i figli in vendita in internet:il dramma di una madre

all'asta

vent’anni, single e affetta da depressione post partum: questa è la drammatica situazione di una mamma di Bradford, in Inghilterra, che il giorno di Santo Stefano ha scritto un annuncio su Internet per mettere in vendita suo figlio di soli 4 mesi. L’annuncio, comparso su una delle più grandi piattaforme di compravendite esistenti, ha messo in allerta molti utenti del sito che hanno chiamato la polizia e i servizi sociali. La donna è stata immediatamente rintracciata e a nulla sono valse le sue proteste e le sue giustificazioni, i bambini sono stati dati in affido temporaneo ad altre famiglie

  Pietro Vernizzi de IL SUSSIDIARIO  ha chiesto un parere a Costanza Miriano:

“E’ giusto togliere il bambino alla madre inglese che ha scritto un annuncio online per metterlo all’asta, ma è un paradosso che nello stesso tempo sugli embrioni sia consentito fare di tutto, dalla sperimentazione scientifica alla selezione prenatale”. Lo rimarca la giornalista Costanza Miriano, autrice dei libri “Sposala e muori per lei” e “Sposati e sii sottomessa”, commentando la notizia della madre inglese di Bradford che ha pubblicato un annuncio sul portale Gumtree per vendere il suo figlio di quattro mesi per 150mila sterline. La polizia e le assistenti sociali hanno deciso di togliere il neonato alla madre, che soffriva a quanto pare di depressione post partum.

Miriano, in che senso ritiene che dietro a questa notizia ci sia un paradosso?

E’ giusto togliere il bambino a una madre che lo mette all’asta, anche se non conosco nello specifico tutti i dettagli di questa storia. Ma se fosse una madre che sceglie di affidare il figlio a chi se ne può occupare meglio di lei, purché non per un guadagno, in fondo non sarebbe una decisione così folle. Anche questa notizia di cronaca dovrebbe però farci riflettere sul fatto che la vita dei bambini è sacra fin dal concepimento. Se si considera solo l’Italia, le cifre sull’aborto e sulla pillola del giorno dopo sono comunque impressionanti. Nel corso della trasmissione “La Zanzara” su Radio 24 ho detto che una madre che ha concepito deve tenere il suo bambino perché è una persona. Sono rimasta stupita per le polemiche che ne sono seguite, in quanto mi sembrava di avere detto una cosa ovvia: che la libertà di una persona finisce dove incomincia quella di un’altra.

All’origine tanto del fatto della madre inglese quanto dell’aborto c’è innanzitutto un problema di solitudine da parte delle donne?

Sicuramente. Infatti la vera sottolineatura non è che le madri che concepiscono vadano costrette a tenere il bambino, quanto piuttosto che la società sia costretta ad aiutarle. Bisogna veicolare la consapevolezza che quel bambino è un bene per tutta la società, anche da un punto di vista soltanto economico perché sarà quello che pagherà le nostre pensioni. E magari, chissà, quell’embrione potrebbe diventare un grande pittore o un medico che scoprirà un rimedio contro il cancro.

E’ questo ciò che ci dimentica?

Sì, passa l’idea che se una donna resta incinta è soltanto un problema suo e che deve quindi vedersela da sola. Dunque c’è certamente una grande solitudine della quale siamo tutti responsabili. Forse in parte con la rivoluzione sessuale le donne hanno ottenuto questa libertà in cambio di solitudine. Vogliamo autodeterminarci in ogni scelta e questo comporta inevitabilmente un po’ di isolamento.

In Cina la politica del figlio unico ha prodotto 400 milioni di aborti e quasi 200 milioni di sterilizzazioni forzate. Una società come quella cinese è davvero diversa dalla nostra?

Una differenza fondamentale esiste, ed è la mancanza di libertà delle famiglie cinesi. Per fortuna in Occidente nessuno impedisce a una coppia di avere quanti figli vuole. Di sicuro però neanche in Italia esiste una cultura favorevole alla vita. La stessa Cina sta valutando di modificare la politica del figlio unico, perché si è resa conto che sta andando verso il suicidio demografico e quindi anche economico. Esistono Paesi sui quali pesa la condanna internazionale, mentre poiché non si può rinunciare a fare affari con la Cina, nessuno osa alzare la voce o minacciare sanzioni economiche contro Pechino. Alla fine ciò che muove le prese di posizione della comunità internazionale è una valutazione economica, non morale.

Secondo il demografo Gian Carlo Blangiardo, se si considera la vita dal concepimento anziché dalla nascita, nelle società occidentali l’aspettativa di vita cala drasticamente. Lei che cosa ne pensa?

Esseri che si affacciano alla vita non hanno poi il privilegio di viverla. Bisogna lottare per difendere il valore della vita e avere il coraggio di diffonderla. Le prime vere vittime dell’aborto sono le donne, anche se l’arma che si usa sempre per difendere l’interruzione di gravidanza è l’autodeterminazione. Si censurano così le sindromi post-aborto e le ferite che questo dramma lascia. Le teorie del genere, dell’emancipazione sessuale e della liberazione dimenticano completamente qual è il vero bene della donna, che è accogliere la vita.

(Pietro Vernizzi)

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27 gennaio: la nostra memoria troppo insenbile

Noi, incapaci di sentire davvero quel dolore

per ricordare e riflettere significativamente nel ‘giorno della memoria’ riporto qui sotto l’articolo di fondo di Ferruccio Sansa su ‘il Fattoquotidiano’ odierno:

Il giorno della memoria

Olocausto, la memoria sia parte della vita

Così un giorno ti ritrovi a un bivio. Sei andato a Monaco, per vedere la cattedrale, le birrerie, i musei. Poi uscendo dalla città, tra distese di fabbriche e capannoni, a un incrocio vedi un cartello giallo con quella scritta: DACHAU.

Non te lo aspettavi, quasi disturba la spensieratezza del viaggio. Quel segnale scompiglia i pensieri. Ma senti di dover svoltare. Quasi più per dovere che per convinzione. Senza quasi accorgertene ti trovi in un grande spiazzo. I rumori della città non ci sono più. Eppure non sai cosa fare, non sei pronto. Indugi nell’oltrepassare quel cancello di ferro battuto che senza aver mai visto già conosci così bene: “Arbeit Macht Frei”, il lavoro rende liberi.

Cosa dirò ai bambini?, ti chiedi. E io, come reagirò?, quasi temi di non essere all’altezza. Di non capire. Di non soffrire abbastanza. Eccolo dunque il campo di concentramento. Ecco i camini, le baracche. Avanzi sulla ghiaia, in un silenzio di cattedrale. Leggi i pannelli: “Dachau fu il primo campo di concentramento nazista, fu inaugurato nel 1933. Qui trovarono subito posto cinquemila internati”. Cinquemila uomini, donne e bambini. Provi a immaginarteli uno per uno, gente come te, come tua moglie, come i bambini cui chiudi la giacca perché non prendano freddo.

Ti sforzi di capire, di soffrire perfino, ma non ti senti adeguato. Non ci riesci davvero.

Leggi quei numeri spaventosi, diecimila, centomila morti, così grandi che invece di accrescere lo sgomento ti fanno quasi perdere di vista ogni singola vita, confusa nella cifra immensa.

Ebrei, polacchi, nomadi. Arrivi davanti al monumento dedicato ai bambini. Ti volti verso i tuoi, così misteriosamente silenziosi, quasi avessero capito, lo avessero sentito sulla pelle senza bisogno di tante spiegazioni. Proprio Giovanni e Nino, che vanno alla scuola germanica, che conoscono la grandezza di questa civiltà. E, però, provi a spiegare, a ricordare l’orrore che questo popolo, ogni popolo, ogni uomo a volte trova dentro di sé.

É quasi finito. Hai fatto il tuo dovere, puoi tornare a casa. Mancano le baracche ai margini del campo. La “Barache X”. Entri. Ti trovi in una stanza spoglia, in un buio che si infittisce procedendo verso una porta: le docce. Quindi è successo qui. Oltre quella soglia. Rimani fermo, non riesci a entrare. Ti guardi intorno. Non ci avevi ancora fatto caso: subito prima di superare l’ultima porta, lo sguardo incontra una piccola finestra quadrata. Di sicuro, sì, certamente è successo anche a loro in quegli ultimi istanti. Si vede solo un frammento di prato, il verde acceso dalla pioggia appena caduta. La vita. Lo vedi e d’improvviso ti metti a piangere, non riesci a fermarti, singhiozzi come non ti accadeva da quando eri bambino.

Da Il Fatto Quotidiano del 27/01/2014.

