«siamo i nazisti delle altre specie»

 

«come essere persone etiche in un mondo senza illusioni, in cui ogni atto implica la tortura e il sacrificio di un altro?»
“ogni giorno realizziamo la schiavitù, la tortura e il sacrificio di altre specie e anche delle persone più fragili della nostra specie”

Eliane Brum

in un articolo pubblicado su El País Brasil (29/2)

 

 

Se i nostri gesti alimentano una catena di orrori. Gli olocausti quotidiani delle specie viventi

se i nostri gesti alimentano una catena di orrori

gli olocausti quotidiani delle specie viventi

 
da: Adista Documenti n° 12 del 26/03/2016

smettere di essere “umani” per diventare “terrani”, cittadini di Gaia consapevoli che nessuna specie è autosufficiente, ma tutte sono in relazione tra loro, in un profondo legame di interdipendenza. Che atmosfera, oceani, suoli, temperatura, esseri viventi e non viventi, tutto è legato nel grande tessuto della vita, la cui legge fondamentale non è quella della competizione, ma della cooperazione di tutti con tutti. E che noi umani condividiamo con tutte le altre creature viventi un patrimonio genetico comune che risale agli organismi monocellulari primordiali dei mari antichi. Cosicché davvero si può affermare che, nella grande comunità della vita, siamo tutti parenti. 

Peccato però che noi umani questa grande famiglia tendiamo piuttosto a sterminarla: come evidenzia la scrittrice e documentarista brasiliana Eliane Brum, in un articolo pubblicado su El País Brasil (29/2), «siamo i nazisti delle altre specie», trovando accettabile che milioni di bovini, ovini e suini nascano solo per nutrire noi, condannati a vivere, se si può chiamarla vita, in campi di concentramento e «sacrificati in olocausti quotidiani». E lo siamo senza più il conforto di poterlo ignorare, non essendoci più posto per le illusioni nella società dell’informazione in cui viviamo. Così, mentre «il cambiamento climatico annuncia già che non solo dobbiamo temere la catastrofe, ma che siamo diventati la catastrofe», alimentandoci, vestendoci e spostandoci «a costo della schiavitù, della tortura e del sacrificio di altre specie e anche delle persone più fragili della nostra specie», c’è un interrogativo a cui non possiamo più sfuggire: «Come essere persone etiche in un mondo senza illusioni, in cui ogni atto implica la tortura e il sacrificio di un altro?». Come guardarsi allo specchio senza cedere all’orrore o al cinismo? Ma se Eliane Brum lascia in sospeso la domanda, si può tuttavia ricordare che, una volta perduta l’innocenza, una volta preso atto che, nell’attuale modello, «nessuna azione del nostro quotidiano è innocente», possiamo sempre, in qualsiasi nostra scelta, cercare di ridurre quanto più possibile il danno, in ciò che mangiamo, in ciò che acquistiamo, nella maniera in cui decidiamo di spostarci, impegnandoci al tempo stesso per il superamento dell’attuale paradigma, in direzione di un nuovo modello in cui, ad ogni semplice gesto, non si finisca più necessariamente per alimentare «una catena di orrori». In cui, insomma, la nostra umanità non sia più di ostacolo alla nostra profonda natura di “terrani”.  

di seguito ampi stralci dell’articolo di Eliane Brum

 

gabbia

Ricordo una scena del primo film della trilogia Matrix, un cult della fine del XX secolo. I membri della resistenza erano quelli che, a un certo punto, si erano resi conto che la vita quotidiana era solo un inganno, un programma del computer, un’illusione. La realtà era un deserto in cui i ribelli lottavano contro “le macchine” in un mondo senza bellezza e senza gioia. La scelta era tra una pillola blu e una rossa. Chi avesse preso la rossa, avrebbe smesso di credere nel mondo che era dato vedere e si sarebbe trovato di fronte alla verità della condizione umana.

