due teologie nell’unico racconto della passione di Gesù non armonizzate

non è facile comprendere la passione

di p. José M. Castillo

in “Religión Digital” del 21 marzo 2016

Castillo

Non risulta facile comprendere quello che vediamo e viviamo ogni Settimana Santa. Perché non è facile capire per quale motivo, ogni anno e quando arrivano questi giorni, girano per le nostre strade immagini di dolore, agonia e morte, in processioni di rispetto e di devozione. E – quello che è più stupefacente – esibiamo le immagini del fallimento con troni di esaltazione trionfale, con musica gregoriana, incenso e bande di musica, grancasse e trombe. Tutto questo è l’espressione più eloquente del tentativo incomprensibile di fare, del fallimento più umiliante della vita, il trionfo sognato delle nostre più sublimi illusioni. Perché nell’ambito della religione succede quello che nessuno può immaginare negli altri settori della vita? Non so se questo fenomeno – così chiaramente contraddittorio – si verifichi, con tanta naturalezza, nella storia e nelle pratiche di altre religioni. Nel cristianesimo è un fatto, che ha una storia di secoli ed alcune radici che risalgono alle origini della Chiesa. Ed è il fatto che, comunque rigiriamo la questione, non è facile comprendere la passione di Gesù. Dove sta la chiave del problema? Negli scritti più antichi della Chiesa, nei documenti che chiamiamo Nuovo Testamento, ci sono due teologie, che non si sono integrate debitamente l’una con l’altra, ma sono state pensate e scritte indipendentemente l’una dall’altra. Ed in questioni molto decisive ci dicono cose che non sono facili da armonizzare. La prima di queste teologie (quella che è stata scritta per primo) è stata quella di Paolo (tra gli anni 45 e 55). La seconda è stata quella dei vangeli (dopo l’anno 70, fino agli anni 90). La differenza più ovvia, che si nota tra queste due teologie, è che quella dei vangeli è una “teologia narrativa”, ossia è costruita sulla base di una serie di racconti mediante i quali a noi si spiega la maniera di vivere o il progetto di vita del protagonista di tali racconti, un modesto galileo del sec. I, Gesù di Nazareth. La teologia di Paolo è una “teologia speculativa”, cioè è costruita sulla base di una serie di riflessioni religiose, che non si riferiscono più direttamente all’umile galileo che è stato Gesù, ma al Figlio di Dio, Messia e Signore nostro (Rm 1, 4), che è Cristo, il Risorto che è unito al Padre del Cielo. Detto ciò – e come è logico -, queste due teologie ci offrono due spiegazioni della passione e morte di Gesù. Secondo la teologia dei vangeli, la decisione della morte di Gesù fu presa dall’autorità religiosa (il Sinedrio: sommi sacerdoti, anziani e dottori della Legge). E questa decisione fu approvata dall’autorità politica, il prefetto dell’Impero. Il motivo della condanna a morte è stato religioso (Gesù fu accusato di essere un pericolo per il tempio, di essere e di agire come un bestemmiatore ed un delinquente); ed è stato politico (poiché il governatore ordinò di crocifiggerlo). Secondo la teologia di Paolo, Cristo morì sulla croce non per una decisione umana (una questione che Paolo non cita mai), ma perché “i peccati si espiano con il sangue”, cosa che si riferisce a Cristo che sopporta l’ira di Dio scatenata su tutti i peccatori (Rm 3, 19-20. 