Dio al femminile: la sfida della teologia femminista

La rappresentazione femminile nella TdL

la rappresentazione femminile nella TdL

 
 Adista Documenti n° 14 del 16/04/2016

 

Grazie alle conoscenze linguistiche e neurolinguistiche, sappiamo con certezza da più di un secolo che il linguaggio ci configura. Edward Sapir afferma nel 1921: «Non appena la parola è pronta, sentiamo in maniera istintiva, con una specie di sospiro di sollievo, che anche il concetto è pronto per l’uso… Saremmo così disposti a morire per la “libertà”, a lottare per i nostri “ideali”, se le parole stesse non risuonassero dentro di noi? E la parola, come sappiamo, non è solo una chiave, può essere anche un ostacolo» (Sapir, 1966).

Senza un linguaggio non è possibile pensare e ogni lingua, come ogni discorso, realizza la sua appropriazione e comprensione di ciò che chiamiamo realtà e ne configura l’espressione.

La teologia, così come tutti i campi della scienza e della riflessione gnoseologica, costruisce i suoi saperi nella misura in cui sviluppa il suo gioco linguistico, per usare i termini di Wittgenstein. In questo senso, il linguaggio usato non è neutro o trasparente, ma, al contrario, determina le esperienze e le pratiche religiose a partire dalle rappresentazioni elaborate. A partire da queste stesse rappresentazioni condiziona la costruzione di identità – individuali e collettive – e la ricerca di sé.

Riprendiamo le affermazioni di Elizabeth Johnson, nota teologa nordamericana: «L’insondabile mistero di Dio è sempre stato sottomesso alla mediazione del mutevole discorso storico. Il linguaggio su Dio ha una storia. Se evidenziamo questi cambiamenti tanto nel periodo delle Scritture quanto nel corso della storia successiva, ci renderemo conto che non è mai esistito un linguaggio atemporale su Dio nella tradizione ebraica e in quella cristiana. Bisogna pensare piuttosto che le parole su Dio sono creature culturali, intessute delle tradizioni e delle vicissitudini della comunità di fede che le usa. Nella misura in cui cambiano le culture, cambia la specificità del linguaggio su Dio» (Johnson, 2002).

Gli approcci alla Divinità sono attraversati dalle pratiche sociali, dalle ideologie, dalla conoscenza culturale a partire da cui si parla e si pensa. Per quanto riguarda il nostro studio, le costruzioni teologiche della tradizione cristiana sono state generate e sviluppate all’interno del sistema patriarcale in cui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo.

Le donne – se non sempre, perlomeno la maggior parte delle volte – sono state escluse dalla pratica teologica e per ciò stesso non hanno potuto sviluppare ampiamente le proprie proposte in questo senso e, soprattutto, non hanno trasmesso un’eredità propria. Tuttavia, risalendo al Medioevo, incontriamo alcune autrici e intellettuali che hanno rotto con la sfera istituzionale e trovato il proprio percorso per nominare il Mistero, questa Energia trascendente a cui miravano ad avvicinarsi.

Perché è necessario affermare che le donne non possono identificarsi sempre con un Lui trascendente nel quale la propria sessualità e il proprio genere non vengono rispecchiati. Per questo, o il trascendente consente loro una ricerca seria e profonda o esse devono allontanarsi dal paradigma che si presumeva comune.

Le teologhe dei secoli precedenti si sono sempre avvicinate a questa realtà denominata Dio in maniera diversa rispetto agli uomini. Nomi come quelli di Hildegarda di Bingen, Giuliana di Norwich, Hadewijch di Anversa ne sono una chiara dimostrazione. Invece del discorso razionalizzato e scolastico, queste donne hanno parlato della Divinità per metafore, visioni ed esperienze, senza per questo rinunciare a trasmettere trattati coerenti e profondi sugli aspetti della trascendenza affrontati.

Con l’avanzata e il predominio della dogmatica tomista, questi linguaggi sono stati esclusi dalla pratica teologica e le autrici messe a tacere e occasionalmente relegate sotto l’ambigua denominazione di mistiche.

LE ROTTURE DELLA TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE

La Teologia della Liberazione si è sviluppata inizialmente in America Latina a partire dagli anni ’60 e sistematizzata nelle sue intuizioni iniziali dal teologo peruviano Gustavo Gutiérrez. Si tratta di un discorso teologico che si inscrive maggioritariamente nel tronco della teologia cattolica europea, ma a partire da un nuovo punto di partenza: assumendo lo sguardo dei poveri, si ripensano alcuni presupposti della teologia politica sviluppata a metà del XX secolo in Europa. Se, tradizionalmente, la teologia costruisce il suo discorso a partire da presupposti filosofici, una delle rotture chiave in questa nuova pratica teologica è il ricorso all’economia e alle scienze sociali come fondamento delle proprie proposte: «La Teologia della Liberazione pone l’esigenza dell’interdisciplinarietà rispetto alle teorie sociali. È ciò che potremmo definire una mediazione socio-analitica. Postula allora una conoscenza positiva, contestuale e concreta della società. Da qui la sua critica al pensiero speculativo e astratto, considerato a-storico e alienante. La mediazione delle analisi sociali si presenta allora come un’esigenza della prassi di fede, nella misura in cui vuole essere una fede incarnata» (Boff, 1980).

Questa esigenza ha fatto sì che la TdL si inscrivesse in maniera realista e oggettiva nel mondo quotidiano e partendo da qui ripensasse le grandi questioni sempre affrontate dal pensiero teologico.