Nella scena che qui mi interessa ricordare, un traditore della resistenza negozia i termini della resa mentre si delizia con un succulento filetto. Lo sa bene che il filetto non esiste realmente, che è un programma al computer a farlo vedere e a far sentire l’odore e il sapore della carne, ma se lo gode ugualmente. Venderebbe l’anima alle macchine pur di tornare nella migliore condizione – ricco e famoso – al mondo delle illusioni. Consegnerebbe i suoi compagni pur di recuperare l’innocenza rispetto alla realtà del mondo. Sacrifica la lotta, gli amici e l’etica in cambio di un desiderio: tornare a essere cieco. O tornare a credere nel filetto.

La frase esatta, pronunciata mentre guarda un pezzo di carne infilzato dalla forchetta, è questa: «Lo so che questo filetto non esiste. Lo so che, quando lo addento, è Matrix a dire al mio cervello che è succulento e delizioso». E dopo una pausa: «Dopo nove anni, sai cosa ho capito? Che l’ignoranza è meravigliosa».

All’epoca, alla vigilia del cambio di millennio, il film aveva rappresentato per il pubblico una porta di ingresso al dibattito filosofico sul reale. La pillola rossa divenne una metafora per chi sceglie di vedere Matrix, o vedere al di là delle apparenze. Da allora, in questi ultimi anni di erosione accelerata delle illusioni, penso che la scelta sia diventata assai più complicata.

Forse il disagio, nel nostro tempo, deriva dal fatto che non è più possibile scegliere tra la pillola blu e quella rossa, tra restare ciechi o iniziare a vedere ciò che è dietro la trama dei giorni. Il disagio si deve al fatto che forse non esiste più la pillola blu, che non è possibile quell’illusione che ha svolto un ruolo strutturale nella costituzione soggettiva della nostra specie nel corso dei millenni.

fame

Se fosse uno di noi il membro della resistenza disposto a tradire i compagni, a negoziare la resa con le macchine di fronte a un succulento filetto al ristorante, qui, ora, e non più alla fine degli anni ’90, il dilemma potrebbe subire uno spostamento. Non si tratterebbe di vedere il filetto come filetto, nel senso di credere che esiste, che esiste il ristorante e che lo scenario che chiamiamo mondo è come si presenta ai nostri occhi. No. Il dilemma attuale può anche essere questo, ma solo nella misura in cui è anche altro. Il dramma è che crediamo nel filetto, sappiamo che esiste e sappiamo che è buono. Lo desideriamo, ce ne riempiamo la bocca e ce lo godiamo. Ma, guardandolo, non vediamo solo “il deserto del reale”, ma qualcosa di assai più incarnato e sempre più ineludibile: vediamo il bue.

È terribile vederlo. E, come le persone più sensibili hanno sperimentato, è impossibile smettere di vederlo. La sovrappopolazione umana è andata oltre la logica dei viventi, quella di uccidere per mangiare. E ha imposto la schiavitù e la tortura quotidiana di altre specie. Milioni di bovini, ovini e suini sono nati solo per nutrire noi in campi di concentramento a cui diamo nomi più accettabili. Sacrificati in olocausti quotidiani senza che nemmeno abbiano avuto una vita.

Animali rinchiusi, imprigionati, a volte persino impossibilitati a muoversi durante la loro intera esistenza. Creiamo professioni destinate a riconoscere in pochi secondi se un pulcino è maschio o femmina per separare le femmine, che vivranno pigiate le une sulle altre, a deporre uova, spesso senza riuscire neanche a muovere le ali, dai maschi, che verranno gettati ancora vivi tra i rifiuti. Schiavitù e tortura/sacrificio e rifiuti: questo il destino che attende gli ovini.

