papa Francesco a Lesbo tra i disperati nei lager di oggi

a Lesbo un messaggio di papa Francesco che fa Storia

papa Francesco è tornato nel centro rifugiati visitato 5 anni orsono: “È facile trascinare l’opinione pubblica instillando la paura dell’altro; perché invece, con lo stesso piglio, non si parla dello sfruttamento dei poveri?”

il papa a Lesbo contro i fili spinati

da questo inferno in terra papa Francesco ha lanciato il suo accorato appello che è anche un possente j’accuse a un mondo che chiude gli occhi di fronte a questo scempio di vite umane.

Alzando barriere non si risolvono i problemi, ripete Francesco tra la moltitudine di disperati che affolla Lesbo. E’ così. Ma in Europa e in chi la governa questa verità non passa.


Umberto De Giovannangeli     

Per passare alla storia, un messaggio deve avere tre requisiti: l’autorevolezza di chi lo lancia. Il luogo in cui avviene. La tragicità dell’evento.  

Ebbene, quello lanciato a Lesbo da Papa Francesco, ha tutti e tre questi requisiti.

Un messaggio possente 

“Chiusure e nazionalismi – la storia lo insegna – portano a conseguenze disastrose”. Così il Papa a Lesbo.

“È un’illusione – ha detto – pensare che basti salvaguardare se stessi, difendendosi dai più deboli che bussano alla porta. Il futuro ci metterà ancora più a contatto gli uni con gli altri. Per volgerlo al bene non servono azioni unilaterali, ma politiche di ampio respiro”. La storia “lo insegna ma non lo abbiamo ancora imparato. Non si voltino le spalle alla realtà, finisca il continuo rimbalzo di responsabilità, non si deleghi sempre ad altri la questione migratoria, come se a nessuno importasse e fosse solo un inutile peso”. 

“È triste sentir proporre, come soluzioni, l’impiego di fondi comuni per costruire muri, dei fili spinati. Siamo nell’epoca dei muri, dei fili spinati”, ha detto il Papa. Certo, “si comprendono timori e insicurezze, difficoltà e pericoli. Si avvertono stanchezza e frustrazione, acuite dalle crisi economica e pandemica, ma non è alzando barriere che si risolvono i problemi e si migliora la convivenza”. “È invece unendo le forze per prendersi cura degli altri secondo le reali possibilità di ciascuno e nel rispetto della legalità – ha aggiunto -, sempre mettendo al primo posto il valore insopprimibile della vita di ogni uomo”.

“È facile trascinare l’opinione pubblica instillando la paura dell’altro; perché invece, con lo stesso piglio, non si parla dello sfruttamento dei poveri, delle guerre dimenticate e spesso lautamente finanziate, degli accordi economici fatti sulla pelle della gente, delle manovre occulte per trafficare armi e farne proliferare il commercio?”. Così il Papa. “Vanno affrontate le cause remote, non le povere persone che ne pagano le conseguenze, venendo pure usate per propaganda politica! Per rimuovere le cause profonde, non si possono solo tamponare le emergenze. Occorrono azioni concertate e grandezza di visione”. 

“Non scappiamo via frettolosamente dalle crude immagini dei piccoli corpi di bambini stesi inerti sulle spiagge. Il Mediterraneo, che per millenni ha unito popoli diversi e terre distanti, sta diventando un freddo cimitero senza lapidi”. “Questo grande bacino d’acqua, culla di tante civiltà, sembra ora uno specchio di morte – ha rilevato -. Non lasciamo che il ‘mare nostrum’ si tramuti in un desolante ‘mare mortuum’, che questo luogo di incontro diventi teatro di scontro! Non permettiamo che questo ‘mare dei ricordi’ si trasformi nel ‘mare della dimenticanza’. Vi prego, fermiamo questo naufragio di civiltà!”.

Entrato nel Reception and Identification Centre di Mytilene, a Lesbo, Papa Francesco si è diretto a piedi verso il luogo della cerimonia intrattenendosi ungo il tragitto con i profughi in sua attesa, accarezzando in particolare i tanti bambini, spesso molto piccoli, stringendo mani, dispensando sorrisi, saluti e parole di conforto e incoraggiamento. Il Papa si ferma anche ad ascoltare le storie e le invocazioni di alcuni dei rifugiati, delle provenienze più diverse, dall’Asia, al Medio Oriente, all’Africa. Al termine della cerimonia ufficiale, presenti anche la presidente della Repubblica Ekaterini Sakellaropoulou e l’ordinario della diocesi, arcivescovo Josif Printezis, Francesco si fermerà ancora con alcuni rifugiati e visiterà le loro abitazioni. Circa 200, anche qui con diversi bambini, quelli che lo attendono nel luogo dell’incontro, tutti dotati di cuffiette per la traduzione simultanea delle sue parole.I rifugiati sono stati nel frattempo in parte ricollocati o trasferiti in altre isole dell’Egeo, e nel campo di Mytilene, soprannominato dai greci ‘Moria 2.0’, ve ne sono oggi alcune migliaia, con numeri che oscillano tra i 2.000-2.500 e gli oltre 4.000-4.200. Secondo la Caritas, attualmente neile baracche, tendoni e container risiedono 2.200 persone: in effetti il campo avrebbe una capacità di 8.000 persone ma in questo periodo vengono accettati meno rifugiati per ragioni legate al Covid. Le provenienze vanno dalle zone di conflitto dell’Asia e del Medio Oriente fino a quelle dell’Africa. Le condizioni di vita nel campo sono migliorate rispetto a quello di ‘Moria’, considerato una sorta di inferno, ma sempre molto dure, e le attese dei permessi di asilo in Europa lunghissime. Molte le famiglie con bambini anche in tenerissima età.

Grecia, la vergogna continua

In Grecia la detenzione amministrativa dei migranti richiedenti asilo è diventata la regola e non l’eccezione, in aperta violazione con la normativa europea. Uomini, donne e bambini sono sottoposti a condizioni di detenzione degradanti e che negano i loro diritti fondamentali, come rilevato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.   E’ l’allarme lanciato oggi da Oxfam e Greek Refugees Council con un nuovo rapporto che fotografa una situazione a dir poco drammatica, che colpisce persone estremamente vulnerabili arrivate in Europa per trovare salvezza da guerre e persecuzioni in paesi come Afghanistan, Siria, Repubblica Democratica del Congo e molti altri.

Il dossier rileva come: già a giugno migranti in detenzione amministrativa, quindi senza nessuna accusa penale a carico erano quasi 3 mila;  7 migranti irregolari su 10 sono posti in detenzione amministrativa e la maggior parte rimane detenuta anche una volta presentata la domanda di asilo.  1 persona su 5 viene detenuta per lunghi periodi in celle anguste concepite per poche ore di fermo; donne incinta, bambini e persone con gravi vulnerabilità, vengono detenute senza un’assistenza sanitaria e legale adeguata; quasi la metà (il 46%) dei migranti vi rimane per oltre 6 mesi.

“La volontà di usare la detenzione come prassi si riflette nelle recenti politiche adottate dalla Grecia. Nonostante la normativa europea indichi la detenzione amministrativa come ultima risorsa –  osserva Paolo Pezzati, policy advisor per le emergenze umanitarie di Oxfam Italia – Nel 2019 infatti le autorità greche hanno ampliato i motivi che portano alla detenzione anche alla verifica dell’identità della persona; hanno  eliminato la possibilità di prendere in considerazione misure alternative, in determinate circostanze;  e hanno introdotto la possibilità di estendere la detenzione fino a 3 anni. Un approccio che rappresenta una chiara violazione del diritto europeo e greco”.

La detenzione amministrativa è solo un altro strumento perimpedire alle persone di cercare sicurezza e un futuro in Europa –aggiunge Vasilis Papastergiou, esperto legale del Greek Refugees Council –  Mentre le autorità greche si rifiutano di considerare altre opzioni, i tribunali greci spesso rifiutano i ricorsi e gli appelli contro la detenzione, anche da parte di donne in gravidanza. Uno status quo avvallato anche dall’Unione Europea che sta finanziando i nuovi centri di semi-detenzione in Grecia, luoghi chiusi e controllati dove i migranti vengono abbandonati a sé stessi e dimenticati. Tutto questo, la detenzione assunta come regola e non come eccezione, come non è solo contrario alle normative internazionali ed europee sulle migrazioni, ma implica anche un pesante costo morale ed economico”.

