“riabilitate HANS KÜNG!”

APPELLO AL PAPA A FAVORE DEL TEOLOGO SVIZZERO

Trasmissione Raitre Che tempo che fa

I mea culpa della Chiesa avvengono in genere “a babbo morto”, svariati decenni e, più spesso, secoli dopo il “delitto” commesso. Sicché Giovanni Paolo II ha chiesto perdono fra l’altro per lo schiavismo, le stragi degli indios, la condanna di Galileo, i crimini dei cattolici croati nei Balcani. Più coraggiosamente, papa Francesco corregge storture più recenti, pur se è ancora molto ricordato e venerato il pontefice sotto il quale sono avvenute. Per esempio, se Wojtyla aveva sospeso a divinis p. Miguel D’Escoto per la sua partecipazione al governo sandinista, Bergoglio il 1° agosto scorso ha cancellato la sospensione, certo motivandola con il pentimento sincero del sacerdote: «Ha capito di aver sbagliato e il pontefice ha compreso la sincerità del ravvedimento». Chi non accetterà mai di ammettere di avere sbagliato, sempre che questo abbia fatto D’Escoto, è il teologo svizzero e sacerdote Hans Küng, che proprio Giovanni Paolo II privò nel 1979 della missio canonica relativa all’insegnamento della teologia cattolica. E allora per la sua “riabilitazione” si stanno muovendo semplici fedeli, su iniziativa della Parrocchia Universitaria di Montevideo (in Uruguay), con una lettera a Francesco che ha subito raccolto un centinaio di firme in vari Paesi dell’America Latina e in Spagna e Portogallo (ma la sottoscrizione è in continuo aggiornamento). «Si avvicina la fine dei suoi giorni», scrivono di Küng, 86enne e malato di Parkinson. «È ora di restituirgli quello che non chiede, ma che senza dubbio merita. La Chiesa sarà la prima a beneficiarne, con un atto di riconoscimento giusto e pieno d’amore». Sanno i firmatari di trovare in Francesco orecchie ben disposte: egli stesso ha inviato al teologo due lettere e in una di esse il papa ha scritto «resto a disposizione». E allora, scrivono, «ti chiediamo un passo in più: che Küng possa tornare nella sua condizione di “teologo cattolico”». «Sappiamo che non è facile», aggiungono, «ma abbiamo sovrabbondanti prove che sei specializzato in temi difficili».

Sollecita la riabilitazione di Küng anche Manuel Fraijó, teologo e filosofo spagnolo di formazione gesuita, che si pose a fianco di Küng, quando a questi venne ritirata la missio canonica, fino ad accettare di non insegnare più nelle facoltà cattoliche di Teologia e a rinunciare qualche tempo dopo al sacerdozio. Discepolo e amico di Küng (come anche di Karl Rahner, Wolfhart Pannenberg, Jürgen Moltmann, Johann Baptist Metz e José Luis López Aranguren), nell’articolo “La serena certezza del dovere compiuto” pubblicato il 24 dicembre scorso sul quotidiano spagnolo El País, ricorda gli oltre «60 libri, alcuni dei quali molto voluminosi, tradotti in molte lingue», attraverso i quali Küng «ha illuminato i grandi temi della vita umana: Dio, Gesù, la Chiesa, le religioni del mondo, il senso della vita, l’etica, l’aldilà, l’origine della realtà, la bramata pace, la politica e l’economia, la musica ed un ingombrante eccetera». L’anziano teologo svizzero guarda con «entusiasmo» a Francesco, aggiunge Fraijó, trovando nell’attuale papa «grandi somiglianze con l’ammirato Giovanni XXIII» e riconoscendo che sta mettendo mano a «riforme necessarie, lungamente attese e tenacemente difese da lui e da molti altri teologi». Accadrà allora, si chiede Fraijó, che «il papa prenderà il telefono e chiamerà Küng per dirgli che è riabilitato, che la Chiesa non può permettere che muoia come teologo non cattolico uno dei teologi della seconda metà del XX secolo e inizi del XXI che più ha contribuito alla diffusione e all’approfondimento del cattolicesimo nel mondo?».

José María Castillo spera

Di teologi puniti – Wojtyla regnante in coppia con il “suo” prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, card. Ratzinger, poi Benedetto XVI – perché la loro ricerca non si limitava al ruolo di microfono del Magistero ce n’è una teoria. La “riabilitazione” a breve (diciamo nel tempo di questo pontificato) di tutti loro sarebbe davvero un fatto storico ed insieme impensabile, ma per qualcuno di loro (oltre che per Küng, se si confida in quel “francescano” «sono a disposizione») è probabile: per esempio per il teologo spagnolo José María Castillo. Anche a questi il papa ha scritto una lettera. Lo ha rivelato, un po’ obtorto collo, lo stesso teologo in occasione dell’omaggio che gli è stato reso, in quanto maestro della Teologia Popolare, il 27 novembre scorso al Collegio Maggiore Chaminade, Università di Madrid. «Ho ricevuto nell’agosto scorso – ha detto – una lettera del papa, scritta di suo pugno» nella quale Francesco dice: «Ti ho perduto negli anni ‘80 e ora ti ritrovo»; il papa «mi ha detto che ne era rallegrato, ha aggiunto: “Ti chiedo di pregare per me come io prego per te” e ha terminato con un grande abbraccio». Il pontefice fa riferimento a quando (v. Adista nn. 39 e 50/88) Castillo fu destituito dall’insegnamento di Teologia dogmatica dell’Università di Granada (insieme a Juan Antonio Estrada, gesuita come Castillo, e in contemporanea con il claretiano Benjamin Forcano, cui venne sottratta la direzione della rivista Misión abierta) dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, dopo che una commissione di vescovi spagnoli nell’ottobre 1986 aveva pubblicato una nota critica nei confronti dei quaderni di “Teologia Popolare”, di cui il sacerdote era uno dei curatori. Tale teologia, nata sul finire degli anni ‘70 del secolo scorso, era il risultato della preoccupazione derivante dall’allontanamento, dal popolo e dalla gente, della teologia e della predicazione ecclesiastica, della catechesi, del Vangelo, ecc. La maggior parte dei teologi scrive una teologia che non è compresa dal popolo e che non gli interessa, sostiene infatti Castillo. (eletta cucuzza)

Fonte: Adista n. 2/2015

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“io comunista proprio no!”, così si difende papa Francesco

 

 

 

così Francesco rovescia chi lo accusa di essere comunista

nel libro intervista “Questa economica uccide” il Pontefice chiarisce le sua dottrina su globalizzazione e poveri

Papa Francisco cercado por crianças na favela de Manguinhos (25 de julho de 2013)

 

 

 

 

 

«L’attenzione ai poveri non è un’invenzione del comunismo, ma è nella tradizione della Chiesa, che talvolta si dimentica della sua missione originaria e necessita di correzione e conversione»
papa Francesco lo dice a chiare lettere in “Questa economia uccide”, il libro intervista di Andrea Tornielli e Giacomo Galeazzi, i due vaticanisti de La Stampa.

 

 

DAL “COMPAGNO” AL “LEONCAVALLINO”
In questo nuovo volume, Papa Francesco replica alla rete di accuse di “comunismo”, che vengono mosse da tempo nei suoi confronti. Dal «compagno Bergoglio» dell’ideologo di destra Maurizio Ruggiero, al “fuoco” di Antonio Socci (Libero, 9 novembre): «Dice sempre che ha conosciuto militanti comunisti in Argentina che erano brave persone. “Chi sono io per giudicare?”. Sfodera toni infuocati (e giudica) solo quando si scaglia contro il “liberismo selvaggio”. Il 28 ottobre ha ospitato in Vaticano vari movimenti noglobal, compreso il Leoncavallo e ha scagliato fulmini. Tanto che Fausto Bertinotti ha subito indicato in lui – venerdì sera, a Tg3 notte – il vero “rivoluzionario” del momento».

ASSONANZE CON L’IMPERO DI NEGRI
Socci, in quell’occasione, ha rilanciato le parole del vaticanista de L’Espresso Sandro Magister, secondo cui «ciò che più colpisce di questo discorso è la sua stupefacente somiglianza con le teorie sostenute dal filosofo Toni Negri e dal suo discepolo Michael Hardt in un libro del 2002 che ha fatto epoca: ‘Impero’». Per Negri, il mondo non è più governato da stati nazionali, ma da una struttura decentrata e deterritorializzata, che definisce Impero. Dunque ci troveremmo di fronte ad una papa “complottista” oltre che “comunista”.

