a 500 anni dalla Riforma di Lutero – dichiarazione comune della chiesa protestante e cattolica italiane

protestanti e cattolici, sempre più vicini

di Gian Mario Gillio
in “www.riforma.it” del 2 novembre 2017

L’Ufficio filatelico e numismatico dello Stato della Città del Vaticano ha mandato alle stampe un francobollo commemorativo della Riforma protestante che ritrae il dipinto del timpano della chiesa di Wittenberg con in primo piano Gesù crocifisso e, sullo sfondo, la città di Wittenberg (il luogo in cui il riformatore tedesco, e frate agostiniano, il 31 ottobre 1517 affisse le sue 95 tesi sulla porta della chiesa del castello della città sassone per contrastare il mercimonio delle indulgenze). La raffigurazione «pittorica» del francobollo fotografa, in atteggiamento di penitenza e inginocchiati, rispettivamente a sinistra e destra della Croce, Martin Lutero che sostiene la Bibbia, fonte e meta della sua dottrina e Filippo Melantone, teologo e amico di Martin Lutero – uno dei maggiori protagonisti della riforma – che, invece, tiene in mano la prima esposizione ufficiale dei principi del protestantesimo da lui redatta: la Confessione di Augusta «Confessio Augustuana». «È la prima volta – dice a Riforma.it il pastore Heiner Bludau, decano della Chiesa evangelica luterana in Italia (Celi) – che il Vaticano decide di dare alle stampe un francobollo celebrativo dedicato a Lutero e alla Riforma protestante. Proprio a Wittenberg abbiamo festeggiato ufficialmente il 31 ottobre, alla presenza delle più alte cariche dello Stato e religiose, la ricorrenza del Cinquecentenario della riforma. Nella città di Lutero è giunta notizia della riproduzione su carta filigranata delle immagini di Lutero e Melantone ritratti accanto a Gesù con lo sfondo della città sassone. Una notizia, per noi luterani, lieta, inaspettata e importante. Devo ammettere che non ancora avuto modo di vedere il francobollo, ma reputo questa iniziativa importante. Proprio come sono state le dichiarazioni congiunte tra luterani e cattolici; in questo caso, il Vaticano, o meglio il suo Ufficio filatelico e numismatico, ha deciso in autonomia di lanciare un segnale importante e di vicinanza, utilizzando un’immagine molto chiara, eloquente e esaustiva, e che ben spiega e raffigura il significato, direi il senso della Riforma innescata da Lutero». A Wittenberg (la città di Lutero e sfondo del francobollo) ricorda ancora Bludau, si sono tenute le celebrazioni per la «Festa della Riforma» con un culto solenne nella chiesa del castello di Wittenberg curato dal presidente della Ekd, Heinrich Bedford-Strohm ed anche un ricevimento ufficiale al quale ha partecipato, tra agli altri, anche la cancelliera Angela Merkel; tutti eventi promossi dalla Chiesa evangelica luterana tedesca – Evangelische Kirche in Deutschland (Ekd) martedì scorso– «occasioni importanti – prosegue Bludau –, nelle quali è emersa, e con forza, la necessità di proseguire il lavoro ecumenico e interreligioso. Un tema dirimente è quello della libertà religiosa. Bedford-Strohm nel suo prezioso sermone ha parlato anche dell’attualità della Riforma e guardando al futuro, un futuro all’insegna della responsabilità, sia collettiva sia personale; la cancelliera Merkel, poi, accostando la libertà religiosa alla Riforma protestante ha ribadito che le libertà non possono però prescindere dai doveri; segnalando altresì l’importanza della presenza religiosa e interreligiosa nel tessuto istituzionale, sociale, politico e comunitario della Germania». Il presidente del Consiglio della Chiesa evangelica tedesca, il vescovo Heinrich Bedford-Strohm, di fronte al presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier, alla cancelliera Angela Merkel, al presidente del Bundestag Wolfgang Schäuble, oltre a numerosi altri ospiti del mondo politico ed ecumenico e a centinaia di fedeli, ha voluto ricordare: «Siamo seduti qui, 500 anni dopo» e poi ha indirizzato un messaggio a papa Francesco: «Fratello in Cristo, ringraziamo Dio per la tua testimonianza di amore e misericordia, che per noi protestanti significa anche testimonianza a Cristo». Parole importanti di riconoscenza dirette al papa, prosegue Bludau «perché, anche se è vero che il percorso di vicinanza e di aperture ecumeniche iniziò grazie al Concilio Vaticano II, è altrettanto vero che l’impulso più significativo al dialogo e alla riconciliazione in questi ultimi anni è partito
dalle mosse di papa Francesco. Un avvicinamento verso tutte le chiese protestanti ed evangeliche. Certamente, importanti sono le dichiarazioni firmate in passato, come quella cattolico-luterana sulla dottrina della giustificazione nel 1999, o quella del 2103 “Dal conflitto alla comunione”, tutti documenti dogmatici importanti. Credo, però, che la visita di papa Francesco a Lund – per aprire le commemorazioni per il Cinquecentenario della Riforma – sia stata la vera scintilla che ha tatto cambiare radicalmente l’atmosfera e la percezione comune: una mossa visibile a tutti, in particolar modo in Italia, dove l’informazione generalista e secolare racconta spesso e spasmodicamente la vita del papa, le sue opere, i suoi viaggi e i suoi pensieri. Il papa aprendo le celebrazioni della Riforma ha mostrato a tutti che non siamo delle “sette”, ma chiese cristiane. Un messaggio che ha saputo entrare anche negli interstizi più irraggiungibili della stessa chiesa cattolica». Dopo i convegni condivisi tra le chiese protestanti ed evangeliche e i vertici della chiesa cattolica, come ad esempio quello realizzato qualche mese fa a Trento insieme all’Ufficio nazionale per l’ecumenismo e il dialogo (Unedi) della Cei e dal titolo «Cattolici e protestanti a 500 anni dalla Riforma, è possibile avere uno sguardo comune, così come è avvenuto in occasione della «Festa della riforma» a Roma lo scorso 28 ottobre grazie alla presenza del cardinale Ravasi e alla diretta di Rai Due trasmessa per più di un’ora. Insieme alla Cei – Unedi, ricorda infine Bludau, «è nata l’dea di promuovere anche la dichiarazione congiunta uscita solo lo scorso 31 ottobre. I rapporti che intercorrono tra la chiesa luterana e la chiesa cattolica sono parte, certamente significativa, di un percorso ecumenico ben più ampio. Un percorso intrapreso da molto tempo insieme alla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) della quale siamo federati, e con la quale, grazie al loro impegno, abbiamo potuto condividere lo scorso 28 ottobre una giornata davvero ricca e importante che, amplificata dalla Rai, ha permesso di poter far vivere l’evento non come una cosa “intra-protestante” ma di tutti e per tutti gli italiani. Questi rapporti ecumenici e queste attenzioni sono il segnale importante di un percorso in continua evoluzione».