“E’ necessario che la Grecia cambi approccio politico e prenda immediati provvedimenti legislativi che la riportino in linea con lo Stato di diritto. – continua Pezzati – I principali sono: porre fine alla detenzione prolungata nelle stazioni di polizia, evitare l’uso della detenzione senza che esista una decisione di un giudice e permettere la concreta possibilità di un sostegno legale alle persone straniere. E’ inoltre inaccettabile che le stazioni di polizia, centri di pre-allontanamento o espulsione e altri luoghi di detenzione amministrativa, siano diventati luoghi di detenzione anche per i bambini.  Questa pratica deve terminare quanto prima”.

Voci dall’inferno delle carceri greche

Le testimonianze raccolte nel rapporto, riportano le esperienze dirette di chi ha vissuto sulla propria pelle periodi di detenzione lunghi e durissimi senza nessun motivo.

Detenuto perché non riusciva a presentare domanda d’asilo

Abdul (nome di fantasia) è un giovane afghano che dopo aver trascorso 2 anni in Grecia e aver tentato per più di tre mesi di presentare domanda di asiloè stato arrestato per le mille difficoltà incontrate che gli hanno impedito di terminare la procedura.  “Sono qui da solo. È la prima volta che vengo arrestato e ho molta paura. – racconta – Ho bisogno di uscire di qui, di un mio spazio vitale, desidero solo che mi venga riconosciuta la possibilità di restare qui in modo legale”.

In fuga dalla Siria e richiuso per 9 mesi in cella

Omar (nome di fantasia), cittadino siriano è stato messo in detenzione al momento di presentare la richiesta di asilo. “Siamo stati rinchiusi in cella per 22 ore al giorno, senza poter fare telefonate, ricevere visite costretti a mangiare un cibo disgustoso.  – racconta – Spesso dovevamo pregare le guardie anche solo per andare in bagno e a volte non era nemmeno possibile”.

Un ragazzo intrappolato dalla pandemia

Mohammed (nome di fantasia) era un ragazzo quando è arrivato in Grecia ed ha fatto subito domanda per ricongiungersi con la propria famiglia in un altro paese europeo. Stava per partire, ma il suo volo fu cancellato a causa della pandemia. In attesa della revoca delle restrizioni per il Covid-19, ha compiuto diciotto anni e perso la protezione riservata ai minori. Dopo un incidente, temendo per la sua sicurezza, ha chiamato la polizia, che invece di aiutarlo lo ha trattenuto in detenzione. Ci è rimasto per mesi perché l’ufficio per il ricongiungimento familiare non riusciva ad avere sue notizie a causa delle inefficienze amministrative greche. Lo stato di salute mentale di Mohammed è particolarmente grave. Ha tentato il suicidio ed è stato ricoverato in ospedale, ma poi le autorità – nonostante fosse ancora debole e provato – lo hanno rispedito in cella. Dopo otto mesi di detenzione e molti interventi da parte del Grc, gli è stato consentito di raggiungere la famiglia.

Negati farmaci salvavita a un richiedente asilo

Ad Amir-Ali (nome di fantasia), richiedente asilo iraniano, hanno negato i farmaci necessari per scongiurare il rigetto di un rene trapiantato, nonostante il parere del medico del centro di detenzione. Amir-Ali ha davvero temuto per la sua vita: dopo mesi di attesa oggi è fuori grazie a Grc e al difensore civico greco.

Sopravvissuta a violenza sessuale in Togo, ma detenuta a Kos

A Kos, le autorità mettono automaticamente in detenzione i richiedenti asilo se provengono da un paese con un tasso di riconoscimento delle domande di asilo inferiore al 33%. Gloria (nome di fantasia), per essere arrivata dal Togo, ha subito dunque questo trattamento, nonostante fosse ritenuta persona vulnerabile perché sopravvissuta a violenze sessuali e fisiche. Le autorità non le hanno offerto alcuna cura, le condizioni psicologiche sono peggiorate e anche Gloria ha tentato il suicidio. Dopo il ricovero in ospedale, di nuovo in un centro di detenzione dove è rimasta fino a quando il Grc non è riuscito a tirarla fuori.“Queste storie ci dicono quanto crudeli, scioccanti siano le condizioni di detenzione in Grecia. Le persone muoiono per malattie prevenibili, o si suicidano perché disperate. Tra i detenuti ci sono ragazzi e donne incinte. – conclude Pezzati – Tutti vivono un senso di abbandono e progressivamente perdono letteralmente la ragione. La detenzione non può essere la soluzione di default, la Grecia deve trovare alternative e smettere di punire migranti e richiedenti asilo che vogliono costruirsi una vita in Europa”.

La Grecia è firmataria della Convenzione europea sui rifugiati ed è quindi illegale rifiutarsi di accogliere una domanda d’asilo o rimpatriare dei richiedenti asilo in Paesi in cui corrono dei rischi. Secondo Eleni Takou, vicedirettore e responsabile della Ong HumanRights360, ogni giorno emergono testimonianze e vittime dei cosiddetti “push-back”, i respingimenti di migranti alla frontiera al di là del fiume Evros.

Così stanno le cose. Storie di “pizzo”, di ricatti, di milioni di disperati utilizzati come “merce” di scambio – me li tengo se tu mi riempi di miliardi -. Storia di una Europa codarda, complice, ossessionata dalla falsa narrazione dell’”invasione” di migranti. Un’invasione che non c’è ma che i sovranisti agitano strumentalmente a fini elettorali e che le forze progressiste subiscono senza colpo ferire. Includere è un verbo inesistente nel vocabolario di Bruxelles. Mentre è presente, eccome, un imperativo categorico: esternalizzare. Esternalizzare le frontiere, a tutti i costi e ogni prezzo. Anche se questo vuol dire finanziare autocrati sanguinari, sultani, presidenti-generali, aguzzini in divisa. A Sud, l’Europa ha un unico interesse: sostenere i Gendarmi delle sue frontiere. Una complicità criminale.

Donne incinte e bambini detenuti nei campi

Al loro arrivo negli hotspot delle isole, i migranti – molti dei quali in condizione di particolare vulnerabilità, come bambini, donne incinta, disabili – vengono di fatto posti in stato di detenzione senza accesso alle necessarie cure e tutele. Il sistema rende poi incredibilmente difficile l’esame delle cause che spingono i richiedenti asilo a lasciare i propri paesi di origine, spesso attraversati da guerre e persecuzioni. Le testimonianze raccolte da Grc nel campo di Moria sono ancora una volta terribili. Rawan(nome di fantasia) arrivata dall’Afghanistan in Grecia da sola con due figli minorenni, vittima di violenza di genere, ha dovuto vivere sotto una tenda per 6 mesi in una zona del campo sovraffollata dove non ci sono nemmeno i bagni.  “La situazione nel campo era già spaventosa, ma con la pandemia è diventato peggio. Se il virus arriva qui – ci dicevamo – scaveranno una gigantesca fossa in cui seppellirci. Ci hanno dato due mascherine e un pezzo di sapone, di cui non sappiamo che farcene visto che non c’è acqua. Alla distribuzione dei pasti c’era talmente tanta gente che era impossibile mantenere la distanza”.