PARTIGIANO E GRAMSCIANO
Il sociologo Umberto Di Maggio, coordinatore regionale di Libera contro le mafie in Sicilia, in senso più buonista ha parlato di «papa partigiano», in relazione al concetto di «globalizzazione dell’indifferenza», una «frase che assume una portata storica poiché definisce, come diceva Gramsci […] l’indifferenza come peso morto della Storia. Perché in fin dei conti l’abulia ed il parassitismo sono vigliaccheria e quindi rifiuto del senso autentico della vita. Parole partigiane quelle di Papa Francesco che, sconvolgendo ogni protocollo, ha scelto di essere ultimo tra gli ultimi». Affermazioni poi corrette dal giornalista e blogger Giuliano Guzzo che ha chiarito come Gramsci traducesse l’indifferenza in assenza di «impegno» e diceva di «odiare gli indifferenti», mentre Bergoglio si rivolge all’assenza di «amore» e critica, e non dice di odiare quelle persone.

PAUPERISTA E DISANCORATO ALLA REALTA’
Piero Ostellino sul Corriere della Sera (16 luglio 2013), all’indomani della visita del papa a Lampedusa, bacchettava il volto “francescano” del Pontefice «pauperista», che fa sistematicamente «l’elogio della povertà a uomini e donne di una “società dei consumi” e del benessere in crisi come la nostra, che non ce la fanno sempre a mettere assieme la colazione di mezzogiorno con la cena della sera e ad altri uomini e donne che non aspirano che a raggiungere un certo livello di consumi e un minimo di benessere – rischia di mettere in second’ordine il Papa gesuita, mostrando di sottovalutare il principio di realtà anche agli occhi di molti credenti».

UNA REPLICA CHE CHIARISCE IL SUO PENSIERO
«Di fronte alle accuse  di essere “marxista”, “comunista” e “pauperista”», nel nuovo libro di Galeazzo e Tornielli, «Papa Francesco esponendo il suo pensiero sui temi della povertà e della giustizia sociale, risponde indirettamente ad altre critiche, forse ancor più velenose, che serpeggiano in alcuni ambienti ecclesiali che faticano ad accettare un Papa “non imprevisto” ma “imprevedibile”» (Franco Garelli, La Stampa 13 gennaio).

COSA E’ REALMENTE LA GLOBALIZZAZIONE DELL’INDIFFERENZA
Francesco non ha remore a rilanciare due concetti a lui cari. «La “globalizzazione dell’indifferenza” – spiega Garelli – è il grande rischio che il mondo d’oggi sta correndo; che viviamo in un sistema che ha alimentato non soltanto la ricchezza mondiale, ma anche le disparità e la “cultura dello scarto”; che l’attenzione per i poveri non è un’opzione politica o ideologica, ma anzitutto un criterio del Vangelo, il protocollo sulla base del quale i cristiani e gli uomini di buona volontà saranno giudicati; che la Chiesa non condanna i ricchi ma l’idolatria della ricchezza, che rende impermeabili al grido dei poveri».

DESTINAZIONE UNIVERSALE DEI BENI 
Ma a fianco di questi grandi appelli, il Papa richiama due criteri che la Chiesa oggi considera alla base degli ordinamenti socio-economici e politici: «Da un lato il principio della destinazione universale dei beni – sottolinea l’editorialista de La Stampa – dall’altro la scelta preferenziale dei poveri. Nel primo caso il principio sancisce che i beni della terra sono un dono che Dio ha elargito all’intera famiglia umana, per cui devono essere partecipati da tutti, secondo la regola della giustizia, inseparabile dalla carità; ma che si regge anche su una precisa ragione sociale, tesa a ridurre gli squilibri tipici di un sistema capitalistico che enfatizza eccessivamente il diritto di proprietà e la legge del più forte».

SCELTA PREFERENZIALE DEI POVERI
Anche «la scelta preferenziale dei poveri» – ricorda papa Francesco – è un leit-motiv della tradizione e del magistero della Chiesa cattolica, forse oggi un po’ passato sotto silenzio per il timore che il messaggio cristiano venga interpretato più in chiave orizzontale che verticale, più come salvezza sociale che spirituale. Con la scelta preferenziale dei poveri la Chiesa non intende favorire un processo di pura liberazione sociale. Ma non può che stare dalla parte degli ultimi, sia per essere fedele al suo messaggio, sia riconoscendo che l’estensione dei diritti di cittadinanza rende più civile e armonica l’intera umanità».

IL CUORE DEL VANGELO
Il sito web belga in lingua fiamminga deredactie.be pubblicò lo scorso 4 aprile un video in cui Francesco ribadiva una linea netta sulle povertà: «Questo è il cuore del Vangelo, io sono credente in Dio e in Gesù Cristo, per me il cuore del Vangelo è nei poveri. Ho sentito due mesi fa che una persona ha detto: con questo parlare dei poveri, questo Papa è un comunista! No, questa è una bandiera del Vangelo, no del comunismo…la povertà senza ideologia, i poveri sono al centro del Vangelo di Gesù, basta leggerlo» (Il Messaggero, 4 aprile).

CASA, TETTO, LAVORO
Così come il passaggio più incisivo del suo discorso nell’incontro mondiale dei movimenti popolari tanto criticato da Socci: «E’ un crimine che milioni di persone soffrano la fame – disse il pontefice – mentre la speculazione finanziaria condiziona il prezzo degli alimenti, trattandoli come qualsiasi altra merce. Nessuna famiglia senza tetto. Nessun contadino senza la terra. Nessun lavoratore senza diritti. Nessuna persona senza la dignità del lavoro» (Il Fatto Quotidiano, 28 ottobre). Il suo, dunque, è «un programma di azione sociale» in senso buono, come lo definiva Giorgio Bernardelli su Vinonuovo.it (31 ottobre 2014).

IL RISCATTO DEI MENO ABBIENTI
Un programma orientato al riscatto dei poveri e non al loro mero compatimento. «La novità del tempo di oggi e di domani sta, secondo papa Francesco – scriveva Città Nuova (31 ottobre), riprendendo alcune espressione di Bergoglio – sta nel fatto “che i poveri non aspettano più e vogliono essere protagonisti; si organizzano, studiano, lavorano, esigono e soprattutto praticano quella solidarietà tanto speciale che esiste tra quanti soffrono, tra i poveri, e che la nostra civiltà sembra aver dimenticato o quantomeno ha molta voglia di dimenticare”».

UNA SOLIDARIETA’ CREATIVA 
Sicuramente il papa, concludeva la rivista dei Focolarini, sgombrando il campo dalle accuse di “comunismo” e “pauperismo”, «ha davanti ai suoi occhi la comunità di malati, poveri, storpi, ciechi, che cerca Gesù per avere forza, stare in piedi, imparare i gesti e le parole di una solidarietà creativa, che mette i poveri al centro. Il papa – ispirato da quella visione – può dire che il futuro sta in questo nuovo protagonismo dei poveri, che sono chiamati a fare la storia, prima che l’impero del denaro possa travolgere il mondo con la guerra e con lo sfruttamento».

sources: ALETEIA
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teologa musulmana che invita al dialogo

una teologa musulmana: “generalizzare causa nuove violenze”

un invito a evitare critiche generalizzate al mondo islamico, dopo gli attacchi terroristici in Francia, arriva dalla teologa musulmana Shahrzad Houshmand, docente alla Pontificia Università Gregoriana di Islam sciita nella facoltà di Missiologia, e all’Università La Sapienza di Roma
l’intervista è di Fabio Colagrande:

 

«Quello che si sta un po’ facendo è questa generalizzazione che non sarà a favore di nessuno, non solo non a favore dei musulmani, ma nemmeno a favore dell’Occidente stesso, perché se non si usa con sapienza un atteggiamento accogliente, capace di un’analisi vera e profonda, questo non farà altro che causare altre forme di violenza. Io chiedo all’homo sapiens sapiens di oggi, che nonostante la sua sapienza ha messo in primo piano le fabbriche belliche e l’economia, di rivedere il messaggio profondo della rivoluzione francese: libertà, uguaglianza e fratellanza»