Siamo i nazisti delle altre specie. E, se prima era possibile ignorarlo, riducendo la questione a qualcosa di poco importante o a una cosa da “adoratori di lattuga”, con internet e la disseminazione di informazioni è impossibile evitare di guardare il bue negli occhi. Guardando il filetto, il bue ci guarda a sua volta. L’occhio vitreo di chi è terrorizzato perché sa di andare a morire, il bue che perde escrementi dalla paura quando sta per essere sacrificato, il bue che tenta di fuggire ma non trova l’uscita. Gli occhi del bue arrivano a persone come me che possono essere collocate nella categoria degli “adoratori di churrasco”.

La pubblicità del XX secolo ha perso risonanza in tempi di internet. Perché l’illusione non è più possibile. Nulla era più puro del latte bianco estratto da una mucca al pascolo. Era facile credere all’immagine bucolica dell’alimento sano. Il nostro latte veniva dal paradiso, dal nostro passato rurale perduto, dalla vita nei boschi di Walden (Walden ovvero Vita nei boschi è il resoconto dell’avventura di Henry David Thoreau in cerca di un rapporto intimo con la natura in contrasto con la crescente modernizzazione delle metropoli americane, ndt). E così la lunga serie di derivati del latte, come formaggio, yogurt e burro.

Ma la mucca della pubblicità non esiste. Quella reale nasce in cattività, figlia di un’altra schiava. La mucca che quasi non si muove, la cui esistenza consiste in una lunga serie di stupri con strumenti che penetrano nel suo corpo per fecondarla con il seme di un altro schiavo. Così si ingravida e si ingravida, e si ingravida di vitelli, che le verranno sottratti per diventare filetti, perché le sue mammelle continuino a dare latte, estratto da altre macchine. E, poiché lo sappiamo, il latte che giunge alla nostra mensa non può più essere bianco, ma rosso di orrore della mucca trasformata in oggetto, quella mucca per la quale ogni giorno significa tortura, stupro e schiavitù.

Per non bere sangue, cerchiamo latte a base di vegetali. I vegetali non gridano. A base di soia, per esempio. Bistecca di soia, hamburgher di soia, salsicce di soia, latte di soia. Ma come ignorare la deforestazione, la distruzione di interi ecosistemi, con tutta la vita che vi era contenuta? Come ignorare il fatto che la soia può essere stata piantata in area indigena e che, mentre diventa merce al supermercato, giovani guarani kaiowá si impiccano perché non sanno più come vivere?

(…). Guardiamo i nostri vestiti: sappiamo, con orrore, che in qualche punto della loro linea di produzione globalizzata vi è intessuto il sangue di bambini, uomini e donne in condizioni di lavoro analoghe alla schiavitù. (…).

Non è più possibile portare i bambini al giardino zoologico o all’acquario, perché sappiamo che l’unica educazione vicina alla verità che riceverebbero lì è quella dell’orrore a cui gli animali sono sottoposti per essere esibiti, per quanto buona possa apparire l’imitazione del loro habitat. Ricordo un reportage che andai a fare in un giardino zoologico, che avrebbe dovuto essere divertente, ma in cui potei raccontare solo, fra altri orrori, che il babbuino di nome Beto era imbottito di Valium per evitare che sbranasse parti del suo corpo. E che, anche dopato, si gettava contro le grate, gettava feci ai visitatori e picchiava la compagna. Pinky, la femmina di elefante, viveva sola. I suoi due compagni erano morti cadendo in un fossato nel tentativo di fuggire alla prigionia. (…).

Nel semplice gesto di accendere la luce, già esiste la consapevolezza che stiamo distruggendo il mondo di qualcuno (…). In questo momento, per limitarci a un esempio, decine di migliaia di persone hanno già perso le loro case nella regione dello Xingu, in Amazzonia, a causa della centrale idroelettrica di Belo Monte. I popoli indigeni che vivono nell’area non riescono più a sopportare l’aumento esponenziale di zanzare provocato dal lago artificiale creato dalla diga, con il relativo stravolgimento dell’ecosistema, come ha denunciato il Pubblico Ministero Federale parlando di etnocidio. In meno di tre mesi, si è registrata la morte di più di 16 tonnellate di pesci. E forse sta giungendo a termine il tempo in cui è possibile contare le vite a tonnellate, per quanto si tratti della vita di pesci. O della morte di pesci. Un dito sull’interruttore e una catena di morte. E ora sappiamo anche questo.