 

500° dalla Riforma di Lutero

dichiarazione comune Chiesa Luterana e C.E.I.

Il testo integrale della Dichiarazione comune della Conferenza episcopale italiana e della Chiesa evangelica luterana in Italia per il 500° anniversario dell’inizio della Riforma

Pubblichiamo il testo integrale della Dichiarazione comune della Conferenza episcopale italiana e della Chiesa evangelica luterana in Italia per il 500° anniversario dell’inizio della Riforma. “Riconciliarsi per annunciare il Vangelo”, questo il titolo del documento che porta la firma di mons. Ambrogio Spreafico, presidente della Commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei, e del pastore Heiner Bludau, decano della Chiesa evangelica luterana in Italia. “A inizio ottobre – spiegano Bludau e don Cristiano Bettega, direttore dell’Ufficio Cei per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso – si è svolto a Trento un breve ma significativo convegno, di cui sul sito dell’Ufficio Cei per l’ecumenismo e il dialogo ci sono le relazioni e che ha visto ugualmente coinvolti la Chiesa evangelica luterana in Italia e l’Ufficio nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei. A conclusione di quel convegno abbiamo pensato a questa comune dichiarazione. Si tratta di un comune impegno a prendere sul serio ciò che in quest’anno anniversario abbiamo più volte detto e scritto: che il cammino ecumenico ci riguarda e ci impegna tutti, che la passione ecumenica, alla fine, è passione per il Vangelo di Gesù Cristo, per la sua Chiesa, per le donne e gli uomini di oggi. È una dichiarazione che coinvolge tutti, non soltanto cattolici e luterani: perché il cammino di reciproca conoscenza, accoglienza, collaborazione e testimonianza dell’Evangelo è cosa di tutti noi”. Ecco il testo della dichiarazione:

«Piuttosto che i conflitti del passato, il dono divino dell’unità tra di noi guiderà la collaborazione e approfondirà la nostra solidarietà. Stringendoci nella fede a Cristo, pregando insieme, ascoltandoci a vicenda, vivendo l’amore di Cristo nelle nostre relazioni, noi, cattolici e luterani, ci apriamo alla potenza di Dio Uno e Trino. Radicati in Cristo e rendendo a Lui testimonianza, rinnoviamo la nostra determinazione ad essere fedeli araldi dell’amore infinito di Dio per tutta l’umanità» (Dichiarazione congiunta in occasione della Commemorazione cattolico-luterana della Riforma, Lund 31 ottobre 2016). Queste parole hanno guidato il cammino di riconciliazione e di condivisione che ha coinvolto cattolici e luterani in tanti luoghi, in questo anno, per vivere l’esperienza di una commemorazione comune del 500° anniversario dell’inizio della Riforma, nella linea indicata dal documento Dal conflitto alla comunione della Commissione luterano-cattolica per l’unità.

In Italia numerose sono state le iniziative, a vario livello, alle quali hanno preso parte cristiani e cristiane per commemorare la Riforma del XVI secolo in un spirito che, se non può essere considerato una novità alla luce dei passi compiuti negli ultimi decenni, ha sicuramente aperto una nuova stagione nel cammino per la costruzione dell’unità visibile della Chiesa con la quale mettere fine allo scandalo delle divisioni.

Proprio alla luce di queste iniziative, cattolici e luterani auspicano che sia possibile proseguire nell’approfondimento della conoscenza dell’opera e della figura di Martin Lutero per una migliore comprensione delle ricchezze spirituali, teologiche e liturgiche del XVI secolo per una riforma della Chiesa, radicata sulle Sacre Scritture e arricchita dalla tradizione dei concili ecumenici, in grado di rimuovere quei pregiudizi che ancora impediscono una lettura condivisa delle vicende storiche della Riforma in tutte le sue articolazioni.