25).  Così sul Crocifisso ricadde il giudizio distruttore di Dio, che con la morte di Gesù condannò “il peccato nella carne” (Rm 8, 3). Questo dimostra il fatto che, per Paolo, Gesù si è fatto “maledizione” (Gal 3, 13) e “peccato” (2 Cor 5, 21) per noi. In definitiva, la teologia di Paolo viene ad essere l’accettazione del principio spaventoso che presenta la lettera agli Ebrei: “senza effusione di sangue non vi è remissione” (Eb 9, 22). Riassumendo: la passione di Gesù, secondo la teologia narrativa dei vangeli, si spiega perchè Gesù, nel quale è presente Dio e che ci rivela Dio (Gv 1, 18; 14, 9; Mt 11, 27 par), ha affrontato la sofferenza umana (malattia, povertà, fame, emarginazione, disprezzo, umiliazione, odio…).  Secondo la teologia speculativa di Paolo, la passione di Cristo si spiega perchè Dio ha avuto bisogno del “sacrificio” e dell’“espiazione” dei peccati, per redimere in questo modo l’uomo peccatore.
Ebbene, accettando il fatto che nel Nuovo Testamento si trovano queste due spiegazioni della passione e della morte di Gesù, il problema concreto che si presenta di solito, negli insegnamenti della Chiesa e nella vita dei credenti, sta nel fatto che la spiegazione della passione offerta da Paolo si è costituita, si presenta ed è richiesta alla gente che la si viva come il dogma di fede della nostra salvezza. Mentre la spiegazione della passione presentata dai vangeli viene spiegata alla gente come un criterio di spiritualità per praticare la devozione e la carità cristiana.
Certo, sappiamo che Paolo ha insistito sulla carità e sull’amore cristiano (1 Cor 13, 1-13; Gal 5, 1324; Rm 13, 8-10). Così come sappiamo che i vangeli parlano ripetutamente della fede e della salvezza. Ma si consideri che, quando Gesù parla di “salvezza”, si riferisce alla “cura delle malattie”. Cioè, nei vangeli “salvare” è rimediare alla “sofferenza”. Per questo, quando Gesù diceva a qualcuno: “La tua fede ti ha salvato”, in realtà gli diceva: “La tua salda fiducia in me ti ha curato” (Mc 5, 34; Mt 9, 22; Lc 8, 48; cf. Mc 10, 52; Mt 8, 10. 13; 9, 30; 15, 28; Lc 7, 9; 17, 19; 18, 42). E richiama l’attenzione il fatto che Gesù elogia la fede di un centurione romano (Mt 8, 5-13; Lc 7, 1-10), di una donna cananea (Mt 15, 21-28; Mc 7, 24-30) o di un lebbroso samaritano (Lc 17, 11-19), tutte persone che non avevano la fede nel Dio di Israele. Senza alcun dubbio, l’elemento centrale nella teologia di Paolo è la vittoria sul peccato. Ma, se ci atteniamo alla teologia dei vangeli, l’elemento centrale è la vittoria sulla sofferenza. Detto tutto ciò, mi azzardo a dire che, finchè questa questione non abbia la giusta ed autorevole spiegazione (ed applicazione alla vita), la Chiesa non potrà adempiere al suo ruolo ed alla sua missione nel mondo. In definitiva, con una teologia disarticolata e sgangherata possiamo solo avere una Chiesa ugualmente disarticolata e sgangherata. In altre parole, finché Paolo continuerà ad essere più decisivo di Gesù nella teologia e nella gestione della Chiesa, come Chiesa e come cristiani non andiamo da nessuna parte.
articolo pubblicato il 21.3.2016 nel Blog dell’Autore in Religión Digital

