in condizioni disumane in Grecia. Il campo di Moria, come denunciano varie ong, è una struttura al collasso. Prima dell’accordo tra Ankara e Bruxelles sul rinvio dei rifugiati in Turchia che sarebbero giunti sulle  isole greche a partire dal 20 marzo scorso, questo campo era un centro di identificazione per migranti che poi venivano trasferiti in nave ad Atene, e da qui proseguivano nel loro viaggio in Europa. Ora è un vero e proprio centro di detenzione, con doppio muro di cinta sormontato da filo spinato e torrette di guardia armate.papa Lesbo1

Detenuti in modo arbitrario

L’accesso ai media è interdetto e i numerosi volontari presenti sull’isola sono testimoni dell’impatto devastante che l’accordo Ue-Turchia sta avendo su uomini, donne e bambini che versano in condizioni di grande vulnerabilità; detenuti, secondo loro, in modo arbitrario. In condizioni agghiaccianti, secondo le organizzazione umanitarie, un struttura sovraffollata in cui sono carenti i servizi essenziali. I migranti sono privi di notizie, sul loro destino, disperati e angosciati circa il futuro che li attende.

Il sole che piange

Duecentocinquanta rifugiati hanno accolto Papa Francesco in un grosso tendone, nel piazzale all’interno della struttura. Vi erano anche 150 giovani profughi tra gli 8 e i 16 anni di età. A ognuno Francesco ha stretto la mano e rivolto qualche parola; dinanzi alle donne con il velo islamico si è inchinato in segno di rispetto. Un bambino gli ha offerto in dono alcuni disegni, che lui ha detto di volere mettere sulla sua scrivania. Raffiguravano un sole che piange e un bambino che annega. Il papa ha descritto la sua visita a Lesbo come un evento segnato da grande tristezza. Ai 50 giornalisti e operatori dei media che lo accompagnavano durante il volo diretto a Lesbo ha sottolineato che in generale durante le visite apostoliche vi è la «gioia dell’incontro», ma che questa visita è diversa dalle altre: «Siamo qui per incontrare la peggiore catastrofe umanitaria che si è verificata dopo la seconda guerra mondiale – ha detto -. Vedremo molte persone che soffrono, che non sanno dove andare, che sono in fuga». E infine: «Sarà una visita ad un cimitero: il mare». Al porto di Mitylini, nel pomeriggio, Bergoglio ha voluto ringraziare gli abitanti di Lesbo per la loro preziosa opera di soccorso e assistenza ai rifugiati, «vittime di viaggi disumani e sottoposti alle angherie di spietati aguzzini». E ha salutato i volontari accorsi da tutto il mondo per sopperire alla politica dell’indifferenza. «Siamo tutti migranti – ha aggiunto il Papa -, migranti verso la speranza, con amore», e «l’accoglienza è un dovere dell’essere umano». Con una chiara allusione a quanto di irresponsabile vi è nel recente accordo tra Turchia e Ue, Francesco ha ammonito che «non bisogna inseguire le emergenze» ma «bisogna costruire la pace e impedire che il cancro della guerra possa espandersi». «La tragedia umanitaria che si sta consumando davanti ai nostri occhi – ha aggiunto – in parte l’abbiamo prodotta noi con l’indifferenza e con le guerre che ai nostri confini abbiamo concorso a fare esplodere col traffico degli armamenti».

Uniamo le nostre voci

E nella dichiarazione congiunta, rilasciata lasciando il campo di Moria con il patriarca Bartolomeo e con l’arcivescovo Ieronymos, emerge un grande appello alle istituzioni europee e al mondo: «Insieme imploriamo solennemente la fine della guerra e della violenza in Medio Oriente, una pace giusta e duratura e un ritorno onorevole per coloro che sono stati costretti ad abbandonare le loro case. Chiediamo alle comunità religiose di aumentare gli sforzi per accogliere, assistere e proteggere i rifugiati di tutte le fedi e affinché i servizi di soccorso, religiosi e civili, operino per coordinare le loro iniziative. Esortiamo tutti i Paesi, finché perdura la situazione di precarietà, a estendere l’asilo temporaneo, a concedere lo status di rifugiato a quanti ne sono idonei, ad ampliare gli sforzi per portare soccorso e ad adoperarsi insieme a tutti gli uomini e le donne di buona volontà per una fine sollecita dei conflitti in corso. (…) Siamo venuti per richiamare l’attenzione del mondo su questa grave crisi umanitaria, per implorarne la risoluzione. Come uomini di fede desideriamo unire le nostre voci».