Nella lettura congiunta delle Sacre Scritture, che costituisce un passaggio fondamentale, da anni, nella scoperta quotidiana di cosa unisce i cristiani, cattolici e luterani invitano a trovare nuove fonti per sviluppare il cammino ecumenico, anche grazie a un rinnovato rapporto con il popolo ebraico proprio a partire dalla comune radice biblica. Leggere insieme le Sacre Scritture illumina l’esperienza di fede con percorsi ecumenici di ascolto e commento della Parola di Dio in modo da condividere tradizioni esegetiche e formulazioni dottrinali, affidando al Signore i tempi e i modi della realizzazione dell’unità visibile della Chiesa.

Cattolici e luterani ritengono che questi percorsi vanno sostenuti e incoraggiati nella prospettiva di favorire un ripensamento della catechesi in chiave ecumenica, soprattutto in relazione alla celebrazione del battesimo e del matrimonio e, più in generale, alle liturgie ecumeniche di riconciliazione, così da aiutare a vivere questi momenti della vita delle comunità locali come opportunità per riaffermare che per cattolici e luterani l’ecumenismo costituisce una scelta irreversibile, quotidiana, non emergenziale, in grado di aiutare una migliore comprensione delle proprie identità, rendendo più vivace e pregnante la missione della Chiesa. Cattolici e luterani vogliono rendere sempre più dinamico il proprio impegno nella cura del creato, proponendo un modello di sviluppo economico che non sia interessato alla logica del profitto, che tanti danni ha fatto anche nel nostro paese con l’inquinamento dell’aria, delle acque e della terra, ma, superando gli interessi individuali o di gruppo, sappia utilizzare le risorse del creato nel rispetto dell’ambiente e avendo sempre di mira il bene comune e quello stesso della terra di cui siamo custodi e non padroni.

Per cattolici e luterani, le peculiarità del cammino ecumenico devono portare a moltiplicare le occasioni per testimoniare l’amicizia e l’aiuto verso i poveri, in particolare oggi verso i migranti che fuggono da guerre e calamità naturali. Davanti al bisogno loro e anche di un numero crescente di nostri concittadini, ci impegniamo a coinvolgere le nostre comunità in uno sforzo maggiore di solidarietà, avendo sempre come modello il Buon Samaritano, quel Gesù che si china sulle ferite dell’umanità sofferente. Siamo aperti a collaborare con tutti i nostri fratelli e sorelle a cui ci accomuna la fede nel Signore Gesù, ed anche con le donne e gli uomini di altre religioni e con tutti coloro che hanno a cuore il futuro del nostro paese e del mondo.

Rafforzare l’amicizia nella fraternità, ai piedi della croce di Cristo, ci aiuterà a favorire una riconciliazione delle memorie in grado di sostenere cattolici e luterani nell’annuncio e nella testimonianza della Parola di Dio nella società contemporanea, per promuovere una riforma sempre più evangelica della vita quotidiana delle comunità locali.

Mons. Ambrogio Spreafico,

presidente della Commissione Episcopale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Conferenza Episcopale Italiana

Pastore Heiner Bludau,

Decano della Chiesa Evangelica Luterana in Italia

Roma, 31 ottobre 2017, nel quinto centenario dall’inizio della Riforma di Martin Lutero.

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il commento al vangelo della domenica

“chi tra voi è più grande, sarà vostro servo”

 

Mt  23,1-12

In quel tempo  Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli  dicendo: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei.  Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno.  Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange;  si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe,  dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati «rabbì» dalla gente.  Ma voi non fatevi chiamare «rabbì», perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli.  E non chiamate «padre» nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare «guide», perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato.


il commento di ENZO BIANCHI al vangelo della domenica trentunesima del tempo ordinario (5 novembre 2017):

 

Nel vangelo secondo Matteo, dopo diversi scontri e controversie tra Gesù e scribi, sacerdoti, farisei (cf. Mt 21,23-22,46), durante il suo ultimo soggiorno a Gerusalemme, egli pronuncia un lungo discorso, il penultimo, prima di quello escatologico. Si tratta di una raccolta di invettive e di ammonizioni indirizzate da Gesù proprio a quei suoi avversari che tante volte lo avevano contraddetto, gli avevano teso tranelli, lo avevano messo alla prova, lo avevano calunniato e insidiato con giudizi e complotti. Questo discorso, registrato al capitolo 23, è duro, e può meravigliarci di trovarlo sulla bocca di chi con misericordia perdonava i peccatori, mangiava con loro e li faceva sentire amati da Dio, anche se non meritavano tale amore. Gesù – possiamo dire – attacca i legittimi pastori del suo popolo, i dirigenti, quelli che erano riconosciuti esperti delle sante Scritture, che erano ritenuti maestri e modelli esemplari per i credenti. Sia però chiaro che queste sue parole vanno a colpire vizi religiosi non solo giudaici ma anche cristiani!