 

 

 

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lo ‘stile evangelico’ e la ‘Chiesa rabdomante’ secondo Christopd Theobald

 il vangelo della “nuova” fratellanza

intervista a Christopd Theobald 

a cura di Lorenzo Fazzini in “Avvenire” 

Christopd Theobal

 

tedesco di origine, francese di adozione, Christoph Theobald è tra i più letti e citati teologi di oggi a livello internazionale, in particolare per la sua profonda e argomentata riflessione sullo “stile” evangelico come caratteristica peculiare della presenza cristiana nel mondo. È da poco in libreria Fraternità (Qiqajon, pagine 94, euro 10,00), testo nel quale sono racchiuse due conferenze nelle quali il gesuita del Centre Sèvres di Parigi esplica il senso di questa dimensione di vita. Del resto fu papa Francesco che ne evidenziò l’importanza fin dal suo affacciarsi in piazza San Pietro, il 13 marzo di tre anni fa, quando usò, nel primo saluto da pontefice, proprio il termine “fratellanza”

Nel suo saggio lei sottolinea molto la dimensione sociale del Vangelo. La Chiesa di oggi ha ben coscienza di questo aspetto del messaggio cristiano?

«Penso che sia esistita una lunga tradizione che ha messo in risalto e in atto questo legame intrinseco tra annuncio evangelico e dimensione sociale. Forse però questo aspetto è diventato più attenuato in un’altra epoca. Mi spiego meglio. In Francia, nell’Italia settentrionale, in Germania e in Austria, tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo abbiamo visto sorgere un vero cattolicesimo sociale, ad esempio sotto Pio XI e tramite la diffusione dell’Azione cattolica. Un cattolicesimo sociale la cui metodologia è stata poi condensata nel motto “vedere, giudicare, agire” coniato dal teologo belga, poi cardinale, Joseph-Léon Cardijn. È stata questa visione dell’annuncio cristiano che ha portato alla stesura della costituzione pastorale conciliare Gaudium et spes, che ha sviluppato la questione sociale del Vangelo rispetto a diversi ambiti: famiglia, economia, politica, pace… Inoltre, durante il Concilio Vaticano II sorse quel gruppo per la “Chiesa povera e dei poveri” intorno alle figure del cardinale Giacomo Lercaro e di dom Hélder Câmara, che ha poi portato alla conferenza del Celam di Medellìn, alla scelta preferenziale per i poveri, a quella teologia del popolo di cui papa Francesco è un sostenitore. Forse, come accennavo prima, nel periodo turbolento del post-concilio, un’epoca molto controversa, c’è stato un ritorno sull’identità cristiana nei Paesi del mondo occidentale sotto i pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI intorno alla liturgia e alla catechesi. Questo, forse, è avvenuto per una certa paura del relativismo. In questo senso alcune esperienze particolari, come quelle dei preti operai e più in generale del cattolicesimo sociale, sono state messe ai margini. Con Francesco invece, sia con Evangelii gaudium che con Laudato si’, il papa torna a chiedere alla Chiesa di intraprendere la strada del cattolicesimo sociale».

Lei ha citato una certa “linea” che da Lercaro arriva a Francesco. La sensibilità di questo percorso spirituale e teologico è patrimonio comune della Chiesa di oggi?

«C’è molto da fare, e ci sono resistenze. È quello che penso veramente. Credo che ciò sia presente nell’ambito laicale così come nel clero. Quello a cui chiama papa Francesco è veramente una conversione, una mutazione di sguardo. Bisogna passare da un interesse della Chiesa che possiamo definire centripeto, per cui i pastori vogliono portare le persone dentro la Chiesa, ad uno sguardo per cui la Chiesa si mette al servizio dell’avvenire del mondo, della vita, della cultura, del futuro delle nuove generazioni. Vogliamo l’una o l’altra prospettiva? Ciò che ci chiede Francesco è una conversione che si rifà all’affermazione di Gesù: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra. E come vorrei che fosse già acceso”. Francesco ci indica che il lavoro da fare è anzitutto di carattere spirituale».

In Fraternità lei usa un’espressione molto curiosa, quella della “Chiesa rabdomante”. Cosa significa?

«La formula può sembrare un po’ sorprendente e metaforica, ma vorrei spiegarla brevemente. L’annuncio del Vangelo non può più avvenire secondo l’ordine che chiameremmo “di impiantazione” dall’esterno. Un’altra prospettiva invece ci dice che l’annuncio del Vangelo è già preceduto dalla presenza discreta di Dio nel cuore della gente e del mondo. Il modo di essere della Chiesa deve seguire quello di Gesù che percorreva la Galilea e andava a cercare le faglie della società con un annuncio di vita che era già atteso dall’uomo e dalle donne di quel tempo. Non dobbiamo pensare alla missione come ad un annuncio volontaristico e di carattere istituzionale. Il Vangelo è già lì dove il cristiano arriva a testimoniarlo».

Può fare un esempio concreto di tutto questo?

«Prendiamo la lettera enciclica Laudato si’, quando il papa dice che la prima dichiarazione di Rio sull’ambiente è un testo profetico. Questo significa che il tratto di profetismo proprio del popolo di Dio era già presente nel profetismo del movimento ecologico, che non era cristiano. Come ben sappiamo, l’ecologia non l’ha iniziata la Chiesa, bensì è nata nell’alveo dei cosiddetti movimenti alternativi. Ebbene, la Chiesa ha trovato questo valore altrove, e da lì ha riletto la sua grande tradizione, così come la Scrittura, e ha elaborato una teologia della creazione che prima non aveva esplicitato in tutti i suoi aspetti».

Il termine “fraternità” può essere accostato al valore della misericordia, principio-guida del pontificato di papa Francesco?