La TdL ha appoggiato le comunità di cristiani e cristiane nel loro impegno in diversi processi di liberazione nel continente e in questo senso le donne del popolo si sono sentite sostenute nelle loro lotte per dare migliori condizioni di vita alle proprie famiglie. Riguardo al dibattito sull’attualità o meno di questa proposta teologica, è necessario annotare che le condizioni economiche e sociali di ingiustizia che ne hanno determinato la nascita e lo sviluppo non sono cambiate, a dimostrazione di quanto la TdL sia ancora attuale. Ma bisogna anche tener conto del fatto che i processi di costruzione dell’identità dei soggetti sociali sono invece cambiati e che forse i teologi del subcontinente non hanno rivolto ad essi la dovuta attenzione.

Un’altra delle rotture particolarmente significative è venuta dalla proposta di Gustavo Gutiérrez di fare teologia a partire dal rovescio della storia. Una posizione concettuale di grande portata: «Vivere e pensare la fede partendo dagli assenti della storia ridefinisce il modo di intendere il messaggio salvifico del vangelo. Collocarsi pienamente nel mondo dell’oppressione, partecipare alle lotte popolari per la liberazione, porta a una rilettura della fede, ma tale rilettura presuppone un’ubicazione nella storia differente da quella dei settori dominanti della società» (Gutiérrez, 1977).

Questo sguardo trasforma le analisi, i presupposti, i cammini del sapere. Si tratta di un punto di partenza che consente di comprendere molto meglio la dinamica storica e l’iscrizione in tale dinamica delle forze che muovono la sfera religiosa e sociale. Questa visione del rovescio della storia produce conseguenze in diversi ambiti dell’approccio al reale e della sua comprensione. Conseguenze che hanno condotto la TdL a proporre cammini alternativi al pensiero teologico tradizionale e, cosa più importante, l’hanno portata ad accompagnare lotte e rivendicazioni di molti gruppi sociali di Abyayala. Tuttavia, rispetto alla donna come soggetto, non si è avanzato rispetto a ciò che sarebbe stato improrogabile. Guardare la storia dal suo rovescio continua a essere necessario e pienamente attuale in un mondo sempre più ingiusto. Ma guardare la storia dal suo rovescio significa anche – in un mondo patriarcale – guardarla a partire dalle donne, tanto spesso ignorate, messe a tacere ed escluse.

LA DONNA IN QUESTO PARADIGMA

Per chiarire la nostra proposta, possiamo prendere un esempio praticamente a caso: esaminiamo uno dei Dizionari di Teologia della Liberazione più popolari nel subcontinente, quello pubblicato dal Centro Ecumenico Diego de Medellín, nel 1992.

Tra le voci del Dizionario (Rosales e Ferari, 1992), il termine “donna” non appare, a differenza dei termini “neri”, “meticci”, “poveri”, “povertà”… Naturalmente non appare neppure la parola “genere”, né alcuna altra voce che miri a pensare la differenza e la diversità sessuale. Non si tratta di una semplice dimenticanza: tale omissione si spiega con il fatto che le donne, malgrado siano un’immensa maggioranza all’interno delle Comunità Ecclesiali di Base, non sono mai state realmente viste come soggetti, all’interno di questo lungo e complesso cammino. Non si è mai considerata la donna nella sua autonomia, nelle sue necessità, nei suoi diritti e nelle sue aspettative. Si ignora anche Maria di Nazareth, così determinante nella visione teologica contemporanea delle donne.

In tutti i modi, prendendo in prestito un concetto di Bourdieu, possiamo parlare del campo teologico come si fa con quello letterario o artistico (cfr. Bourdieu, 1995). I fatti non sono univoci o trasparenti, non sono lineari e semplici: all’interno della teologia che analizziamo, si sviluppano contraddizioni e forze in lotta tra loro. Così, in uno dei compendi più importanti di questo pensiero, quello prodotto da Ignacio Ellacuría e Jon Sobrino con il titolo Mysterium liberationis. Concetti fondamentali della teologia della liberazione (Ellacuría e Sobrino, 1990), troviamo l’articolo di Ana María Tepedino e Margarida L. Ribeiro Brandäo sul tema “Teologia della donna nella teologia della liberazione”, che raccoglie i passi realizzati all’interno delle necessarie tensioni di genere.

Era dal 1985 che le teologhe dell’America Latina si riunivano periodicamente per avanzare nelle loro ricerche, sempre all’interno dello stesso paradigma. In questo quadro, le autrici scrivono: «Le teologhe latinoamericane, nella loro esperienza pastorale e cristiana, apprendono che l’opzione per i poveri si concretizza nell’opzione per la donna povera, che è oggi la più povera tra i poveri. In esse la forza di trasformazione delle donne può sintetizzarsi come resistenza per sopravvivere, come creatività per trovare un nuovo posto nella società e come libertà, in senso religioso, per vivire e parlare di Dio» (Tepedino e Ribeiro, 1990).

Neppure in questo caso la donna è guardata e scoperta in se stessa, bensì continua a essere relazionata ai poveri.

Muovendo alcuni passi avanti, Ivone Gebara propone: «Le donne, nella loro pratica teologica, cercano di recuperare le realtà esistenziali, lasciandole parlare liberamente e permettendo che si riorganizzino a partire dal contesto attuale, per legarle solo successivamente a una tradizione anteriore. Mediante questo procedimento, si tenta di restituire al linguaggio teologico la sua capacità di toccare alcuni centri vitali dell’esistenza umana. In altri termini, questo procedimento equivale, in un certo senso, a restituire alla teologia la dimensione poetica dell’esistenza, considerando che ciò che vi è di più profondo nell’essere umano si esprime solo per analogia; che il mistero si formula solo nella poesia; che la gratuità si traduce solo attraverso simboli» (Gebara, 1994).