 

fedeli musulmani in preghiera

Generalizzare, atto di ignoranza
R. –    E’ chiaro che non si può in nessun campo giustificare un atto violento e l’uccisione di persone innocenti, questo è senz’altro condannato da tutti i capi religiosi, non solo islamici, perché qui non si tratta della violenza islamica ma è la violenza che ha colpito il cuore dell’uomo, in sé. Come diceva Ghandi: chi non è in pace con sé stesso è in guerra col mondo intero. Riprendo le parole anche di questo grande messaggero di pace che è Papa Francesco, che riprende, illumina, ci sveglia, ci scuote – come ripete sempre – da questa “globalizzazione dell’indifferenza” che alla fine è, anch’essa, la causa del malessere che viviamo oggi. Lui, infatti, ripete spesso di non generalizzare. Questo sarebbe un atto di grande ignoranza e un’altra violenza verso una grande fetta dell’umanità che comprende un miliardo e mezzo di persone. Quello che si sta un po’ facendo è questa generalizzazione che non sarà a favore di nessuno, non solo non a favore dei musulmani, ma nemmeno a favore dell’Occidente stesso, perché se non si usa con sapienza un atteggiamento accogliente, capace di un’analisi vera e profonda, questo non farà altro che causare altre forme di violenza. Io chiedo all’homo sapiens sapiens di oggi, che nonostante la sua sapienza ha messo in primo piano le fabbriche belliche e l’economia, di rivedere il messaggio profondo della rivoluzione francese: libertà, uguaglianza e fratellanza. Se non approfondiamo questo terzo slogan – fratellanza – fin quando l’homo sapiens sapiens, che pensiamo di essere noi, non punterà su questo terzo punto, discrimina una fetta dell’umanità e non sceglie politiche sociali intelligenti per l’integrazione, per la dignità e per il rispetto, ma sceglie la generalizzazione, andremo a cadere in altre forme di violenze.

L’Islam, ma non solo, ha bisogno di riforma
D. – C’è chi dice che eventi tragici come quello di Parigi si ripeteranno fino a che non verranno purificate le fonti di questa violenza che sono in alcune forme di cultura islamista…

R. – Ogni essere umano ha bisogno di riformarsi sempre. L’individuo ha bisogno di riformarsi, come le comunità, le società, anche le religioni. Tutti questi eventi ci portano a riflettere e rivedere alcune delle nostre posizioni. Questo vale anche per una fetta dei musulmani nel mondo che hanno una visione stretta dell’islam, soprattutto quelle scuole coraniche: lo Stato del Pakistan dice di non avere le risorse sufficienti per aumentare le scuole pubbliche e i privati – che non si sa da dove esattamente vengono – costruiscono queste scuole coraniche che danno una visione particolarissima del Corano. Allora, la riforma dovrebbe avvenire sicuramente nell’islam ma anche l’Europa ha bisogno di una riforma, di uscire da questo eurocentrismo profondo che non vede nelle altre culture nessuna positività, nessuna forma di democrazia, di benessere. Allora, questo atteggiamento dovrebbe essere reciproco. Abbiamo bisogno di riformarci a livello umano, di ripensare la fraternità e di medicare le ferite non con le bombe ma con l’istruzione, il dialogo e l’incontro. Infatti, leggo il paragrafo 253 della bellissima Esortazione “Evangelii Gaudium” di Papa Francesco: “Per sostenere il dialogo con l’Islam è indispensabile la formazione adeguata degli interlocutori, non solo perché siano solidamente e gioiosamente radicati nella loro identità, ma perché siano capaci di riconoscere i valori degli altri, di comprendere le preoccupazioni soggiacenti alle loro richieste e di fare emergere le convinzioni comuni”. Dobbiamo riformarci tutti, veramente.

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“il cristiano in questo tempo deve essere rivoluzionario”: parola di papa Francesco

il cristiano se non è rivoluzionario non è cristiano!

papa-francesco

“il cristiano deve essere rivoluzionario! Noi siamo liberi perché viviamo sotto la Grazia. Non siamo più schiavi della legge, siamo liberi perché Gesù Cristo ci ha liberato.
Questo passaggio da sotto la legge a sotto la Grazia è una rivoluzione che cambia in profondità il cuore dell’uomo. E noi siamo rivoluzionarie e rivoluzionari. Un cristiano se non è rivoluzionario in questo tempo non è cristiano. Non si compra e non si vende. Quante persone tristi, senza speranza, anche tanti giovani, che dopo aver sperimentato tante cose non trovano senso alla vita. La società che è crudele, non può darti speranza. Noi non possiamo essere indifferenti, e l’annuncio del Vangelo è questo. Con la mia parola, con la mia testimonianza dire: “Io ho un Padre, non siamo orfani”.
“Non si tratta di fare proseliti. Tu semini, con parole e testimonianze, ma poi non fai statistica di come va a finire. Non facciamo il raccolto, lo farà qualcun altro, la nostra gioia è seminare con la testimonianza, perché la parola sola è aria. Le parole non bastano. Il cristiano è coraggioso, va avanti di fronte a una crisi, fare le cose, portare sulle spalle le cose che non si possono cambiare ancora. Voi dovete andare fuori. Non capisco le comunità cristiane che sono chiuse, in parrocchie.
Nel Vangelo è bello il brano del pastore che si accorge che manca una pecorella e le lascia tutte per cercarla. Fratelli e sorelle, ne abbiamo una, ne mancano 99.. dobbiamo uscire!! E’ più facile stare a casa con quell’unica pecorella, stare a casa, carezzarla. Ma il Signore ci vuole pastori, non pettinatori di pecorelle. E’ una lotta di tutti i giorni, contro l’amarezza, contro il pessimismo. Seminare non è facile è più bello raccogliere, questa è la lotta di tutti i giorni dei cristiani. Possiamo rifiutarci di andare in quei luoghi dove nessuno vuole andare per la paura di comprometterci e del giudizio altrui e così negare a questi nostri fratelli l’annuncio della parola di Dio? Noi abbiamo ricevuto questa Grazia gratuitamente, dobbiamo darla gratuitamente. Avanti!”
Discorso di Papa Francesco all’apertura del Convegno ecclesiale diocesano

17 giugno 2013

 

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“non sono comunista!” ribadisce papa Francesco

“Avere cura di chi è povero non è comunismo, è Vangelo”

Intervista a Papa Francesco 

Il Pontefice: “Il Nuovo Testamento non condanna i ricchi, ma l’idolatria della ricchezza. Il nostro sistema si mantiene con la cultura dello scarto, così crescono disparità e povertà”
 anticipo di uno stralcio di «Papa Francesco. Questa economia uccide», il libro sul magistero sociale di Bergoglio scritto da Andrea Tornielli, coordinatore di «Vatican Insider», e Giacomo Galeazzi, vaticanista de «La Stampa». Il volume raccoglie e analizza i discorsi, i documenti e gli interventi di Francesco su povertà, immigrazione, giustizia sociale, salvaguardia del creato. E mette a confronto esperti di economia, finanza e dottrina sociale della Chiesa – tra questi il professor Stefano Zamagni e il banchiere Ettore Gotti Tedeschi – raccontando anche le reazioni che certe prese di posizione del Pontefice hanno suscitato. Il libro si conclude con un’intervista che Francesco ha rilasciato agli autori all’inizio di ottobre 2014.  

 

«Marxista», «comunista» e «pauperista»: le parole di Francesco sulla povertà e sulla giustizia sociale, i suoi frequenti richiami all’attenzione verso i bisognosi, gli hanno attirato critiche e anche accuse talvolta espresse con durezza e sarcasmo. Come vive tutto questo Papa Bergoglio? Perché il tema della povertà è stato così presente nel suo magistero?  

 

Santità, il capitalismo come lo stiamo vivendo negli ultimi decenni è, secondo lei, un sistema in qualche modo irreversibile?  

«Non saprei come rispondere a questa domanda. Riconosco che la globalizzazione ha aiutato molte persone a sollevarsi dalla povertà, ma ne ha condannate tante altre a morire di fame. È vero che in termini assoluti è cresciuta la ricchezza mondiale, ma sono anche aumentate le disparità e sono sorte nuove povertà. Quello che noto è che questo sistema si mantiene con quella cultura dello scarto, della quale ho già parlato varie volte. C’è una politica, una sociologia, e anche un atteggiamento dello scarto. Quando al centro del sistema non c’è più l’uomo ma il denaro, quando il denaro diventa un idolo, gli uomini e le donne sono ridotti a semplici strumenti di un sistema sociale ed economico caratterizzato, anzi dominato da profondi squilibri. E così si “scarta” quello che non serve a questa logica: è quell’atteggiamento che scarta i bambini e gli anziani, e che ora colpisce anche i giovani. Mi ha impressionato apprendere che nei Paesi sviluppati ci sono tanti milioni di giovani al di sotto dei 25 anni che non hanno lavoro. Li ho chiamati i giovani “né-né”, perché non studiano né lavorano: non studiano perché non hanno possibilità di farlo, non lavorano perché manca il lavoro. Ma vorrei anche ricordare quella cultura dello scarto che porta a rifiutare i bambini anche con l’aborto. Mi colpiscono i tassi di natalità così bassi qui in Italia: così si perde il legame con il futuro. Come pure la cultura dello scarto porta all’eutanasia nascosta degli anziani, che vengono abbandonati. Invece di essere considerati come la nostra memoria, il legame con il nostro passato è una risorsa di saggezza per il presente. A volte mi chiedo: quale sarà il prossimo scarto? Dobbiamo fermarci in tempo. Fermiamoci, per favore! E dunque, per cercare di rispondere alla domanda, direi: non consideriamo questo stato di cose come irreversibile, non rassegniamoci. Cerchiamo di costruire una società e un’economia dove l’uomo e il suo bene, e non il denaro, siano al centro». 