L’orgoglio di Tsipras

Il primo ministro greco Alexis Tsipras al termine dell’incontro privato avuto in mattinata col papa ha parlato di una Lesbo che porta «il peso dell’Europa sulle sue spalle. Sono orgoglioso di questa visita, soprattutto mentre i nostri partner, anche in nome di un’Europa cristiana, alzano muri e filo spinato per impedire a persone disarmate di trovare una vita migliore. Per questo la visita del pontefice è storica e importante».

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il diavolo fa i muri, Dio fa i ponti! Il CCIT 2016 a Esztgom in Ungheria

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il CCit 2016  in Ungheria a Esztgom

 

Si è svolto in Ungheria, a Esztgom, il CCIT 2016 ( il Comitato Cattolico Internazionale per gli Zingari), all’ombra del maestoso duomo, con la partecipazione  di circa 150 agenti pastorali, laici e religiosi, presenti nella pastorale  del popolo zingaro, facenti parte di circa 25 paesi europei, nella gioiosa ricorrenza del quarantesimo compleanno di tale organismo di coordinamento della pastorale e della evangelizzazione del popolo zingaro in Europa.

 

Forte di questo cammino quarantennale di vita con gli zingari e di testimonianza del vangelo vissuto e portato/ricevuto agli/dagli zingari, il CCIT 2016 si è posta la domanda diretta:

come raccontare Dio alla chiesa e al mondo a partire dalla ricchezze spirituali e dalla presenza di Dio e del suo Spirito colti nella realtà stessa di questo popolo?  Come narrare e raccontare Dio alla chiesa e al mondo come Gesù di Nazareth ha raccontato e narrato Dio svelandone un volto più buono, più misericordioso, tutto misericordioso e compassionevole nella sua vicinanza privilegiata ai piccoli e ai poveri?

duomo

Gesù nella sua vicinanza ai poveri ha detto loro che Dio li privilegia; la chiesa che è presente in vicinanza e prossimità amichevole tra gli zingari scopre e vive sempre meglio che Dio è lì a continuare la sua opzione preferenziale e li promuove evangelizzatori privilegiati di questa preferenza divina e annunciatori alla chiesa stessa di un ‘altro’ Dio, sollecitandoci alla conversione del nostro sguardo di fede ad avere lo sguardo di Dio stesso su di loro per cogliere, al di là di ogni limite esteriore proprio di ogni popolo, quella dimensione e ricchezza spirituale frutto dei doni di Dio al popolo zingaro, quale: una spiccata  naturale vivacità e carica vitale gioiosamente contagiosa nella misura in cui si entri con loro in aperta amicizia e accoglienza, la istintiva generosità e capacità di condividere anche il poco e di prendere le difese e la protezione del più debole e fragile, la fedeltà all’amicizia …

articolo Avvenire

A modo loro, essi e la chiesa che li frequenta in amicizia e con spirito di fede e ‘sguardo teologale’, sono narrazione di questo Dio ‘altro’ rispetto a quello che nella nostra cultura tendiamo ad inglobare in gabbie ferree del perbenismo, delle meritocrazie, dell’avere, del primeggiare, del potere, del ‘chi più ha più può’, nella illusione di più avvicinarci e appropriarci così a Dio compreso come ‘potere divino’, ‘grandezza divina’ , senza riuscire ad accogliere la rivelazione evangelica che il vero potere divino sta nella sua debolezza.

assemblea

 

Come ‘convertire’ il nostro sguardo in modo che il popolo zingaro divenga, da realtà nei cui confronti ergere muri, ‘porta’ per meglio comprendere questo nuovo volto di Dio?

uditori

Questa la risposta del CCIT 2016: solo in un abbraccio di vera amicizia e ‘compassione’ come quella del buon samaritano; agli occhi della fede le ‘periferie’  e i ‘margini’ sono luogo teologico, meglio ‘teologale’, in cui si fa esperienza della carne di Cristo, e la chiesa trasformandosi in ‘ospedale da campo’ si fa annuncio autentico della misericordia che contraddistingue il cuore di Gesù e di Dio.

 

mio tesserino

Interessante e articolato il programma su cui ha lavorato il CCIT : dalla fraterna e gioiosa accoglienza del pomeriggio di venerdì 8 aprile, alla preghiera di inizio di queste giornate, animata quest’anno dal gruppo pastorale dell’Ungheria, al ‘bicchiere di vino dell’amicizia’ col popolo zingaro e fra tutti gli animatori pastorali che incontrandosi ormai da tanti anni vivono l’incontro annuale come gioioso incontro e occasione di approfondimento di questa amicizia.