E proprio qui tocchiamo i limiti di questo discorso teologico nella prospettiva femminista.

LINGUAGGI E IMMAGINARI

La TdL è rimasta e rimane legata a concezioni maschili e patriarcali della Divinità. È questo il principale problema per cui noi donne non ci sentiamo a nostro agio sotto questo ombrello e qui si inscrive una delle principali rotture realizzate da alcune delle teologie femministe. Nei progetti e nelle riflessioni teoriche dell’America Latina, non si è mai affrontato il problema del linguaggio sulla Divinità, delle sue immagini e dei suoi simboli. Ha sempre predominato e continua a farlo un approccio a un Dio che, oltre che liberatore e amorevole, è fondamentalmente maschile: il Dio dei poveri, il Dio della storia, il Dio liberatore dell’esodo… Un passo avanti rispetto alle precedenti teologie disincarnate, ma in nessun modo una casa per la donna in sé e per sé. La TdL ha di sicuro attribuito molta importanza alle immagini: tanto in campo pittorico, quanto in quello musicale e poetico, c’è stata una grande creatività, ma queste costruzioni poetiche, così ricche e a volte così esteticamente belle, non sono riuscite a parlare a partire dalla donna e alla donna in se stessa.

Gli immaginari ci costituiscono con la stessa forza delle esperienze vissute, perché queste esperienze le leggiamo a partire da questi immaginari e in questi le rovesciamo. Gli immaginari religiosi accompagnano permanentemente – in maniera cosciente o inconsciente – la costruzione della nostra identità: «La psicologia e l’antropologia hanno dimostrato come l’uso di simboli esclusivamente maschili di Dio neghi alle donne lo sviluppo della loro pienezza umana. La psicologa junghiana Toni Wolff ha descritto le conseguenze negative di questa situazione per la psiche femminile. “Immaginare Dio rappresenta il massimo simbolo delle migliori caratteristiche umane e delle idee più profonde dello spirito umano. Come può una donna trovare se stessa se i suoi stessi fondamenti psichici non sono oggettivati in un simbolo? Il simbolo mostrerà il suo effetto nell’essere umano sviluppando il suo significato nel tempo, a poco a poco”» (Seibert, 2010).

La pratica teologica deve essere intesa come un approccio a tentoni, balbuziente, alla Divinità, dovendo necessariamente rispondere, nella costruzione di metafore di avvicinamento, ai gruppi e ai soggetti sociali a partire dai quali pensa. Perché ciò di cui si tratta è proporre a persone non specializzate concetti e realtà che scivolano e sfuggono. L’esclusione tradizionale dal pensiero e dall’espressione teologica sofferta dalla donna ha contribuito al fatto che la rappresentazione di Dio si sia sempre data in termini maschili. La teologia cristiana ha preso corpo in una matrice patriarcale e in una forma intesa come naturale e Dio, al di là delle dichiarazioni ufficiali secondo cui non ha sesso, è stato sempre concepito come un maschio.

Questa realtà lascia le donne fuori da un immaginario che le costituisca nel loro essere donne, consentendo loro un’identificazione piena con la loro sessualità. Le lascia in un vicolo cieco.

Afferma giustamente Carol P. Christ: «Le religioni centrate sull’adorazione di un Dio maschile creano “disposizioni d’animo” e “motivazioni” che mantengono le donne in uno stato di dipendenza psicologica dagli uomini e dall’autorità maschile e che al tempo stesso legittimano l’autorità politica e sociale di padri e figli nelle istituzioni. I sistemi simbolici religiosi centrati esclusivamente su immagini maschili della Divinità creano l’impressione che il potere delle donne non potrà mai essere totalmente legittimo o benefico. Non c’è bisogno che questo messaggio sia espresso in maniera esplicita (come, per esempio, nella storia di Eva) perché se ne sentano gli effetti. Anche una donna che ignori totalmente i miti biblici della malvagità femminile riconoscerà l’anomalia del potere femminile pregando esclusivamente un Dio maschile. Potrà vedere se stessa simile a Dio (creata a immagine di Dio) solo negando la sua identità sessuale. Ma non potrà mai vivere l’esperienza di cui gode automaticamente ogni uomo e ogni bambino appartenenti alla sua cultura: affermare pienamente la propria identità sessuale per sentirsi fatta a immagine e somiglianza di Dio» (Christ 1997).

Pertanto, una pratica religiosa che abbia come orizzonte la configurazione del soggetto femminile dovrà perseguire un approccio al mistero e alla trascendenza che sia inclusivo e, poiché l’astratto e l’universale non toccano le fibre più intime dell’Io, saranno necessari un’appropriazione e uno sviluppo di tutte le espressioni della sessualità e della costruzione di genere. Se si parla del Dio dei poveri, bisogna chiedersi cosa avviene quando una donna povera subisce violenza dal suo compagno impegnato nel percorso delle Comunità Ecclesiali di Base… Come sperimenta questa donna che Dio sta dalla sua parte, che la ama e l’accompagna, che vuole la sua crescita e la sua autoaffermazione? Come sperimentare che Dio non è complice – in quanto maschio – del suo compagno “impegnato” che parla di Dio con tanta proprietà? Sono domande che la Teologia della Liberazione non ha mai formulato e a cui pertanto non ha mai risposto.