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scontro tra cardinali sull’eucarestia ai divorziati

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Muller, Marx, Maradiaga: confronto aperto sull’Eucarestia ai divorziati risposati

nervi tesi fra il G8 vaticano e il custode dell’ortodossia cattolica. A due mesi dalle critiche al prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, Gehrard Muller, da parte dell’arcivescovo di Monaco, Reinhard Marx, uno degli otto porporati che consigliano il papa, scende in campo lo stesso coordinatore della commissione cardinalizia.  In una lunga intervista al quotidiano tedesco Koelner Stadt-Anzeiger, l’arcivescovo di Tegucigalpa, Oscar Rodriguez Maradiaga, stigmatizza il rigore del titolare dell’ex Sant’Uffizio. <Muller è un professore di teologia tedesco, nella sua mentalità c’è solo il vero e il falso… – affonda il colpo l’honduregno -. Però, fratello mio, il mondo non è così, tu dovresti essere un po’ flessibile, quando ascolti altre voci… Per ora, tuttavia, ascolta solo il suo gruppo di consiglieri>.
SOTTO la cenere delle polemiche brucia il nodo dell’Eucarestia ai divorziati risposati, uno degli argomenti del prossimo Sinodo sulla famiglia. Come è noto, Muller, dopo aver difeso sull’Osservatore romano  il divieto alla Comunione per gli irregolari (23 ottobre 2013), a novembre ha chiesto all’arcidiocesi tedesca di Friburgo di ritirare il documento pastorale con il quale si dava facoltà ai preti di ammettere al sacramento il coniuge risposato che <in coscienza> avesse deciso di comunicarsi. La censura non piacque a Marx. E, così, qualche giorno il cardinale, a margine di un incontro ecclesiale in Baviera, espresse pubblicamente il suo dissenso nei confronti del prefetto: <Muller non può mettere fine alla discussione>. La posizione di Marx venne condivisa con forza da altri vescovi  della Germania. Fra i più agguerriti, monsignor Gebhard Fürst (Stoccarda) che all’ex Sant’Uffizio lanciò un appuntamento dal sapore provocatorio: a marzo l’episcopato tedesco avrebbe adottato le proposte dell’ufficio diocesano di Friburgo in occasione della sessione plenaria. Se non era una sfida, poco ci mancava.
A QUESTO punto sembrava che il braccio di ferro fosse destinato ad interessare solo il Sant’Uffizio e la Chiesa di Germania. In verità non era ancora intervenuto Maradiaga che dalle colonne del Koelner Stadt-Anzeiger ha fatto sentire la sua voce.  Rispondendo a una domanda sui sacramenti ai divorziati risposati, il cardinale ha lasciato intravedere margini di modifica della pastorale in materia: <La Chiesa è tenuta ai comandamenti di Dio e a ciò che Gesù dice sul matrimonio: ciò che Dio ha unito, l’uomo non deve separarlo. Ci sono diversi approcci per chiarire questo. Dopo il fallimento di un matrimonio ci possiamo per esempio chiedere: gli sposi erano veramente uniti in Dio? Lì c’è ancora molto spazio per un esame più approfondito. Però non si va nella direzione per cui domani è bianco ciò che oggi è nero>.
NON LA CITA espressamente, ma Maradiaga, per venire incontro alle richieste di riforma, sembra percorrere la via dell’allargamento delle cause di nullità delle nozze attraverso l’inserimento dell’impedimento della ‘mancanza di fede’. Una soluzione affacciata già da Benedetto XVI nell’Incontro con il clero di Aosta (2005) e probabilmente apprezzata anche da Muller. Non a caso il custode dell’ortodossia così scriveva sull’Osservatore romano: <I matrimoni sono probabilmente più spesso invalidi ai nostri giorni di quanto non lo fossero in passato, perché è mancante la volontà di sposarsi secondo il senso della dottrina matrimoniale cattolica e anche l’appartenenza a un contesto vitale di fede è molto ridotta. Pertanto, una verifica della validità del matrimonio è importante e può portare a una soluzione dei problemi>.MA I VESCOVI tedeschi sono d’accordo? Per fortuna l’appuntamento con il Sinodo è ancora abbastanza lontano e il dibattito intraecclesiale, sopito per troppi decenni, con papa Francesco ha ripreso slancio. Persino con qualche asprezza di troppo, tipica di chi non è abituato a confrontarsi sotto la luce del sole. D’altra parte le soluzioni sul tappeto non mancano. Si va, come abbiamo visto, dall’approccio giurisdizionale alla libertà di coscienza, passando per la prassi ortodossa (benedizione delle seconde nozze dopo un cammino penitenziale) fino al rimando al Concilio di Nicea (325). Quest’ultimo, come racconta lo storico della Chiesa Giovanni Cereti (Divorzio, nuove nozze e penitenza nella Chiesa primitiva, edizioni Dehoniane, 1977) al canone 8, imponeva ai novaziani (i seguaci del prete Novaziano che nel III secolo contese il papato a Cipriano) di riammettere alla Comunione i lapsi (gli apostati nella persecuzione) e gli adulteri. Ossia chi aveva ripudiato il coniuge per sposarne un altro.Giovanni Panettiere
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Miguel, ragazzo sinto orgogliosamente tale,ma anche ‘lucchese’

Miguel

«Macché integrato, io sono lucchese»

si racconta, Miguel, in questo dialogo con la giornalista del Tirreno, racconta la sua origine a Lucca, la bellezza e la difficoltà di dovere da sempre alternare una vita in appartamento a una vita al campo dei sinti in momenti di grande povertà
non sembra molto convinto nel rispondere, a precisa domanda, sulla sua ‘integrazione’: sembra suonargli un po’ equivoca questa parola e deludendo l’intervistatrice che vorrebbe fargli riconoscere come positiva e apprezzabile questa condizione, fa un deciso passo indietro con un sonoro ‘macché
è contento , però, della casa dove si trova ora, ma è contento soprattutto del percorso di ‘attivista’ che sta facendo e vorrebbe in seguito coinvolgersi in un impegno attivo di superamento delle difficoltà che sta vivendo il suo popolo a Lucca:
La storia di Miguel, storia di un’integrazione riuscita. Anche se, in realtà, alla parola “integrazione”,      Miguel cambia sguardo e precisa. «Ma integrazione di che? Io sono italiano, sono lucchese. Tifo Juve, tifo l’Italia ai      Mondiali, mi emoziono a sentire l’inno di Mameli, lavoro, ho amici, ho una mia vita». Fiorello Miguel Labbiati, all’anagrafe      Fiorello, al campo, tra i parenti e tra gli amici conosciuti fuori la scuola, Miguel, che era il nome preferito dalla mamma,      proprio come Miguel Bosè. Per gli amici stretti, invece, solo Vè. Trentun’anni, una figlia di dieci, fidanzato con      una ragazza “gagi”. Cioè non nomade, il modo con cui i sinti identificano coloro che non sono rom e che non      sono sinti. Miguel è nato a Fucecchio, da madre di Empoli e papà di Castelnuovo. Annovera dentro e prima di sé      ben quattro discendenze sinte (tedesca, lombarda, piemontese e francese) e una rom, da parte di nonno. È cresciuto tra      il campo di Nave, quello di Sant’Anna in via delle Tagliate e la casa della nonna, a San Vito. Da un po’ vive in una casa      sua e da quattro mesi convive con Martina. «La vita in casa mi piace molto – racconta – non ho avvertito      il distacco dal campo, perché fin da piccolo sono stato in un appartamento; a periodi vivevo con mia nonna che abitava      a San Vito nelle case popolari. La mia casa è il mio mondo e non la cambierei con qualcos’altro, anche se a volte ripenso      alla campina (la roulotte). Non ho ricordi negativi della vita con mia mamma al campo, anche quando non c’era la luce e si      stava con le candele per giorni. La casa è un’altra cosa: ho il giardino, un pezzo di terra dove posso fare l’orto, ho      i miei spazi per dipingere e realizzare sculture. «Da piccolo mi sono spostato tante volte – continua – Questo      perché cambiavamo città o più semplicemente quartiere. No, le superiori non le ho fatte, ma a settembre vorrei      iscrivermi al serale per prendere il diploma. Lavoro da quando ho 16 anni, facendo ogni tipo di attività: ho iniziato      nel calzaturiero e guadagnavo 300mila lire al mese. Poi sono entrato nell’edilizia, all’inizio mi facevano fare le pulizie.      Dopodiché ho cominciato a fare lo stucchino, nel frattempo sono diventato papà. Per un periodo ho fatto ogni tipo      di lavoro, poi è arrivata la crisi, l’edilizia è morta e sono entrato anche io in crisi. «Preso dalla disperazione      andai al Culto Evangelico a Pisa dove c’era un incontro per parlare della condizione dei rom e dei sinti. Un signore diceva      come non ci fossero rom e sinti nelle giunte comunali e come i sinti non fossero interessati alla politica. Pensai: ma che      dice questo? Ho fatto manifestazioni nella mia città, mi sono sempre interessato di politica, ma come italiano, non come      rom. Ci parlai, poi mi richiamò dopo una settimana e mi propose la possibilità di partecipare a uno scambio culturale      in Romania con altri ragazzi di diversi paesi europei sulla questione rom e sinti. E lì è cambiato tutto: in dieci      giorni mi è montata una voglia incredibile di raccontare il mio popolo e di lavorare per i sinti e per i rom». Così      a 29 anni ha preso parte all’Avs (anno di volontariato sociale) in Caritas, ha seguito diversi progetti, soprattutto con i      bimbi disabili e fino a entrare in Caritas con un contratto. Ora segue il corso di formazione per attivisti rom e sinti, organizzato      e promosso dall’Associazione 21 luglio che ha sede a Roma. «Vado nelle scuole, parlo dei rom e dei sinti. Per me è      un orgoglio la mia appartenenza, lo dico sempre a tutti. Ho sempre lavorato e non mi sono mai guadagnato da vivere rubando.      Quando parlo nelle scuole mi chiedono perché gli zingari rubano. Non mi dà fastidio, perché è vero che      esiste l’illegalità. Anche nella mia famiglia. Ed è vero che ci sono persone in carcere o agli arresti domiciliari      per furto o per spaccio. Per me non esiste il male o il bene di per sé, esistono le opportunità, le necessità,      le condizioni di vita e le amicizie. Una persona non è che ruba in quanto rom. Io sono un sinto che ha voglia di fare      e sono fortunato. Secondo me l’istruzione è tutto, con le scuole speciali per rom e sinti hanno alimentato l’emarginazione      e creato generazioni di analfabeti e delinquenti». E per il futuro? «Finito il corso per attivista – conclude      – vorrei occuparmi della situazione di Lucca. Mi sto accorgendo che le realtà fuori da Lucca sono tremende e molto      peggiori. Qua la situazione è abbastanza positiva, ci sono tanti ragazzi che conducono una vita normale e che si sono      inseriti nella città, anche se per alcune cose siamo indietro. «Questo, secondo me, è un momento maturo per      creare una situazione definitiva per le famiglie che vivono al campo, partendo da un percorso condiviso e partecipato con      le famiglie stesse. È importante farli sentire importanti. Mi piacerebbe che la mia città diventasse un’avanguardia      e un esempio per tutta Italia, ne ha le carte. Basta che creda nei suoi giovani sinti e rom».
Nadia Davini – il Tirreno
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la vera domanda per il ‘giorno della memoria’