E si faccia attenzione: Gesù non fa di tutta l’erba un fascio, non si scaglia contro i tutti i farisei, tutti i sacerdoti, tutti i maestri, ma contro coloro che in quel preciso tempo dominavano, erano al comando; contro quelli che lo accuseranno, lo perseguiteranno e, dopo averlo condannato, lo consegneranno ai pagani per l’esecuzione capitale. Dunque, questi rimproveri non vanno applicati generalizzando, ma vanno ripetuti per noi cristiani, noi che nella chiesa svolgiamo una funzione e sovente siamo ritenuti “uomini e donne di Dio”, secondo il linguaggio corrente.

Ma ascoltiamo con piena obbedienza le parole di Gesù, che così apre il suo discorso: “Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro azioni, perché parlano ma non realizzano ciò che predica”. C’è una cattedra del popolo di Dio, c’è un ministero, un servizio reso ai credenti, ossia il compito di proclamare la parola di Dio contenuta nella Torah data da Mosè a Israele nel deserto, dopo la liberazione dall’Egitto. Il Dio che ha liberato il suo popolo dalla schiavitù ha anche dato al suo popolo la Torah, l’insegnamento, affinché conoscesse la sua volontà e fosse dunque un popolo di testimoni capaci di proclamarla a tutte le genti.

Dopo Mosè, molti e diversi sono stati i maestri, dotati di un magistero per il popolo, ma quanti in quel momento storico (30 d.C.) erano i dirigenti e le guide religiose, abitualmente insegnavano in modo conforme alla tradizione ma in loro non c’era coerenza di comportamento, perciò mancavano di autorità (exousía). Predicavano ai fedeli ma in realtà non osservavano quanto dicevano. Erano persone divise, che con le labbra dicevano una cosa ma con il cuore ne pensavano altre (cf. Mt 15,8; Is 29,13). Fare e osservare sono le espressioni con cui il popolo ha scelto il Signore, ha ripudiato gli idoli e ha sancito con lui l’alleanza: “Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo e lo ascolteremo” (Es 24,7), ovvero “lo comprenderemo nella misura in cui lo metteremo in pratica”.

Tale promessa doveva valere tanto più per i capi del popolo del Signore, e invece costoro esaurivano la realtà nella sua proclamazione verbale. In profondità non ascoltavano, perché chi ascolta il Signore obbedisce. Ma essi preferivano sentire la parola del Signore per predicarla senza invece ascoltarla, senza fare l’esperienza della faticosa realizzazione della volontà di Dio attraverso un intelligente discernimento e un’azione piena di carità. Succede anche a noi di dire e poi di non agire conseguentemente, ma lo dobbiamo confessare ai fratelli e alle sorelle, senza pretendere di essere esemplari se non siamo coerenti nel nostro comportamento reale e quotidiano: siamo peccatori e ciò non va nascosto! Gesù definisce questo comportamento “ipocrisia” e lo condanna, perché di fatto favorisce una cecità su se stessi, fino a credere di vedere e addirittura a giudicare gli altri come ciechi (cf. Gv 9,41). Costoro fingono, recitano una parte senza essere né convinti né conseguenti.

Segue un’altra accusa: “Legano fardelli pesanti e difficili da portare e li impongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito”. Qui Gesù intravede la funzione assunta da scribi e farisei: spiegare la Legge, determinare il comportamento, interpretare il comando emanando precetti. E così la parola di Dio, data come Torah, insegnamento, diventava gravida di prescrizioni legali minuziosissime: in partenza lo scopo era quello di porre una siepe attorno alla Legge per custodirla, ma di fatto questi precetti umani finivano per essere pesi imposti sulle spalle soprattutto dei piccoli e dei semplici, pesi e fatiche che loro, i pretesi legislatori, non conoscevano e certamente non portavano. Di fatto, in tal modo si annullava la parola di Dio, la si eludeva con abilità, si svuotava il comando dato dal Signore (cf. Mc 7,8-13; Mt 15,3-6)…

Ma la lettura di Gesù va più a fondo: “Tutte le loro azioni le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange”. Questo è il vizio di chi pensa di avere un potere sugli altri e vuole dunque mostrarlo, per essere riconosciuto dalla gente: farsi vedere per testimoniare la fede, a fin di bene, per educare gli altri e dare il buon esempio… Quante volte questi atteggiamenti coprono intenzioni squallide e menzognere! Le testimonianze devono essere lette da chi vede e ascolta, non date da chi dovrebbe solo vivere, senza fare narrazioni di sé e delle proprie azioni: saranno gli altri, con il loro discernimento, a giudicare la verità o la falsità di chi deve parlare solo del Signore, non di se stesso. Questo esibizionismo religioso purtroppo è tanto presente, ancora oggi, nelle nostre chiese!

Di seguito Gesù menziona alcuni status symbol, tanto amati perché utili a creare consenso. Quelli che il Signore aveva chiesto come segni (’ot), diventati filatteri (tephillin, da tephillah, “preghiera”), anziché ricordare a chi li portava il Dio liberatore (cf. Es 13,9.16; Dt 6,8; 11,18), finivano per essere sempre più vistosi perché gli altri li ammirassero (come quelli che tirano fuori dalle tasche in mezzo agli altri un rosario, per essere considerati uomini o donne di preghiera!). Non solo, costoro allargavano anche le frange, cioè i fiocchi (tzitzit) nel loro mantello di preghiera, non per ricordarsi di Dio (cf. Nm 15,37-41), ma per farsi ammirare come uomini di preghiera. È la perversione di strumenti dati da Dio per confermare la fede e l’ascolto la sua parola e invece divenuti, attraverso un meccanismo perfido, strumenti per ricevere applausi e onori!