In base a quanto abbiamo visto nell’esempio del Dizionario, la TdL non ha mai nominato la donna e a chi non è nominato restano due possibilità: o semplicemente non esistere o venire repressi. Non nominare significa non riconoscere, non riconoscere significa non prendere coscienza dell’esistenza di chi è messo a tacere e, partendo da qui, si segue un cammino di disconoscimento e di radicale incomprensione. Per almeno tre decenni il discorso teologico latinoamericano non ha neppure utilizzato un linguaggio inclusivo, nel momento in cui organismi internazionali come le Nazioni Unite, l’Unesco e varie piattaforme educative avanzavano su questo terreno.

Alcuni dei limiti della Teologia della Liberazione, per esempio la sua scarsa comprensione delle diverse soggettività, hanno a che vedere precisamente con il fatto di aver disconosciuto il cammino femminile al sapere, allo studio e alla conoscenza. La sua matrice teologica non ha assunto uno sguardo femminile che consentisse la comprensione per altre vie.

La Teologia femminista ha implicato e presupposto un salto qualitativo rispetto a teologie anteriori tanto nei punti di partenza epistemologici quanto nel pensare ed elaborare gli immaginari, assumendo pertanto il linguaggio come uno dei suoi campi di battaglia. Perché non si tratta di rimescolare alcune cose in maniera che tutto resti uguale, ma di trasmettere alle donne credenti strumenti per la costruzione della loro identità nel senso di una radicale autoaffermazione. Sostiene Dorothee Sölle: «Nella teologia femminista non si tratta di cambiare pronomi, ma di concepire una diversa forma di trascendenza che non debba intendersi come indipendenza da tutto e dominio su tutte le cose, ma che sia legata al tessuto della vita… È necessario un avvicinamento alla mistica, che è quella che più ampiamente ha superato la comprensione gerarchica e maschile di Dio, una mistica, cioè, che non permetta alla sete di liberazione reale di perdersi nel mare dell’incosciente» (Sölle 1996).

Un lavoro interessante in questo senso è quello realizzato dalla teologa nordamericana Sallie McFague. Il punto di partenza di questa autrice è la certezza che vi sia uno strappo nel linguaggio su Dio e che sia necessario realizzare rotture che portino a una connessione più reale con le donne e gli uomini del XXI secolo, in quanto il riferimento al mistero trascendente non solo non suscita interesse, ma ha anche perso plausibilità nel mondo attuale. È diventata allora una sfida realizzare approcci nuovi e più coinvolgenti. Da qui la sua volontà di rischiare in tal senso: «È diventato sempre più dolorosamente evidente per molti occidentali – tanto per chi è all’interno della tradizione giudaico-cristiana quanto per chi ne è fuori, ma condizionato dalla sua iconografia, dai suoi valori e dai suoi concetti – che il linguaggio utilizzato per esprimere la relazione tra Dio e il mondo richiede una revisione. A mio giudizio, tale revisione deve iniziare sul piano dell’immaginario, in un esperimento mentale con quelle metafore – e i corrispondenti concetti – che, a differenza di quelle utilizzate principalmente dalla tradizione, propongano un quadro unificato e interdipendente per la comprensione delle relazioni Dio-mondo ed essere umano-mondo». (McFague 1994).

La sua visione mira a recuperare un discorso teologico di tipo metaforico e apofatico.

Per questa via, la teologia femminista può reincontrarsi con il linguaggio su Dio elaborato da donne medievali e da mistiche di diverse epoche, condotte dalla loro coscienza spirituale a vivere l’esperienza di Dio come mistero e pertanto a utilizzare in riferimento alla trascendenza esclusivamente metafore e visioni.

una suora davvero speciale!

La teologa femminista e queer: “Non rispondi a interessi precisi? Scomoda, per gli uni e gli altri!”

teresa-forcades

 

A Berlino esiste una suora catalana che insegna teologia queer. Eva, del gruppo traduzionimilitanti, ha tradotto una intervista fatta a lei su picaramagazine.com (traggo questo interessantissima intervista dalla rassegna stampa di ‘finesettimana)

Buona lettura!

Teresa Forcades è dottoressa in medicina e teologia e monaca benedettina nel monastero Sant Benet de Montserrat. Bersaglio assiduo delle lobby economiche e politiche per la sua denuncia coraggiosa sul peso degli interessi delle multinazionali farmaceutiche nella gestione della pandemia dell’influenza A nel 2008, e più recentemente, nella vaccinazione non necessaria del Virus del Papilloma Umano nelle ragazze adolescenti, così come per aver criticato le posizioni della cupola ecclesiastica sui temi come l’aborto o i rapporti con il franchismo, promuove il Processo Costituente in Catalugna mentre impartisce lezioni di teologia queer a Berlino.

Cosa pensi del disegno di Legge su “protezione del concepito e diritti della donna incinta” presentato in Consiglio dei Ministri lo scorso 20 dicembre?

La mia posizione è quella del Processo Costituente: critica e rifiuto frontale, poiché tenta di regolare socialmente in funzione di valori imposti. Detto questo, adesso viene la mia motivazione personale della quale sono responsabile a livello individuale: credo che sia una violazione chiara del diritto all’autodeterminazione di una donna che una legge la obblighi ad essere madre. E’ troppo prezioso per me il significato di esserlo. Credo che una donna che è rimasta incinta senza volerlo, anche attraverso la violenza, possa vivere la gravidanza in positivo, ma sono favorevole a permettere l’aborto quando il feto non è formato e questo a prescindere dai motivi della scelta.