 

Un cambiamento, una maggiore attenzione alla giustizia sociale può avvenire grazie a più etica nell’economia oppure è giusto ipotizzare anche cambiamenti strutturali al sistema?  

«Innanzitutto è bene ricordare che c’è bisogno di etica nell’economia, e c’è bisogno di etica anche nella politica. Più volte vari capi di Stato e leader politici che ho potuto incontrare dopo la mia elezione a vescovo di Roma mi hanno parlato di questo. Hanno detto: voi leader religiosi dovete aiutarci, darci delle indicazioni etiche. Sì, il pastore può fare i suoi richiami, ma sono convinto che ci sia bisogno, come ricordava Benedetto XVI nell’enciclica “Caritas in veritate”, di uomini e donne con le braccia alzate verso Dio per pregarlo, consapevoli che l’amore e la condivisione da cui deriva l’autentico sviluppo, non sono un prodotto delle nostre mani, ma un dono da chiedere. E al tempo stesso sono convinto che ci sia bisogno che questi uomini e queste donne si impegnino, ad ogni livello, nella società, nella politica, nelle istituzioni e nell’economia, mettendo al centro il bene comune. Non possiamo più aspettare a risolvere le cause strutturali della povertà, per guarire le nostre società da una malattia che può solo portare verso nuove crisi. I mercati e la speculazione finanziaria non possono godere di un’autonomia assoluta. Senza una soluzione ai problemi dei poveri non risolveremo i problemi del mondo. Servono programmi, meccanismi e processi orientati a una migliore distribuzione delle risorse, alla creazione di lavoro, alla promozione integrale di chi è escluso». 

 

Perché le parole forti e profetiche di Pio XI nell’enciclica Quadragesimo Anno contro l’imperialismo internazionale del denaro, oggi suonano per molti – anche cattolici – esagerate e radicali?  

«Pio XI sembra esagerato a coloro che si sentono colpiti dalle sue parole, punti sul vivo dalle sue profetiche denunce. Ma il Papa non era esagerato, aveva detto la verità dopo la crisi economico-finanziaria del 1929, e da buon alpinista vedeva le cose come stavano, sapeva guardare lontano. Temo che gli esagerati siano piuttosto coloro che ancora oggi si sentono chiamati in causa dai richiami di Pio XI…». 

 

Restano ancora valide le pagine della “Populorum progressio” nelle quali si dice che la proprietà privata non è un diritto assoluto ma è subordinata al bene comune, e quelle del catechismo di San Pio X che elenca tra i peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio l’opprimere i poveri e il defraudare della giusta mercede gli operai?  

«Non solo sono affermazioni ancora valide, ma più il tempo passa e più trovo che siano comprovate dall’esperienza». 

 

Hanno colpito molti le sue parole sui poveri «carne di Cristo». La disturba l’accusa di «pauperismo»?  

«Prima che arrivasse Francesco d’Assisi c’erano i “pauperisti”, nel Medio Evo ci sono state molte correnti pauperistiche. Il pauperismo è una caricatura del Vangelo e della stessa povertà. Invece san Francesco ci ha aiutato a scoprire il legame profondo tra la povertà e il cammino evangelico. Gesù afferma che non si possono servire due padroni, Dio e la ricchezza. È pauperismo? Gesù ci dice qual è il “protocollo” sulla base del quale noi saremo giudicati, è quello che leggiamo nel capitolo 25 del Vangelo di Matteo: ho avuto fame, ho avuto sete, sono stato in carcere, ero malato, ero nudo e mi avete aiutato, vestito, visitato, vi siete presi cura di me. Ogni volta che facciamo questo a un nostro fratello, lo facciamo a Gesù. Avere cura del nostro prossimo: di chi è povero, di chi soffre nel corpo nello spirito, di chi è nel bisogno. Questa è la pietra di paragone. È pauperismo? No, è Vangelo. La povertà allontana dall’idolatria, dal sentirci autosufficienti. Zaccheo, dopo aver incrociato lo sguardo misericordioso di Gesù, ha donato la metà dei suoi averi ai poveri. Quello del Vangelo è un messaggio rivolto a tutti, il Vangelo non condanna i ricchi ma l’idolatria della ricchezza, quell’idolatria che rende insensibili al grido del povero. Gesù ha detto che prima di offrire il nostro dono davanti all’altare dobbiamo riconciliarci con il nostro fratello per essere in pace con lui. Credo che possiamo, per analogia, estendere questa richiesta anche all’essere in pace con questi fratelli poveri». 

 

Lei ha sottolineato la continuità con la tradizione della Chiesa in questa attenzione ai poveri. Può fare qualche esempio in questo senso?  

«Un mese prima di aprire il Concilio Ecumenico Vaticano II, Papa Giovanni XXIII disse: “La Chiesa si presenta quale è e vuole essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri”. Negli anni successivi la scelta preferenziale per i poveri è entrata nei documenti del magistero. Qualcuno potrebbe pensare a una novità, mentre invece si tratta di un’attenzione che ha la sua origine nel Vangelo ed è documentata già nei primi secoli di cristianesimo. Se ripetessi alcuni brani delle omelie dei primi Padri della Chiesa, del II o del III secolo, su come si debbano trattare i poveri, ci sarebbe qualcuno ad accusarmi che la mia è un’omelia marxista. “Non è del tuo avere che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Poiché è quel che è dato in comune per l’uso di tutti, ciò che tu ti annetti. La terra è data a tutti, e non solamente ai ricchi”. Sono parole di sant’Ambrogio, servite a Papa Paolo VI per affermare, nella “Populorum progressio”, che la proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto, e che nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario. San Giovanni Crisostomo affermava: “Non condividere i propri beni con i poveri significa derubarli e privarli della vita. I beni che possediamo non sono nostri, ma loro”. (…) Come si può vedere, questa attenzione per i poveri è nel Vangelo, ed è nella tradizione della Chiesa, non è un’invenzione del comunismo e non bisogna ideologizzarla, come alcune volte è accaduto nel corso della storia. La Chiesa quando invita a vincere quella che ho chiamato la “globalizzazione dell’indifferenza” è lontana da qualunque interesse politico e da qualunque ideologia: mossa unicamente dalle parole di Gesù vuole offrire il suo contributo alla costruzione di un mondo dove ci si custodisca l’un l’altro e ci si prenda cura l’uno dell’altro». 

 

© 2015 – EDIZIONI PIEMME Spa, Milano  

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l’ ’11 settembre’ di Parigi?