E così ecco la conseguenza: “Amano i posti d’onore nei banchetti, i primi seggi nelle sinagoghe, i saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati ‘maestri’ dalla gente”. Quando si esercita l’autorità, si è facilmente preda di queste tentazioni: si è ossessionati dalle vesti, si è abbigliati come quelli che stanno nei palazzi del potere (cf. Mt 11,8; Lc 7,25), e magari si afferma di comportarsi così solo per dare gloria a Dio e prestigio alla chiesa, professando una falsa umiltà. Sappiamo che sotto vestiti ricercati e orpelli sontuosi si nascondono ecclesiastici umilissimi o poveri: non si tratta dunque di dare giudizi sulle persone, ma di indicare dati oggettivamente in contraddizione con il modo di vivere di Gesù, richiesto a chi fa riferimento al suo Nome. D’altra parte, è sempre valida l’osservazione di Yves Congar:

Si può beneficiare ordinariamente di privilegi senza arrivare a pensare che sono dovuti? O vivere in un certo lusso esteriore senza contrarre certe abitudini? E essere onorati, adulati, trattati in forme solenni e prestigiose, senza mettersi moralmente su un piedistallo? È possibile comandare e giudicare, ricevere uomini in atteggiamento di richiesta, pronti a complimentarci, senza prendere l’abitudine di non più veramente ascoltare? Si può trovare davanti a sé dei turiferari senza prendere un po’ il gusto dell’incenso?

E qual è il luogo migliore per apparire se non i pranzi e le cene con quelli che in questo mondo contano? Cene e ricevimenti che forniscono un autocompiacimento egocentrico, occasioni nelle quali risuonano grandi e altisonanti titoli onorifici, svolazzanti fasce colorate… Allora il titolo era “rabbi”, “maestro” (non ancora termine tecnico per indicare gli attuali rabbini); oggi ce ne sono molti di più, mediati dalla mondanità più banale: si pensi per esempio a “eccellenza”, titolo estraneo nella chiesa fino al secolo scorso e poi mutuato dal fascismo, che chiamava “eccellenza” i prefetti…

Dobbiamo dirlo: sovente siamo caduti nel ridicolo, e oggi molti leggono tante ostentazioni ecclesiastiche come vuote e controproducenti; ma la cecità è tale che tutto sembra continuare come nelle corti bizantine o rinascimentali, se si esclude qualche eccezione. E invece nella comunità cristiana ogni titolo deve significare ciò che viene realmente vissuto, non deve essere un orpello onorifico. Per questo Gesù avverte i suoi discepoli: “Ma voi non così, non fatevi chiamare ‘rabbi’, perché uno solo è il vostro Maestro (didáskalos) e voi siete tutti fratelli. E non chiamate ‘padre’ nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre (patér) vostro, quello nei cieli. E non fatevi chiamare ‘guide’, perché uno solo è la vostra Guida (katheghétes), il Cristo”. Il discepolo di Gesù è avvertito: rabbi e guida sono titoli che vanno applicati solo a lui, il Cristo di Dio, così come solo Dio va invocato quale Padre. Parole nette, chiare, alle quali però raramente si è rimasti fedeli, perché già nella chiesa antica si sono definiti padri quelli che hanno generato a Cristo nella fede fratelli e sorelle e sono stati chiamati maestri e guide quanti erano incaricati dell’insegnamento e del discernimento spirituale nella comunità cristiana.

Ciò che è decisivo in questo avvertimento di Gesù si trova alla fine del nostro brano: chi è più grande o chi è il primo della comunità cristiana – e ci deve essere chi è più grande, chi presiede i fratelli e le sorelle – sia servo di tutti, si abbassi e si spogli di ogni potere e arroganza, sull’esempio di Gesù, il Servo del Signore, e così sarà innalzato (cf. Fil 2,5-11). Altrimenti sarà abbassato, deposto dal trono, retrocesso nel banchetto celeste. A questo punto Gesù continua ad ammonire scribi e farisei fino alla fine di questo capitolo, pronunciando i sette “guai”, che non sono maledizioni ma avvertimenti, aspri richiami in vista della conversione, invettive e lamenti pronunciati da chi continua a sperare che i destinatari di queste parole possano fare ritorno a Dio. In ogni caso, dovremmo leggerli facendo memoria del commento di Girolamo: “Guai a noi, miserabili, che abbiamo ereditato i vizi degli uomini religiosi!”.

 

di seguito il video del commento al vangelo di p. Maggi:

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fa rabbrividire la mancanza di argine a un razzismo ormai tronfio di se stesso

“tu, migrante, non sei nulla”

le “colpe” del genocidio e dei razzismi

l’inchiesta di Lunaria analizza l’escalation del rancore

Migranti a pochi metri dall'approdo

migranti a pochi metri dall’approdo

di Delia Vaccarello

Il volto tumefatto insanguinato e bendato di Kartik Chondro, il giovane bengalese massacrato di botte a Roma a due passi da Largo Argentina, fa rabbrividire. Sei nero, ti ammazziamo: devono aver “ragionato” così i neanche ventenni che lo hanno aggredito. Fa altrettanto rabbrividire la mancanza di argine a un razzismo ormai tronfio di se stesso. Ed è l’anello di una catena che vede saldate le responsabilità politiche con quelle istituzionali, sia nazionali che europee, con la delegittimazione della solidarietà, nonché con la presenza massiccia di una ideologia del rancore.