C’è un vero conflitto etico, un bioconflitto, tra il diritto all’autodeterminazione della madre e il diritto alla vita dell’essere che è in gestazione. In una situazione in cui la madre non ha opzioni, i suoi diritti di autodeterminazione meritano il massimo rispetto. Può anche esserci una madre che vuole fare nascere e accompagnare un nascituro con una malformazione molto grave anche se sa che soffrirà e che subito dopo essere nato morirà. Obbligarla ad abortire sarebbe l’altro estremo e io sono contro, credo che questo nascituro sia immagine di Dio e mi piacerebbe che avessimo un mondo in grado di accoglierlo. Ma questo è ciò che io penso, e non posso imporlo a un’altra donna: “A lei, per legge, voglio che lo Stato la obblighi a fare questo perché io penso sia buono”.

Le Cattoliche per il Diritto di Scelta spiegano che il diritto canonico assolve le donne che abortiscono quando sono minori di 16 anni, in caso di stupro, bisogno, per rimediare un danno, per  legittima difesa… Perché pensi che questa legge è persino più restrittiva che il diritto canonico a partire da Papa Giovanni XXIII?

Ci sono gruppi che, riparandosi nella fede cattolica, spingono leggi restrittive per polarizzare la società in gruppi di interessi e tentare di creare un dibattito che a volte si allontana dei temi più trascendentali, come possono essere in questo momento il tema sociale e la crisi. Nel 1992 sono andata negli Stati Uniti per la prima volta: c’era un sacco di gente per strada con immagini di feti insanguinati, dicendo che le donne che abortiscono sono assassine… Durante quegli anni un ginecologo che praticava aborti [i] e la persona che l’accompagnava furono assassinati a colpi di pistola. Questa polarizzazione ricercata e voluta a fini politici è arrivata fin qui, e non è stato spontaneo.

Ci sono gruppi e movimenti che lavorano per la giustizia sociale e molti cristiani sarebbero d’accordo, ma quando entriamo nell’omosessualità, i diritti di matrimonio e adozione, l’aborto, il diritto a decidere sul proprio corpo, si problematizza fino a estremi assurdi. E’ un modo preciso di dividere il corpo sociale che unito farebbe molta paura. Si era disarticolato un potenziale di lotta sociale molto forte e adesso lo stiamo di nuovo intrappolando.

Lidia Falcón analizza questa legge come una punizione per tutti i passi avanti in equità e parità di genere raggiunti nelle ultime decadi, incarnato nel corpo delle donne e frutto del continuismo con la visione nazionalcattolica del proprio corpo delle donne e dell’aborto. Cosa ne pensi?

Leggi come questa rispondono ad un fenomeno che ho pure studiato con il tema delle streghe: tanto in Oriente come in Occidente, nei differenti momenti di crisi sociale, sconcerto, angoscia, perdita di riferimenti, la figura materna emerge come quella che risolverà il problema e quella che deve essere controllata in maniera speciale come una sorta di esorcismo collettivo, per essere il capro espiatorio: “Mettiamo le donne al loro posto e le cose andranno meglio”. Ma questi strateghi di destra non avrebbero successo se non ci fosse qualcosa nella popolazione che si aggiungesse. E perché li appoggiano? Per questa parte psicologica che fa in modo che si sentano protetti con questo tipo di leggi.

Credo che il patriarcato sorge da strutture tras storiche psichiche che abbiamo, basati sull’affermazione psicoanalitica del oggetto erotico primario, che tanto nei bimbi come nelle bimbe è la madre o il suo sostituto, rispetto al quale si origina una binarietà: a chi si identifica con l’oggetto del desidero lo chiamiamo bimba, e chi no, lo chiamiamo bimbo. Il patriarcato ci dice che in vita adulta dobbiamo essere così; io dico che dobbiamo attraversare questa fantasia primordiale, in linguaggio lacaniano, e, se usiamo il cristianesimo, nascere di nuovo. Se il referente identitario è la figura materna, le donne tendono a fare da badanti e gli uomini aspettano di essere accuditi.

Come ti sembrano le iniziative per costruire un’alleanza ampia di donne di tutti i settori sociali contro la riforma dell’aborto come il patto di tre deputate promossa dalla Piattaforma Femminista di Alicante e alla quale hanno aderito le politiche socialiste, invitando anche le donne di destra?

Eccellenti. Questa alleanze tra donne, questa prossimità e questo rendersi conto che c’è un interesse comune, pratico, nelle lotte viste giorno per giorno, sono sempre state presenti nella storia ed è la nostra forza: nel secolo XVII, la grande battaglia tra le confessioni cristiane dopo la Riforma e la Controriforma la fecero gli uomini, mentre le donne si scrivevano lettere le une alle altre e una era protestante, l’altra anglicana, l’altra cattolica…

Trovarono il modo di fare ponte tra di loro prescindendo da queste diversità confessionali. Negli albori del cristianesimo, durante l’Impero Romano, una legge vietava alle donne cristiane di lasciare che i loro vestiti fossero indossati dalle pagane quando andavano al circo. Questo significa che lo facevano!

Hai detto che la Chiesa spagnola deve chiedere perdono per la sua connivenza con il franchismo e rinunciare ai privilegi che ne derivano. Questo include derogare il concordato del 73 con la Santa Sede, i privilegi ecclesiali al momento di destinare la dichiarazione dei redditi?

La chiesa non solo tollerò il franchismo, che fu un governo criminale, bensì diede un appoggio senza  il quale probabilmente non avrebbe resistito. La forma migliore di continuare come istituzione dopo una esperienza del genere è riconoscerlo e, senz’altro, abolire tutti i privilegi che gli aspettano per il semplice fatto di essere chiesa.