Mesi e anni in cui si rimane intrappolati in condizioni disumane nei campi come Moria, con il bene placet dell’Unione europea; esposti a molestie e abusi, soprattutto se si è donne sole

I più indifesi tra gli indifesi

A pagarne il prezzo più alto sono i più indifesi tra gli indifesi: i bambini. La clinica pediatrica di Medici senza frontiere a Lesbo  conta più di 100 visite al giorno, tra cui bambini con gravi patologie cardiache, casi di epilessia, diabete. Soffrono di problemi respiratori, dermatologici, legati alla nutrizione e psicosomatici. Bambini “spaventati, esposti a situazioni pericolose e senza un posto sicuro dove stare – testimonia Marco Sandrone  già a  capo del progetto di Msf nell’isola. -. Si chiudono a guscio. Accogliamo genitori che ci dicono che i loro bambini non vogliono più uscire dalle tende, che hanno smesso di parlare. Oltre al trauma della guerra, della fuga, la sofferenza di vivere a Lesbo toglie ogni speranza ai nostri piccoli pazienti”. “Il diritto di essere bambini – dice il responsabile di Msf –  è qui fagocitato dalla miseria di un campo senza dignità, alle porte dell’Europa”.

Ed è da questo inferno in terra che Papa Francesco ha lanciato il suo accorato appello che è anche un possente j’accuse a un mondo che chiude gli occhi di fronte a questo scempio di vite umane.

Alzando barriere non si risolvono i problemi, ripete Francesco tra la moltitudine di disperati che affolla Lesbo. E’ così. Ma in Europa e in chi la governa questa verità non passa.

i lager del nostro tempo destinati ai migranti – la denuncia di papa Francesco

 Il filo spinato è «simbolo d’odio. Dio risvegli la coscienza di tutti noi». I lager nel XX secolo? Ci sono anche oggi, sono per i migranti. Papa Francesco lo esclama parlando «a braccio» durante la preghiera ecumenica con i migranti nella chiesa parrocchiale di Santa Croce a Nicosia, nel suo secondo giorno di visita a Cipro prima di andare in Grecia, domani. Tra i migranti presenti all’incontro, anche alcuni che saranno tra quelli trasferiti in Italia per iniziativa del Pontefice e con la collaborazione della Comunità di Sant’Egidio.

Afferma il Vescovo di Roma: «Noi ci lamentiamo quando leggiamo le storie dei lager del secolo scorso, dei nazisti, di Stalin. “Come mai è potuto succedere?” Ma sta succedendo anche oggi, nelle spiagge vicine, ponte di schiavitù». Il Vescovo di Roma ha «guardato alcune testimonianze filmate: storie di tortura. Questo lo dico perché è compito mio far aprire gli occhi. È la guerra di questo momento, è la sofferenze di fratelli e sorelle. E non possiamo tacere».

E nell’ultima capitale d’Europa separata in due parti da un muro, nella chiesa che si trova vicino alla barriera di divisione tra la parte greco-cipriota e quella turco-cipriota, il Pontefice dice, ancora senza leggere il testo scritto: «Scusatemi, ma vorrei dire quello che ho nel cuore: i fili spinati, ma questa è una guerra di odio che vive un Paese, ma finiscono anche in altre parti dove si mettono per non lasciare entrare il rifugiato, quello che viene a chiedere libertà, pane, aiuto, fratellanza, gioia, che sta fuggendo dall’odio si trova davanti a un odio che si chiama filo spinato». Il Vescovo di Roma auspica «che il Signore risvegli la coscienza di tutti noi davanti a queste cose. Non possiamo tacere e guardare dall’altra parte in questa cultura dell’indifferenza».

Bergoglio cita il caso di «quando gli interessi di gruppi, o gli interessi politici, anche delle nazioni, spingono tanti di noi a restare da una parte, senza volerlo, schiavi: perché l’interesse sempre schiavizza, sempre crea schiavi. L’amore, che è contrario all’odio, ci fa liberi».

E come segno «della sollecitudine del Santo Padre verso famiglie e persone migranti, il Viaggio Apostolico a Cipro sarà accompagnato nelle prossime settimane da un gesto umanitario di accoglienza di circa 12 rifugiati, alcuni dei quali il Papa ha salutato questa sera al termine dell’incontro di preghiera ecumenica con i migranti». È quanto riferisce la Sala stampa vaticana confermando, ma solo in parte, le notizie già diffuse: i 12 rifugiati, infatti, costituirebbero la prima tranche del ricollocamento, mentre altre ne seguiranno tra gennaio e febbraio fino a un totale di 50 persone. Il loro trasferimento e «l’accoglienza sarà reso possibile grazie ad un accordo tra la Segreteria di Stato, le Autorità italiane e cipriote, e la collaborazione con la Sezione per i Migranti e Rifugiati della Santa Sede e la Comunità di Sant’Egidio».

Il Vescovo di Roma vuole rivolgere «un grande “grazie” dal cuore» ai quattro giovani migranti di cui ha ascoltato le testimonianze di grandi ferite e sofferenze, ma anche sogni e speranze, da cui si è detto «commosso»: una, Mariamie Besala Welo, dalla Repubblica Democratica del Congo, poi Thamara da Silva dallo Sri Lanka, Maccolins Ewoukap Nfongock dal Camerun e Rozh Najeeb dall’Iraq. Dice il Papa: «La vostra presenza, fratelli e sorelle migranti, è molto significativa per questa celebrazione. Le vostre testimonianze sono come uno “specchio” per noi, comunità cristiane». Secondo Francesco, «la brutalità della migrazione mette in gioco la propria identità». Ma non devono «farci paura le differenze tra noi, piuttosto le nostre chiusure e i nostri pregiudizi, che ci impediscono di incontrarci veramente e di camminare insieme. Le chiusure e i pregiudizi ricostruiscono tra noi quel muro di separazione che Cristo ha abbattuto, cioè l’inimicizia». In questo mondo, evidenzia, «siamo abituati alla cultura dell’indifferenza, alla cultura di guardare dall’altra parte, e addormentarci». Dio parla «attraverso i vostri sogni – aggiunge – Chiama anche noi a non rassegnarci a un mondo diviso, a comunità cristiane divise, ma a camminare nella storia attratti dal sogno di Dio: un’umanità senza muri di separazione, liberata dall’inimicizia, senza più stranieri ma solo concittadini». Diversi, «certo, e fieri delle nostre peculiarità, che sono dono di Dio, diversi, fieri di esserlo, ma concittadini riconciliati. Possa quest’isola, segnata da una dolorosa divisione, diventare con la grazia di Dio laboratorio di fraternità». Cipro è «generosa, ma non può fare tutto. Non può rispondere alle necessità di accogliere e integrare di tutti quanti arrivano. Dobbiamo capire i limiti».

Per il Papa «l’odio ha inquinato anche le nostre relazioni tra cristiani. E questo lascia il segno, un segno profondo, che dura a lungo. È un veleno da cui è difficile disintossicarsi. È una mentalità distorta, che invece di farci riconoscere fratelli, ci fa vedere come avversari, come rivali, quando non come oggetto da vendere, o da sfruttare».

