il papa del futuro

 

 

Un altro papato per il XXI secolo

un altro papato per il XXI secolo

 
 da: Adista Documenti n° 40 del 25/11/2017

 

Nel 1995, Giovanni Paolo II, nell’enciclica Ut unum sint, espresse la volontà di cercare un nuovo modo di esercitare il primato del vescovo di Roma come ministero di comunione di tutte le Chiese. La proposta suscitò grande interesse, ma ben presto venne dimenticata.

Nelle pagine che seguono indicherò gli elementi centrali del documento e ne analizzerò criticamente i presupposti teologici. Non appaiono forse troppo radicati nel passato? Nell’Ut unum sint il vescovo di Roma non appare ancora prigionero del papato? La tesi è semplice: per avanzare – «Tu seguimi» (Gv 21,22) – verso una comunione delle Chiese nel XXI secolo è imprescindibile riformare interamente l’immaginario e il quadro concettuale e istituzionale della Chiesa e dei ministeri. E così reimmaginare un altro “ministero di Pietro”, liberato dall’“ordine sacro”, dalla “successione” e da Roma.

1. La novità e l’ambiguità della vita

Ut unum sint (Perché siano uno) è un’enciclica sull’“impegno ecumenico” e si presenta come un commento sul Decreto del Concilio Vaticano II Unitatis redintegratio (1964), da cui è ripresa quasi la metà delle 162 citazioni. Il suo interesse, tuttavia, è centrato sul passato, il maggiore problema dell’ecumenismo.

Il ministero del vescovo di Roma, riconosce l’enciclica, «costituisce una difficoltà per la maggior parte degli altri cristiani, la cui memoria è segnata da certi ricordi dolorosi» (UUS 88). Bisognerebbe piuttosto dire “la” difficoltà, come affermò apertamente Paolo VI nel 1967: «Il papa, lo sappiamo, è senza dubbio l’ostacolo più grave sul cammino dell’ecumenismo».

(…). Negli anni ’90 del XX secolo, dopo tre decenni post-conciliari di impegno più o meno ottimistico, tutti gli sforzi ecumenici si erano ripetutamente incagliati sulla “roccia di Pietro”, o, meglio, sulla roccia del papato vaticano. Le commissioni teologiche interecclesiali arrivavano senza grosse difficoltà ad accordi basilari rispetto ai grandi dibattiti che ci avevano diviso in passato: il Filioque, la giustificazione, i sacramenti, Maria… Bastavano la buona volontà e la lettura critica dei testi fondanti del cristianesimo, soprattutto del Nuovo Testamento. Neppure un certo primato simbolico del vescovo di Roma appariva come un ostacolo insormontabile: le Chiese ortodosse non hanno mai avuto alcun problema ad accettarlo, purché non consistesse in un primato giurisdizionale, e qualcosa di simile si potrebbe dire anche della Chiesa luterana. Ma il dialogo falliva nel momento in cui Roma rivendicava un primato inteso come potere giurisdizionale sulle altre Chiese. Lì non era più possibile andare avanti. Il problema è il papato.

In maniera inattesa, lo stesso Giovanni Paolo II, il papa conservatore e inflessibile, arrivò infine a riconoscerlo nell’enciclica. Dopo aver evidenziato insistentemente il ruolo vitale e insostituibile del vescovo di Roma nella vera comunione di tutte le Chiese, egli afferma: «Sono convinto di avere a questo riguardo una responsabilità particolare, soprattutto nel constatare l’aspirazione ecumenica della maggior parte delle Comunità cristiane e ascoltando la domanda che mi è rivolta di trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova» (UUS 95).

È per questa frase che si cita e si continuerà a citare l’enciclica. La sorpresa e l’interesse suscitati da queste parole furono considerevoli. Un papa di radicate posizioni tradizionaliste rivendicava la necessità di ripensare la figura del vescovo di Roma, la sua funzione nella Chiesa. Questa frase constituisce la principale o unica novità dell’enciclica, l’unico passo avanti in relazione alla Costituzione conciliare Lumen gentium sulla Chiesa e al Decreto conciliare Unitatis redintegratio sull’ecumenismo.