Il sabato 9 aprile, dopo i saluti di prassi dei ‘padroni di casa’,  la bella introduzione del direttore pro tempore del CCIT Claude Dumas e  il messaggio del Consiglio Pontificio, messaggio che ogni anno il Vaticano non manca mai di rivolgerci, facendoci sentire la sua vicinanza e il suo incoraggiamento, ha avuto luogo la impegnativa e stimolante (ancorché forzatamente ‘tagliata’ – e impoverita – nella sua esuberanza strabordante delle originarie 34 pagine … ) conferenza del teologo italiano don Vito Impellizzeri, prima di una riflessione dialogata su di essa nei gruppi di discussione.Vito

Anche il pomeriggio ha visto i gruppi confrontarsi dialogicamente con lo scopo preciso di formulare domande mirate al relatore per centrare meglio il cuore del discorso e cercare di evidenziare traduzioni concrete di ‘sguardi teologali’ dal discorso altamente e ancora astrattamente teologico.

gruppo riflessione

Il cardinale primate di Ungheria Erdo Peter, esprimendoci la vicinanza dell’intera chiesa ungherese, ha presieduto, prima del termine della serata, l’eucarestia focalizzando questo messaggio (per realizzare il quale occorre fare molti molti passi … ): che non si può propriamente affermare che la chiesa ‘accoglie’ gli zingari perché essi nella comunità della Chiesa sono, come tutti gli altri, persone che si devono sentire a casa loro. E se non si sentissero?

La giornata si è conclusa con la tradizionale cena di condivisione in una vera e propria ‘convivialità delle differenze’ dei vari cibi e specialità proprie dei vari paesi di provenienza dei partecipanti, e se si considera che il CCIT 2016 ha visto la presenza di circa 25 paesi europei possiamo immaginare la bellezza e la bontà di questa grande varietà di cibi che basta vederli fanno sgranare gli occhi ma anche di vini che da sempre ‘rallegrando il cuore’ raddoppiano la festa …gruppo rom suontori

io e Susanna

La domenica 10 aprile ha visto la mattinata nella descrizione delle presenze zingare in Ungheria e le modalità di presenza della chiesa locale in questo popolo zingaro.

Il Vescovo ausiliare di Budapestvescovo

e l’omelia di C.Dumas hanno concluso liturgicamente il CCIT 2016 che però di fatto si è prolungato nel pomeriggio con una visita turistica dei partecipanti a Budapest.

Ci siamo caldamente salutati aggiornando il tutto al CCIT 2017 a Madrid, non senza avere dal profondo del cuore ringraziato i rom ungheresi che sono stati i nostri compagni vivaci, accoglienti  e discreti in tutto il nostro CCIT.

duomo

 

 

 

 

 

 

 

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programma del CCIT 2016 a Esztergom in Ungheria

CCIT 2016 – Esztergom (Ungheria)

 

« All’incrocio : L’Europa, le chiese, le culture di fronte alla misericordia »

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Svolgimento delle giornate

Venerdì 8 Aprile

Pomeriggio : accoglienza

19 h cena

20 h 30 Preghiera animata dalla Ungheria

21 h vino dell’amicizia

Sabato 9 Aprile

8 h 30 Saluto gruppo Ungheria

Messaggio del Consiglio Pontificio

Introduzione Claude Dumas (FR)
09 h 15 Conferenza Don Vito IMPELLIZZERI (IT) teologo

10 h 15 Pausa

10 h 45 Gruppi di discussione sulla conferenza

12 h 30 Pranzo
15 h seguito dei gruppi di discussione : scambi d’esperienze

+ 1 gruppo preparazione domande al conferenziere

16 h 30 Pausa

17h Discussioni, scambi col conferenziere

18 h 30 Eucaristia (Presidenza + omelia Cardinale ERDO PETER /HU)

19 h 30 Praparazione serata festiva

20 h Serata festiva

Domenica 10 Aprile

8 h 30-9 h30 Incontro del comitato di animazione

Gruppi di discussione

9 h 30 La situazione in Ungheria Géza Dul /HU

10 h Pausa

10 h15-11h Conclusioni

Informazioni- data e luogo del prossimo CCIT
11 h 30 Eucaristia CCIT ( Omelia Claude Dumas /FR)

12 h 45 Pranzo

14 h Partenza per la visita turistica Budapest — ritorno in serata a ESZTERGOM

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omelia di Claude Dumas al CCIT 2016 di Esztergom (Ungheria)