Francesco è oggi protagonista di incontri ecumenici con gli ortodossi, di una messa per la piccola comunità cattolica locale, e della preghiera con i migranti. Al mattino, all’Arcivescovado ortodosso di Nicosia è prevista la visita di cortesia di Papa Bergoglio a Chrysostomos II, arcivescovo ortodosso di Cipro. Poi il Pontefice incontra il Santo Sinodo presso la Cattedrale ortodossa. Dopo la presentazione delle rispettive delegazioni e il colloquio privato, e dopo avere firmato il «Libro d’Onore», papa Francesco si reca nella Cattedrale ortodossa per incontrare il Santo Sinodo. «Pellegrino a Cipro, perla di storia e di fede, invoco da Dio umiltà e coraggio per camminare insieme verso la piena unità e donare al mondo, sull’esempio degli Apostoli, un fraterno messaggio di consolazione e una viva testimonianza di speranza»: lo ha scritto siglando il Libro d’Onore all’Arcivescovado ortodosso. Al suo arrivo è accolto sull’altare dal patriarca latino di Gerusalemme, monsignor Pierbattista Pizzaballa, che gli porge l’acqua santa per l’aspersione. Quindi, dopo il canto d’inizio, il saluto del Patriarca e le testimonianze di un membro della Caritas di Cipro e di quattro giovani migranti, il Papa pronuncia il suo discorso. Al termine, dopo la preghiera ecumenica, la recita del Padre Nostro e la Benedizione finale, viene offerto un dono al Pontefice. Quindi papa Francesco va nella stanza accanto per salutare i membri del Religious Track of the Cyprus Peace Project, promosso dall’Ambasciata di Svezia, perché tra i capi religiosi di Cipro si coltivi il dialogo ai fini della riunificazione. Francesco auspica «di cuore che aumentino le possibilità di frequentarci, di conoscerci meglio, di abbattere tanti preconcetti e di porci in docile ascolto delle rispettive esperienze di fede. Sarà per ciascuno un’esortazione stimolante a fare meglio e porterà a entrambi un frutto spirituale di consolazione». Incentrando il suo discorso sulla figura di san Barnaba – sodale di san Paolo e primo evangelizzatore dell’isola di Cipro – il cui nome significa al tempo stesso «figlio della consolazione» e «figlio dell’esortazione», il Papa vuole assicurare ai «fratelli ortodossi la preghiera e la vicinanza mia e della Chiesa cattolica, nei problemi più dolorosi che vi angosciano come nelle speranze più belle e audaci che vi animano. Le tristezze e le gioie vostre ci appartengono, le sentiamo nostre! E sentiamo di avere anche tanto bisogno della vostra preghiera». Inoltre, per «rivitalizzarci nella comunione e nella missione occorre anche a noi il coraggio di spogliarci di ciò che, pur prezioso, è terreno, per favorire la pienezza dell’unità. Non mi riferisco certo a quanto è sacro e aiuta a incontrare il Signore – spiega – ma al rischio di assolutizzare certi usi e abitudini, non essenziali per vivere la fede. Non lasciamoci paralizzare dal timore di aprirci e di compiere gesti audaci, non assecondiamo quella “inconciliabilità delle differenze” che non trova riscontro nel Vangelo! Non permettiamo che le tradizioni, al plurale e con la “t” minuscola, tendano a prevalere sulla Tradizione, al singolare e con la “T” maiuscola. Essa ci esorta a imitare Barnaba, a lasciare quanto, anche buono, può compromettere la pienezza della comunione, il primato della carità e la necessità dell’unità». Anche «noi siamo invitati dal Signore, per riscoprirci parte dello stesso Corpo, ad abbassarci fino ai piedi dei fratelli». Ammette il Papa: «Certo, nel campo delle nostre relazioni la storia ha aperto ampi solchi tra di noi, ma lo Spirito Santo desidera che con umiltà e rispetto ci riavviciniamo. Egli ci invita a non rassegnarci di fronte alle divisioni del passato e a coltivare insieme il campo del Regno, con pazienza, assiduità e concretezza. Perché se lasciamo da parte teorie astratte e lavoriamo insieme fianco a fianco, ad esempio nella carità, nell’educazione, nella promozione della dignità umana, riscopriremo il fratello e la comunione maturerà da sé, a lode di Dio». Così ognuno «manterrà i propri modi e il proprio stile, ma con il tempo il lavoro congiunto accrescerà la concordia e si mostrerà fecondo». Non mancano anche oggi «falsità e inganni che il passato ci mette davanti e che ostacolano il cammino. Secoli di divisione e distanze ci hanno fatto assimilare, anche involontariamente, non pochi pregiudizi ostili nei riguardi degli altri, preconcetti basati spesso su informazioni scarse e distorte, divulgate da una letteratura aggressiva e polemica. Ma tutto ciò distorce la via di Dio, che è protesa alla concordia e all’unità».

Dopo avere lasciato la Cattedrale ortodossa, papa Francesco celebra la Messa per la comunità cattolica di Cipro, nella memoria di san Francesco Saverio, nel Gsp Stadium di Nicosia. Si tratta dello stadio più grande di Cipro e ha una capacità di circa 22mila posti. Si stima che alla Messa siano presenti circa 10mila persone, come riferisce la Sala stampa vaticana. Introdotto da un breve indirizzo di saluto di Pizzaballa, nel corso della Celebrazione eucaristica, dopo la proclamazione del Vangelo, il Papa pronuncia l’omelia: «Dinanzi a ogni oscurità personale e alle sfide che abbiamo davanti nella Chiesa e nella società, siamo chiamati a rinnovare la fraternità. Se restiamo divisi tra di noi, se ciascuno pensa solo a sé o al suo gruppo, se non ci stringiamo insieme, non dialoghiamo, non camminiamo uniti, non possiamo guarire pienamente dalle cecità. La guarigione viene quando portiamo insieme le ferite, quando affrontiamo insieme i problemi, quando ci ascoltiamo e ci parliamo. È la grazia di vivere in comunità, di capire il valore di essere comunità». Bergoglio lo chiede «per voi: possiate stare sempre insieme, essere sempre uniti; andare avanti così e con gioia: fratelli cristiani, figli dell’unico Padre. E lo chiedo anche per me». Per Francesco è «bello vedervi e vedere che vivete con gioia l’annuncio liberante del Vangelo. Vi ringrazio per questo. Non si tratta di proselitismo, ma di testimonianza; non di moralismo che giudica, ma di misericordia che abbraccia; non di culto esteriore, ma di amore vissuto. Vi incoraggio ad andare avanti su questa strada. Usciamo a portare la luce che abbiamo ricevuto – esorta – usciamo a illuminare la notte che spesso ci circonda! C’è bisogno di cristiani illuminati ma soprattutto luminosi, che tocchino con tenerezza le cecità dei fratelli; che con gesti e parole di consolazione accendano luci di speranza nel buio. Cristiani che seminino germogli di Vangelo nei campi aridi della quotidianità, che portino carezze nelle solitudini della sofferenza e della povertà». Secondo il Pontefice, «ciascuno di noi è in qualche modo cieco a causa del peccato, che ci impedisce di “vedere” Dio come Padre e gli altri come fratelli. Questo fa il peccato, distorce la realtà: ci fa vedere Dio come padrone e gli altri come problemi. È l’opera del tentatore, che falsifica le cose e tende a mostrarcele sotto una luce negativa per gettarci nello sconforto e nell’amarezza». E la «brutta tristezza, che è pericolosa e non viene da Dio, si annida bene nella solitudine. Dunque, non si può affrontare il buio da soli. Se portiamo da soli le nostre cecità interiori, veniamo sopraffatti. Abbiamo bisogno di metterci l’uno accanto all’altro, di condividere le ferite, di affrontare insieme la strada».

Al suo rientro in Nunziatura, dopo la Messa celebrata allo stadio di Nicosia, papa Francesco si intrattiene brevemente con il Rabbino Capo di Cipro e per suo tramite invia un saluto alla comunità ebraica cipriota. Successivamente saluta la direttrice del carcere di Cipro, che gli ha portato un saluto e un dono da parte dei detenuti, tra i quali migranti incarcerati perché senza documenti.

muri, muri, muri – lo scandalo dei muri che fanno dell’Europa un grande lager per i profughi

il contagio dei muri 

Jacques Gaillot


in “www.garriguesetsentiers.org” del 1° dicembre 2021 (traduzione: www.finesettimana.org)


Avete notato il contagio dei muri nel mondo? Muri che separano popoli e impediscono loro di circolare. Muri della vergogna. Muro tra Israeliani e Palestinesi, tra Americani e Messicani, tra Spagnoli e Africani…
Alla televisione, guardavo con indignazione quel muro di fili spinati innalzato dalla Polonia per impedire ai migranti provenienti dalla Bielorussia di entrare. Oggi, è la volta della Lituania di elevare il suo muro di filo spinato.
Quando il muro di Berlino è stato distrutto il 9 novembre 1989, non immaginavo che l’Europa sarebbe diventata una fortezza! I muri non sono forse fatti per essere distrutti un giorno?
Ma ci sono in noi muri che ci separano gli uni dagli altri.
Il muro del denaro tra ricchi e poveri.
Il muro dei pregiudizi e della diffidenza che divide tante famiglie e gruppi!
Il muro dell’indifferenza che fa sì che ci si ignori.
Il muro dell’oblio che a cadere una cappa di piombo su ciò che si è vissuto con altri.
Il muro dell’odio soprattutto, che crea una separazione apparentemente insuperabile tra gli umani.
L’uomo di Nazareth ha passato la vita a far cadere muri.
Mi piace pensare che sia nato fuori le mura e che sia morto fuori le mura. Con la sua morte sulla croce, ha distrutto il muro di odio che ci separava gli uni dagli altri.
Il pianeta appartiene alla famiglia umana. Siamo fatti per circolare e vivere insieme. Non si fa la pace con del cemento e dei fili spinati che imprigionano le persone.