 

  • Parigi: uno chok senza fine

  • Parigi brucia
un’ampia rassegna stampa, coll’aiuto del prezioso sito ‘fine settimana’, sulla violenza gihadista per vendicare Maometto a motivo delle caricature e delle vignette satiriche nelle quali era stato raffigurato e deriso

un aiuto alla riflessione:

In un manifesto comune, i rappresentanti delle tre grandi religioni in Germania invitano a pregare in moschee, chiese e sinagoghe per le vittime dell’attentato di Parigi: “Non è lecito uccidere in nome di Dio”, scrivono alti rappresentanti di cattolici, protestanti, ebrei e musulmani. “La Bibbia, la Torah e il Corano sono libri dell’amore, non dell’odio”
“L’attentato contro il gruppo di Charlie Hebdo ha profondamente scosso i musulmani francesi. Ma per loro non c’è solo lo spavento. Ad esso si accompagna spesso un sentimento di preoccupazione per se stessi: questa aggressione non aggraverà le difficoltà che incontrano quotidianamente? Non attizzerà un’islamofobia di cui denunciano la diffusione crescente?”
L’ironia e la satira non sono nemiche dei credenti. Anzi, possono aiutarli a liberarsi dalla presunzione di “possedere” l’Altissimo, giocando così una funzione anti-idolatrica. Saper ridere di se stessi e rispettare la propria coscienza di credenti è dunque un modo per sconfiggere la follia assolutista di chi vorrebbe imporre con la forza della paura una caricatura impazzita e mortifera del Divino. Forse una risata non salverà il mondo. Ma almeno ci impedirà di trasformare Dio in un simbolo dell’odio.
Pax Christi Italia fa propria la dichiarazione di Pax Christi Francia: Di fronte a coloro che hanno scelto la violenza per far trionfare le propria ideologia distruttrice, noi scegliamo di rifiutare tutto ciò che divide ed esclude.
  • Religione come arma di Markus Dobstadt in www..publik-forum.de del 8 gennaio 2015 (nostra traduzione)
Gli attentatori di Parigi hanno colpito l’Europa al cuore. Chiese e associazioni musulmane sono sconvolte e indignate per l’attacco al settimanale satirico francese Charlie Hebdo e per il brutale assassinio di dodici persone. L’Occidente è scosso. E dovrebbe porsi alcune domande.
Condanna del terrore e difesa del vero Islam. C’è un filo comune che lega le diverse reazioni dei rappresentanti della comunità musulmana italiana, sotto choc dopo la mattanza di Charlie Hebdo. Da Nord a Sud, le voci raccolte dai leader religiosi delle città usano lo stesso registro.
“l’esistenza dello ‘Stato Islamico’ (con i suoi cloni) e di quello che rappresenta non è compatibile con la sopravvivenza stessa delle nostre democrazie.” Per invertire l’attuale tendenza “occorre dunque agire contemporaneamente sulle comunità musulmane presenti in Occidente e sullo ‘Stato Islamico’, perché solo rafforzando le prime e indebolendo il secondo noi – musulmani, cristiani, ebrei, atei ma comunque ‘fedeli’ della civiltà e della tolleranza – potremo sconfiggere gli alfieri della barbarie.
…tuttavia non ci piacciono quelle vignette neppure dopo l’enormità dell’atto terroristico e l’immenso dolore per la morte di 12 persone libere e innocenti. Appartengono infatti alla grammatica della blasfemia e non a quella della trasgressione “I 12 morti di Parigi sono come un richiamo della foresta per i nostri cristianisti con il Crocifisso tra i denti che papa Francesco aveva messo a cuccia, un ritorno alla natura per l’estrema destra razzista pronta alla difesa di una Francia e di un’Europa bianche e cristiane.”
Non so dire quale delle due posizioni sia la più realistica: quella che scommette sul potere delle maggioranze pacifiche o quella che prevede il prevalere delle minoranze radicali. So però, senza dubbio alcuno, quella per la quale vale la pena parteggiare e lavorare.
«Riconoscere che fino a quando non sarà abbattuto lo Stato islamico dobbiamo aspettarci il peggio. Ma lo si abbatte solo se non si invoca il conflitto di civiltà. Purtroppo quando la storia appare tragica si fa molto fatica a ragionare. È del tutto logico, e porta anche voti: ma è anche pericolosissimo.
Schieriamoci quindi con Charlie Hebdo, perché la solidarietà dimostrata a livello globale è ispirante. Denunciamo il terrorismo, l’oppressione e la misoginia nel mondo islamico, e in qualsiasi altro luogo. Ma cerchiamo di stare attenti a non rispondere all’intolleranza dei terroristi con la nostra.
l’esperienza del passato c’insegna che non è vero. La cultura non ha mai evitato le catastrofi. La Germania aveva la cultura più avanzata, ma questa non ha potuto evitare la Shoah. La cultura può alimentare le coscienze, non può disarmare gli assassini. Il che naturalmente non significa che non si debba continuare a battersi e a lottare contro tutte le forme d’intolleranza e di violenza
Ragionare in risposta agli omicidi di Parigi significa mettere da parte il compiacimento autocelebrativo del liberale permissivo e accettare che il conflitto tra la permissività liberale e il fondamentalismo in definitiva è un conflitto falso. …chi non è disposto a parlare in modo critico della democrazia liberale non dovrebbe contestare neppure il fondamentalismo religioso.
«Ahmed è stato ucciso come un animale. Ma le bestie sono i suoi assassini». Il dirigente di polizia Christophe Crepin conosceva Ahmed Merabet, 42 anni, l’agente che i fratelli Kouachi hanno ucciso in boulevard Richard- Lenoir. «Era un poliziotto coscienzioso, discreto, entusiasta del suo lavoro. Aveva origini tunisine ma era francese. Era un musulmano praticante. Frequentava la moschea. Per noi della polizia è un orgoglio mostrare che abbiamo agenti di ogni religione»
quando succederà che un ragazzo, una ragazza di una qualunque banlieue canterà in un rap trascinante l’orrore per le sue coetanee e correligionarie assassinate e stuprate in nome di Allah in Yemen, in Siria, in Iraq, in Nigeria, e per quelle cui è fatto divieto di cantare e far rumore coi propri passi in Afghanistan?
La pubblicazione coordinata delle vignette non è un gesto gratuito. Non è contro l’Islam. Al contrario, è proprio in difesa della realtà per cui i musulmani d’Europa – a differenza dei cristiani e degli atei in gran parte del Medio Oriente – possono esprimere liberamente le loro convinzioni più radicate e sfidare quelle altrui. È in gioco il destino dell’Europa e della libertà. La nostra convivenza nella libertà dipende da questo: che non prevalga il veto degli assassini».
  • Ridere di Alain Rémond in La Croix del 9 gennaio 2915 (nostra traduzione)
Bisogna indignarsi, gridare, protestare, manifestare. E poi riflettere, unirsi, pensare al nostro futuro. Ma soprattutto, molto presto, subito, bisognerà ricominciare a ridere. Perché è il riso, il diritto a ridere, che quei due assassini hanno voluto uccidere. La libertà di ridere, verso e contro tutto… quando Rabelais dice che il ridere è proprio dell’uomo, non lo dice per ridere: è una cosa seria”
“E adesso? «Il faut continuer à se moquer», dice Plantu, non dobbiamo smettere di prendere e prendersi in giro con i disegni… «Con “Cartoonist for piece” cerchiamo ogni giorno di dialogare con disegnatori cristiani, ebrei, musulmani, agnostici, atei e arriviamo talvolta a fare dei ponti con le nostre piccole matite là dove altri con le loro asce scavano fossati»”
“Nei giorni scorsi le tante manifestazioni a Parigi e in Europa hanno visto scendere in strada persone orgogliose di esser parte di una civiltà fondata sulla libertà di pensiero, di espressione ed anche di religione… Le libertà sono il fondamento irrinunciabile dell’Europa; non si può consentire, sotto il pretesto di culture diverse e intolleranti, ch’esse vengano limitate”