Ma con la Legge Wert torniamo alla segregazione scolastica per sessi, privilegi alle strutture concertate, il rinserimento della religione cattolica come materia obbligatoria…

Nella scuola non deve esserci catechesi di nessuna religione. Una materia che fa enfasi nella religione come cultura sarebbe molto interessante, non una materia facile, ma ben fatta, e non solo sul cristianesimo, si deve disegnare e pensare bene il suo curriculum. C’è un valore nel conoscere la storia di un paese, e non perché il Vangelo dal  punto di vista culturale debba essere preminente riguardo un altro libro sacro.

Privilegiare le scuole religiose concertate, in modo alcuno. Questo si inquadra in questa tendenza alla privatizzazione: in Spagna avevamo un buon livello universitario e, in alcuni casi, d’avanguardia. Adesso, i dipartimenti che funzionavano meglio verranno privatizzati e diventeranno istituzioni d’élite.

Si potrà arrivare se hai una borsa di studio, ma non si tratta di prendere i cervelli vivaci e i ricchi, ma di fare si che la popolazione generale abbia accesso alla cultura superiore e universitaria.

Ti aspetti che Papa Francesco affronti riforme strutturali in seno alla chiesa. Questo include rendere possibile il sacerdozio femminile, che il celibato sia facoltativo e che il clero possa sposarsi?

Le riforme non vengono mai dall’alto, nella società come nella Chiesa. Questa si è allontanata della società nel suo insieme e non credo che adesso, all’improvviso, un papa carismatico farà un cambiamento strutturale dall’alto e produrrà una discontinuità verso una maggiore giustizia sociale. Sicché è certo possibile che, come accadde con Giovanni XXIII, un leader della Chiesa promuova cambiamenti verso una maggiore giustizia, dopo essersi reso conto che le basi ecclesiali erano anni non solo che chiedevano ma che lo preparavano, sperimentando, innovando, creando istituzioni come la Nouvelle Teologie (nuova teologia), il movimento liturgico e il movimento biblico.

Giovanni XXIII disse: “Dobbiamo aprire le finestre perché entri l’aria poiché qui odora di chiuso”. Adesso siamo in una situazione parallela, ci sono molti gruppi che si ispirarono al Concilio Vaticano II, per vedere come li si chiudevano le porte, e ciò che avevano cominciato arretrava. Per esempio, a partire dal Concilio Vaticano II si dice che le decisioni nel consiglio parrocchiale si prendono collegialmente. In molte parrocchie questi consigli sono stati smantellati o non hanno peso verso il reggente, e i gruppi di donne, di giovani, quelli che con preoccupazione sociale ne facevano parte sono stati man mano sommersi, escludendoli dalle attività…

A dispetto delle difficoltà, in tutti questi anni c’è stata una base cattolica crescente che vedeva come urgenti queste riforme, aperture e possibilità di democrazia all’interno della chiesa. Si sono creati movimenti come We are the Church (Siamo la Chiesa), come le cattoliche per il Diritto a Decidere, come i preti che chiedono un celibato facoltativo…

La teologia della liberazione, evidentemente, con tutto il suo compromesso politico, e la necessità di incarnare politicamente il vangelo. Vedremo se il Papa Francesco permette che tutto questo abbia un proprio spazio crescente dentro della Chiesa.

Dici che la teologia femminista si inserisce dentro le teologie critiche di liberazione e, pertanto, si centra nella situazione delle donne e la sua concezione dal punto di vista della struttura ecclesiastica, ma anche nelle disuguaglianze e discriminazioni per classe, etnia, opzione sessuale, identità di genere…

Le donne come collettivo trovano una struttura ecclesiastica che dice: “Dio giustifica la vostra sottomissione”, e nella storia ci sono gruppi di donne e uomini che dicono che Dio è per l’uguaglianza e la libertà di tutti, e in virtù di questo giustificano la loro liberazione.

Subito dopo il Concilio Vaticano II, Mary Daly e Elizabeth Schußler Fiorenza chiesero la parità assoluta nella Chiesa e le cattoliche fummo pioniere nel fare la petizione di sacerdozio femminile. Nel 74, con le prime ordinazioni di donne nelle chiesa episcopaliana (credo furono nove o undici, tra loro la teologa Carter Heyward, che ancora non aveva reso pubblico che era lesbica), Paolo VI incaricò una commissione biblica pontificia di studiare se nelle sacre scritture ci fosse qualcosa contraria all’ordinazione delle donne. La commissione lavora per due anni e la sua conclusione è che non c’è nulla in contrario. Paolo VI fece un motu proprio (un Papa può prendere l’ultima decisione) e gli parve che pastoralmente non era il momento. Dopo ci sono state dichiarazioni contro da parte di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, ma mai si è detto che fosse un dogma della Chiesa. Ci sono state molte affermazioni nella Chiesa che sono cambiate: durante molti anni si è detto che la schiavitù era voluta da Dio. Agli schiavi nordamericani i coloni bianchi dicevano questo e, quando imparano a leggere, prendono la bibbia, dissero che Dio non era con i coloni bianchi ma con la liberazione degli schiavi, e si creò tutta una forza spirituale a partire di questo messaggio: “Go down moses, let my people go”.

Con i dogmi di fede della Chiesa cattolica non ho nessun problema, perché mai ho pensato che la teologia fosse una filosofia, che nasce dalla ragione. La teologia nasce dei postulati rivelati e lavora con la ragione. Dice: Dio esiste e si fa presente nel tempo e nello spazio incarnandosi in una persona, ciò che festeggiamo a Natale. Mi piace il dogma mariano che dice che Dio domandò a Maria, e solo a lei. Festeggiamo che chi può esercitare il potere assoluto non lo fa, perché concede senso e rispetto all’altro, all’amore e all’aprire spazi di libertà. E per apparire nel mondo, Dio non ha bisogno di una coppia eterosessuale, solo una coscienza umana libera che dica sì.