 

memoria e memorie

auswitz

il Giorno della Memoria è stato istituito nel giorno in cui 69 anni fa i soldati dell’Armata Rossa abbatterono i cancelli del lager di Auschwitz e vi entrarono rivelandone l’orrore. E sacrosanto è stato aver stabilito un giorno in cui ricordare quell’abisso incancellabile. Ma, come per ogni ritualizzazione, quella ferita sanguinante si scontra con il rischio della museificazione da una parte e della falsa coscienza dall’altra

M. Ovadia nel fare memoria delle varie shoah (compreso il porrajmos, la shoa del popolo zingaro) pone la vera domanda: non:come abbiamo potuto arrecare danno a loro, ma: come abbiamo potuto arrecare un così grave danno a noi stessi:

 Moni Ovadia

in “l’Unità” del 25 gennaio 2014

 

Un paio d’anni fa fui invitato dall’associazione Beneruwanda a partecipare ad una giornata di memoria del genocidio del popolo Tutsi, nel ricorrere del suo anniversario. In quell’occasione ebbi modo di incontrare la signora Yolande Mukagasana, testimone del genocidio del suo popolo, militante della Memoria e candidata al Premio Nobel per la Pace. Yolande nel genocidio ha perduto marito e figli, lei stessa si è salvata miracolosamente grazie all’aiuto di una donna Hutu.

Incontrandola, rimasi profondamente impressionato dalla luce intensa del suo volto e dalle sue parole pacate e ferme nell’esprimere il dolore per l’ignobile opera di negazionismo che è stata avviata anche nei confronti del genocidio dei Tutsi.

Ebbene sì! Può suonare incredibile ma il negazionismo non è rivolto solo contro il martirio gli ebrei, ma anche contro altre vittime di stermini. Mentre parlavo con Yolande Mukagasana, un singolare dettaglio mi colpì, il fatto che lei portasse al collo, come ciondolo, una vistosa stella di Davide. Vincendo il riserbo le chiesi perché indossasse quella stella e lei mi rispose: «Noi dobbiamo fare come gli ebrei!».

Evidentemente Yolande si riferiva al Senso della Memoria che ha permesso al popolo ebraico di non soccombere alla violenza, all’annientamento e all’oblio, ma di rispondere alle tenebre dell’odio con una cultura di conoscenza e di vita. Per uscire da un equivoco molto diffuso, ovvero che l’istituzione del Giorno della Memoria sia ad usum degli ebrei, è bene chiarire con fermezza che non è così! Lo specifico ebraico della memoria vive nelle sinagoghe e nelle case di studio. La teoria e la Pratica della Memoria ebraica nascono 3500 anni fa in occasione del primo scampato sterminio progettato nel deserto del Sinai dal re Amalek, il progenitore di tutti gli antisemiti irriducibili. A seguito di quell’evento viene consegnato ai b’nei israel, i figli di Israel, il monito «yizkhor!», (ricorderai!). Questa e la ragione del suo carattere originale ed irrinunciabile, 3500 anni di pensiero.

Il Giorno della Memoria deve servire all’Europa che, in misura maggiore o minore, ha nutrito e accolto nelle proprie fibre intime carnefici, collaborazionisti, delatori zone grigie ed indifferenti, deve indurre a riflettere criticamente pro bono della qualità del presente e del futuro sollecitando a porsi la grande domanda che non è «perché abbiamo fatto questo agli ebrei, ai rom, ai menomati , agli omosessuali, agli slavi, agli anti fascisti, ai testimoni di Geova», bensì «perché abbiamo fatto questo a noi stessi? Come abbiamo potuto ridurci a questo infame degrado?».

Quanto agli ebrei devono capire che la memoria della Shoah non deve garantire primazie, ma deve illuminare tutti i genocidi e gli stermini, quelli di prima e quelli di dopo e portarli in primo piano, non relegarli sullo sfondo, inoltre bisogna capire che ogni uso strumentale, propagandistico, bassamente retorico della Shoah è il miglior modo per destituirla di verità e di universalità

porraimos

L’“altra” Shoah la devastazione del popolo rom

di Moni Ovadia e Marco Rovelli

in “il Fatto Quotidiano” del 25 gennaio 2014

Il Giorno della Memoria è stato istituito nel giorno in cui 69 anni fa i soldati dell’Armata Rossa abbatterono i cancelli del lager di Auschwitz e vi entrarono rivelandone l’orrore. E sacrosanto è stato aver stabilito un giorno in cui ricordare quell’abisso incancellabile. Ma, come per ogni ritualizzazione, quella ferita sanguinante si scontra con il rischio della museificazione da una parte e della falsa coscienza dall’altra.

Le attività e le manifestazioni di questa Giornata riguardano in maniera soverchiante la Shoah, ovvero lo sterminio degli ebrei, al punto da oscurare quasi gli eccidi e le sofferenze subìte dalle altre vittime della ferocia nazista: i rom, gli omosessuali, i menomati, gli antifascisti a vario titolo, i testimoni di Geova, gli slavi, i militari italiani che rifiutarono di servire il governo fantoccio di Salò.

NESSUN POLITICO AD AUSCHWITZ. HA MAI DETTO: “MI SENTO ROM”

razzismo rom

Ricordare l’unicità della Shoah non può essere l’alibi per dimenticarsi degli altri. I rom, in particolare, sono stati per lunghissimo tempo misconosciuti nel loro status di vittime: e se oggi non c’è quasi un politico occidentale che non voglia mostrarsi amico degli ebrei e soprattutto degli israeliani, quasi nessuno di essi è disposto a identificarsi con i rom. Nessuno dei rappresentanti politici dei paesi occidentali ha il coraggio di uscire da una visita al lager di Auschwitz dichiarando: “Mi sento rom”; molti, però, si affrettano ad affermare: “Mi sento israeliano”. Ora sia chiaro, nessuno vuole ignorare o sottovalutare lo specifico antisemita del nazifascismo e sminuire l’immane dimensione della Shoah. Ciò che è inaccettabile è il deliberato sottacere delle sofferenze dei rom e dei sinti anch’essi destinati al genocidio. È intollerabile che si discrimini fra le sofferenze di esseri umani che subirono la stessa tragica sorte. I rom sono vittime secolari dell’occultamento della loro identità e della loro memoria, oltre che essere vittime di un’antichissima persecuzione. Essi non hanno terra, non hanno un governo potente che parli per loro, sono tuttora gli “zingari” reietti: perché mai dunque riconoscere piena dignità alle loro inenarrabili sofferenze? La cultura orale dei rom, del resto, diversamente dalla cultura ebraica fondata sulla Scrittura, ha facilitato il compito della dimenticanza: non c’è stato che un soffio di vento, niente più che questo, nulla che sia conservato e degno di conservazione. Solo con fatica si è imposto il nome dello sterminio nazista dei rom: Porrajmos. Il merito di questo va al grande intellettuale rom inglese Ian Hancock, linguista e fra le altre cose  rappresentante del popolo rom presso le Nazioni Unite. Il termine “Porrajmos”, nella lingua di alcuni romanì, “devastazione”. Ma la lingua romanes ha molte articolazioni, corrispondenti alla disseminazione dei suoi numerosissimi gruppi e sottogruppi: perciò capita che un significante abbia significati diversi per diversi rom. Da Jovica Jovic, grande fisarmonicista rom serbo, abbiamo appreso che quel termine, nel “suo” romanes, ha un significato sessuale osceno. Così per Jovica quel termine è inusabile, e offensivo: impossibile per lui ricordare i suoi zii morti ad Auschwitz con quel termine. Una vicenda paradossale, questa, direttamente legata alla dispersione e alla secolare marginalizzazione e inferiorizzazione dei rom. Per rispetto nei confronti dei rom come Jovica crediamo dunque che dovremmo cominciare a trovare un altro termine, che non sia l’ennesimo affronto alla memoria proprio là dove la memoria dovrebbe essere sacralizzata e conservata.