«In estrema sintesi: sono diversi ma anche la stessa cosa. Il concetto di fraternità è evidentemente cristiano, ma la sua forza consiste nel fatto che nel tempo si è secolarizzato, in particolare a partire dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo che diede origine alla Repubblica francese. Ma mentre i principi di libertà e di uguaglianza possono essere normalizzati in istituzioni giuridiche, la fraternità è una sorta di trascendenza immanente sulla quale non è possibile legiferare. Al cuore delle nostre costituzioni repubblicane infatti vi sono la libertà e l’uguaglianza, mentre la fraternità è qualcosa che non può diventare legge. Ecco allora il suggerimento di papa Francesco: dobbiamo operare una “mistica della fraternità”, che ci faccia vedere in tutti, in particolare negli emarginati e negli ultimi (i poveri, i disabili, gli anziani, i bambini…) la presenza di Dio. La misericordia in tal senso diventa la fraternità che va fino in fondo. E chi è capace di questo? Dio in Gesù Cristo. “Siate misericordiosi come il Padre vostro che è nei cieli” è un compito arduo. Ma è un invito che ci spinge ad avere un cuore docile e aperto».

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il filosofo amico di Ratzinger stronca impietosamente l’enciclica di papa Francesco

Spaemann

“È il caos eretto a principio con un tratto di penna”

spaemann

Il professor Robert Spaemann, 89 anni, coetaneo e amico di Joseph Ratzinger, è professore emerito di filosofia presso la Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco di Baviera. È uno dei maggiori filosofi e teologi cattolici tedeschi. Vive a Stoccarda. Il suo ultimo libro uscito in Italia è: “Dio e il mondo. Un’autobiografia in forma di dialogo”, edito da Cantagalli nel 2014.

Questa che segue è la traduzione dell’intervista sulla “Amoris lætitia” che egli ha dato in esclusiva ad Anian Christoph Wimmer per l’edizione tedesca di Catholic News Agency del 28 aprile:

 “Ein Bruch mit der Lehrtradition” – Robert Spaemann über “Amoris lætitia”

D. – Professor Spaemann, lei ha accompagnato con la sua filosofia i pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Molti fedeli oggi si chiedono se l’esortazione postsinodale “Amoris lætitia” di papa Francesco possa essere letta in continuità con l’insegnamento della Chiesa e di questi papi.

R. – Per la maggior parte  del testo ciò è possibile, anche se la sua linea lascia spazio a delle conclusioni che non possono essere rese compatibili con l’insegnamento della Chiesa. In ogni caso l’articolo 305, insieme con la nota 351, in cui si afferma che i fedeli “entro una situazione oggettiva di peccato” possono essere ammessi ai sacramenti “a causa dei fattori attenuanti”, contraddice direttamente l’articolo 84 della “Familiaris consortio” di Giovanni Paolo II.

D. – Che cosa stava a cuore a Giovanni Paolo II?

R. – Giovanni Paolo II dichiara la sessualità umana “simbolo reale della donazione di tutta la persona” e, più precisamente, “un’unione non temporanea o ad esperimento”. Nell’articolo 84 afferma, dunque, in tutta chiarezza che i divorziati risposati, se desiderano accedere alla comunione,  devono rinunciare agli atti sessuali. Un cambiamento nella prassi dell’amministrazione dei sacramenti non sarebbe quindi “uno sviluppo” della “Familiaris consortio”, come ritiene il cardinal Kasper, ma una rottura con il suo insegnamento essenziale, sul piano antropologico e teologico, riguardo al matrimonio e alla sessualità umana.

La Chiesa non ha il potere, senza che vi sia una conversione antecedente, di valutare positivamente delle relazioni sessuali, mediante l’amministrazione dei sacramenti, disponendo in anticipo della misericordia di Dio. E questo rimane vero a prescindere da quale sia il giudizio su queste situazioni sia sul piano morale che su quello umano. In questo caso, come per il sacerdozio femminile, la porta qui è chiusa.

D. – Non si potrebbe obiettare che le considerazioni antropologiche e teologiche da lei citate siano magari anche vere, ma che la misericordia di Dio non è legata a tali limiti, ma si collega alla situazione concreta di ogni singola persona?