A quel volto forse non tutti siamo sensibili. Perché il migrante termine falsamente neutro che spesso viene associato a criminale, è considerato non umano, una specie di “cosa” che però è capace di nuocere. Erba infestante.

Rimanda al concetto utile al potere di “nuda vita”. Scrive Cristiana Cimino in “La nuda vita dei migranti”: “A fronte di una concezione moderna della sacralità, o sacertà, della vita in quanto diritto imprescindibile anche in opposizione al potere sovrano, esiste una originaria e assoluta esposizione della vita al potere e alla sua uccidibilità e a quella che Agamben chiama relazione di abbandono. In quanto vita nuda e uccidibile il soggetto che ne è portatore in qualche modo è già morto, è uno zombie il cui statuto di esclusione/inclusione è necessario, tuttavia, alla costituzione del potere stesso, o meglio, della sua componente violenta”.

Dunque, anche se nel Mediterraneo sta avvenendo un genocidio, ad alcuni non sembra. Per alcuni (molti) non stanno morendo donne uomini e bambini, stanno morendo “nude vite”, cose, pezzi, zombie.

Partiamo dai numeri. Lo facciamo con il conforto del quarto libro bianco sul razzismo di Lunaria. 

Dal 1° gennaio al 22 giugno 2017 i decessi accertati lungo le tre rotte del Mediterraneo sono stati almeno 2.108, esclusi quelli lungo le rotte terrestri. Occhio, sono stime al minimo, come avverte il Missing Migrant Project, facente capo all’Oim (Organizzazione mondiale per le migrazioni). Nello stesso periodo 2.848 sono state le vittime di migrazioni ed esodi su scala planetaria. Vuol dire che tre persone su quattro che muoiono nel corso di un esodo in tutto il pianeta perdono la vita nel Mediterraneo, sotto i nostri occhi, a casa nostra. Nel mare che è nostro (2.108 corrisponde a più del 74per cento del totale mondiale).

A questi numeri vanno aggiunti i “decessi per fame, sete, disidratazione, nonché conseguenti a rapine, aggressioni, sequestri, stupri e torture fino alla morte, inflitti a migranti e rifugiati in Paesi quali la Libia. Qui – dove la “caccia al nero” è prassi abituale – le violenze, anche estreme, si compiono nei pressi dei check-point, anche da parte di uomini in divisa; nei centri di detenzione, veri e propri lager, alcuni dei quali gestiti dalle milizie, in cui vengono rinchiusi migranti, rifugiati e richiedenti-asilo: tutti considerati e trattati al pari di criminali. Per non dire delle brutalità, anche letali, compiute dalle bande che si aggirano nel deserto tra il Niger, il Mali, il Sudan e la stessa Libia: paesi con i quali, nondimeno, l’Unione Europea e l’Italia sottoscrivono accordi bilaterali”.

Che tipo di politica serve? Il governo ai tempi di Letta aveva lanciato una operazione ritenuta capace di dare sostegno e salvataggio. Il nome: Mare Nostrum (nei nomi, il senso). Peccato che per l’Unione Europea Mare Nostrum era troppo costosa. A rimpiazzarla è la missione Triton. Volta non più a salvare i naufraghi, bensì tesa a difendere i confini. E qui facciamo una domanda a coloro che ritengono che i nemici siano i migranti : difendere le frontiere dall’arrivo di disperati che scappano dai conflitti e dalla fame, dalla tortura e dalle violenze, che desiderano cambiare paese aumenta o no il numero dei morti?

Dice Lunaria: “Uno studio di Charles Heller e Lorenzo Pezzani, pubblicato il 18 aprile 2016, dimostra che la sostituzione di un’operazione di salvataggio con una di controllo e salvaguardia delle frontiere (tale è Triton) è da annoverare fra le cause del vertiginoso incremento della mortalità nel Mediterraneo”.

Il genocidio sale alle stelle perché le politiche sposano una logica semplice: il migrante è lo straniero e noi dobbiamo difendere le nostre frontiere dallo straniero. Il migrante è delinquente, se non terrorista. Non ha diritto di cambiare paese, è zombie. Noi dobbiamo fare di tutto per non lasciarlo arrivare. Secondo il quarto libro bianco sul razzismo: “A rendere i viaggi sempre più rischiosi, e spesso fatali, sono anzitutto le politiche proibizioniste europee, gli accordi con Paesi terzi tutt’altro che “sicuri”, il rifiuto di realizzare corridoi umanitari e percorsi migratori protetti e legali, nonché il mancato o maldestro soccorso in mare da parte di missioni militari quali Triton”.