Il tempo delle illusioni è finito. Nessun atto del nostro quotidiano è innocente. Chiedendo un caffè e una fetta di pane imburrato, entriamo a far parte di una catena di orrori inflitti agli animali e agli esseri umani coinvolti nella produzione. Ogni atto anche banale implica una scelta etica e anche una scelta politica.

Lunga è la descrizione delle atrocità che commettiamo ripetutamente. Mangiamo, ci vestiamo, ci divertiamo, trasportiamo e ci spostiamo a costo della schiavitù, della tortura e del sacrificio di altre specie e anche delle persone più fragili della nostra specie. Siamo ciò che di peggio è capitato al pianeta e a tutti coloro che lo abitano. Il cambiamento climatico annuncia già che non solo dobbiamo temere la catastrofe, ma che siamo diventati la catastrofe. E questa volta non solo per tutti gli altri, ma anche per noi stessi.

Non è più possibile la pillola blu, non è più possibile credere alle illusioni. Esistono varie e profonde implicazioni in un’epoca in cui la conoscenza non libera, ma condanna. A cominciare forse dalla domanda: chi è l’innocente in un mondo in cui l’innocenza non è più possibile? (…).

Cosa faremo dinanzi all’impossibilità della pillola blu, quella che garantiva le illusioni? (…). Gli interrogativi cambiano e non è più possibile affermare, senza rivelare una considerevole ignoranza, che gli animali non hanno vita mentale né emotiva, sono “irrazionali”. O che, giusto per ricordare un argomento religioso, “non hanno anima”. Tutta l’ideologia che un giorno giustificò la schiavitù umana, finché non venne messa in discussione, smantellata e trasformata in un crimine e in una vergogna nella storia dell’umanità, viene ora utilizzata con gli animali.

Sempre più spesso le altre specie sono considerate diverse, non più inferiori. Cosicché in campo etico si impongono questioni affascinanti e assai spinose. La stessa espressione “diritti umani” diventa discutibile, perché pensare solo agli “umani” non è più possibile. (…). Altri modi di comprendere e di nominare il posto degli umani guadagnano terreno nell’orizzonte filosofico e nell’esercizio della politica.

Resta il cinismo, ultima roccaforte. Dire che, dinanzi a più di 7 miliardi di esseri umani che occupano il pianeta e continuano ad aumentare, non c’è altro modo che mangiare e indossare sfruttamento, schiavitù e tortura è l’affermazione più ovvia. È l’affermazione che viene usata per tutte le situazioni di disuguaglianza di diritti. Finché non sono io a essere sacrificato, o i miei cari, va tutto bene.

Vale la pena dedicare un paragrafo ai cinici, questa categoria che prolifera in Brasile e nel mondo con il vigore di una zanzara. (…). Il cinico è colui che lascia il mondo così com’è. Ma forse, in questo momento, è lui l’innocente. La sua innocenza consiste nel credere che la pillola blu sia ancora disponibile. (…).

Cosa fare dinanzi all’occhio del bue? Come essere persone etiche in un mondo senza illusioni, in cui ogni atto implica la tortura e il sacrificio di un altro? Se siamo i nazisti delle altre specie, quando non della nostra, accettare che sia così non significa diventare un Eichmann, il nazista processato a Gerusalemme che affermava di aver compiuto solo gli ordini, l’uomo così banalmente ordinario da ispirare la filosofa Hannah Arendt nella creazione del concetto della “banalità del male”? Non saremmo, agli occhi del bue, tutti degli Eichmann che si giustificano dicendo che le cose stanno così e che si fa ciò che è necessario per sopravvivere? Se è così, cosa implica vivere consapevolmente in questa posizione?