“Cosa ha in comune il personaggio di Houellebecq in «Sottomissione» con i giovani che… hanno fatto strage nella sede di Charlie Hebdo? Nulla, se non l’eccesso della realtà contemporanea che ne fa un’età dell’estremismo. La convinzione di Houellebecq è che l’Occidente non abbia più futuro e la depressione sia il nostro unico destino… Davanti all’attacco assassino bisogna issare il vessillo del nostro pensiero critico, che non deve indietreggiare nell’indagare anche quanto di oscuro c’è in noi”
“Dobbiamo imparare a tracciare i confini della nostra identità e a dare alla libertà il peso che merita non soltanto per i morti, anche per i vivi… per una questione morale profonda… che ci riguarda tutti in quanto individui di una società che trova il suo valore principale nella diversità di ciascuno e nel rispetto di questa diversità… proprio perché non siamo Charlie dobbiamo difendere strenuamente il diritto di Charlie alla sua libertà, che è la stessa nostra anche se siamo diversi da lui”
Per Stéphane Charbonnier, il direttore di Charlie Hebdo, la libertà di espressione non valeva nulla senza il diritto a offendere. Tutti, nessuno escluso. E senza limiti, neppure quelli della blasfemia e della volgarità. Un convincimento profondo, coraggiosamente applicato nella quotidianità del lavoro, che Charb e i suoi giornalisti hanno pagato con la vita. E che oggi provoca reazioni diverse nei media occidentali.
È passato oltre un quarto di secolo, ventisei anni per la precisione, da quel gennaio-febbraio 1989 quando noi occidentali, per la prima volta, vedemmo il nuovo volto che l’Islam intendeva mostrarci. Nell’autunno precedente era stato pubblicato da Penguin Satanic Verses, il nuovo romanzo di Salman Rushdie, giudicato blasfemo da molti religiosi islamici.
Su Twitter e su Facebook il poliziotto è stato scelto come simbolo: «Je suis Ahmed» (assieme alla solidarietà di «Je suis Charlie») hanno rilanciato in migliaia. Perché hanno voluto celebrare «l’eroe morto per difendere il diritto di Charlie Hebdo alla libertà di espressione, anche quando attaccava la sua religione».
Davanti a noi – ormai è chiaro – abbiamo una prova lunga e terribile. Ma dobbiamo affrontarla senza alzare le mura di una fortezza assediata, superando la paura, evitando di reagire al terrore con lo spavento. Chi segue l’islam ha la responsabilità di affrancare la sua fede dalla malattia estremista
Il confronto con l’Islam è un tema che attraverserà le nostre vite. Chiama in causa non soltanto le capacità militari e di intelligence dell’Europa; ne sollecita l’identità culturale, la coesione sociale. Contrapporre violenza a violenza, uniformare tutti i musulmani in un’unica condanna farebbe il gioco degli assassini di Parigi
L’islamismo armato e persecutore non va affrontato e respinto perché islamismo. Ma perché armato e persecutore. Ovvero identico al cristianesimo delle guerre contro i non cristiani, delle guerre fra cristiani …, delle Inquisizioni capaci, in nome di Dio, di crudeltà spaventose. Ma anche perché è stata la civiltà ospite, in parte assecondante e benevola, dello sterminio chiamato Shoah. Ogni dibattito senza questi richiami fondamentali è falsato fin dall’inizio.
Ma con l’illuminismo hanno poco da spartire le vignette apparse nel giornale della tragedia. “Merde” al Corano, “merde” a Maometto devono aver rallegrato il cuore di Marine Le Pen, leader ariana del razzismo francese.
La laicità più rigorosa, che esclude Dio, qualsiasi Dio, dalla vita pubblica (scuole, tribunali, comizi elettorali, salotti televisivi, ecc.), è perciò l’unica salvaguardia contro l’incubazione di un brodo di coltura clericale che inevitabilmente può diventare pallottola fondamentalista. (ndr.: una laicità fondamentalista? tutta per sottrazione?)
La demonizzazione fa gioco solo a chi ci vuole speculare politicamente, ma la cosa più importante in questo caos è proprio mantenere la freddezza e la tolleranza, intendo da entrambe le parti. “Francesco è l’esempio perfetto di questa attenzione per il diverso, l’uomo che in assoluto ha capito meglio i tempi. Eppure attorno a lui c’è una cattiveria impressionante”
Parla Hamza Piccardo: «Azione aberrante. Di certo, secondo il nostro punto di vista, le vignette del Charlie Hebdo offendevano il profeta. Ma nella nostra pratica religiosa quotidiana a un’azione si risponde con un’azione simile, non si imbraccia il kalashnikov». ” le moschee non hanno nulla a che fare con il terrorismo…. Chi organizza attentati come questi lo fa fuori dalle moschee”
si chiede alla comunità musulmana di condannare il terrorismo, di farlo più esplicitamente. Questo indubbiamente serve a isolare i jihadisti, ma non basta farlo quando c’è l’emergenza, la paura, occorre prestare maggiore attenzione a quelle forze, a quei religiosi, che dentro il mondo islamico si battono, a loro rischio e pericolo, per una secolarizzazione dell’islam. Non serve condannare le atrocità commesse in nome dell’islam solo quando toccano l’occidente, perché le principali vittime del fanatismo non siamo noi ma i musulmani moderati e laici.
Gli errori occidentali e i danni neo-liberisti: Saddam Hussein e Gheddafi sapevano contenere la deriva islamista, ma sono stati abbattuti. In Libia Parigi e Washington hanno sbagliato tutto. “La maggioranza schiacciante degli immigrati che vivono in Francia, credenti e non, non sono per nulla fanatici dell’Islam reazionario. Invece non è da sottovalutare che siano coinvolti molti atei e convertiti in questi movimenti radicali.”
Parla il sociologo Vincent Geisser, tra i maggiori studiosi dell’Islam francese e del radicalismo. Come nascono i terroristi islamici europei: non solo figli di immigrati, trovano nelle guerre di religione il fascino assurdo dell’estremo. «Disturbati emotivi, sostituiscono i simboli con la realtà. In prigione, il contatto con i musulmani». ” l’immigrazione non c’entra proprio nulla con questi fenomeni e dall’altro che sembra entrarci poco anche la pratica e la cultura religiosa” “una cosa è la fede, un’altra le rivolte urbane, altro ancora il terrorismo.”
Credenti o non credenti, dobbiamo accettare – anche se ci fa orrore – l’idea che il nome di Dio non è assente in questi atti, perché dei terroristi lo proclamano alto e forte. Perché in altri periodi neri della storia, fu abbondantemente utilizzato dai cristiani. Accettare l’idea e contestarla…
“Anche se gli assassini hanno gridato “Allah akbar”, è anche contro l’islam e contro i musulmani che hanno agito. È una guerra dichiarata contro la democrazia le cui istituzioni e le cui leggi rendono possibile un islam repubblicano… Al di là dell’emozione e della collera… bisogna che noi tutti, prendiamo coscienza… che c’è una volontà radicale e feroce… di isolare i musulmani, di farne i nemici della Francia. Per questo dobbiamo tutti resistere, perché tutti siamo coinvolti
“Il massacro segna l’irruzione in seno alla società francese della guerra del Medio Oriente, dove le nazioni occidentali hanno fatto gli apprendisti stregoni… L’anti-islamismo diventa sempre più radicale e ossessivo e tende a stigmatizzare tutta una popolazione… La paura si aggrava tra i Francesi di origine cristiana, tra quelli di origine araba, tra quelli di origine ebraica. Gli uni si sentono minacciati dagli altri… la risposta è l’unione di tutti… di tutte le etnie, di tutte le religioni e di tutte le componenti politiche”
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il commento al vangelo della domenica