Ma cosa cambia nella percezione dell’Altro? Facciamo un passo indietro. Venti anni fa vide la luce il lavoro straordinario di Giovanni Maria Bellu “I fantasmi di Porto Palo”. Storia di un naufragio di trecento migranti che si fece di tutto per dimenticare. Era il Natale 1996. Leggendo l’opera di Bellu si capì subito che stavamo assistendo all’abbassamento della percezione dell’umanità dell’Altro. Naufraghi? Meglio tacere, meglio non dire cosa tiravano su i pescherecci nei giorni dopo quel terribile Natale. Perché tiravano su pezzi di corpi. In fondo i cadaveri sono muti. Sono pezzi. Sono cose. Non sono persone ora morte e un tempo vive, con legami, patria, sogni, e qualcuno che ancora vuole sapere di loro. Abbiamo ragione di credere che questo sentimento di “deumanizzazione” dell’Altro abbia messo radici. Così dinanzi al problema delle grandi e incessanti migrazioni in atto da un lato ci si difende, dall’altro si attacca chi vuole dare una mano.

Se dobbiamo difenderci dagli sbarchi, occorre prendere le distanze da chi non lo fa. Inizia così la campagna del sospetto contro le Organizzazioni non governative, le Ong “impegnate in operazioni di ricerca e soccorso nel tratto di mare tra l’Italia e la Libia”. A far partire tale discredito è Frontex. Cioè la nuova Frontex, Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera. La precedente, che ha operato fino al 2015, è stata “debole”, la nuova ha più poteri. “In un rapporto “confidenziale”, rivelato dal Financial Times il 15 dicembre 2016, Frontex accusava le Ong di agire d’intesa coi trafficanti e di contribuire in tal modo a incrementare le partenze, quindi le stragi nef Mediterraneo”.

Tale atteggiamento a livello europeo è stato rafforzato in casa nostra. Scrive il rapporto: “All’opera denigratoria hanno partecipato i più vari soggetti politici, compreso il Movimento 5 Stelle. Lo ha fatto con un editoriale su Il blog delle Stelle, tanto disinformato quanto calunnioso, che ha ricevuto una valanga di commenti apertamente razzisti; ed è stato rilanciato da Luigi Di Maio, vice-Presidente della Camera, il quale ha definito “taxi del Mediterraneo” le imbarcazioni delle Ong impegnate nell’opera di ricerca e soccorso”.

Ancora, facendo esplicito riferimento alle accuse lanciate da Frontex, il Procuratore di Catania Carmelo Zuccaro nei mesi scorsi annuncia di aver aperto un’inchiesta sulle presunte “collusioni” tra Ong e trafficanti libici. Dopo un po’ però, le presunte collusioni si rivelano solo ipotesi senza prove, prive di appigli. Ma le polemiche hanno lasciato il segno. Il primo pensiero che viene in mente è semplice: le Ong sono testimoni, osservatori neutri in acque “calde”, frequentate da imbarcazioni di trafficanti e da operazioni di difesa delle frontiere. Meglio che non ci siano.

E il ruolo dei media? Troppo spesso non aiutano. Nel libro bianco non mancano i casi di allarmismo e di vera e propria diffusione del razzismo. La dice lunga il modo in cui venne ricordato, dopo giorni di dimenticanza, il profilo di Faye Dame non inserito subito nella lista dei dispersi della tragedia dell’hotel Rigopiano. Era il 23 gennaio scorso, di lui chiesero con insistenza due turisti. Questo il lancio di agenzia che ne diede conto: “Aveva da poco rinnovato il suo permesso di soggiorno, presso gli uffici della Questura di Torino dove risulta residente, Faye Dame, l’immigrato senegalese al lavoro all’hotel Rigopiano quando è stato travolto dalla valanga. L’uomo, 42 anni, aveva ottenuto il rinnovo del permesso esibendo il contratto di lavoro con l’albergo. Incensurato….”. Ma di quale superstite ci siamo chiesti se fosse o meno “incensurato”?

Se fa notizia l’uomo che morde il cane, e non viceversa, qui nell’immaginario del giornalista ha fatto notizia il fatto che il povero disperso senegalese avesse la fedina penale bianca come la neve che lo ha travolto.

L’elenco dei piccoli e grandi veleni che fomentano le aggressioni come quelle ai danni di Kartik Chondro è lungo e articolato. Il quarto libro bianco sul razzismo analizza e fornisce dati e dettagli. Accennando a qualche conclusione: “Le discriminazioni istituzionali, l’allarmismo dei media, il costante amalgama fra migranti o rifugiati e terroristi, nonché la cattiva gestione dell’accoglienza, almeno in alcuni Stati-membri, non fanno che favorire ondate ricorrenti di xenofobia – che a volte assume tratti paranoidi –, alimentando anche violenza razzista “spontanea” nei confronti degli indesiderabili, spesso usati come capri espiatori”. Certo la crisi economica non aiuta, e neanche la “voragine che separa le classi super-agiate dalla moltitudine d’indigenti, disoccupati, impoveriti, declassati, salariati a basso reddito. Per non dire del peso che ha la crisi della democrazia e della rappresentanza , la quale incrementa, tra l’altro, quel senso di frustrazione, spaesamento” rabbia che facilmente s’indirizza verso capri espiatori, verso categorie fra le più deboli e vulnerabili “. Ne viene fuori un mix di reazione in crescendo, fatto di egoismo, cecità, odio, insensibilità sociale, ricerca dei facili colpevoli. Fatto di “caccia al nero”. Una miccia pronta ad accendersi, collegata a quell’esplosivo che il tempo non disinnesca e che si chiama rancore.