 “abbatteremo tutti i muri” parola di papa francesco

la preghiera del ‘vescovo vestito di bianco’

“abbatteremo i muri”

Fatima, la supplica di Francesco a Maria. Bergoglio parla di sé stesso usando le stesse parole del Terzo Segreto. Implora pace e «concordia fra tutti i popoli»
“percorreremo così ogni rotta, andremo pellegrini lungo tutte le vie, abbatteremo tutti i muri e supereremo ogni frontiera, uscendo verso tutte le periferie, manifestando la giustizia e la pace di Dio”

Francesco in preghiera nella Cappellina delle Apparizioni

 andrea tornielli

«Guardo la tua veste di luce e come vescovo vestito di bianco ricordo tutti coloro che, vestiti di candore battesimale, vogliono vivere in Dio e recitano i misteri di Cristo per ottenere la pace». Francesco è assorto in preghiera davanti alla statua della Madonna di Fatima, davanti alla cappellina delle apparizioni del Santuario di Fatima. E recitando la supplica rivolta alla Vergine usa l’espressione contenuta nel testo del Terzo Segreto di Fatima per definire sé stesso: «vescovo vestito di bianco». Come si ricorderà, nel mettere nero su bianco venticinque anni dopo la visione ricevuta il 13 luglio 1917, suor Lucia aveva parlato di un «vescovo vestito di bianco» che subisce il martirio insieme a tanti altri cristiani, affermando di aver avuto il presentimento che si trattasse «del Santo Padre» 

Nella preghiera, intercalata dal canto di invocazioni mariane, Francesco si è presentato come «pellegrino della pace» e ha aggiunto: «Imploro per il mondo la concordia fra tutti i popoli». Il Papa ha chiesto alla Madonna di guardare «i dolori della famiglia umana che geme e piange in questa valle di lacrime». «Fa’ che seguiamo – ha continuato Bergoglio – l’esempio dei beati Francesco e Giacinta, e di quanti si consacrano all’annuncio del Vangelo. Percorreremo così ogni rotta, andremo pellegrini lungo tutte le vie, abbatteremo tutti i muri e supereremo ogni frontiera, uscendo verso tutte le periferie, manifestando la giustizia e la pace di Dio».

«Saremo, nella gioia del Vangelo – ha concluso – la Chiesa vestita di bianco, del candore lavato nel sangue dell’Agnello versato anche oggi nelle guerre che distruggono il mondo in cui viviamo». L’invocazione della pace e la memoria del sangue versato dalle vittime delle guerre è dunque presente fin dal primo atto pubblico nel santuario, dove si sono radunati decine di migliaia di pellegrini.

Francesco è arrivato al santuario in elicottero dalla base aerea militare di Monte Real, accolto da decine di migliaia di fedeli, che hanno atteso il passaggio della papamobile per salutarlo e in qualche caso per lanciare petali di fiori. Nonostante le previsioni metereologiche non fossero delle migliori, quando il Papa è giunto al santuario il cielo era sereno. Ha deposto ai piedi della statua un mazzo di fiori bianchi e si è fermato a lungo a pregare rimanendo in piedi di fronte all’effigie mariana, seguito con commozione da tutti i fedeli.

La corona di quella statua, oggi conservata nel museo del santuario, porta incastonata nella corona la pallottola estratta dal corpo di Giovanni Paolo II dopo l’attentato del 13 maggio 1981. Un profondo silenzio è calato sulla spianata dove si trovava la Cova da Iria, la conca naturale utilizzata dai tre pastorelli veggenti per portare il gregge al pascolo. Prima di lasciare la cappellina, Francesco ha donato alla Madonna delle rose d’oro, dono tradizionale dei Pontefici per grandi santuari mariani.

nonostante tutto i costruttori di muri sono da aiutare

“aiutiamo i costruttori di muri e barricate”

Tonio Dell’Olio

 

Tonio Dell'Olio

Mi commuove quella notiziola secondaria relegata in un trafiletto scarno di un solo organo d’informazione che racconta della colletta dei cristiani di Erbil in Iraq per i terremotati italiani. Sono riusciti a raccogliere ventimila dollari e li hanno consegnati al Nunzio Apostolico perché li invii alla Caritas Italiana.
Perché alla fine resta vero che il dovere della solidarietà viene compreso soprattutto da chi ha sperimentato la precarietà sulla propria pelle.

gorino-barricate

Chi invece erge muri e barricate, di fatto si costruisce una prigione, si chiude dentro un presunto paradiso artificiale separandosi dal mondo. Si condanna a una solitudine collettiva o a un egoismo sterile.
È urgente fare qualcosa per loro, tendergli la mano per salvarli da una morte certa, da asfissia dell’anima. Giudicarli è operazione superficiale quanto sterile. Più faticoso (ma forse più responsabile e fecondo) sarebbe accoglierli, ascoltare attentamente le loro ragioni, conoscere le loro storie e le loro fatiche.

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Esattamente come chiederei di fare a tutti i costruttori di muri verso gli stranieri che respingono. Resto ancora convinto che se solo i barricatori di Goro e di Gorino avessero permesso almeno a una delle donne che hanno respinto di raccontare le condizioni da cui sono state costrette a scappare, cosa hanno dovuto affrontare per giungere da noi, quali progetti, affetti, tradizioni si sono lasciati alle spalle, non esiterebbero a rimuovere i pancali e a far loro spazio nella propria casa.

sono più i vecchi a volere i muri …

cresce voglia di confini, ma non tra i giovani

 

 

diventiamo sempre più vecchi, sempre più soli e impauriti. E vorremmo chiuderci in casa. Alzare muri e confini dovunque. Ma una terra attraversata da frontiere e muri non coincide con il sogno di Spinelli, Schuman e Monnet. Evoca, semmai, un incubo

di: Ilvo Diamanti

Papa Francesco, come sempre, è stato molto chiaro. Questa volta, semmai, anche più di altre. Perché si rivolgeva a una platea di re, ambasciatori, leader politici ed economici. Fra gli altri: Schulz, Tusk, Juncker, Merkel, Renzi, il re di Spagna Felipe VI. E Draghi. Tutti presenti, alcuni giorni fa, alla consegna del Premio internazionale Carlo Magno al Santo Padre. “Per l’impegno a favore della pace, della comprensione e della misericordia in una società europea di valori”. Nell’occasione, però, il Papa ha rammentato quanto l’Europa, oggi, sia in difficoltà nell’affermare i valori a cui si ispiravano i padri fondatori. Tanto più, nell’affrontare il futuro. Perché l’Europa, oggi è una “nonna, vecchia e sterile”. Senza più ricordi.

Ieri, non per caso, Francesco ha ricevuto in udienza gli uomini e le donne del Cuamm. L’associazione dei Medici con l’Africa, che ha sede a Padova. Animata per oltre cinquant’anni da don Luigi Mazzucato. Un viandante generoso, che ci ha lasciati circa sei mesi fa. Il Cuamm è divenuto un crocevia della solidarietà fra l’Italia e l’Africa. Dove ha inviato oltre 1000 medici volontari, negli ospedali dell’area subsahariana. Fra le più colpite da malattia, miseria, povertà. Le origini principali delle grandi ondate migratorie che, da tempo, si dirigono in Europa. Attraversano il Mediterraneo, spinte dalla disperazione. Sfruttate da mercanti di dolore. Migliaia e migliaia di “persone” – perché di tali si tratta, anche se si tende a dimenticarlo – che, dopo lo sbarco, se ci riescono, proseguono nel loro esodo difficile e talora penoso. Partono dall’Italia, dalla Grecia. Dalla Turchia, dai Balcani. Dalla Spagna (di cui si parla meno). E si dirigono a Nord. Verso i Paesi dove lo sviluppo e il sistema del welfare offrono maggiori prospettive. E dove li hanno preceduti altre persone, della loro rete familiare, del loro Paese.

