La spiritualità narcisistica è nemica della spiritualità e della liturgia cristiana

 

il “narcisismo spirituale”

di Goffredo Boselli
in “Vita Pastorale” del febbraio 2022

Una delle maggiori difficoltà di cui oggi la liturgia soffre è la spiritualità attualmente prevalente nel cattolicesimo europeo. Le tendenze oggi dominanti all’interno della spiritualità non sono radicate nell’oggettività delle Scritture, del messaggio cristiano e del rito liturgico, ma perlopiù nella soggettività dell’esperienza individuale. La vita spirituale proposta si nutre sempre meno dell’ascolto comunitario e personale dei racconti biblici, ma dell’ascolto delle narrazioni individuali, di ciò che si sente e si esperimenta interiormente. Secondo molti osservatori, ciò ha creato un “narcisismo spirituale”, effetto e riflesso di quello che Joel Paris ha definito “narcisismo culturale”. Concetto che ha forgiato per descrivere come la società moderna incoraggi le persone a concentrarsi su sé stesse favorendo l’indebolirsi dei legami con la comunità.
I libri di spiritualità che in Italia, a partire dagli anni ’90, hanno formato una buona parte della generazione di credenti sono stati quelli di Carlo M. Martini, Enzo Bianchi, Gianfranco Ravasi, André Louf, per citare solo i più noti. Testi che hanno a fondamento la parola di Dio, l’episodio evangelico, la persona di Gesù Cristo, la vita ecclesiale, e conducevano alla testimonianza, alla cura del prossimo, al dialogo con il mondo,
all’impegno politico.
Questi testi hanno oggi lasciato spazio a pubblicazioni che diffondono una spiritualità psico-antropologica,
i cui temi maggiori sono la cura di sé, il senso del limite, la guarigione interiore, lo stare bene con sé stessi… Temi antropologici e psicologici che si reggono attingendo alle scienze umane e, talvolta, perfino a romanzi e racconti fantasy. Non hanno neppure lo spessore delle grandi virtù morali come l’integrità, il coraggio, la tenacia di cui Mounier e Guardini sono maestri, ma propongono stati emotivi come la fragilità, il garbo, l’umorismo. Il riferimento a Gesù Cristo o al brano biblico serve solo a confermare l’assunto centrale che, in realtà, è autonomo dalla parola evangelica.
Se nella devotio moderna si viveva del culto del santo o della pratica devota, nella devotio post-moderna l’io è il vero tempio, il proprio benessere psico-spirituale il solo culto, la soddisfazione dei propri desideri la sola preghiera, la contemplazione di sé l’unica liturgia. Denunciando la scomparsa dei riti nella società attuale, il filosofo Byung-Chul Han spiega quanto oggi ce ne sia più che mai bisogno, dal momento che «i riti si sottraggono all’interiorità narcisistica […] i riti producono una distanza da sé, una trascendenza da sé. Essi depsicologizzano, deinteriorizzano chi li inscena».
La spiritualità narcisistica è nemica della liturgia cristiana che è, invece, culto non di sé ma dell’Altro celebrato insieme ad altri. Facendo prendere distanza da sé riconosce il proprio peccato ed educa alla richiesta di perdono; distogliendo l’attenzione da sé chiede l’ascolto della parola di Dio; decentrando da sé stessi invita a intercedere per gli altri; celebrando la memoria del Corpo donato fa conoscere nel segno della condivisione del pane il comando a non vivere più per sé stessi. Una spiritualità che esclude la simbologia dei riti è destinata a creare credenti in sé stessi e non nel Vangelo di Gesù Cristo.
(goffredo.boselli@monasterodibose.it)

una società narcisista dalla pericolosa ‘cultura del selfie’

tra Narciso e selfie

la società vista da Michele Serra

di Simone Vazzana

Digitambuli, ego e sindrome dello sguardo basso. Michele Serra, firma di La Repubblica e L’Espresso, ha incontrato gli alunni del liceo classico “Gioberti”, dialogando con loro sui temi trattati nel suo ultimo romanzo, Qualcuno potrebbe (edito da Feltrinelli).

“La società contemporanea – ha sottolineato l’autore – è l’evoluzione del mito di Narciso. La cultura del selfie è pericolosa, perché rimanda alla catena di montaggio. Tutto è ripetitivo e, fondamentalmente, il continuo aggiornare il prossimo sui nostri spostamenti e le nostre attività non è poi così interessante”.

Una condanna ai social network di fronte a decine di adolescenti? Non proprio.

“È impossibile integrarsi senza un pc o uno smartphone – ammette Serra –. Io stesso non saprei come lavorare e come informarmi. Però, devono restare dei mezzi al nostro servizio. Tutto quello che diventa compulsivo è dipendenza: non se ne deve fare un uso autistico. È necessario essere indipendenti, è necessario tenere il timone”.

Ma “Qualcuno potrebbe” non parla solamente dell’abuso della tecnologia. Racconta la vita di Giulio, un trentenne che per lavoro archivia meccanicamente le esultanze dei calciatori. Non ha sbocchi professionali, non ha un’identità. Il suo è un viaggio senza partenza e senza arrivo, che tocca molte delle stazioni di una società in piena crisi. Una società sprofondata in una voragine provocata dall’assenza di tutto, soprattutto dalla morte del lavoro. Giulio, che Serra non descrive mai fisicamente all’interno del romanzo, è un eroe dell’insofferenza che si sente fuori posto e fuori tempo, come tanti suoi coetanei. Vive in un non-luogo, nell’hinterland di una provincia del Nord, nell’attesa che accada qualcosa.

Ai ragazzi del “Gioberti”, Serra ha raccontato anche il suo modo di intendere la scrittura: “Chi scrive ha grandi difficoltà a rimandare al testo. Se Melville fosse vivo, oggi verrebbe invitato a un talk show e gli si chiederebbe il motivo del suo odio per le balene. Sì, la scrittura  ha sicuramente una dimensione intellettuale ed emotiva, ma anche inconscia. Per esempio, il titolo del libro l’ho sognato prima della stesura”. Così come il cinghiale antropomorfizzato, presente nella copertina disegnata da Gipi: “L’ho interpretato come un segno. Nel libro, non ho volutamente mai descritto Giulio. Non ha un volto. Se ci sarà un sequel, vedrò se dargliene uno”.

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