CCIT 2016– Esztergom (Ungheria)

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OMELIA DEL 9 APRILE

Claude DumasClaude

Quest’uomo che corre verso Gesù e si getta ai suoi piedi supplicandolo di dirgli come ottenere la vita eterna, è un saggio. Avendo rispettato per tutta la vita i comandamenti di Mosé, aveva raggiunto il livello di saggezza tale come rappresentata nel Antico Testamento, eppure era insoddisfatto. E’ alla ricerca di qualcosa di ben superiore all’intelliganza e allo spirito della saggezza. Vuole la vita eterna. E quest’uomo si comporta da bravo giudeo o, come diremmo noi, da cristiano « onesto » e « buon praticante » preoccupato della sua persona. Ma quest’uomo non è diventato cristiano nel senso del Vangelo. Non è solo rispettando i comandamenti che siamo buoni cristiani… i comandamenti sono solo una tappa.

Quest’uomo incrocia la fortuna della sua vita : Gesù l’ama e l’invita a seguirlo. Lo chiama per passare a una nuova tappa : vedere in Lui, in Gesù, la Saggezza divina, preferendola a ogni altra richezza, spogliarsi di tutto e seguirlo. E’ un passo difficile da fare. Il nostro uomo è a una scelte di vita : continuare a vivere come ha sempre fatto da buon praticante della sua religione o aprirsi a un’altra avventura che lo porterà a praticarla con la sua fede nel nome di Cristo… « Vai, vendi tutto quello che hai e donalo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo ; dopodiché vieni e seguimi. » Gesù gli domanda di non concentrarsi più su sè stesso e sui suoi beni. Dicendo questo, Gesù gli rivela che la vita eterna non è una ricompensa per domani, ma subito e per sempre. Ma questa proposta di Gesù tocca direttamente il punto debole della sua esistenza : per seguire Gesù e unirsi al gruppo dei discepoli, bisogna anche rendersi liberi : « Manca solo una cosa : vai, vendi, e regala tutto ! ». Capisce che le sue richezze lo trattengono e che dipande da esse. Se ne va rattristato.

Ricordiamoci dell’inizio dell’incontro, Gesù gli ricoda i comandamenti : « non uccidere, non rubare, non dire falsa testimognanza, onora il padre e la madre ». Sono comandamenti in rapporto con il prossimo e non con Dio. Se Gesù sceglie questi comandamenti, ha la sua importanza. Orienta l’uomo ricco verso un’altra interpretazione della sua domanda : « non rispetta le leggi solo perché ne sei obligato per essere un buon giudeo ma piuttosto guarda l’uomo che hai davanti a te quando pratichi questi comandamenti ».

E poi non penso che questo passaggio del Vangelo sia sulle ricchezze…. « Gesù lo guarda, e l’ama » E’ in questa espressione che si trova l’inizio della risposta. A chi cerca Dio, Gesù esprime per prima cosa, l’amore di Dio. Colui che si sente amato, non può rispondere all’amore che con l’amore.

Chi crede che Cristo ci guardi come ha guardato il giovane ricco, uno sguardo d’amore, uno sguardo di pace in fondo al cuore di ciascuno di noi. Ma questo sguardo dice altre cose, o più esattamente ci richiama a altre cose. Non è più la soddisfazione deidoveri compiuti ma la plenitude del suo amore che ci vuole comunicare. Questo amore ci porta a prendere coscienza che che la nostra ricchezza è la per aiutare quelli che sono nel bisogno , a prendere coscienza degli altri, a prendere coscienza che dobbiamo fare prova di misericordia come ce lo domanda Papa Francesco :

« Quante ferite sono impresse nella carne di non ha più voce perché il loro grido é svanito a causa dell’indifferenza dei popoli ricchi ! … Non cediamo all’indifferenza di chi umilia… Apriamo i nostri occhi e guardiamo le miserie del mondo, le ferite di tanti fratelli e sorelle privati della loro dignità. Che le nostre mani stringano le loro e li attirino verso noi perché sentano il calore della nostra presenza, amicizia e fraternità. Che il loro grido divenga il nostro e che insieme si possano rompere le barriere dell’indifferenza che regna sovrana per nascondere ipocrisia ed egoismo »,

« Gesù posa il suo sguardo su di lui e l’ama » Che il Signore ci aiuti a vivere in quest’anno di misericiordia con lo sguardo pieno d’amore che il Cristo invia ai nostri fratelli per riempire le loro lacune. Che accompagni il CCT nella sua missione di unione e fraternità tra gli uomini.

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