Samudaripen è il termine alternativo che molti rom propongono: significa “tutti morti”, e non ha implicazioni imbarazzanti per nessuno. Per domani le associazioni 21 luglio e Sucar Drom hanno organizzato un convegno a Roma intitolato proprio Samudaripen: può essere un buon inizio, per avere finalmente un nome, e un nome giusto, per l’Orrore dimenticato.

 divieto ai nomadi

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i musulmani a Sassuolo costretti a pregare in strada

presente-passato-futuro

Cari vescovi, la moschea di Sassuolo riguarda anche noi. Lettera di una comunità cristiana

 

 

niente più moschea per i musulmani di Sassuolo. E così i cattolici del gruppo Camminare insieme scrivono al vescovo e ai parroci chiedendo anche a loro di attivarsi per tentare di trovare una soluzione

così L. Kocci ricostruisce la questione di una comunità che vede chiusa ora la Moschea e l’anno scorso il proprio centro culturale:

“Adista” n. 3, 25 gennaio 2014

Luca Kocci

La questione non è nuova. Già diversi anni fa venne chiuso dal Comune un locale che la comunità islamica utilizzava come moschea. Alla fine dello scorso anno, poi, è stato chiuso anche il secondo luogo di culto cittadino dei musulmani, il Centro culturale El Medina di via Cavour, per questioni relative all’agibilità degli spazi (anche se la faccenda è piuttosto controversa). Da allora la comunità islamica prega in strada. «Egregi concittadini di Sassuolo, è con grande rammarico che ci troviamo, nostro malgrado, a dovervi porgere le nostre più sentite scuse, per gli eventuali disagi che vi dovessimo involontariamente arrecare in questi giorni», hanno scritto i musulmani in una lettera aperta ai sassuolesi. «Cogliamo l’occasione per informarvi che il Centro ha sempre dato la sua completa disponibilità a valutare collocazioni diverse da quella attuale, con la sola condizione di poter mantenere la destinazione dell’immobile ad uso di luogo di culto, per la quale abbiamo già dovuto pagare una somma ingente. Purtroppo, questa disponibilità non è stata mai presa in considerazione dalla giunta comunale, che sembra mirare ad una chiusura totale del centro, piuttosto che ad una collocazione più adatta, ed eventualmente più distante da una zona densamente abitata. Speriamo – conclude la lettera – nella vostra comprensione, auspicando che la situazione si risolva nel più breve tempo possibile».

A solidarizzare con la comunità islamica è il gruppo di dialogo interreligioso Camminare insieme –composto da famiglie cattoliche e musulmane – che ha scritto una lettera indirizzata «ai vescovi di Modena e Reggio Emilia, ai sacerdoti e alle loro comunità cristiane». Chiediamo «che quello che sta avvenendo non sia seguìto da parte di tutti da un silenzio che riteniamo potrebbe diventare “assordante”, ma possa scuotere le coscienza di tanti. Noi tutti sappiamo quale valore possa, per una persona credente, religiosa, avere la possibilità di incontrasi con altri fratelli e sorelle nella fede, per lodare insieme Dio, per far festa, per vivere momenti di formazione e studio. È vero che è importante la lode e l’adorazione personale, è vero che consideriamo momento molto utile ed edificante il pregare in famiglia, ma conosciamo anche la bellezza e l’intensità del trovarsi in assemblea a pregare tra fratelli».

«Non vogliamo entrare nello specifico degli aspetti tecnici e delle questioni burocratiche», si legge nella lettera di Camminare insieme, «ma sentiamo il bisogno di alzare la voce e chiedere a tutti e in particolare a chi professa e cerca di vivere al meglio la propria fede in Cristo, un surplus di impegno affinché si trovi una soluzione a questo problema. Ci rivolgiamo a voi sacerdoti e alle vostre comunità, perché possiate contribuire, per quello che vi è possibile, con gli strumenti e le opportunità di cui disponete, affinché la numerosa comunità musulmana che vive nel nostro territorio, uomini e donne che incontriamo ogni giorno al lavoro, o a fianco dei nostri figli a scuola, o a far la spesa nei supermercati, o seduti sulle panchine nei parchi dei nostri paesi, possa superare questo momento di tristezza e di grande precarietà».

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p. Maggi e p. Pagola commentano il vangelo

p. Maggi

così p. Maggi commenta il vangelo della terza domenica del tempo ordinario (26 gennaio 2014):

VENNE A CAFARNAO PERCHE’ SI COMPISSE CIO’ CHE ERA STATO DETTO PER MEZZO DEL PROFETA ISAIA

Mt 4,12-23

Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea, lasciò Nàzaret andò ad abitare a Cafàrnao, sulla riva del mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaìa: «Terra di Zàbulon e terra di Nèftali, sulla via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti! Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta». Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, rché il regno dei cieli è vicino». Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, eAndrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, che nella barca, insieme a Zebedeo loro padre,  aravano le loro reti, e li chiamò. Ed essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono.

Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo.

L’evangelista Matteo presenta in questo brano l’inizio dell’attività di Gesù. Una volta venuto a sapere che Giovanni è stato arrestato e quindi l’aria si fa pesante e difficile in Giudea, Gesù sale al nord, nella Galilea, nella regione che vedremo abbastanza disprezzata ,“lascia Nazareth, il suo paese natale, e va ad abitare a Cafarnao”. E’ interessante il fatto che né Nazareth né Cafarnao vengono mai nominate nell’Antico Testamento, comunque Cafarnao era una città di frontiera, importante posto di dogana. L’evangelista scrive poi “sulla riva del mare”, ma in realtà è un lago. Perché l’evangelista parla di mare? Perché con questo sotterfugio, sostituendo lago con mare, l’evangelista vuol dare un’indicazione teologica; il mare era quello che separava Israele dai pagani, ma soprattutto il mare era quello che il popolo di Israele aveva attraversato per fuggire dalla schiavitù egiziana. Quindi indicava la piena liberazione. Tutta la tematica dell’evangelista è in chiave di Esodo e Gesù è il nuovo Mosè che viene a liberare il suo popolo. E qui l’evangelista vede, nell’attività di Gesù, nella scelta di Gesù di salire in Galilea, la realizzazione della promessa di liberazione messianica da una situazione di oppressione a una di salvezza, di un territorio che era stato devastato dagli Assiri e cita il profeta Isaia al capitolo 8, versetto 23, dove si parla di Galilea delle genti. Mentre la Giudea deve il suo nome a Giuda, uno dei patriarchi più importanti, questa regione al nord era talmente disprezzata – era una regione abitata da poveri, da bifolchi, da gente violenta – era talmente disgustata la popolazione della Giudea da quelli del nord, che lo stesso Isaia non sa come definire questa regione e usa un termine dispregiativo, la chiama ‘la provincia o il distretto dei non ebrei’. Il distretto in ebraico è Gelil da cui il termine Galilea, quindi mentre Giudea deriva da Giuda, Galilea deriva da questo termine dispregiativo col quale il profeta indica questa regione al nord. Ebbene proprio questa regione disprezzata a nord, dove il popolo abita nelle tenebre, proprio lì è sorta la luce. E qui l’evangelista anticipa quella che poi l’azione di Gesù, luce del mondo, di comunicare ai suoi stessi discepoli la possibilità di essere luce del mondo. E Gesù inizia la sua attività. 

“Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi …»”. Il verbo ‘convertire’ nel testo greco dei vangeli si trova in due maniere, una che indica un ritorno religioso a Dio, l’altra, che è quella che adopera l’evangelista, significa un cambio di mentalità che indice sul comportamento. Gli evangelisti, Matteo in particolare, evitano il primo termine, quello che indica il ritorno religioso a Dio. Con Gesù, il Dio con noi, non c’è più da tornare verso Dio, ma accogliere questo e con lui e come lui andare verso gli altri, per cui la conversione significa orientare diversamente la propria esistenza. Se fino ad adesso si è vissuto per sé, da ora in poi si vive per gli altri. Questa conversione è  finalizzata al fatto che “ «il regno dei cieli è vicino»”. Non è ancora realtà perché il regno dei cieli si realizzerà con l’accoglienza delle beatitudini. La prima beatitudine permetterà la realizzazione del regno dei cieli. Ma cosa si intende per ‘regno dei cieli’? Gesù non parla di un regno nei cieli, cioè l’aldilà. Regno dei cieli, espressione che troviamo soltanto nel vangelo di Matteo, indica il regno di Dio. Matteo, che scrive per una comunità di ebrei, evita di usare il termine ‘Dio’ tutte le volte che gli è possibile, per non offendere la sensibilità dei suoi lettori e, quando gli è possibile, usa dei sostituti. Uno di questi era ‘cieli’, quindi regno dei cieli non significa l’aldilà, ma il regno di Dio, cioè Dio  che diventa il re del popolo, si permette a Dio di governare il suo popolo. Allora la conversione, il cambiamento della propria esistenza, è per permettere questa realizzazione del regno, che diventerà realtà con l’accoglienza della prima beatitudine. Il regno dei cieli, il regno di Dio, non cade dall’alto ma richiede la collaborazione dell’uomo. Ebbene, “mentre camminava lungo il mare ”, di nuovo torna questo termine mare, l’evangelista scrive che Gesù vide Simone e Andrea. Questi due personaggi hanno nomi greci, quindi significa che provengono da una famiglia abbastanza aperta. Simone in particolare è conosciuto per la sua testardaggine, infatti ha un suo soprannome ‘pietra’ che significa la sua caparbietà, la durezza, che poi verrà scoperta lungo tutto il vangelo. “Gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori”. Il richiamo dell’evangelista è alla profezia contenuta nel libro di Ezechiele, capitolo 47, versetto 10, dove  “il tempo del messia sarà un tempo di abbondanza per i pescatori”. Ebbene “Gesù disse loro: «Venite dietro a me»”. E’ interessante, Gesù per iniziare la sua comunità, il gruppo con il quale inaugurare questo regno di Dio, non va in cerca di monaci – c’erano gli esseni – non chiama le persone pie, i farisei, non chiama neanche gli appartenenti al clero, i sacerdoti, neanche le persone potenti, i benestanti, quelli erano i sadducei, né tanto meno i teologi, gli scribi, ma chiama gente normale, dei pescatori. Dice, «Vi farò pescatori di uomini»”. E’ interessante che questo titolo, la missione alla quale Gesù chiama i suoi poi verrà abbandonato presto dalla chiesa. Preferiranno farsi chiamare pastori, titolo che Gesù non ha dato a nessuna persona – lui è l’unico pastore – anziché pescatori di uomini, che è quello che Gesù chiede ai suoi di fare. Che significa pescatori di uomini? Mentre pescare il pesce significa tirar fuori il pesce dal suo habitat naturale per dargli la morte, pescare gli uomini significa tirarli fuori dall’acqua, simbolo del male, imbolo della morte, per salvarli, per dare loro vita. Quindi la proposta di Gesù è di andare dietro di lui per comunicare vita a tutta l’umanità. “Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono”. C’è poi la chiamata di altri due fratelli, Giacomo e Giovanni, questi hanno nomi giudaici, nomi ebrei, e si vedrà poi nel corso del vangelo il loro atteggiamento che rispecchia il loro nome e qui sottolinea l’evangelista che c’è la presenza del padre, Zebedeo. Gesù li chiama, “Essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono”. Per seguire Gesù bisogna abbandonare il padre. Il padre indica l’autorità e per seguire Gesù bisogna abbandonare il padre, perché l’unico Padre che c’è all’interno della comunità dei credenti è il Padre che è nei cieli, che non governa gli uomini emanando leggi che questi devono osservare, ma comunicando loro la sua stessa capacità d’amore. “Gesù percorreva tutta la Galilea”, quindi questa regione disprezzata, “insegnando nelle loro sinagoghe e annunziando il vangelo del Regno”. L’evangelista adopera due verbi differenti per l’azione di Gesù. Nelle sinagoghe insegna, e insegnare significa prendere dal patrimonio dell’Antico Testamento per poi proporlo. Quindi nelle sinagoghe Gesù prende quella che è la ricchezza del popolo, contenuta nell’Antico Testamento, e gliela propone. ma, per annunziare la buona notizia del Regno, Gesù non insegna, ma annunzia o predica. Quindi sono due verbi differenti. Quando si rivolge agli ebrei Gesù insegna, quando si rivolge a persone miscredenti o fuori della legge, non ebrei, Gesù annunzia o predica. E questo significa cogliere il nuovo senza il bisogno di andare a ripescare l’antico. E, per la prima volta in questo vangelo appare il termine ‘vangelo’ che significa ‘buona notizia’. E qual è la buona notizia? La buona notizia è quella del Regno. E infatti Gesù non si limita a parlare, ma agisce. Come? “Guarendo ogni sorta di malattie e infermità nel popolo”. Notate che non sono ‘del popolo’, ma ‘nel popolo’, cioè Gesù libera da quegli impedimenti che ostacolano l’accoglienza del suo messaggio di pienezza di vita nel popolo, e quindi inizia così a dilagare l’attività di Gesù e inizia il nuovo, inarrestabile esodo.

 

QUALCOSA DI NUOVO E BUONO

Il primo scrittore che raccolse l’attuazione ed il messaggio di Gesù lo riassunse tutto dicendo che Gesù proclamava la “Buona Notizia di Dio”. più tardi, gli altri evangelisti utilizzeranno lo stesso termine greco (euanggelion) per esprimere la stessa convinzione: nel Dio annunciato da Gesù le genti trovavano qualcosa di “nuovo” e “buono.”   C’è ancora in questo Vangelo… qualcosa che possa essere letto, in mezzo alla nostra società indifferente e miscredente, come qualcosa di nuovo e buono per l’uomo e la donna dei nostri giorni? Qualcosa che possa trovarsi nel Dio annunciato da Gesù e che non proporziona facilmente la scienza, la tecnica o il progresso? Come è possibile vivere la fede in Dio nei nostri giorni?   Nel Vangelo di Gesù noi credenti ci troviamo con un Dio dal quale possiamo sentire e vivere la vita come un regalo che ha la sua origine nel mistero ultimo della realtà che è Amore. Per me è buono non sentirmi solo e perso nell’esistenza, né nelle mani del destino o nelle mani del caso. Ho Qualcuno al quale posso dire grazie per la vita.   Nel Vangelo di Gesù ci troviamo con un Dio che, nonostante le nostre goffaggini, ci dà forza per difendere la nostra libertà senza finire schiavi di qualunque idolo; per non vivere sempre a metà né essere dei “vitelloni”; per andare imparando forme nuove e più umane di lavorare e di gioire, di soffrire e di amare. Per me è buono poter contare sulla forza della mia piccola fede in quel Dio.   Nel Vangelo di Gesù ci troviamo con un Dio che sveglia la nostra responsabilità affinché noi non ci disinteressiamo degli altri. Non potremo fare grandi cose, ma sappiamo che dobbiamo contribuire ad una vita più degna e più felice per tutti pensando soprattutto ai più necessitati e ai più indifesi. Per me è buono credere in un Dio che mi domanda con   frequenza che faccio per i miei fratelli.   Nel Vangelo di Gesù ci troviamo con un Dio che c’aiuta ad intravedere che c’è male nell’ingiustizia, e che la morte non ha l’ultima parola. Un giorno tutto quello che non è potuto qui essere, quello che è rimasto a metà, i nostri aneliti più grandi ed i nostri desideri più intimi raggiungeranno in Dio la loro pienezza. A me  fa bene vivere ed aspettare la mia morte con questa fiducia.   Certamente, ognuno di noi deve decidere come vuole vivere e come vuole morire. Ognuno deve ascoltare la sua propria verità. Per me non è la stessa cosa credere in Dio che non credere. A me fa bene poter fare il mio percorso in questo mondo sentendomi accolto,  sentendomi fortificato, perdonato e salvato dal Dio rivelato in Gesù.   Annuncia la Buona Notizia di Dio.
José Antonio Pagola

 

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che c’incastra Muller con la chiesa di papa Francesco? i suoi primi oppositori

inquisizione

per chi non ha un minimo di conoscenza il nome Muller dice poco o nulla, in realtà è il nuovo capo dell’ex sant’Ufficio o della odierna Congregazione della Dottrina della Fede con quella intransigenza e rigidità tipica del ruolo, e lui sembra incarnarle nel modo migliore …

nominato da Giovanni Paolo secondo, aveva ovviamente tutta la sua stima e approvazione; papa Francesco però se lo è trovato e ha dovuto fare buon viso a cattiva sorte …

ma: ‘nemo profeta in patria’! 

 questo ho trovato sul sito interessante ‘il calibro’:

Ha dovuto aspettare un po’, ma alla fine mons. Gerhard Ludwig Müller ce l’ha fatta: in occasione del prossimo concistoro, in programma a febbraio, otterrà la berretta cardinalizia prevista dal suo ruolo di prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Ma a sperare contro ogni speranza che non diventasse cardinale erano in parecchi, nella “sua” Germania, e proprio tra i confratelli vescovi. Lo rivela il quotidiano tedesco Passauer Neue Presse (12/1), affermando, senza tuttavia entrare nei dettagli, che «secondo informazioni provenienti da circoli ecclesiali, vi sono stati per lo meno dei tentativi di impedire la nomina del prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, l’arcivescovo Müller, a cardinale». E aggiunge: «In base a queste informazioni, uno o più vescovi tedeschi avrebbero tentato di creare un ambiente ostile a Müller presso papa Francesco».

