i ‘muri’ non ci difendono dai profughi …

basta muri sono castelli che scatenano nuovi assedi

di Roberto Saviano 

in “la Repubblica” del 15 febbraio 2016

Saviano

“davvero in Europa c’è ancora qualcuno che pensa di fermare le stragi dei migranti e l’orrore della jihad alzando l’ennesimo muro? Davvero c’è chi pensa di fermare gli esseri umani decretando la morte di Schengen? No, pretendere di proteggersi innalzando di nuovo i confini è un errore. Un madornale errore”

Dobbiamo fermare i soldi della criminalità non gli esseri umani Mentre i ministri delle Finanze dell’Unione si riunivano venerdì scorso a Bruxelles nelle stanze del Justus Lipsius, decretando con una firma la messa in mora sui profughi della povera Grecia, e dando praticamente il via al restringimento dell’Europa di Schengen, dall’altra parte del mondo — nell’ufficio lussuossimo di un grattacielo di Dubai, in un ranch blindatissimo del Nord Est messicano — il contabile di turno avrà stancamente cliccato sul tasto “send” di un personal computer, di un laptop, forse anche di un semplice smartphone: e per l’ennesima volta la marea di denaro più o meno sporco avrà investito, senza incontrare resistenza, le coste del continente. Ma sì, diciamolo subito. Davvero in Europa c’è ancora qualcuno che pensa di fermare le stragi dei migranti e l’orrore della jihad alzando l’ennesimo muro? Davvero c’è chi pensa di fermare gli esseri umani decretando la morte di Schengen? No, pretendere di proteggersi innalzando di nuovo i confini è un errore. Un madornale errore. Innanzitutto perché è dimostrato che le strutture militari, terroristiche non hanno bisogno di utilizzare canali clandestini. Riescono a strutturarsi e a essere operative in ogni Paese indipendentemente dai flussi migratori attuali. È ormai accertato che ad agire in queste strutture — l’abbiamo purtroppo visto nel caso del Bataclan e di Charlie Hebdo — sono uomini e donne di seconda generazione. E se in alcuni casi, è vero, ci siamo trovati di fronte a persone che avevano chiesto l’asilo politico e si sono poi trasformate in miliziani, si è trattato di una “ evoluzione” indipendente dalla struttura madre. È questa la premessa fondamentale per capire che fermare Schengen significherebbe soltanto distruggere l’integrazione europea. E non semplicemente nella declinazione dei diritti ma nella stessa formazione della struttura sociale. Fermare Schengen vorrebbe dire uccidere il grande progetto iniziale; cioè la costruzione degli “ stati uniti d’Europa”. Fermare Schengen sarebbe la vittoria di una visione che credevamo ormai superata: quella secondo la quale ci si possa difendere costruendo castelli e barriere. Noi italiani lo sappiamo bene. Non lo diceva già il Principe di Machiavelli? Costruire nuovi castelli genera solo nuovi assedi. Non basta. Il paradosso è ancora più grave. Perché questa è la politica che pretende di fermare i corpi ma non i flussi illegali e finanziari ormai senza più alcun controllo. Che cosa ha reso possibile la creazione di un vero e proprio potere terroristico in Belgio? I finanziamenti che da Dubai, dall’Arabia Saudita, dal Medio Oriente più in generale sono arrivati attraverso i vari canali finanziari più scoperti. La Francia ha il Lussemburgo. La Germania ha il Liechtenstein. La Spagna ha Andorra. L’Italia ha San Marino. Tutto il mondo ha la Svizzera. Stiamo parlando di isole finanziarie che non solo attraggono — nella migliori delle ipotesi — evasori fiscali. Stiamo parlando di centri che attraggono nel cuore d’Europa strategie criminali e finanziarie: basti pensare alla vicenda recente del Chapo, il re dei trafficanti di droga che faceva riciclare in Svizzera montagne di narcodollari che poi finivano in una banca di Vaduz, nel Liechtenstein. E allora smettiamola di credere a chi vuole convincerci che l’Europa paga il prezzo che paga — le immigrazioni senza controllo, il terrore senza limiti — perché è troppo esposta. Non è vero: l’Europa paga un prezzo altissimo per la sua incapacità di gestire i flussi finanziari e il riciclaggio. La riflessione da fare è tutta qua: il problema sono i capitali, non gli esseri umani. Sono i capitali che circolano senza controllo a compromettere la sicurezza dell’economia pulita e la tenuta sociale. È il risiko della finanza a rendere sempre meno sicura l’Europa. Riusciranno mai a capirlo lì nelle stanze del Justus Lipsius?

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una società narcisista dalla pericolosa ‘cultura del selfie’

tra Narciso e selfie

la società vista da Michele Serra

di Simone Vazzana

Digitambuli, ego e sindrome dello sguardo basso. Michele Serra, firma di La Repubblica e L’Espresso, ha incontrato gli alunni del liceo classico “Gioberti”, dialogando con loro sui temi trattati nel suo ultimo romanzo, Qualcuno potrebbe (edito da Feltrinelli).

“La società contemporanea – ha sottolineato l’autore – è l’evoluzione del mito di Narciso. La cultura del selfie è pericolosa, perché rimanda alla catena di montaggio. Tutto è ripetitivo e, fondamentalmente, il continuo aggiornare il prossimo sui nostri spostamenti e le nostre attività non è poi così interessante”.

Una condanna ai social network di fronte a decine di adolescenti? Non proprio.

“È impossibile integrarsi senza un pc o uno smartphone – ammette Serra –. Io stesso non saprei come lavorare e come informarmi. Però, devono restare dei mezzi al nostro servizio. Tutto quello che diventa compulsivo è dipendenza: non se ne deve fare un uso autistico. È necessario essere indipendenti, è necessario tenere il timone”.