 

 

TU SEI IL FIGLIO MIO, L’AMATO: IN TE HO POSTO IL MIO COMPIACIMENTO

 commento al Vangelo della domenica del Battesimo del Signore (11 gennaio 2015) di Alberto Maggi:

p. Maggi

Mc 1,7-11 

In quel tempo, Giovanni proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo». 
Ed ecco, in quei giorni, Gesù venne da Nàzaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E, subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. E venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».  

Tutti gli evangelisti sono concordi nell’indicare l’attività di Gesù, come quella di colui che battezza nello Spirito Santo. E questo è possibile perché in Gesù risiede la pienezza dello Spirito Santo, cioè la forza, la capacità e la potenza d’amore di Dio. Questa accoglienza dello Spirito da parte di Gesù viene indicata dagli evangelisti nell’episodio del battesimo. Leggiamo come ce la narra l’evangelista Marco. 
 “«Ed ecco, in quei giorni…»” – questa espressione ”in quei giorni”, che appare per la prima volta in questo Vangelo, indica il compimento delle promesse di Dio– “«Gesù»” – il nome è lo stesso di Giosuè,in ebraico,colui che fece entrare il popolo nella terra promessa – ma poi le credenziali di questo Gesù sono veramente pessime perché, ci scrive l’evangelista,che “«venne da Nàzaret di Galilea …»”. La Galilea è la regione disprezzata,la regione dei facinorosi,dei rivoluzionari – al tempo di Gesù dire “galileo” significava dire “testa calda”,”fanatico”– ebbene,Gesù viene proprio dalla Galilea. Ma si credeva che il Messia sarebbe dovuto venire dalla Giudea,dalla regione santa,e non dalla Galilea.  
E per giunta viene proprio da Nazaret che era un borgo selvaggio,dalla brutta reputazione,che era un po’ il covo dove si rifugiavano gli zeloti, i rivoluzionari, contro di Roma. Non bisogna dimenticare che era ancora vivo il ricordo di Giuda il Galileo,che proveniva appunto dalla Galilea: si era proclamato Messia ed aveva iniziato una rivolta contro Roma, finita poi in un bagno di sangue. 
“«E fu battezzato nel Giordano da Giovanni »”, Giovanni aveva annunziato un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. Perché Gesù va a farsi battezzare? Il battesimo è un simbolo di morte: ci si immerge e si muore al proprio passato. 
Anche per Gesù il battesimo sarà un simbolo di morte,ma non di un passato ingiusto, di peccato – che lui non ha da farsi perdonare – ma di accettazione di morte nel proprio futuro: una donazione del suo amore agli uomini, che può arrivare al punto di accogliere la morte. Infatti Gesù quando parlerà della sua morte,ne parlerà come di un battesimo: ”c’è un battesimo che io devo accogliere” .        1 
E vediamo come ci descrive l’evangelista questo battesimo di Gesù,inserendo nella scena del battesimo gli stessi termini che poi collocherà al momento della morte, per indicare che battesimo e morte di Gesù sono una sola cosa.   
“«E subito salendo dall’acqua …»” – scendere nell’acqua è un’immersione nella morte,ma la morte non trattiene Gesù – Gesù immediatamente sale dall’acqua.  “«…vide squarciarsi…»”– è importante questo verbo squarciarsi -“«…i cieli…»”:  si credeva che Dio era talmente arrabbiato con l’umanità che aveva come sigillato i cieli, non c’era più comunicazione tra Dio ed il suo popolo – basta pensare al desiderio di Isaia nel suo libro, quando scrive “ ah,se tu squarciassi i cieli e discendessi !”.  
Quindi, c’era questa attesa che Dio squarciasse i cieli: ma i cieli erano chiusi, erano sigillati. Ebbene, nel momento in cui Gesù s’impegna a manifestare l’amore di Dio senza limiti, c’è una risposta da parte di Dio di un amore senza limiti. Ed i cieli non si aprono: qualcosa che si apre poi si può richiudere. I cieli si squarciano, si lacerano e quindi non possono più essere ricomposti : con Gesù la comunicazione di Dio con l’umanità sarà, da questo momento, continua,crescente ed ininterrotta.  
Ebbene, questo verbo “squarciare” lo ritroviamo poi al momento della morte di Gesù, quando “il velo del Tempio si squarciò”, il velo nascondeva la stanza segreta dove si credeva ci fosse la presenza di Dio: nel momento in cui Gesù muore in croce,il velo si squarcia e rivela chi è Dio.  Chi è Dio? E’ l’uomo che per amore ha donato la sua stessa vita.   
“« E lo Spirito …»” – l’articolo determinativo,“lo”,indica la totalità – «… lo Spirito …»”  – e Gesù,l’attività di Gesù sarà battezzare nello Spirito Santo,ma su Gesù non scende lo Spirito Santo,ma “lo Spirito” – perché “Santo” non indica soltanto la qualità di questo Spirito ma l’attività di consacrare,di separare l’uomo dal male – e Gesù non ha bisogno di essere separato dal male. 
 “« E lo Spirito …»” – quindi la totalità dell’amore di Dio – “« .. discendere verso di lui …»”  : nel momento in cui Gesù sale dall’acqua, ecco un movimento che dal cielo, scende lo Spirito su Gesù. 
Questo termine – “Spirito” – lo ritroviamo anch’esso poi nella morte di Gesù, quando Gesù “spirò”, che nel greco ha la stessa radice di “Spirito”: Gesù sulla croce,lo Spirito che ha ricevuto al momento del battesimo, lo comunica a quanti lo accolgono, e con lui e come lui vorranno dedicare la propria vita per il bene degli uomini. 
Questo Spirito discende verso di lui “«… come una colomba … »”. Perché questa immagine della colomba? Era proverbiale l’amore della colomba per il proprio nido: alla colomba anche se gli si cambia il nido, lei torna sempre al suo nido originario. 
Quindi, Gesù è il nido,è la dimora dello Spirito. In più l’immagine che c’è nel libro della Genesi, che lo Spirito del Signore si librava – al momento della creazione – sulle acque, veniva interpretata dai rabbini come il volo di una colomba sulla sua nidiata. Quindi, questo riferimento alla creazione fa vedere che in Gesù si realizza il compimento del progetto di Dio sull’umanità, il progetto della creazione.        
 
“« E venne una voce dal cielo …»” – mentre Gesù vide squarciarsi i cieli, quindi fu  una sua esperienza – qui la voce venne dal cielo, quindi è una dimostrazione per tutti. Ebbene, lo stesso termine “voce” – in greco “ fonè ” – lo ritroviamo al momento della morte di Gesù, quando – è strano che Gesù agonizzante, ormai morente – scrive l’evangelista – ”diede un grande grido“ : il termine “grido” e “voce”,in greco è lo stesso.  
E’ un grido di vittoria perché l’amore è più forte della morte,l’amore è più forte del peccato: quando Pietro ha tradito Gesù, il gallo ha cantato ed il verbo nella lingua greca è lo stesso,è il  “grido” . Ebbene,l’amore di Gesù è più forte del peccato del proprio discepolo: quindi è il  “grido”  di vittoria. 
E qui la voce dal cielo – l’evangelista ci riporta una citazione del Salmo 2,il versetto 7 –  “«Tu sei Figlio mio»”. Qui non indica tanto chi è Gesù,ma chi è Dio: se Gesù è intenzionato a dedicare tutta la propria esistenza per comunicare vita agli uomini – figlio è colui che assomiglia al padre nel suo comportamento – significa che questo è il lavoro di Dio.  Il lavoro di Dio è comunicare vita agli uomini perché l’abbiano in abbondanza.      
“«Tu sei il Figlio mio»”- e questa espressione “il Figlio di Dio, Figlio mio” – la ritroviamo anch’essa al momento della morte di Gesù: l’unico che ha capito Gesù, non sono stati né i suoi familiari,né i discepoli,tantomeno i sacerdoti ed i farisei, ma un pagano,uno straniero,il centurione,il boia presente alla crocifissione.       Scrive l’evangelista che “vedendolo spirare in quel modo … “- in quel modo ricco d’amore – “… il centurione esclamò: « Veramente quest’uomo era Figlio di Dio! »”. Quindi, abbiamo visto come i termini del momento del battesimo, l’evangelista poi li ripropone al momento della morte di Gesù, per indicare che, per Gesù, il battesimo è l’accettazione di morte nel futuro: per essere fedele all’amore di Dio, per liberare gli uomini, Gesù andrà incontro alla morte. 
Poi si conclude questo brano con l’espressione “«… l’amato …»” . L’amato significa il figlio erede,colui che eredita tutto del Padre: non si può dividere Gesù da Dio,Dio e Gesù sono la stessa cosa.  In Gesù,Dio manifesta quello che è : Amore senza fine per tutta l’umanità. 
 “«… : in te ho posto il mio compiacimento».” : il compiacimento del Padre è stata la comunicazione di pienezza di vita – lo Spirito – che poi Gesù comunicherà a quanti lo accoglieranno.              

 

 

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revocata la scomunica a p. D’EscotoD’Escoto

 

Padre D’Escoto tornerà a celebrare la messa. Revocata dal papa la sospensione a divinis

Il sacerdote era stato scomunicato da Giovanni Paolo II per aver sostenuto i rivoluzionari sandinisti nel Nicaragua

04.08.2014
Miguel D'Escoto revoca sospensione a divinis
Aveva scritto a Bergoglio per manifestare il desiderio di «ritornare a celebrare l’eucarestia prima di morire». E Francesco come scrive Repubblica (4 agosto) ha deciso di dire sì, lasciando al superiore generale dell’istituto il compito di «seguire il confratello nel processo di reintegrazione al ministero sacerdotale». Così per Padre Miguel D’Escoto Brockmann della congregazione di Maryknoll è scattata la revoca della sospensione a divinis.Il religioso, tra i maggiori esponenti nel suo paese della corrente di pensiero cattolica detta Teologia della Liberazione, era incorso nella scomunica negli anni ’80 per il suo appoggio al Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale in Nicaragua, movimento rivoluzionario di ispirazione marxista. Dopo la vittoria dei sandinisti nel ’79, come ricorda Rainews (4 agosto), d’Escoto fu nominato ministro e fece parte del governo guidato da Daniel Ortega dal 1979 al 1990.Giovanni Paolo II ammonì duramente sia lui sia gli altri preti nel governo per il loro coinvolgimento in politica, e D’Escoto ricevette la sospensione a divinis. Successivamente l’amministrazione di Ronald Reagan, scrive Il Fatto Quotidiano (4 agosto), lo segnalò come un moderato da opporre al regime in Nicaragua. Dopo la sconfitta dei sandinisti alle elezioni del 1990, d’Escoto guidò il Movimento Comunale, ma si dimise nel dicembre 1991.

Il 4 giugno 2008 fu eletto presidente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per la sua 63esima sessione annuale. Al Corriere della Sera, in un’intervista del 3 ottobre 2008 affermava di essere all’ONU per «realizzare la mia vocazione sacerdotale di missionario di Dio al servizio dei poveri e diseredati, e costruire la pace e la giustizia nel mondo». Inoltre attaccò frontalmente gli Usa dicendo che «sono peggio dell’Iran».