Secondo la fonte del quotidiano, un ruolo importante sarebbe stato svolto da una campagna di stampa a lui avversa, e soprattutto due interventi sui media – che sarebbero stati fatti leggere a papa Francesco – in cui Müller è stato dipinto in modo nettamente negativo: un articolo del settimanale Die Zeit, in cui il prefetto è apparso come «avversario ostinato» dell’attuale papa, e un contributo del teologo critico Hans Küng sullo stesso Passauer Neue Presse (27/11/13), dove Müller, ex arcivescovo di Ratisbona, veniva presentato come «il nuovo cardinale Ottaviani». Küng aveva infatti affermato che Müller si sente chiamato, come il cardinale conservatore Alfredo Ottaviani al tempo del Concilio Vaticano II, «a imporre la sua visione conservatrice della fede al papa e al Concilio, anzi, a tutta la Chiesa». Papa Francesco, però – così la fonte di ambiente ecclesiale del quotidiano tedesco – ha ignorato le obiezioni riguardanti Müller. La scelta di nominarlo in ogni caso cardinale, dunque, sarebbe da interpretare come una precisa direzione intrapresa: in caso contrario, afferma il quotidiano tedesco, «il papa non avrebbe dovuto nemmeno confermarlo nella sua carica di prefetto della Congregazione, carica che comporta necessariamente il rango di cardinale». Il tentativo di far cambiare idea al papa, dunque, avrebbe avuto l’obiettivo, in definitiva, di silurare Müller come prefetto dell’ex “Sant’Uffizio”.

Müller, approdato nel 2012 alla guida della Congregazione per la Dottrina della Fede, godeva della piena fiducia di papa Ratzinger, che gli aveva affidato la cura editoriale della propria opera omnia: 16 volumi a cura della Fondazione Joseph Ratzinger, di cui lo stesso Müller è presidente. Come Ratzinger, è un accademico con, all’attivo, oltre 400 pubblicazioni di teologia dogmatica, di cui è stato docente. Dopo i 23 anni passati da Ratzinger alla guida della Congregazione, e i cinque di Levada, non dotato di una vocazione teologica alla pari del suo predecessore, tornava così all’ex Sant’Uffizio un vero teologo il cui motto è Dominus Iesus, titolo del documento ratzingeriano del 2000 su Cristo come unica via per la salvezza, tanto indigesto al dialogo interreligioso. Ma il suo passato di allievo del card. Karl Lehmann (appartenente all’ala più progressista dell’episcopato tedesco) e del teologo della liberazione Gustavo Gutiérrez, cui è legato da una amicizia personale, e con il quale nel 2004 aveva scritto un libro, avevano fatto sperare in un nuovo clima di apertura; nel 2008, poi, aveva ricevuto il dottorato honoris causa presso la Pontificia Università Cattolica del Perù, e in quell’occasione aveva elogiato la teologia di Gutiérrez la cui ortodossia, peraltro, nonostante l’avversione di Wojtyla, era stata certificata dallo stesso Ratzinger dopo un percorso di correzioni e revisioni.

Ma quello che sembrava il volto “buono” del ratzingerismo rischia di apparire ora come quello meno “presentabile” del bergoglismo. Che tra Müller e il papa, da una parte, e i vescovi connazionali dall’altra le acque non siano proprio placide lo dimostrano le accese controversie degli ultimi mesi, nelle quali Müller ha assunto posizioni dure e intransigenti, in particolare riguardo alla questione dei divorziati risposati, per i quali rifiuta qualsiasi ipotesi di reintegrazione nella vita sacramentale . Una questione sulla quale è stato più “definitivo” del papa (che, in vista del prossimo Sinodo, sta ascoltando la base cattolica sui temi legati alla famiglia e alle nuove situazioni problematiche, tra le quali quella dei divorziati risposati) e che lo ha visto opporsi frontalmente a una parte dell’episcopato tedesco, soprattutto a mons. Robert Zollitsch, presidente della Conferenza episcopale e vescovo di Friburgo la cui diocesi è stata protagonista, lo scorso autunno, di una clamorosa fuga in avanti, con la decisione, dopo un lungo dibattito intraecclesiale, che i divorziati risposati potranno ricevere i sacramenti e ottenere incarichi all’interno dei consigli parrocchiali.

A questa iniziativa Müller ha risposto con una doccia gelata in un articolo sull’Osservatore Romano (23/10/13) e con una lettera del 21 ottobre scorso, di cui ha dato conto il quotidiano Tagespost, diretta non solo al vescovo di Friburgo,  ma a tutti i vescovi tedeschi, in cui chiedeva di «ritirare e correggere» il progetto della diocesi «in modo da non aprire la strada a soluzioni pastorali contrarie al magistero della Chiesa». Per questo motivo Müller è inviso anche al  card. Reinhard Marx di Monaco (membro, tra l’altro, del cosiddetto “G8” del papa) che lo ha definito, alla conclusione dell’assemblea d’autunno dei vescovi bavaresi, un esempio di «erudizione dottrinale» e un «recinto» costruito attorno a quell’«ospedale da campo» della misericordia rappresentato dalla Chiesa nel suo rivolgersi ai feriti della società, secondo una metafora usata da papa Francesco. Il prefetto della CdF, ha detto Marx, «non può chiudere la discussione»: «Se ne parlerà estesamente, con quale risultato non lo so».

Ma l’etica matrimoniale non è certo l’unico campo in cui Müller e alcuni vescovi tedeschi si fronteggiano. C’è, per esempio, la vicenda del vescovo di Limburg mons. Franz-Peter Tebartz van Elst, sotto inchiesta per le spese faraoniche affrontate per la ristrutturazione della sua residenza, inviso a molti confratelli, che ha invece in Müller un amico e sostenitore. Ciò detto, il prefetto pare non stare simpatico a molti, anche in Vaticano. È del 20 gennaio scorso un’intervista del quotidiano tedesco Kölner Stadt-Anzeiger al card. Oscar Maradiaga, honduregno, tra i più stretti collaboratori del papa in quanto coordinatore del “G8” dei cardinali, in cui questi afferma, rispondendo ad una domanda diretta sul prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e sulla sua chiusura ai divorziati risposati, che Müller «è un tedesco, bisogna dirlo, è prima di tutto un professore di teologia tedesco, nella sua mentalità c’è solo il vero e il falso… Però io dico, fratello mio, il mondo non è così, tu dovresti essere un po’ flessibile quando ascolti altre voci… Quindi non solo ascoltare e dire no». Maradiaga spera tuttavia che in futuro Müller  «arriverà a comprendere anche altre posizioni», anche se per il momento «ascolta solo il suo gruppo di consiglieri».

ma qualcuno ha il coraggio di rapportarsi a lui con più immediatezza e atteggiamento critico:

«Fratello mio, fatti più flessibile»

Scontro tra cardinali sui divorziati

di Luigi Accattoli

in “Corriere della Sera” del 22 gennaio 2014

Di nuovo è scontro tra due cardinali: era capitato tra Schönborn e Sodano nel 2010 sugli scandali sessuali e ricapita ora tra Rodriguez Maradiaga e Müller sui divorziati risposati: il primo sollecita innovazioni, il secondo riafferma la dottrina. In ambedue i casi si tratta di personaggi di primo piano ed è sempre il cardinale residenziale o di periferia – allora Schönborn, ora Rodriguez Maradiaga – a criticare quello di Curia.

Con un articolo dello scorso ottobre Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina, chiamato a quell’incarico da Benedetto e fatto ora cardinale da Francesco, metteva paletti al dibattito sulla spinosa materia che sarà affrontata dal Concistoro straordinario del 20 febbraio e dai due Sinodi convocati per l’ottobre 2014 e per l’ottobre 2015.

Oscar Rodriguez Maradiaga, dell’Honduras, coordinatore degli otto cardinali che consigliano il Papa sul governo della Chiesa, così ha spintonato quei paletti con un’intervista data ieri al quotidiano tedesco Kölner Stadt-Anzeiger: «Penso di capirlo, è anzitutto un professore di teologia tedesco, nella sua mentalità c’è solo il vero e il falso. Però io dico: fratello mio, il mondo non è così, tu dovresti essere un po’ flessibile quando ascolti altre voci e quindi non solo ascoltare e dire no». Il cardinale honduregno aggiunge che il collega «arriverà a comprendere anche altre posizioni»  benché per ora «ascolti solo il suo gruppo di consiglieri».

Dove il tedesco vedeva poco margine di manovra, l’honduregno assicura che ce n’è assai: «Dopo il fallimento di un matrimonio ci possiamo chiedere: gli sposi erano veramente uniti in Dio? Lì c’è ancora molto spazio per un esame più approfondito». Si direbbe che sia la stessa via indicata dal Papa in aereo il 29 luglio, quando aveva ricordato che il cardinale Quarracino, suo predecessore a Buenos Aires, considerava «nulli» la metà dei matrimoni: «Perché si sposano senza maturità, si sposano senza accorgersi che è per tutta la vita». E quindi il Papa sollevava «il problema giudiziale della nullità dei matrimoni», affermando che «quello si deve rivedere, perché i tribunali ecclesiastici non bastano per questo».