Insieme ai migranti, sono cresciute le inquietudini. E i muri. Comunque: i controlli. Lungo i percorsi dell’esodo. Da Sud verso Nord. E fra un Paese e l’altro. L’Austria sta accentuando la sorveglianza in diverse direzioni. Non solo sul Brennero, in questi giorni al centro di polemiche e di scontri. Ma anche ai confini con l’Ungheria, la Slovenia – e, implicitamente, la Croazia e la Serbia. Un esempio seguito, in parte anticipato, dall’Ungheria. Ma le “frontiere” stanno diventando “barriere” anche altrove. In Macedonia, in Bulgaria. Inoltre, al confine tra Paesi che hanno tradizioni civili e democratiche solide. Nel Centro-Nord dell’Europa. Fra Gran Bretagna e Francia, a Calais. E, nei momenti di grande flusso, anche tra Francia e Italia. Mentre la Danimarca e i Paesi scandinavi difendono il loro welfare. Dagli “altri” che vorrebbero accedervi. Il risultato di questo gioco di movimenti e chiusure è il ri-sorgere delle frontiere. Meglio: delle “barriere”.

LE TABELLE

Perché le frontiere servono. Definiscono confini in base a cui confrontarsi e dialogare. Ma quando diventano blocchi, luoghi di controllo e sorveglianza, allora, diventano ostacoli all’integrazione. Non solo degli “altri”. Anzitutto, “fra noi”. Perché frenano l’integrazione e la costruzione europea. D’altronde, i muri e le frontiere, oggi, hanno un significato eminentemente simbolico. Vengono utilizzati a fini perlopiù politici. Servono, cioè, ad assecondare le paure e ad alimentare i populismi. Popoli alla ricerca di nemici. Figurarsi se – come ha osservato Lucio Caracciolo – la frontiera del Brennero potrebbe scoraggiare il passaggio dei migranti che intendono attraversare l’Austria (per andare altrove, peraltro).

Tuttavia, in Europa, cresce dovunque la domanda di sorvegliare i confini. Basta vedere i dati del sondaggio di Pragma (febbraio 2016) per l’Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, curato da Demos per la Fondazione Unipolis. Nei Paesi europei dov’è stata condotta l’indagine, coloro che “insistono” a rivendicare frontiere aperte, in Europa, costituiscono una minoranza limitata. Talora, molto limitata. Mentre la maggioranza dei cittadini vorrebbe reintrodurre i controlli. Sempre. Non in circostanze particolari. In Italia lo sostiene oltre metà delle persone (intervistate). La domanda di chiusura, peraltro, risulta più elevata fra le persone anziane. Dovunque. Parallelamente, la fiducia nell’Ue è più alta presso i più giovani.

In Italia, il sentimento verso gli “altri”, gli immigrati che giungono da lontano, si traduce in paura. Fra tutti, ad esclusione dei più giovani (indagine Demos, aprile 2016). E produce distacco, sfiducia nelle istituzioni, richiesta di nuove e maggiori divisioni. Forse perché siamo il Paese più vecchio d’Europa. Insieme alla Germania. Che, tuttavia, per questo, mostra un atteggiamento verso gli immigrati ben diverso. Ispirato, cioè, all’apertura “selettiva”. A favore di componenti demografiche (giovani) e “professionali” particolarmente utili al mercato del lavoro. In Italia, invece, di recente si assiste a un declino demografico inquietante. Nel 2015, ad esempio, la popolazione è calata di circa 100 mila persone. Come non avveniva dal 1917-18. Cioè, dalla Grande Guerra. Perché in Italia fanno meno figli perfino gli immigrati (come spiega l’Istat). Mentre i giovani sono una “razza” in declino. E quando possono se ne vanno. A studiare, lavorare e, infine, a vivere: altrove. Nel 2013, infatti, dal nostro Paese sono partiti quasi 95mila italiani (più degli stranieri arrivati nello stesso periodo). Soprattutto giovani in possesso di titolo di studio elevato.

Così, diventiamo sempre più vecchi, sempre più soli. Sempre più impauriti. E vorremmo chiuderci in casa. Alzare muri e confini dovunque. Intorno a noi. Metafora dell’Europa delineata da Papa Francesco. Ma ridursi a una terra attraversata da frontiere e da muri non coincide con il sogno di Altiero Spinelli, Robert Schuman e Jean Monnet. Evoca, semmai, un incubo. Noi italiani, noi europei: chiusi in casa, in attesa dell’invasione, fra anziani in mezzo ad altri anziani, monitorati da sistemi di allarme sofisticati, sorvegliati da cani mostruosi, osservati da telecamere a ogni passo e a ogni movimento. Ma come possiamo illuderci di essere felici?

fonte: repubblica.it

ILVO DIAMANTI 

ciò che accade è il colmo dell’assurdo

la disumanità dei muri d’Europa

di Furio Colombo
in “il Fatto Quotidiano” del 28 febbraio 2016

Colombo

Secondo la vulgata comune, sono due i gruppi umani che attraversano il mondo per migliaia di chilometri, affrontando le prove dell’aggressione armata, del banditismo, del mare senza mezzi per traversarlo, delle barriere di filo spinato, di muri costruiti apposta per fermarli, di treni fermi, di marce a piedi che durano settimane, di frontiere chiuse, mentre mancano del tutto luoghi di sosta, di minima assistenza, di soccorso ai bambini. Il primo gruppo è composto di persone (quasi sempre uomini soli) in cerca di un lavoro e di una vita migliore. Il secondo gruppo, un corteo senza fine di intere famiglie con molti bambini, sta cercando di fuggire dalle guerre che diventano di giorno e di notte sempre più violente senza che alcuno stato di guerra sia stato dichiarato o alcuna ragione sia stata detta dall’aggressore all’aggredito e – meno che mai – all’opinione pubblica.

muro La stessa vulgata comune vuole che il primo gruppo debba essere subito cacciato (molti amano dire “a calci in culo” come se l’immigrazione per povertà non fosse il più antico mestiere del mondo, spiazzando la fama della prostituzione). Il secondo (chi fugge da una guerra) va invece accolto e assistito secondo le buone regole della civiltà. La sequenza di eventi ha voluto che il primo gruppo sia drasticamente diminuito, perché sono aumentate le guerre o sono caduti in stato di guerra e violenza incontrollata luoghi che prima erano solo poveri (la frase è assurda, ma è l’unico modo di spiegare perché sono comparsi sempre di più donne e bambini nei gruppi classificati “poveri” e non “rifugiati”).

muro1 E il secondo gruppo sia cresciuto e stia crescendo a dismisura perché, oltre a moltiplicarsi, le guerre stanno diventando più selvagge, più vaste, più spietate e rendono la fuga non una opzione, ma una necessità inevitabile e urgente. Di fronte a questo fenomeno, la miseria morale del mondo agiato, unito a una incredibile assenza di capacità di governo, crea una situazione che nessun narratore di fantascienza o di fantapolitica avrebbe inventato, e nessun editore o produttore avrebbe accettato per eccesso di crudeltà ma anche di cecità umana e di mancanza di realismo. Chiudere l’Europa. È ciò che sta accadendo e che viene prima annunciato come se fosse una minaccia possibile, poi prefigurato e infine deciso, almeno da alcuni governi, e accettato da tutti nell’ultima riunione austriaca di ribelli al soccorso.