Ma “Qualcuno potrebbe” non parla solamente dell’abuso della tecnologia. Racconta la vita di Giulio, un trentenne che per lavoro archivia meccanicamente le esultanze dei calciatori. Non ha sbocchi professionali, non ha un’identità. Il suo è un viaggio senza partenza e senza arrivo, che tocca molte delle stazioni di una società in piena crisi. Una società sprofondata in una voragine provocata dall’assenza di tutto, soprattutto dalla morte del lavoro. Giulio, che Serra non descrive mai fisicamente all’interno del romanzo, è un eroe dell’insofferenza che si sente fuori posto e fuori tempo, come tanti suoi coetanei. Vive in un non-luogo, nell’hinterland di una provincia del Nord, nell’attesa che accada qualcosa.

Ai ragazzi del “Gioberti”, Serra ha raccontato anche il suo modo di intendere la scrittura: “Chi scrive ha grandi difficoltà a rimandare al testo. Se Melville fosse vivo, oggi verrebbe invitato a un talk show e gli si chiederebbe il motivo del suo odio per le balene. Sì, la scrittura  ha sicuramente una dimensione intellettuale ed emotiva, ma anche inconscia. Per esempio, il titolo del libro l’ho sognato prima della stesura”. Così come il cinghiale antropomorfizzato, presente nella copertina disegnata da Gipi: “L’ho interpretato come un segno. Nel libro, non ho volutamente mai descritto Giulio. Non ha un volto. Se ci sarà un sequel, vedrò se dargliene uno”.

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quattro preti di Bergamo solidarizzano coi profughi

quaresima in tenda per quattro preti

“fare di più per i profughi”

di | 13 febbraio 2016
Bergamo, Quaresima in tenda per quattro preti: “Fare di più per i profughi”
 

lettera-denuncia di quattro sacerdoti del Bergamasco per spiegare ai loro parrocchiani e non solo la scelta di vivere questi quaranta giorni sulla strada

“In Quaresima noi sacerdoti abiteremo in una tenda allestita sul sagrato della chiesa di Ambivere. Un po’ di cibo. Acqua da bere. Un bagno per lavarci. Un materasso per dormire. E’ più di quanto molti essere umani possono permettersi”

 Inizia così la lettera-denuncia che don Gianluca De Ciantis, don Andrea Testa, don Alessandro Nava e don Emanuele Personeni hanno scritto per spiegare ai loro parrocchiani e non solo, la scelta di vivere questi quaranta giorni sulla strada.

I quattro preti della diocesi di Bergamo hanno deciso di non tacere di fronte ai numeri che testimoniano una scarsa accoglienza dei richiedenti asilo: “I poveri – scrivono i sacerdoti nella missiva – speravano che l’Europa fosse un luogo dove l’umanità venisse prima della cittadinanza, prima del benessere, prima delle differenze religiose, prima di ogni altra cosa. Si sbagliavano. Il pensiero diffuso è che la loro situazione non dipenda da noi che abbiamo già i nostri grattacapi. Al pari dei singoli Paesi europei, anche i diversi settori dell’amministrazione statale scaricano sugli altri la responsabilità adducendo confusione normativa, paventando rischi di terrorismo e brandendo contro i poveri le croniche insufficienze dell’assistenza ai cittadini italiani”.

Parole dure anche contro la propria diocesi: “Si usano i poveri di casa nostra contro i poveri alla nostra porta. A cominciare dalle Regioni fino ad arrivare a moltissime amministrazioni comunali la risposta è sempre la stessa: per loro non c’è posto. Le parrocchie e i cristiani bergamaschi non si stanno comportando meglio. Ci pensi la Caritas, dicono. Neppure l’invito dell’amatissimo Papa Francesco riesce a scuoterli. Noi sacerdoti non possiamo rovesciare le sorti dei poveri. Però possiamo stare dalla loro parte”.

Una denuncia che va alla pari con i numeri. Da un mese la Caritas nazionale ha lanciato l’iniziativa “Rifugiato a casa mia” ma su 26mila parrocchie in Italia solo 181 hanno aderito mettendo a disposizione 1060 posti: “Il progetto prevede – spiegano i vertici della Caritas – l’accoglienza di singoli o di nuclei familiari per sei mesi, attivando in famiglie, comunità e territori tutto quanto può fare integrazione”.

A dar ragione ai sacerdoti bergamaschi sembrano essere proprio i dati: secondo la Commissione nazionale asilo, lo scorso anno 79.000 persone lo hanno richiesto in Italia. Di questi 23.000 sono stati accolti nelle diocesi italiane: uno su quattro dei richiedenti asilo ha trovato casa in una struttura ecclesiale, arrivando addirittura a uno su due in regioni come la Lombardia e la Basilicata o uno su tre in Piemonte. Solo a Roma città (334 parrocchie) sono accolti circa 170 migranti, neanche uno per campanile. A Milano (1.000 parrocchie) sono a disposizione 400 posti letto e nell’arcidiocesi bolognese si arriva a circa 30 posti letto.

I buoni esempi non mancano: don Enrico D’Ambrosio a Cenate (Bergamo) a dicembre scorso ha aperto le porte della sua canonica per accogliere cinque giovani africani così come in Toscana la cooperativa fondata da don Armando Zappolini si prepara ad accogliere i nuovi profughi in arrivo a primavera. L’invito dei quattro sacerdoti bergamaschi è a fare di più: “Stiamo in una tenda per dire che non siamo disposti ad accettare un sistema che procura benessere a noi provocando sofferenza a qualcun altro. Si tratta di un segno temporaneo, fino a Pasqua. Poi si vedrà”.

 

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