R. – La misericordia di Dio riguarda il cuore della fede cristiana nell’incarnazione e nella redenzione. Certamente lo sguardo di Dio investe ogni singola persona nella sua situazione concreta. Egli  conosce ogni singola persona meglio di quanto essa conosca se stessa.  La vita cristiana, però, non è un allestimento pedagogico in cui ci si muove verso il matrimonio come verso un ideale, così come pare presentata in molti passi della “Amoris lætitia”. L’intero ambito delle relazioni, particolarmente quelle di carattere sessuale, ha a che fare con la dignità della persona umana, con la sua personalità e libertà. Ha a che fare con il corpo come “tempio di Dio” (1 Cor 6, 19). Ogni violazione di questo ambito, per quanto possa essere divenuta frequente, è quindi una violazione della relazione con Dio, a cui i cristiani si sanno chiamati; è un peccato contro la sua santità, e ha sempre e continuamente bisogno di purificazione e conversione.

La misericordia di Dio consiste proprio nel fatto che questa conversione è resa continuamente e di nuovo possibile. Essa, certamente, non è legata a determinati limiti, ma la Chiesa, per parte sua, è obbligata a predicare la conversione e non ha il potere di superare i limiti esistenti mediante l’amministrazione dei sacramenti, facendo, in tal modo, violenza alla misericordia di Dio. Questa sarebbe orgogliosa protervia.

Pertanto, i chierici che si attengono all’ordine esistente non condannano nessuno, ma tengono in considerazione e annunciano questo limite verso la santità di Dio. È un annuncio salutare. Accusarli ingiustamente, per questo, di “nascondersi dietro gli insegnamenti della Chiesa” e di “sedere sulla cattedra di Mosè… per gettare pietre contro la vita delle persone” (art. 305), è qualcosa che nemmeno voglio commentare.  Si noti, solo per inciso, che qui ci si serve, giocando su un fraintendimento intenzionale, del passo evangelico citato. Gesù dice, infatti, sì, che i farisei e gli scribi siedono sulla cattedra di Mosè, ma sottolinea espressamente che i discepoli devono praticare e osservare tutto quello che essi dicono, ma non devono vivere come loro (Mt 23, 2).

D. – Il papa vuole che non ci si concentri su delle singole frasi della sua esortazione, ma che si tenga conto di tutta l’opera nel suo insieme.

R. – Dal mio punto di vista, concentrarsi sui passi citati è del tutto giustificato.  Davanti a un testo del magistero papale non ci si può attendere che la gente si rallegri per un bel testo e faccia finta di niente davanti a frasi decisive, che cambiano in maniera sostanziale l’insegnamento della Chiesa. In questo caso c’è solo una chiara decisione tra il sì e il no. Dare o non dare la comunione: non c’è una via media.

D. – Papa Francesco nel suo scritto ripete che nessuno può essere condannato per sempre.

R. – Mi risulta difficile capire che cosa intenda. Che alla Chiesa non sia lecito condannare personalmente nessuno, men che meno eternamente – cosa che, grazie a Dio, nemmeno può fare – è qualcosa di chiaro. Ma, se si tratta di relazioni sessuali che contraddicono oggettivamente l’ordinamento di vita cristiano, allora vorrei davvero sapere dal papa dopo quanto tempo e in quali circostanze una condotta oggettivamente peccaminosa si muta in una condotta gradita a Dio.

D. – Qui, dunque, si tratta davvero di una rottura con la tradizione dell’insegnamento della Chiesa?

R. – Che si tratti di una rottura è qualcosa che risulta evidente a qualunque persona capace di pensare che legga i testi in questione.

D. – Come si è potuti giungere a questa rottura?

R. – Che Francesco si ponga in una distanza critica rispetto al suo predecessore Giovanni Paolo II lo si era già visto quando lo ha canonizzato insieme con Giovanni XXIII, nel momento in cui ha ritenuto superfluo per quest’ultimo il secondo miracolo che, invece, è canonicamente richiesto. Molti a ragione hanno percepito questa scelta come manipolativa. Sembrava che il papa volesse relativizzare l’importanza di Giovanni Paolo II.

Il vero problema, però, è un’influente corrente di teologia morale, già presente tra i gesuiti nel secolo XVII, che sostiene una mera etica situazionale. Le citazioni di Tommaso d’Aquino prodotte dal papa nella “Amoris lætitia” sembrano sostenere questo indirizzo di pensiero. Qui, però, si trascura il fatto che Tommaso d’Aquino conosce atti oggettivamente peccaminosi, per i quali non ammette alcuna eccezione legata alle situazioni. Tra queste rientrano anche le condotte sessuali disordinate. Come già aveva fatto negli anni Cinquanta con il gesuita Karl Rahner, in un suo intervento che contiene tutti gli argomenti essenziali, ancor oggi validi, Giovanni Paolo II ha ricusato l’etica della situazione e l’ha condannata nella sua enciclica “Veritatis splendor”.