E’ verosimile che il cardinale Rodriguez Maradiaga abbia pensato di esplorare altre vie per il riconoscimento della nullità oltre a quella del ricorso ai tribunali ecclesiastici. «In futuro si potrebbe anche arrivare a una constatazione extragiudiziale della nullità del primo matrimonio» aveva affermato nel 1996 in un’intervista il cardinale Ratzinger. Un’idea che in Italia era stata sostenuta dai cardinali Tonini e Martini e in Germania da Lehmann e Kasper. Ma un’idea che Müller nel suo articolo era sembrato escludere, affermando che la nullità «dev’essere oggettivamente dimostrata dalla competente autorità giudiziaria».

Con questa intervista strategica il cardinale honduregno riapre – in vista del dibattito che avranno tra un mese in Vaticano i cardinali di tutto il mondo – i giochi che il tedesco aveva provato a chiudere.

Così Maradiaga rampogna il “troppo tedesco” Müller di Matteo Matzuzzi in “Il Foglio” del 22 gennaio 2014

 Sono fermamente convinto che la chiesa sia all’alba di una nuova èra, come cinquant’anni fa, quando Giovanni XXIII aprì le finestre per far entrare aria fresca”.

Il cardinale honduregno Oscar Rodríguez Maradiaga, legato da antica amicizia a Jorge Bergoglio e coordinatore della speciale consulta istituita dal Papa per ristrutturare la curia romana e consigliarlo nel governo della chiesa universale, si rammarica di chi – dentro i Sacri palazzi e tra le file dell’episcopato mondiale – non si rende ancora conto del cambiamento iniziato il 13 marzo dell’anno scorso. Di certo, spiega Maradiaga in un’intervista al quotidiano tedesco Kölner Stadt- Anzeiger, chi non ha ancora ben compreso cosa sia accaduto quella sera nel chiuso della Sistina è il prefetto della congregazione per la Dottrina della fede, mons. Gerhard Ludwig Müller, ormai prossimo a ricevere la porpora. “Lo capisco, è un tedesco, un professore di teologia tedesco. Nella

sua testa c’è solo il vero e il falso. Però io dico: fratello mio, il mondo non è così, tu dovresti essere un po’ flessibile quando ascolti altre voci. E quindi non solo ascoltare e dire no”. L’argomento su cui Müller dovrebbe mostrarsi più sensibile, a dire di Maradiaga, è quello del riaccostamento ai sacramenti dei divorziati risposati.

In un denso contributo apparso sull’Osservatore Romano del 22 ottobre scorso, puntualmente segnalato qui come inizio di una grande contesa, il custode dell’ortodossia recintava l’ospedale da campo di Bergoglio e chiariva che non si può invocare la misericordia a favore dell’ammissione dei divorziati risposati ai sacramenti: “Argomento debole in materia teologico-sacramentaria”, spiegava Müller, mettendo in guardia sul rischio di “banalizzare l’immagine stessa di Dio, secondo la quale  gli non potrebbe far altro che perdonare”. Troppo facile, e comunque rompere il matrimonio, che è “una realtà che viene da Dio e non è più nella disponibilità degli uomini”, significa commettere un peccato. Questo dice la dottrina.

Tutto vero, ammette Maradiaga, ma “ci sono molti modi per interpretarla. Ad esempio, dopo il fallimento di un matrimonio potremmo chiederci se gli sposi erano veramente uniti in Dio”. A ogni modo, nessuno ha intenzione di andare nella direzione “per cui domani sarà bianco ciò che oggi è nero”, e la dottrina tradizionale “continuerà a essere insegnata”, tranquillizza l’arcivescovo di  egucigalpa. Ci sono però “sfide pastorali alle quali non si può rispondere con l’autoritarismo e ilmoralismo”. E anche Müller lo capirà, “arrivando a comprendere anche altre posizioni”, benché “oggi ascolti solo il suo gruppo di consiglieri”. Quel che serve alla chiesa oggi, dice il presule honduregno, è “più pastorale che dottrina”. Il mondo è cambiato, bisogna aggiornarsi, non rimanere ancorati a vecchi modelli che non funzionano più. Si prenda il Sinodo del prossimo ottobre: “Ho chiesto al Papa il perché di una nuova assise sulla famiglia dopo quella del 1980 e la bella sortazione  Familiaris Consortio del 1983. Lui mi ha detto che tutto questo accadeva trent’anni fa e che oggi quel modello di famiglia per la maggior parte delle persone non esiste più. Ed è vero – prosegue Maradiaga –, abbiamo famiglie patchwork, genitori single, maternità in affitto, matrimoni senza figli. Per non parlare delle coppie formate da persone dello stesso sesso. Nel 1980 questi fenomeni non si vedevano all’orizzonte”.

La propaganda sui polmoni del Papa Il prelato honduregno promette che presto le strutture della chiesa cambieranno faccia, poiché “siamo a un punto di non ritorno”. Qualcuno, prima del Conclave, diceva che l’allora arcivescovo di Buenos Aires avesse problemi ai polmoni: “Era propaganda negativa interna. Un giorno, gli chiesi

se fosse vero quanto si diceva e lui si mise a ridere”.

Eppure, un’opposizione a Bergoglio c’è, anche se “non numerosa. Chi è contro il Papa – aggiunge

Maradiaga – non si rende conto della realtà, come certi ambienti economici americani, irritati per le critiche al capitalismo contenute nella Evangelii Gaudium. Lasciate che si arrabbino, io cerco di seguire la mia coscienza”.

così ‘il Foglio’ di Ferrara sintetizza tutta la questione:

Così Maradiaga rampogna il “troppo tedesco” Müller

di Matteo Matzuzzi

in “Il Foglio” del 22 gennaio 2014

“Sono fermamente convinto che la chiesa sia all’alba di una nuova èra, come cinquant’anni fa, quando Giovanni XXIII aprì le finestre per far entrare aria fresca”.

Il cardinale honduregno Oscar Rodríguez Maradiaga, legato da antica amicizia a Jorge Bergoglio e coordinatore della speciale consulta istituita dal Papa per ristrutturare la curia romana e consigliarlo nel governo della chiesa universale, si rammarica di chi – dentro i Sacri palazzi e tra le file dell’episcopato mondiale – non si rende ancora conto del cambiamento iniziato il 13 marzo dell’anno scorso. Di certo, spiega Maradiaga in un’intervista al quotidiano tedesco Kölner Stadt- Anzeiger, chi non ha ancora ben compreso cosa sia accaduto quella sera nel chiuso della Sistina è il prefetto della congregazione per la Dottrina della fede, mons. Gerhard Ludwig Müller, ormai prossimo a ricevere la porpora. “Lo capisco, è un tedesco, un professore di teologia tedesco. Nella sua testa c’è solo il vero e il falso. Però io dico: fratello mio, il mondo non è così, tu dovresti essere un po’ flessibile quando ascolti altre voci. E quindi non solo ascoltare e dire no”. L’argomento su cui Müller dovrebbe mostrarsi più sensibile, a dire di Maradiaga, è quello del riaccostamento ai sacramenti dei divorziati risposati.

In un denso contributo apparso sull’Osservatore Romano del 22 ottobre scorso, puntualmente segnalato qui come inizio di una grande contesa, il custode dell’ortodossia recintava l’ospedale da campo di Bergoglio e chiariva che non si può invocare la misericordia a favore dell’ammissione  divorziati risposati ai sacramenti: “Argomento debole in materia teologico-sacramentaria”, spiegava Müller, mettendo in guardia sul rischio di “banalizzare l’immagine stessa di Dio, secondo la quale Egli non potrebbe far altro che perdonare”. Troppo facile, e comunque rompere il matrimonio, che è “una realtà che viene da Dio e non è più nella disponibilità degli uomini”, significa commettere un peccato. Questo dice la dottrina.

Tutto vero, ammette Maradiaga, ma “ci sono molti modi per interpretarla. Ad esempio, dopo il fallimento di un matrimonio potremmo chiederci se gli sposi erano veramente uniti in Dio”. A ogni modo, nessuno ha intenzione di andare nella direzione “per cui domani sarà bianco ciò che oggi è nero”, e la dottrina tradizionale “continuerà a essere insegnata”, tranquillizza l’arcivescovo di Tegucigalpa. Ci sono però “sfide pastorali alle quali non si può rispondere con l’autoritarismo e il moralismo”. E anche Müller lo capirà, “arrivando a comprendere anche altre posizioni”, benché “oggi ascolti solo il suo gruppo di consiglieri”. Quel che serve alla chiesa oggi, dice il presule honduregno, è “più pastorale che dottrina”. Il mondo è cambiato, bisogna aggiornarsi, non rimanere  ncorati a vecchi modelli che non funzionano più. Si prenda il Sinodo del prossimo ottobre: “Ho chiesto al Papa il perché di una nuova assise sulla famiglia dopo quella del 1980 e la bella esortazione Familiaris Consortio del 1983. Lui mi ha detto che tutto questo accadeva trent’anni fa e che oggi quel modello di famiglia per la maggior parte delle persone non esiste più. Ed è vero – prosegue Maradiaga –, abbiamo famiglie patchwork, genitori single, maternità in affitto, matrimoni senza figli. Per non parlare delle coppie formate da persone dello stesso sesso. Nel 1980 questi fenomeni non si vedevano all’orizzonte”.