muro3 Ciò che accade è il colmo dell’assurdo. Primo, c’è la guerra in Siria e c’è la guerra in Libia, e in ciascuna di queste guerre sono coinvolte, in gradazioni e intensità diverse, ma altrettanto pericolose, le due grandi potenze, Russia e Stati Uniti, alcuni importanti membri dell’Unione europea, la Nato e altri Paesi chiave (Arabia Saudita, Turchia, Iran) il cui peso è grande, e lo sbilanciamento che portano drammatico. Non è nuova l’idea di immaginare la propria azione di guerra come un’iniziativa che porta danno ma non lo subisce. Non è mai vero, ma può essere l’intento azzardato e sbagliato di alcuni dei protagonisti elencati. Certo non Stati Uniti e Russia, che rischiano il confronto diretto. Certo non l’Europa che a tutti e due i conflitti (Siria e Libia) è contigua, coinvolta e interessata. Eppure l’Europa, che non solo a causa della guerra degli altri, ma anche della propria partecipazione a quella guerra, sta creando una marea di popoli in fuga, crede di potersi permettere il lusso di chiudere le frontiere, come se si trattasse di un disaccordo temporaneo fra repubbliche. Anche in quel caso sarebbe disumano, ma tecnicamente possibile. Nel caso che stiamo vivendo siamo noi ad avere riempito la Turchia, la Grecia, i Balcani di popoli sradicati e in fuga. E siamo noi a dire che non va bene, che bisogna prima contarli, che ci vuole una ordinata identificazione, che le impronte digitali vanno prese, se necessario, anche con la forza. E che per il momento “poiché non c’è più posto”. A uno a uno, piccoli protagonisti della Storia che si dicono parte dell’Unione europea, chiudono le frontiere, uno a uno o a gruppi in modo che nessuno passi. muro2
In questo modo ognuno crea una tragedia all’altro e tutti le creano ai popoli in fuga dalle guerre che i Paesi che si sentono collocati in un grado superiore della storia, non hanno impedito, hanno fermato e infine hanno cominciato a prendervi parte con notevole forza distruttiva e l’uso di continui spaventosi bombardamenti a cui tutti cercano di prendere parte e che cacciano dalle loro case persone (i sopravvissuti) che nessuno dei portatori di guerra vuole neppure in un campo profughi. Non era mai accaduto prima un simile disastro umano affrontato con tanta disumanità. E non si distingue tra i leader uno che abbia la forza e il coraggio di denunciare l’orrore di ciò che sta accadendo.

i ‘muri’ non ci difendono dai profughi …

basta muri sono castelli che scatenano nuovi assedi

di Roberto Saviano 

in “la Repubblica” del 15 febbraio 2016

Saviano

“davvero in Europa c’è ancora qualcuno che pensa di fermare le stragi dei migranti e l’orrore della jihad alzando l’ennesimo muro? Davvero c’è chi pensa di fermare gli esseri umani decretando la morte di Schengen? No, pretendere di proteggersi innalzando di nuovo i confini è un errore. Un madornale errore”

Dobbiamo fermare i soldi della criminalità non gli esseri umani Mentre i ministri delle Finanze dell’Unione si riunivano venerdì scorso a Bruxelles nelle stanze del Justus Lipsius, decretando con una firma la messa in mora sui profughi della povera Grecia, e dando praticamente il via al restringimento dell’Europa di Schengen, dall’altra parte del mondo — nell’ufficio lussuossimo di un grattacielo di Dubai, in un ranch blindatissimo del Nord Est messicano — il contabile di turno avrà stancamente cliccato sul tasto “send” di un personal computer, di un laptop, forse anche di un semplice smartphone: e per l’ennesima volta la marea di denaro più o meno sporco avrà investito, senza incontrare resistenza, le coste del continente. Ma sì, diciamolo subito. Davvero in Europa c’è ancora qualcuno che pensa di fermare le stragi dei migranti e l’orrore della jihad alzando l’ennesimo muro? Davvero c’è chi pensa di fermare gli esseri umani decretando la morte di Schengen? No, pretendere di proteggersi innalzando di nuovo i confini è un errore. Un madornale errore. Innanzitutto perché è dimostrato che le strutture militari, terroristiche non hanno bisogno di utilizzare canali clandestini. Riescono a strutturarsi e a essere operative in ogni Paese indipendentemente dai flussi migratori attuali. È ormai accertato che ad agire in queste strutture — l’abbiamo purtroppo visto nel caso del Bataclan e di Charlie Hebdo — sono uomini e donne di seconda generazione. E se in alcuni casi, è vero, ci siamo trovati di fronte a persone che avevano chiesto l’asilo politico e si sono poi trasformate in miliziani, si è trattato di una “ evoluzione” indipendente dalla struttura madre. È questa la premessa fondamentale per capire che fermare Schengen significherebbe soltanto distruggere l’integrazione europea. E non semplicemente nella declinazione dei diritti ma nella stessa formazione della struttura sociale. Fermare Schengen vorrebbe dire uccidere il grande progetto iniziale; cioè la costruzione degli “ stati uniti d’Europa”. Fermare Schengen sarebbe la vittoria di una visione che credevamo ormai superata: quella secondo la quale ci si possa difendere costruendo castelli e barriere. Noi italiani lo sappiamo bene. Non lo diceva già il Principe di Machiavelli? Costruire nuovi castelli genera solo nuovi assedi. Non basta. Il paradosso è ancora più grave. Perché questa è la politica che pretende di fermare i corpi ma non i flussi illegali e finanziari ormai senza più alcun controllo. Che cosa ha reso possibile la creazione di un vero e proprio potere terroristico in Belgio? I finanziamenti che da Dubai, dall’Arabia Saudita, dal Medio Oriente più in generale sono arrivati attraverso i vari canali finanziari più scoperti. La Francia ha il Lussemburgo. La Germania ha il Liechtenstein. La Spagna ha Andorra. L’Italia ha San Marino. Tutto il mondo ha la Svizzera. Stiamo parlando di isole finanziarie che non solo attraggono — nella migliori delle ipotesi — evasori fiscali. Stiamo parlando di centri che attraggono nel cuore d’Europa strategie criminali e finanziarie: basti pensare alla vicenda recente del Chapo, il re dei trafficanti di droga che faceva riciclare in Svizzera montagne di narcodollari che poi finivano in una banca di Vaduz, nel Liechtenstein. E allora smettiamola di credere a chi vuole convincerci che l’Europa paga il prezzo che paga — le immigrazioni senza controllo, il terrore senza limiti — perché è troppo esposta. Non è vero: l’Europa paga un prezzo altissimo per la sua incapacità di gestire i flussi finanziari e il riciclaggio. La riflessione da fare è tutta qua: il problema sono i capitali, non gli esseri umani. Sono i capitali che circolano senza controllo a compromettere la sicurezza dell’economia pulita e la tenuta sociale. È il risiko della finanza a rendere sempre meno sicura l’Europa. Riusciranno mai a capirlo lì nelle stanze del Justus Lipsius?

si aprono le porte, devono cadere i muri

la caduta di un muro

a proposito dell’apertura della ‘porta santa’ all’inizio del giubileo

di Enzo Bianchi
in “la Repubblica”

Bianchi

il gesto di apertura della porta chiusa è stato compiuto da papa Francesco innanzitutto in Africa, tra i poveri della terra, e ieri anche a Roma, nella basilica di San Pietro. In Vaticano, dove egli esercita il suo ministero di servo della comunione nella chiesa e tra le chiese e di annunciatore della buona notizia a tutta l’umanità. In un’epoca in cui si sono ricostruiti muri e si sono di nuovo innalzate barriere di filo spinato, in cui molti vorrebbero chiudere le frontiere, e alcuni le chiudono, infondendo nella gente ansia e paura, papa Francesco fa il gesto così semplice, quotidiano, umano di aprire una porta chiusa