Una coscienza femminile.

Può essere femminile o maschile, ma è evidente che quella femminile incarna tuto il potere dell’umanità. Gesù lo si chiama figlio dell’uomo, ma lo è stato solo di una donna, Maria, e lo Spirito Santo, espressione della parte più personale e libera di Dio, fa una proposta, e lei gli dice: “D’accordo”. Questo è pensare la relazione con Dio come una relazione, consensuale, di tu per tu.

Questa è la visione comunitaria e egualitaria della Santissima Trinità che rivendichi nella tua tesi dottorale.

Dio non è un sovrano solitario che incarna il delirio di onnipotenza infantile dello psicotico. È una comunità, una relazione di libertà. Maria indica il figlio, che indica il padre, e questo indica il figlio, e lui indica te, perché, certo, se non passa da te… La Trinità disarticola tutto il sistema piramidale, che non l’ha inventato il cristianesimo. In molte culture, organizzazioni sociali, la tendenza alla piramide è propria di questa insicurezza infantile, e se le religioni hanno qualche senso, è ispirarci per superare questa paura, capire che la realtà può essere assolutamente orizzontale. Nelle comunità, le società, ci sono ostiche le strutture piramidali.

L’orizzontalità la vedo nella teologia, nella regola benedettina, che vivo nella mia comunità, e nella chiesa in generale. Richiede fiducia e che ognuno sia maturo per rompere questi rapporti di dipendenza, per creare il regno di Dio in terra e trattarci gli uni agli altri come Dio ci tratta. La parola testamento (Vecchio e Nuovo) significa alleanza, ciò che si fa quando le persone hanno lo stesso potere. Questo è il cuore di questa religione.

Come arrivi alla teologia queer?

Studiando Judith Butler. Ritengo che il queer rivendichi il carattere di pezzo unico di ogni persona, e che qualunque etichetta identitaria, di genere, di razza, nazione… è una stampella che rispecchia la tua paura alla libertà personale. Il processo di spiritualizzazione, cristificazione e divinizzazione è osare a essere concezione dell’amore e della libertà che sono Dio stesso, quando dice ‘sei fatta a mia immagine”. Il buddismo dice che l’identità personale è una finzione e deve superarsi perché tutto è un’identità indifferenziata. Questo vuoto personale è solo un primo passo perché si arrivi alla coscienza di unità. Ma, con la Trinità, l’unità non è mai al di là della differenza. La Trinità dice che la diversità è tanto eccelsa come l’unità, giacché un cosa è l’unità e un’altra molto diversa l’uniformità.

L’analisi religiosa che interpreta il rapporto sessuale come qualcosa che ha il fine di concepire è una visione utilitarista dell’amore umano e contraria alla spiritualità cristiana. Consegnarsi al mistero di un rapporto interpersonale è consegnarti al crescere nella direzione di essere immagine di Dio, di incarnare ciò che Dio rappresenta in terra. Addentrandoti, ricevi un regalo, che questa unione possa concepire un figlio, ma questo è perfettamente compatibile con l’essere responsabile e usare i metodi contracettivi quando lo consideri opportuno.

Contrario alla morale cristiana è pensare come se ci fossero due modi di usare il corpo della donna, solitamente basate nella prospettiva maschile: la cattiva, usarlo perché ti dia piacere, che sarebbe la lussuria, e che è condannata da tutti i padri della Chiesa, e l’altra, usarlo perché ti dia figli, e questo è buono. No! Sarebbe denigrare l’integrità della coppia, l’altra persona.

Per questo capisco che l’amore omosessuale sia perfettamente assimilabile dalla Chiesa, perché ha l’essenziale: non è avere figli, bensì un’intimità aperta verso un rapporto interpersonale che include il rispetto per l’integrità dell’altro. Due persone che si amano, si desiderano e si rispettano l’un l’altra danno una testimonianza: questo è il sacramento, un segnale visibile, come il battesimo, che sta dicendo: “questa creatura è accettata in questa comunità come uno in più”. La teología trinitaria dice che tutti i sacramenti rappresentano una raffigurazione dell’amore di Dio. Dio padre, il figlio e lo Spirito Santo, sono diversi ma non sono complementari. L’amore non è bisogno, non è quando ho bisogno perché mi manca qualcosa, non può essere l’amore utilitarista.

Alcuni settori e spazi politici e sociali previamente organizzati all’irruzione del Processo Costituente (PC) in Catalugna hanno criticato la velocità del processo e il personalismo per la visibilità di gente riconosciuta ‘mediaticamente’ come puoi essere tu o Arcadi Oliveres.  Come vivi il rapporto con questi spazi, e con tutti i processi ed assemblee sorti dal 15M del 2011?

E’ normale che gente che da anni sta tentando di organizzare una unità critichi il fatto di andare veloce: se fossimo 46.000 persone che hanno aderito al PC solo perché è uscito in tv, questo sarebbe stato un soufflé (qualcosa che si sarebbe sgonfiato dopo un attimo). Se il Pc può andare a velocità altissime è grazie alle assemblee del 15M, le organizzazioni di quartiere, e molte persone che già stavano lavorando e organizzando con fiducia.