La propaganda sui polmoni del Papa Il prelato honduregno promette che presto le strutture della chiesa cambieranno faccia, poiché “siamo a un punto di non ritorno”. Qualcuno, prima del Conclave, diceva che l’allora arcivescovo di Buenos Aires avesse problemi ai polmoni: “Era propaganda negativa interna. Un giorno, gli chiesi se fosse vero quanto si diceva e lui si mise a ridere”.

Eppure, un’opposizione a Bergoglio c’è, anche se “non numerosa. Chi è contro il Papa – aggiunge Maradiaga – non si rende conto della realtà, come certi ambienti economici americani, irritati per le critiche al capitalismo contenute nella Evangelii Gaudium. Lasciate che si arrabbino, io cerco di seguire la mia coscienza”.

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il Dio degli oppressi

Parlare di Dio “in catene”. Un’esperienza dalla teologia “nera”

James Hal Cone

merita riflettere anche oggi su un bel lbretto di Cone che problematizza il modo stesso di parlare di Dio in un contesto molto diverso dal nostro (fonte di questa informazione e presentazione: il sito prezioso ‘vaticanoterzo’):

Il Dio degli oppressi, Brescia, 1978, pagg. 89ss.

James Hal Cone, un teologo africano spiega che la teologia e la pratica religiosa in Africa non è un’azione razionale/spirituale/rituale, com’è in Europa. E’ un’attività legata alla vita pratica e alle difficolta di ogni giorno. E’ vedere l’opera di Dio che salva dalle gravi difficoltà di oggi, com’è accaduto agli ebrei con la liberazione dalla schiavitù d’Egitto

Fra le tradizioni teologiche degli ultimi cento anni, quella cosiddetta “nera” o afroamericana è forse una delle più innovative e, contemporaneamente, delle più dimenticate. Nel nostro percorso dentro “le varietà” del parlare di Dio, non potevano mancare alcuni testi fondativi di questa che, tra l’altro, è una delle più interessanti variazioni su un tema di cui molti parlano e pochi si impegnano con risultati apprezzabili: la “teologia narrativa”.

 

“Come la teologia bianca americana, il pensiero nero sul cristianesimo ha subito l’influsso del contesto sociale. Ma mentre i teologi bianchi parlano alla cultura della classe dominante e per la cultura della classe dominante, le idee religiose dei neri vennero invece forgiate nel Nord America dall’esistenza culturale e politica delle dittature. A differenza degli europei che immigravano in questa terra per sfuggire alla tirannia, gli africani arrivarono qui in catene per servire una nazione di tiranni. E’ stata l’esperienza dello schiavo a forgiare la nostra idea di questa terra. E questa differenza sociale tra l’esistenza degli europei e degli africani va riconosciuta se vogliamo comprendere correttamente il contrasto esistente nella forma e nel contenuto della teologia nera e di quella bianca.

Qual è allora la forma ed il contenuto del pensiero religioso nero visto alla luce della sua situazione sociale? In breve, la forma del pensiero religioso nero si esprime nello stile del racconto, e il suo contenuto è la liberazione. La teologia nera, dunque, è la storia della lotta dei neri per la libertà in una situazione estrema di oppressione. Di conseguenza, non c’è una netta distinzione tra il pensiero e la pratica, il culto e la teologia, perché le riflessioni teologiche dei neri sono nate nella lotta per la libertà.

I teologi bianchi costruivano sistemi logici; la gente nera si esprimeva con dei racconti. I teologi bianchi discutevano sulla validità del battesimo dei bambini o sul problema della predestinazione e del libero arbitrio; i neri recitavano le storie bibliche di Dio che libera gli Israeliti dalla schiavitù d’Egitto, di Giosuè e la battaglia di Gerico, e dei fanciulli ebrei nella fornace ardente. … Il pensiero bianco sulla visione cristiana di salvezza era in massima parte “spirituale” e qualche volta “razionale”, ma di solito separato dalla lotta concreta per la libertà in questo mondo. Il pensiero nero era per lo più escatologico e mai astratto, in rapporto di solito con la lotta contro l’oppressione terrena. […]

[Talvolta] la storia della salvezza era descritta come “il treno del Vangelo”. I neri descrivevano questa realtà come attesa escatologica: “Il treno del Vangelo sta arrivando”. Ma la consideravano anche già realizzata nel loro presente: “Lo sento, è già qui” e “sento le ruote del convoglio che corrono rumoreggiando nella prateria”. Si può “sentire il fischio” e “sta arrivando dalla curva”. […]

La salvezza non era soltanto un treno e una nave, era anche un cocchio, che si dondolava lieve, “che viene qui per portare a casa”. Essa era “quella religione dei vecchi tempi” che portava gli schiavi fuori dalla schiavitù, e “portava loro bene quando erano in difficoltà”. Essa era la “roccia in una terra desolata” e “il riparo durante la tempesta”. … Durante la schiavitù e relativa oppressione essi non si abbandonarono mai alla disperazione per la presenza di Colui che controlla la vita e può superarne le contraddizioni. E’ questo il tema della religione nera…

Nelle chiese nere, chi predica la Parola è prima di tutto un narratore. Infatti quando una comunità nera invita un ministro come pastore, si pone soprattutto la domanda: “E’ capace il reverendo di narrare la storia?” Questa domanda si riferisce sia al tema della religione nera, sia al fatto del narrare in se stesso.”

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spero che qualcuno legga!

vittime

ho letto le parole di questa ragazza lesbica e cristiana e mi rendo sensibile al suo grido con  ho cui si conclude il suo invito alla riflessione: lo offro alla mia e alla riflessione di chi intende fermarsi un istante a raccoglierlo:

Sono una donna, lesbica e cristiana, perché dite che sono una minaccia?

Riflessioni di Giulia Masieri del gruppo Kairos

Sono una ragazza dichiaratamente lesbica e cattolica, di Firenze: alcuni giorni fa sono venuta a conoscenza di un’iniziativa del movimento “Manif Pour Tous”, appoggiata da vari personaggi politici e non, che si terrà sabato 19 Gennaio 2014 nella nostra città, con varie manifestazioni, tra cui una “tavola rotonda su invito” in un salone di Palazzo Vecchio. Ho letto attentamente il volantino di presentazione di tale evento e sono rimasta particolarmente colpita, sia come cittadina di un Paese che si definisce democratico,sia come credente in un Dio che ama tutti i suoi figli,dai toni perentori e apocalittici con cui si descrivono le ipotetiche conseguenze di quello che secondo me è soltanto un atto di civiltà cioè l’approvazione al Senato della Legge per il contrasto dell’omofobia…

Si parla di “imposizione dell’ideologia di gender”, che porterebbe ad un “progressivo processo di demolizione della famiglia naturale”, fino ad affermare che “le leggi naturali vanno rispettate per mantenere la Pace e la Prosperità tra i Popoli”..

Affermazioni che mi feriscono, inevitabilmente, ma di fronte alle quali posso portare la mia testimonianza di vita, partendo dall’esperienza vissuta e non da ipotetiche ideologie.. In questo volantino si parla tantissimo di “ideologia gender”: io ,personalmente, e del resto come me tantissime persone orientate omoaffetivamente, non sono partita da un indottrinamento ideologico per definire me stessa come donna oppure il mio orientamento sessuale. Ho capito e poi accettato di essere lesbica, così come ho capito ed accettato di essere donna semplicemente attraverso la mia esperienza,fatta a volte di tanta sofferenza ,anche a causa delle discriminazioni ,dei soprusi e delle incomprensioni ,ma anche di momenti belli,in cui mi sono sentita amata da Dio e dalle persone intorno a me.

Ma nel volantino si parla anche di “leggi naturali che vanno rispettate per mantenere la Pace e la Prosperità tra i popoli”. Partendo dalla mia coscienza e da un profondo contatto con me stessa, ho compreso di non essere una violazione delle leggi naturali, ma di essere inscritta in esse, in quanto la mia capacità di amare non è sminuita dal mio essere omosessuale,bma è potenzialmente identica a quella di coloro che sono diversi da me..

Non mi sento nemmeno una minaccia per la” Pace e la Prosperità tra i Popoli”, per il semplice fatto che sono capace di amare. E allora perché non permettere a tutti ,davvero tutti gli esseri umani,di esprimere la propria capacità di amare,anche, se questo è il desiderio del loro cuore, attraverso la formazione di una famiglia?

Io penso che la famiglia è data ,più che dagli aspetti “biologici”,dalle relazioni che si instaurano e dalla loro qualità. Non esistono secondo me “famiglie” che sono una minaccia per le altre,poiché tutti ci riconosciamo negli stessi valori fondanti,non c’entra nulla la stabilità della famiglia come istituzione con i diritti civili che io come omosessuale e come cittadina italiana vorrei avere.

Nella mia esperienza, pur sempre limitata,come quella di ogni essere umano, la stabilità delle famiglie e la “Pace e la Prosperità dei popoli” sono minacciate da ben altri, purtroppo reali nemici: l’egoismo, il consumismo,  le ricchezze (non solo materiali) non condivise.

Spero che qualcuno legga queste poche parole
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