Purtroppo temo che molti di quelli che passeranno per le porte sante aperte nelle chiese non arriveranno neppure a pensare che potrebbero aprire o tenere aperta la porta della propria casa: aperta per chi giunge inaspettato, straniero o povero, conosciuto o sconosciuto, aperta per un atto di fede-fiducia fatto nei confronti degli altri umani, tutti legati dalla fraternità, valore per il quale pochi oggi combattono, ma senza il quale anche la libertà e l’uguaglianza diventano fragili e non sono concretamente instaurabili. Papa Francesco ha compiuto lo stesso atto in un microcosmo come quello di Bangui, dove sono in atto violenza, intolleranza, scontro di religioni, e a Roma, dove per ora è lontana la violenza dello scontro culturale; potrebbe però essere più vicina di quanto pensiamo, e non perché i terroristi vengono da noi, ma perché alcune forze nostrane continuano ad alimentare diffidenza, odio, non accoglienza, atteggiamenti che possono solo trasformarsi in risentimento, humus su cui crescono risposte all’insegna della violenza. Aprire e tenere aperta una porta è invece una decisione umanizzante, un’azione antropologica che non dovrebbe essere così estranea a cristiani e a non cristiani. Ma per giungere a tale comportamento occorre con urgenza che la convinzione e la prassi di misericordia, compassione e perdono siano inoculate come diastasi nelle nostre società, dando vita a un’ospitalità culturale reciproca che ci permetta di far cadere pregiudizi e di conoscerci meglio. Nell’omelia di apertura del giubileo papa Francesco ha chiesto che questo sia «un anno in cui crescere nella convinzione della misericordia». Sì, il primo passo è essere convinti della misericordia, così come la Scrittura ce la propone quale nome di Dio, e diventarne realizzatori nelle nostre società, a livello personale, ma anche comunitario, economico e politico. Per i credenti tutto nasce dall’immagine di Dio che hanno, perché questa plasma la loro fede e il comportamento. Secoli di storia cristiana testimoniano che la misericordia di Dio non è compresa, scandalizza i credenti stessi, sembra un eccesso che va temperato con le nozioni di verità e giustizia. Il papa lo sa bene e lo denuncia con forza: «Quanto torto viene fatto a Dio e alla sua grazia quando si afferma anzitutto » — e solo i cristiani possono pronunciarlo — «che i peccati sono puniti dal suo giudizio, senza invece affermare prima che sono perdonati dalla sua misericordia… Dobbiamo anteporre la misericordia al giudizio, e in ogni caso il giudizio di Dio sarà sempre nella luce della sua misericordia», perché «la misericordia ha sempre la meglio sul giudizio» (Giacomo 2,13). Poche parole, eppure parole di grande rottura con una certa vulgata cattolica, attestata soprattutto negli ultimi secoli, secondo la quale è doverosa l’intransigenza, è necessario l’esercizio del ministero di condanna: secoli in cui l’immagine prevalente di Dio era quella del Dio irato e giudice, del “Dio ti vede”, quale occhio in un triangolo ovunque presente, del Dio che castiga, che va placato con sofferenze e fatiche a lui offerte affinché arresti il braccio della sua giustizia divina. Papa Giovanni diede inizio a una nuova stagione della chiesa non innovando la dottrina, ma proclamando: «Oggi la sposa di Cristo, la chiesa, preferisce ricorrere alla medicina della misericordia piuttosto che brandire le armi della severità» (11 ottobre 1962, Allocuzione di apertura del concilio Vaticano II). E Papa Francesco manifesta l’urgenza della misericordia come la sua più intima convinzione: «Questo nostro tempo è proprio il tempo della misericordia. Di questo sono sicuro… Noi stiamo vivendo in tempo di misericordia » (6 marzo 2014, Discorso ai parroci di Roma).
Lo stesso Francesco ha esplicitato a più riprese che la misericordia, la compassione, la tenerezza e il perdono di Dio non sono da intendersi come un correttivo della giustizia divina, non sono in tensione con il suo giudizio, ma semplicemente sono la giustizia di Dio messa in atto verso l’essere umano. In Dio c’è un prevalere della misericordia sulla giustizia, se così possiamo dire. Addirittura, secondo il profeta Osea, la misericordia è la manifestazione della santità di Dio, il quale è Santo, cioè è differente, altro dall’uomo proprio nel giudicare e nel sentire la giustizia. Osea arriva a dire che nel cuore di Dio c’è una sorta di “rivolta” del sentimento di misericordia contro la volontà di giustizia: questo sentimento impedisce a Dio di castigare secondo l’alleanza, di andare in collera contro chi ha peccato (cf. Osea 11,8-9). Gesù sottolinea questo prevalere in Dio della misericordia sulla giustizia citando per ben due volte un’altra parola dello stesso profeta: “Andate a imparare che cosa vuol dire: voglio misericordia e non sacrifici (Osea 6,6)” (Matteo 9,13 e 12,7). Con i suoi incontri e con le sue parole, in particolare con le parabole, Gesù attesta che la giustizia di Dio è oltre la giustizia umana, trascende la giustizia della legge, perché non è “giustizia bendata” (Adriano Prosperi) ma vede, discerne, guarda in volto ogni umano; per questo non è retributiva, né punitiva, né meritocratica, secondo i concetti della “nostra” giustizia umana che proiettiamo in Dio. La giustizia di Dio proclamata nella Bibbia attesta che Dio non è indifferente al male compiuto dagli umani, perciò, anche quando va in collera, tale comportamento è l’altra faccia della compassione. Di fronte a questa verità molti cristiani continuano a chiedersi: «Ma allora che ne è della giustizia, della responsabilità umana?». Ha risposto bene il cardinale Pietro Parolin: «La misericordia esercitata non è buonismo, non è timidezza di fronte al male, ma è esercizio di responsabilità». Il segretario di Stato, con la sua profonda consonanza con papa Francesco, arriva a parlare di «misericordia necessaria, prima ancora dei trattati, per poter spianare i terreni di pace e le tante vie degli esodi forzati che stanno mutando il mondo», perché anche a livello economico, politico e giuridico la misericordia e il perdono devono trovare realizzazioni che aprano a una convivenza buona tra i popoli e le genti. È la stessa convinzione alla quale era giunto papa Giovanni Paolo II che, nel messaggio per giornata mondiale della pace del 1° gennaio 2002, arrivò a chiedere che il perdono, negando la giustizia punitiva, trovasse realizzazione in «una politica del perdono espressa in atteggiamenti sociali e in istituti giuridici» e non fosse relegato nella coscienza del privato cittadino. Davvero, come recita il titolo di quel messaggio profetico, «non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono »: giustizia e perdono sono immanenti l’una all’altra. E all’Angelus di ieri papa Francesco con una delle sue frasi, aforismi che colpiscono, ha detto: «Non si può capire un cristiano che non sia misericordioso, come non si può capire Dio senza misericordia». Di fronte a questo cammino percorso dalla chiesa cattolica e all’insegnamento di papa Francesco non si possono più elevare accuse di spiritualismo o di evasione dalla storia. Questo è il cammino storico fatto dal Vaticano II a oggi. Con il concilio «si sono spalancate al mondo le porte chiuse… per un autentico incontro tra la chiesa e gli uomini del nostro tempo», ha detto papa Francesco. E ha anche chiesto che il giubileo in corso «non trascuri lo spirito emerso dal Vaticano II», lo spirito di una chiesa che si piega verso l’uomo sofferente, sull’esempio del samaritano il quale, secondo il vangelo, “ha fatto misericordia”. Questo è semplicissimo, è umanissimo. Priore della comunità monastica di Bose

l’Europa dei muri e dei fili spinati

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Si continua a costruire muri. In Europa e nel mondo. Muri di cemento e di reti metalliche, di filo spinato e di leggi di carta. Ma muri anche dentro le nostre coscienze e nelle nostre intelligenze. Muri nelle relazioni umane e interpersonali, muri tra le generazioni e tra le fedi.

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C’è un’idolatria del muro che è l’esatto opposto del Dio biblico che vede la miseria del suo popolo schiavo in Egitto e ascolta il suo grido (cfr. Esodo 3, 7). Gli idoli invece “sono argento e oro, opera delle mani dell’uomo. Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. Hanno mani e non palpano, hanno piedi e non camminano; dalla gola non emettono suoni. Sia come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida” (Salmo 115).

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