E anche molti che non c’erano, perchè il nostro spazio o nicchia política è coinvolgere persone che non partecipavano. Molte persone del 15M, persino assemblee intere di alcune località, hanno fatto loro il PC, altri sono più spettatori, ci sono tutte le variazioni possibili. Ma senza la gente che già lavorava, non si sarebbe nemmeno prodotto il clima in Catalugna perche il processo attecchisse né perché questo potenziale umano si organizzasse.

C’è un rapporto di continuità tra i pionieri e gli altri, e noi non approfitteremo di ciò che noi non abbiamo iniziato né faremo la concorrenza, bensì tenteremo di inserire un fattore di unità, e se funziona, sarà grazie a tutti. Per quanto riguarda il personalismo, andare a cercare una persona che abbia visibilità è stata una strategia. Altrimenti, come mobiliti gente che non l’aveva già fatto? Adesso cominciano ad esserci facce visibili, il nostro ruolo deve rimanere ogni volta più utile ad altri agenti attivi dentro il movimento.

Tu sei scomoda per certi settori del cattolicesimo, ma anche per settori della sinistra che vivono la tua implicazione nel Pc come un’ingerenza, o persino un tentativo di manipolazione da parte della Chiesa. Che ne pensi?

Ho assunto quest’iniziativa perché gente organizzata politicamente a diversi livelli si chiedeva cosa si potesse fare in Catalugna per creare unità, perché avevano chiaro che, a lungo termine, se non stavano uniti altri avrebbero vinto la partita, e così hanno pensato che Arcadi e io potevamo essere persone con una credibilità trasversale. Viene dal basso, e da gente che sta nella Chiesa.

Riguardo la Chiesa, ho trovato disagio da parte delle strutture dell’organigramma ecclesiastico. Il vescovo di Sant Feliu, della diocesi di cui fa parte il mio monastero, mi disse che non serve a niente cambiare le strutture se non si cambiano i cuori. Sono d’accordo, la Costituzione è carta straccia se la gente non lavora perché si faccia carne. La legge di per sé non fa una società giusta, ma adesso abbiamo leggi che favoriscono gli interessi delle compagnie multinazionali contro la sovranità popolare, e bisogna cambiarle. Il cuore ha bisogno di qualcosa di più del lavoro, per questo sono per il cambiamento di strutture. La nostra società ci dà una struttura dove si pratica la non-solidarietà, io voglio creare una società che ci aiuti a realizzare solidarietà.

C’è una paura alla Chiesa Cattolica che riconosco, perché nel nostro paese ha avuto un’alleanza di 40 anni con la dittatura. Ma c’è anche molta gente di base che appoggia da molti anni la teología della liberazione, i poveri, gente vicina a chi è morto nelle battaglie repubblicane, che ha lavorato per il catalanismo quando questo andava contro il potere stabilito, che ha resistito.

Nella Chiesa c’è una base e delle strutture e quelli tra noi che ne fanno parte hanno la responsabilità di lavorare perché cambino. Ed essere scomoda per tutti, non mi sembra poi tanto male.

Quando non rispondi a degli interessi chiari, calpesti i piedi agli uni e agli altri. Ma gli scontri in blocco fanno gioco a chi pretende che la società si basi sulla sfiducia e la paura; ci saranno livelli che ci accomunano o ci separano, ma non possono vederti come una concorrente o nemica. Questo è lo sguardo capitalista verso l’altro, e questa base antropológica dobbiamo cominciare a cambiarla. 

Fino a dove può arrivare la dissidenza nella Chiesa? Hai paura di rappresaglie per il fatto di essere un soggetto pubblico?

Non dovrei perdere la coerenza. Non credo che l’istituzione ecclesiastica possa farmi abdicare per ciò che io penso siano i principi del Vangelo, e se mi porta problemi, dovrei valutare come lo rivendico. Né la Chiesa né nessuno può chiedermi di dire ciò che non penso e io faccio ciò in cui non credo. Mi possono chiedere di non parlarne, e non escludo che ad un certo punto lo faranno. La mia voce non è imprescindibile. C’è chi non ha parlato e dopo l’ha organizzata più in grande, come la teologa brasiliana Ivonne Gebara, alla quale chiesero di andarsene in Europa. Era una punizione, ma adesso ha più argomentazioni per difendere ciò che voleva dire prima.

Ti hanno chiamato suora bufala, suora eretica, suora anticapitalistica… Come ti senti quando ti riducono alla denominazione di suora?

Dietro il personaggio sparisce la persona. C’è una parte positiva, per portare il velo raccolgo frutti di molte suore che i poveri riconoscono come persone di fiducia: chiedono per strada, ti vedono e ti sorridono perché ti sentono vicina. In ospedale, anche se porto il camice bianco, il velo vince sul differenziale di classe. La gente semplice capisce che siamo allo stesso livello. Non l’ho guadagnato io bensì le suore che mi hanno preceduto, anche se ci sono critiche storiche alle suore che hanno una base fondata.

Anche se non mi piacciono le etichette, c’è una realtà sociale e i segnali che emetti dipendono da dove ti collochi. Anche, questo linguaggio riflette la difficoltà di riconoscere una persona oltre quello che vedi. Alla base della teoria queer c’è che ti si dia lo spazio per essere ciò che sei, invece di bollarti sotto il generico, suora, suorina, sorellina… E’ molto interessante pensare cosa significa dalla prospettiva del referente femminile, tocchi cose inconsce…


[i] Il 29 luglio 1994, il Dr. John Bayard Britton, operatore di servizi abortivi, e James Barrett, il volontario che lo accompagnava, furono assassinati fuori da una clinica abortiva di Pensacola, Florida.

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