Il sacerdote aveva accettato dall’inizio la pena canonica inflittagli dalla Santa Sede, pur rimanendo membro della propria società missionaria, senza svolgere alcuna attività pastorale. Già da qualche anno ormai aveva abbandonato il suo impegno attivo in politica. In Italia si è visto nel 2009: non per un impegno istituzionale ma per la partecipazione al Festival di Sanremo. 

sources: ALETEIA
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Romero ‘riconosciuto’ dal Vaticano

Riconosciuto il martirio di Romero 

Stefania Falasca su n’l’Avvenire’:
 

 L’arcivescovo salvadoregno Oscar Arnulfo Romero è stato assassinato «in odio alla fede». Ne dà notizia in anteprima l’edizione di «Avvenire» di venerdì 9 gennaio 2015. I membri del Congresso dei teologi presso la Congregazione delle cause dei santi hanno espresso il loro voto unanimemente positivo sul martirio subìto dall’arcivescovo di San Salvador il 24 marzo 1980. Si tratta di un passo decisivo per il vescovo latinoamericano ucciso mentre celebrava l’Eucaristia e che già il popolo acclama come santo. Ora, secondo la prassi canonica, per la beatificazione non resta che il giudizio del Congresso dei vescovi e dei cardinali e infine l’approvazione del Papa. La causa, iniziata nel marzo 1994 e della quale l’anno seguente si concluse la fase diocesana, era approdata a Roma nel 1997, promossa dal postulatore monsignor Vincenzo Paglia.
Papa Francesco ha citato Romero proprio durante l’ultima udienza generale: l’arcivescovo di San Salvador, ha ricordato Bergoglio, «diceva che le mamme vivono un “martirio materno”. Nell’omelia per il funerale di un prete assassinato dagli squadroni della morte, egli disse, riecheggiando il Concilio Vaticano II: “Tutti dobbiamo essere disposti a morire per la nostra fede, anche se il Signore non ci concede questo onore… Dare la vita non significa solo essere uccisi; dare la vita, avere spirito di martirio, è dare nel dovere, nel silenzio, nella preghiera, nel compimento onesto del dovere; in quel silenzio della vita quotidiana; dare la vita a poco a poco? Sì, come la dà una madre, che senza timore, con la semplicità del martirio materno, concepisce nel suo seno un figlio, lo dà alla luce, lo allatta, lo fa crescere e accudisce con affetto. È dare la vita. È martirio»
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mons. Romero citato da papa Francesco

L'Udienza del Papa

L’Udienza del Papa

Prosegue il ciclo di catechesi sulla famiglia parlando delle madri: lavoro e famiglia è una «lotta quotidiana» ma le donne spesso non sono tenute nel giusto conto. Ringrazia il circo: «L’umanità ha bisogno di bellezza»

Iacopo Scaramuzzi Città del Vaticano

Papa Francesco ha citato l’arcivescovo di San Salvador Oscar Arnulfo Romero, trucidato nel 1980 dagli squadroni della morte, nella prima udienza generale del 2015. Jorge Mario Bergoglio ha proseguito un ciclo di catechesi sulla famiglia, in vista del sinodo dell’ottobre prossimo, parlando delle madri. A fine udienza il Pontefice argentino ha ringraziato il circo, che si è esibito in un breve spettacolo, sottolineando che oggi l’umanità «ha bisogno della bellezza».

Romero

«Ogni persona umana – ha detto il Papa – deve la vita a una madre», ma la madre, «pur essendo molto esaltata dal punto di vista simbolico – tante poesie, tante cose belle che si dicono poeticamente della madre – viene poco ascoltata e poco aiutata nella vita quotidiana, poco considerata nel suo ruolo centrale nella società. Anzi, spesso si approfitta della disponibilità delle madri a sacrificarsi per i figli per ‘risparmiare’ sulle spese sociali». Anche nella comunità cristiana accade che «la madre non sia sempre tenuta nel giusto conto, che sia poco ascoltata». Le madri «dovrebbero trovare più ascolto. Bisognerebbe comprendere di più la loro lotta quotidiana per essere efficienti al lavoro e attente e affettuose in famiglia; bisognerebbe capire meglio a che cosa esse aspirano per esprimere i frutti migliori e autentici della loro emancipazione: una madre con i figli ha sempre problemi, sempre lavoro. Io ricordo – ha proseguito a braccio – a casa, eravamo cinque e mentre uno ne faceva una, l’altro pensava di farne un’altra, e la povera mamma andava da una parte all’altra, ma era felice. Ci ha dato tanto. Le madri – ha sottolineato il Pontefice – sono l’antidoto più forte al dilagare dell’individualismo egoistico: individuo vuol dire ‘che non si può dividere’. Le madri invece si ‘dividono’, a partire da quando ospitano un figlio per darlo al mondo e farlo crescere».

«Sono esse, le madri, a odiare maggiormente la guerra, che uccide i loro figli», ha proseguito Bergoglio. «Tante volte ho pensato a quelle mamme quando hanno ricevuto la lettera: ‘…suo figlio è caduto in difesa della patria…’. Povere donne, come soffre una madre! Sono esse a testimoniare la bellezza della vita. L’arcivescovo Oscar Arnulfo Romero diceva che le mamme vivono un “martirio materno”. Nell’omelia per il funerale di un prete assassinato dagli squadroni della morte – ha proseguito leggendo un brano di un’omelia del 15 maggio 1977 alle esequie di padre Alfonso Navarro Oviedo – egli disse, riecheggiando il Concilio Vaticano II: «Tutti dobbiamo essere disposti a morire per la nostra fede, anche se il Signore non ci concede questo onore… Dare la vita non significa solo essere uccisi; dare la vita, avere spirito di martirio, è dare nel dovere, nel silenzio, nella preghiera, nel compimento onesto del dovere; in quel silenzio della vita quotidiana; dare la vita a poco a poco? Sì, come la dà una madre, che senza timore, con la semplicità del martirio materno, concepisce nel suo seno un figlio, lo dà alla luce, lo allatta, lo fa crescere e accudisce con affetto. E’ dare la vita. E’ martirio». Il Papa non ha fatto nessun riferimento al processo di beatificazione di Romero, che si è peraltro sbloccato dopo la sua elezione al soglio di Pietro.

Una società senza madri, ha detto ancora il Papa, «sarebbe una società disumana, perché le madri sanno testimoniare sempre, anche nei momenti peggiori, la tenerezza, la dedizione, la forza morale» e «senza le madri, non solo non ci sarebbero nuovi fedeli, ma la fede perderebbe buona parte del suo calore semplice e profondo». Il Papa ha terminato la catechesi con un triplice ringraziamento: «Noi non siamo orfani, abbiamo una madre, la Madonna, la madre Chiesa e la nostra mamma. Carissime mamme, grazie, grazie per ciò che siete nella famiglia e per ciò che date alla Chiesa e al mondo. E a te, amata Chiesa, grazie, grazie per essere madre. E a te, Maria, Madre di Dio, grazie per farci vedere Gesù. E a tutte le mamme qui presenti le salutiamo con un applauso!».

A fine dell’udienza, che si è svolta al chiuso dell’aula Paolo VI, il Papa ha ricordato, tra l’altro, il 70esimo anniversario della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz, salutando i pellegrini tedeschi e polacchi, ed ha incoraggiato le coppie di «sposi novelli» («Io li chiamo i coraggiosi, perché ci vuole coraggio per sposarsi, sono bravi»). Il Papa ha poi dedicato un ringraziamento speciale, a braccio, ai circensi del Golden Circus di Liana Orfei, che si sono esibiti in un breve spettacolo di inizio anno: «La gente che fa lo spettacolo nel circo crea bellezza, sono creatori di bellezza, e questo fa bene all’anima. Quanto bisogno abbiamo noi di bellezza!». Nella vita, ha detto, c’è «il linguaggio delle mani, fare, il linguaggio della mente, pensare, e il linguaggio del cuore, amare, e tutti questi tre linguaggi si uniscono per fare l’armonia della persona e lì è la bellezza. Questa gente che oggi ha fatto questo spettacolo – ha detto ancora il Papa argentino – sono creatori di armonia, di bellezza, che insegnano quella strada superiore della bellezza. Dio certamente è buono, certamente sa fare le cose, ha creato il mondo, ma soprattutto Dio è bello, la bellezza di Dio, e tante volte noi ci dimentichiamo della bellezza. L’umanità pensa, sente, fa ma oggi ha tanto bisogno di bellezza».

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