“Amoris Laetitia” rompe anche con questo documento magisteriale.  A questo proposito, poi, non si dimentichi che fu Giovanni Paolo II a mettere a tema del proprio pontificato la misericordia divina, a dedicarle la sua seconda enciclica, a scoprire  a Cracovia il diario di suor Faustina e, in seguito, a canonizzare quest’ultima. È lui il suo interprete autentico.

D. – Che conseguenze vede per la Chiesa?

R. – Le conseguenze si possono vedere già adesso. Crescono incertezza, insicurezza e confusione: dalle conferenze episcopali fino all’ultimo parroco nella giungla. Proprio pochi giorni fa un sacerdote dal Congo mi ha espresso tutto il suo sconforto davanti a questo testo e alla mancanza di indicazioni chiare. Stando ai passaggi corrispondenti di “Amoris lætitia”, in presenza di non meglio definite “circostanze attenuanti”, possono essere ammessi alla assoluzione dei peccati e alla comunione non solo i divorziati risposati, ma tutti coloro che vivono in qualsivoglia “situazione irregolare”, senza che debbano sforzarsi di abbandonare la loro condotta sessuale, e, dunque, senza piena confessione e senza conversione.

Ogni sacerdote che si attenga all’ordinamento sacramentale sinora in vigore potrebbe subire forme di mobbing dai propri fedeli ed essere messo sotto pressione dal proprio vescovo. Roma può ora imporre la direttiva per cui saranno nominati solo vescovi “misericordiosi”, che sono disposti ad ammorbidire l’ordine esistente. Il caos è stato eretto a principio con un tratto di penna. Il papa avrebbe dovuto sapere che con un tale passo spacca la Chiesa e la porta verso uno scisma. Questo scisma non risiederebbe alla periferia, ma nel cuore stesso della Chiesa. Che Dio ce ne scampi.

Una cosa, però, mi sembra sicura: quel che sembrava essere l’aspirazione di questo pontificato – che la Chiesa superi la propria autoreferenzialità, per andare incontro con cuore libero alle persone – con questo documento papale è stato annichilito per un tempo imprevedibile. Ci si deve aspettare una spinta secolarizzatrice e un ulteriore regresso del numero dei sacerdoti in ampie parti del mondo. Si può facilmente verificare, da parecchio tempo, che i vescovi e le diocesi con un atteggiamento non equivoco in materia di fede e di morale hanno il numero maggiore di vocazioni sacerdotali. Si deve qui rammentare quel che scrive san Paolo nella lettera ai Corinti: “Se la tromba emette un suono confuso, chi si preparerà alla battaglia?” (1 Cor 14, 8).

D. – Che cosa succederà ora?

R. – Ogni singolo cardinale, ma anche ogni vescovo e sacerdote è chiamato a difendere nel proprio ambito di competenza l’ordinamento sacramentale cattolico e a professarlo pubblicamente. Se il papa non è disposto a introdurre delle correzioni, toccherà al pontificato successivo rimettere le cose a posto ufficialmente.

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“chi è il mio prossimo” oggi?

 papa Francesco

non si classifica il prossimo per nazionalità o religione

papa «Tu puoi diventare prossimo di chiunque incontri nel bisogno, e lo sarai se nel tuo cuore hai compassione». «Ignorare la sofferenza dell’uomo significa ignorare Dio!»
«Chi è il mio prossimo?». Papa Francesco è partito da questa domanda che il dottore della legge rivolge a Gesù, all’udienza generale in piazza San Pietro, per sottolineare che la domanda sottintesa è «i miei parenti? I miei connazionali? Quelli della mia religione?»: egli «vuole una regola chiara che gli permetta di classificare gli altri in “prossimo” e “non-prossimo”», e invece, come illustra la successiva parabola del buon Samaritano, «di fronte alla sofferenza di così tanta gente sfinita dalla fame, dalla violenza e dalle ingiustizie, non possiamo rimanere spettatori» e, in generale, «tu puoi diventare prossimo di chiunque incontri nel bisogno, e lo sarai se nel tuo cuore hai compassione».
«Oggi – ha esordito Francesco proseguendo un ciclo di catechesi sul tema giubilare della misericordia – riflettiamo sulla parabola del buon samaritano. Un dottore della Legge mette alla prova Gesù con questa domanda: “Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”. Gesù gli chiede di dare lui stesso la risposta, e quello la dà perfettamente: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”. Gesù allora conclude: “Fa’ questo e vivrai”. Allora quell’uomo pone un’altra domanda, che diventa molto preziosa per noi: “Chi è mio prossimo?”, e sottintende: “I miei parenti? I miei connazionali? Quelli della mia religione?”… Insomma, vuole una regola chiara che gli permetta di classificare gli altri in “prossimo” e “non-prossimo”, in quelli che possono diventare prossimi e in quelli che non possono diventare prossimi».
 