Forse ci troviamo, come specie che riflette su di sé, dinanzi a uno dei maggiori dilemmi etici della nostra storia. Senza poter optare per la pillola blu, quella delle illusioni, condannati alla pillola rossa che ci obbliga a vedere, come costruire una scelta che torni a includere l’etica? Come non paralizzarsi di fronte allo specchio, in balia o dell’orrore o del cinismo, eliminando la possibilità di trasformazione? (…).

Dinanzi al filetto di cui abbiamo voglia e all’occhio del bue che ci interroga, c’è un’ipotesi che acquista sempre più forza: l’innocente è un assassino.

* Immagine tratta dal sito Pixabay, licenza e immagine originale. La foto è stata ritagliata. Le utilizzazioni in difformità dalla licenza potranno essere perseguite

image_pdfimage_print

in memoria di Virgil Elizondo teologo della liberazione

Virgil Elizondo

teologo della frontiera

un commosso e fraterno ricordo del teologo Virgil Elizondo da parte di Rosino Gibellini pubblicato sul sito ‘Settimananews.it’:

di: Rosino Gibellini

Virgil Elizondo

Virgil Elizondo (28/08/1935 – 14/03/2016)

Fulminea si è diffusa la tristissima notizia di morte per suicidio (per un colpo d’arma da fuoco alla testa) del teologo ispanico degli USA, Virgil Elizondo, nella sua casa di San Antonio (Texas), nel primo pomeriggio di lunedì 14 marzo u.s. Aveva 80 anni. Pendeva su di lui, dal maggio 2015, una sentenza accusatoria di pedofilia per un fatto risalente al 1983, presentato in un processo da certo John Doe (che sta per anonimo).

La stampa riferisce anche testimonianze, secondo le quali l’accusa non avrebbe consistenza, ma lo avrebbe amareggiato e sconvolto, così da morirne «di crepacuore». Si attende ricostruzione di una morte tragica, arrivata improvvisa e inaspettata, dopo una vita intensa e operosa, e anche brillante, che gli aveva già meritato una via a lui intestata presso la cattedrale di San Fernando, che l’aveva portata ad essere – come è stato scritto – «l’anima della città».

Ho conosciuto Virgil Elizondo fin dal 1975 in occasione dell’Encuentro latino-americano de Teología, celebrato a Città del Messico nell’agosto 1975 sul tema Liberación y cautiverio [Liberazione e cattività], e fu subito amicizia. Amicizia che è andata rinsaldandosi in diverse occasioni e nelle più svariate città del mondo, in concomitanza dei congressi ecumenici di ASETT (Associazione ecumenica dei teologi del Terzo Mondo), ai quali ero invitato come osservatore ospite, e nelle assemblee generali annuali della rivista internazionale di teologia Concilium, dove Virgil Elizondo ha diretto per anni la sezione di “Teologia pratica” (con Norbert Greinacher), e successivamente la sezione di “Teologia della liberazione” (con Leonardo Boff). Nella sua qualità di teologo messico-americano ha sempre fatto da ponte tra la teologia del Nord e la teologia del Sud.

Paul Tillich, il teologo tedesco-americano, sintetizzava la sua esperienza di vita, che dall’Europa lo aveva condotto negli Stati Uniti d’America, in un breve libro, On the Boundary (1966), [Sulla linea di confine], nel quale scriveva: «Il confine è il posto migliore per acquisire conoscenza». Da questa esperienza nasceva il metodo della correlazione tra rivelazione cristiana e cultura, che ha trovato espressione e applicazione nella grande Teologia sistematica. Se la teologia di Tillich è una teologia on the boundary, la teologia ispanica-americana, che in Virgil Elizondo ha il suo iniziatore e il suo più noto rappresentante, è una teologia crossing borders, di “attraversamento dei confini”, che si fa interprete di una nuova realtà umana in fase di espansione. Devo qui segnalare che il libro offerto in suo onore nel 2000, reca il titolo Beyond Borders [Al di là dei confini].