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le beatitudini di oggi

Beatitudini sociali

 

  • Beati quelli che non usano le persone per garantire il profitto.
  • Beati quelli che rifiutano la competizione e il consumismo.
  • Beati quelli che non devono difendere ricchezze.
  • Beati quelli che stringono la mano ad un malato.
  • Beati quelli che accolgono un figlio c.d. disabile.
  • Beati quelli che assistono i genitori anziani e malati.
  • Beati quelli che nel silenzio si accorgono della consolazione di Dio.
  • Beati quelli che non credono negli idoli.
  • Beati quelli che si fermano e chiedono se serve aiuto.
  • Beati quelli che si mettono dalla parte degli ultimi.
  • Beati quelli che credono nell’amore.

 
Vangelo di Matteo 5,1-12a

“In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:

  • Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
  • «Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.
  • Beati i miti, perché avranno in eredità la terra.
  • Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
  • Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
  • Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
  • Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
  • Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
  • Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli»” 

pubblicato da altranarrazione

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papa Francesco contro i consevatori e la loro pastorale da custodi di musei

 no alla “pastorale di conservazione” da “custodi di musei”

«Guai a chi predica il Regno di Dio con l’illusione di non sporcarsi le mani»

“serve coraggio di gettare il seme cristiano, non stare nelle sicurezze”

Messa del Papa a Santa Marta

domenico agasso jr

Per far crescere il Regno di Dio, bisogna gettare seme cristiano. Per riuscirci, ai fedeli serve coraggio, non una «pastorale di conservazione» che punta solo alle sicurezze. Lo dice papa Francesco nella Messa a Casa Santa Marta di questa mattina, 31 ottobre 2017. Il Pontefice avverte: «Guai a chi predica il Regno di Dio» senza «sporcarsi le mani».   

Jorge Mario Bergoglio – riporta Radio Vaticana – basa l’omelia sul Vangelo odierno, da San Luca, in cui Cristo paragona il Regno del Signore al granello di senape e al lievito: il Vescovo di Roma osserva che entrambi gli elementi sono piccoli, sì, ma «hanno dentro una potenza» che cresce. E così è il Regno di Dio: la Sua potenza proviene dall’interno. 

San Paolo nella Lettera ai Romani, proposta dalla Prima Lettura di oggi, evidenzia le tensioni della vita: sono dolori, angosce e sofferenze che però «non sono paragonabili alla gloria che ci aspetta». Si affronta continuamente «una tensione fra sofferenza e gloria». E nelle tensioni dell’esistenza c’è «un’ardente aspettativa» per una «rivelazione grandiosa del Regno di Dio».  

È un’aspettativa anche della Creazione, che non può sfuggire alla caducità «come noi», ed è «protesa verso la rivelazione dei figli di Dio». Questa è la forza che si ha dentro e che «ci porta in speranza alla pienezza del Regno di Dio»; è l’energia dello Spirito Santo. 

Ed è «la speranza quella che ci porta alla pienezza – spiega – la speranza di uscire da questo carcere, da questa limitazione, da questa schiavitù, da questa corruzione e arrivare alla gloria: un cammino di speranza. E la speranza è un dono dello Spirito. È proprio lo Spirito Santo che è dentro di noi e porta a questo: a una cosa grandiosa, a una liberazione, a una grande gloria». E perciò il Figlio di Dio afferma: «Dentro il seme di senape, di quel grano piccolino, c’è una forza che scatena una crescita inimmaginabile». 

Sottolinea Papa Bergoglio: «Dentro di noi e nella creazione c’è una forza che scatena: c’è lo Spirito Santo», il Quale «ci dà la speranza».  

Il Papa illustra il significato di vivere in speranza: permettere che «queste forze dello Spirito ci aiutino a crescere» verso la pienezza che attende ogni essere umano nella gloria eterna. Ma come il lievito deve essere mescolato e il granello di senape buttato, perché altrimenti quella forza resta lì rinchiusa e non si espande, così è per il Regno di Dio che aumenta «da dentro», e «non per proselitismo», ammonisce il Pontefice. 

Il Regno del Signore «cresce da dentro, con la forza dello Spirito Santo. E sempre la Chiesa ha avuto sia il coraggio di prendere e gettare, di prendere e mescolare, anche ha avuto la paura di farlo. E tante volte noi vediamo che si preferisce una pastorale di conservazione e non di lasciare che il Regno cresca. Ma, rimaniamo quelli che siamo, piccolini, lì, stiamo sicuri… E il Regno non cresce». Affinché «il Regno cresca ci vuole il coraggio: di gettare il granello, di mescolare il lievito». 

Francesco riconosce che se si getta il seme, lo si perde, e che se si mescola il lievito, «mi sporco le mani», perché «sempre c’è qualche perdita nel seminare il Regno di Dio». Ma «guai a quelli che predicano il Regno di Dio con l’illusione di non sporcarsi le mani», esclama. Queste persone sono «custodi di musei: preferiscono le cose belle, e non questo gesto di gettare perché la forza si scateni, di mescolare perché la forza faccia crescere». È il messaggio di «Gesù e di Paolo: questa tensione che va dalla schiavitù del peccato, per essere semplice, alla pienezza della gloria». E la «speranza è quella che va avanti, la speranza non delude: perché la speranza è troppo piccola, la speranza è tanto piccola come il grano e come il lievito. È la virtù più umile, la serva», però, dove è la speranza, c’è lo Spirito Santo, che conduce sempre in avanti il Regno di Dio.

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