Gesù risponde con la parabola «che mette in scena un sacerdote, un levita e un samaritano. I primi due sono figure legate al culto del tempio; il terzo è un ebreo scismatico, considerato come uno straniero, pagano e impuro, cioè il samaritano. Sulla strada da Gerusalemme a Gerico il sacerdote e il levita si imbattono in un uomo moribondo, che i briganti hanno assalito, derubato e abbandonato. La Legge del Signore in situazioni simili prevedeva l’obbligo di soccorrerlo, ma entrambi passano oltre senza fermarsi. Erano di fretta… Il sacerdote, forse, ha guardato l’orologio e ha detto: “Ma, arrivo tardi alla Messa… Devo dire Messa”. E l’altro ha detto: “Ma, non so se la Legge me lo permette, perché c’è il sangue lì e io sarò impuro…”. Vanno per un’altra strada e non si avvicinano. E qui la parabola ci offre un primo insegnamento: non è automatico che chi frequenta la casa di Dio e conosce la sua misericordia sappia amare il prossimo. Non è automatico! Tu puoi conoscere tutta la Bibbia, tu puoi conoscere tutte le rubriche liturgiche, tu puoi conoscere tutta la teologia, ma dal conoscere non è automatico l’amare: l’amare ha un’altra strada, occorre l’ intelligenza, ma anche qualcosa di più… Il sacerdote e il levita vedono, ma ignorano; guardano, ma non provvedono. Eppure non esiste vero culto se esso non si traduce in servizio al prossimo».
 
«Non dimentichiamolo mai», ha detto Francesco senza esplicitare il riferimento a fatti di cronaca o al suo recente viaggio all’isola di Lesbo da cui è tornato con 12 rifugiati musulmani: «Di fronte alla sofferenza di così tanta gente sfinita dalla fame, dalla violenza e dalle ingiustizie, non possiamo rimanere spettatori. Ignorare la sofferenza dell’uomo, cosa significa? Significa ignorare Dio! Se io non mi avvicino a quell’uomo, a quella donna, a quel bambino, a quell’anziano o a quell’anziana che soffre, non mi avvicino a Dio».
 
Francesco ha sottolineato che il samaritano, «quello sul quale nessuno avrebbe scommesso nulla», quando vide l’uomo ferito «ne ebbe compassione», «cioè il cuore, le viscere, si sono commosse! Ecco la differenza. Gli altri due “videro”, ma i loro cuori rimasero chiusi, freddi. Invece il cuore del samaritano era sintonizzato con il cuore stesso di Dio. Infatti, la “compassione” è una caratteristica essenziale della misericordia di Dio. Dio ha compassione di noi. Cosa vuol dire? Patisce con noi, le nostre sofferenze lui le sente. Compassione significa “compartire con”. Il verbo indica che le viscere si muovono e fremono alla vista del male dell’uomo. E nei gesti e nelle azioni del buon samaritano riconosciamo l’agire misericordioso di Dio in tutta la storia della salvezza». Il samaritano, insomma, «si comporta con vera misericordia»: «All’inizio della parabola per il sacerdote e il levita il prossimo era il moribondo; al termine il prossimo è il samaritano che si è fatto vicino. Gesù ribalta la prospettiva: non stare a classificare gli altri per vedere chi è prossimo e chi no. Tu puoi diventare prossimo di chiunque incontri nel bisogno, e lo sarai se nel tuo cuore hai compassione, cioè se hai quella capacità di patire con l’altro».  

 

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