Ricordo anche d’aver ricevuto in dono negli anni Settanta il testo dattiloscritto della tesi dottorale di Virgil Elizondo, sostenuta e difesa all’Institut Catholique de Paris, che recava il titolo un po’ misterioso per un europeo, Mestizaje, testo che sarebbe poi confluito nel libro Galilean Journey (1983), riedito ampliato nel 2000. Questo libro, oltre a descrivere il viaggio di Gesù dalla Galilea, culturalmente meticcia, a Gerusalemme, la città della croce e della resurrezione, indicava con la categoria di Mestizaje la promessa, di cui erano portatori i messico-americani. Il concetto di meticciato diventava così una chiave ermeneutica per rileggere il Vangelo, ma anche per reinterpretare la dinamica della cultura; come ha espresso Jacques Audinet nella prefazione dell’opera: «Elizondo punta a una nuova frontiera. I suoi pensieri lo portano naturalmente a trattare di un meticciato globale».

L’opera di Virgil Elizondo più letta in Europa è L’Avenir est au Métissage (1987), che riprende con scansione biografica l’opera maggiore, e che ha servito a far conoscere alla teologia europea questa nuova complessa categoria culturale e teologica. Il presidente del Senegal e scrittore, Léopold Sédar Senghor, ha sottolineato la convergenza del discorso teologico di Virgil Elizondo con la visione di Teilhard de Chardin, che prospettava per l’alba del terzo millennio la «civilisation de l’Universel». L’edizione americana del libro reca il titolo: The Future is Mestizo: Life Where Cultures Meet (1988) [Il futuro è meticcio: la vita dove le culture si incontrano].

Con la sua attività di membro del Board of Directors della rivista internazionale di teologia Concilium, edita in sette lingue, Elizondo ha contribuito, com’è nella vocazione della american-hispanic theology, a costruire un ponte culturale tra teologia del Nord e teologia del Sud. Tra gli articoli scritti su Concilium merita una particolare menzione il testo: The New Humanity of the Americas (1990) in cui si esprime al meglio lo spirito, meticcio e universale ad un tempo, di Virgil Elizondo, il suo sogno e la sua visione di una nuova umanità delle Americhe come paradigma di una nuova umanità del mondo.

Su questo sfondo del meticciato, dell’incrocio di vita e cultura, si colloca il suo bel libro su Maria, dal titolo: Guadalupe. Madre della nuova creazione (1997/2000), che era stato anticipato da La Morenita: Evangelizer of the Americas (1981) [La Morenita: Evangelizzatrice delle Americhe], che è una delle interpretazioni più profonde dell’apparizione di Nostra Signora di Guadalupe a Juan Diego sul Tepeyac nel 1531 agli inizi delle Americhe. Nostra Signora di Guadalupe non è solo un’altra apparizione mariana. L’icona che ci ha lasciato sulla tilma dell’indio Juan Diego è la sua viva presenza, che esprime riconoscimento, accoglienza, compassione e protezione, e segna l’inizio di un processo di meticciato, come crogiuolo di popoli e culture.

Come scrittore di spiritualità si può ricordare: La via della croce. La passione di Cristo nelle Americhe; e Il Dio delle sorprese.

Fondatore del MAAC, Mexican-American Cultural Center di San Antonio (Texas), città americana bilingue, Virgil Elizondo era un sacerdote attivo nella pastorale, già rettore per oltre un decennio dell’antica cattedrale di San Antonio; direttore artistico della televisione San Antonio, Texas, che aveva una vasta audience negli USA e nel Centro America; e dal 2000 anche docente alla Notre-Dame University (Indiana, USA), dove è stato aperto un centro studi per la cultura ispanica.

La rivista Time aveva fatto il nome di Elizondo come uno degli “innovatori spirituali” del nuovo millennio.

Addio! Virgilio. Riposa in pace. È un addio, nel lutto e nella preghiera, con affetto e gratitudine per la profonda e generosa amicizia. Mi mancherai.

image_pdfimage_print
image_pdfimage_print