Ma in che consiste propriamente “l’essenziale” del primato o della missione del vescovo di Roma? È questo il nodo della questione che l’enciclica lascia praticamente intatto. La sezione dedicata alla funzione del papa nel cammino ecumenico verso la comunione si apre con questa frase: «La Chiesa cattolica è consapevole di aver conservato il ministero del Successore dell’apostolo Pietro, il Vescovo di Roma, che Dio ha costituito quale “perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità”» (UUS 88).

I termini impiegati sono quanto mai ambigui e confusi tanto dal punto di vista storico quanto da quello teologico, ma l’enciclica non li chiarisce né li giustifica; li dà per scontati come se sapessimo cosa significano. Li stabilisce come fondamento senza fondarli.

Si capisce bene come tutti i tentativi portati avanti da allora per proporre una nuova forma di esercizio del “primato” romano siano falliti (…). Tutto si limitava a vaghe promesse intorno alla sinodalità e a disquisizioni senza fine su ciò che significano il primato e l’infallibilità.

E si comprende come, dieci anni dopo la Ut unum sint, il cardinal Kasper facesse propria l’espressione utilizzata da Paolo VI nel 1967, tornando a riconoscere che il papato è il «maggior ostacolo per la piena comunione ecumenica». Oggi, 21 anni dopo l’enciclica, constatiamo che non si è mosso alcun passo avanti per rendere effettiva la volontà di «trovare una forma di esercizio del primato che… si apra ad una situazione nuova».

È come se non si sapesse verso dove avanzare. Ma l’enciclica indica una direzione: il passato. È la direzione corretta?

2. È sufficiente tornare al primo millennio?

Ut unum sint propone come modello da seguire la relazione tra le Chiese di Oriente e di Occidente durante il primo millennio, prima della divisione del 1054, dando per scontato che tutte le Chiese in questo arco di tempo riconoscessero il vescovo di Roma como garante ultimo della piena comunione: «Il cammino della Chiesa è iniziato a Gerusalemme il giorno di Pentecoste e tutto il suo originale sviluppo nell’oikoumene di allora si concentrava attorno a Pietro e agli Undici (cfr. At 2,14). Le strutture della Chiesa in Oriente e in Occidente si formavano dunque in riferimento a quel patrimonio apostolico. La sua unità, entro i limiti del primo millennio, si manteneva in quelle stesse strutture mediante i Vescovi, successori degli Apostoli, in comunione con il Vescovo di Roma. Se oggi noi cerchiamo, al termine del secondo millennio, di ristabilire la piena comunione, è a questa unità così strutturata che dobbiamo riferirci» (UUS 55).

Bisogna riconoscere la carica innovativa legata al fatto di proporre il primo millennio come modello per l’esercizio attuale del primato romano. Nel primo millennio non esistevano ancora i dogmi del primato di giurisdizione e dell’infallibilità, che furono definiti dal Concilio Vaticano I nel 1870! Il papa stava pensando forse di revocarli? Sarebbe stato inimmaginabile per qualunque papa e, se possibile, ancora di più per Giovanni Paolo II. Più ragionevole pensare che si riferisse al primato e all’infallibilità secondo il modello del primo millennio, ma «senza rinunciare all’essenziale».

E qui torniamo all’impasse di sempre: in cosa consiste l’essenziale di questi dogmi? È possibile trovare nel primo millennio una qualche “struttura” unanimemente accettata dalle Chiese assimilabile al primato di giurisdizione e all’infallibilità?

(…). Lasciamo, allora, parlare la storia (…):

– fino agli ultimi decenni del II secolo, la Chiesa di Roma, formata da diverse chiese o comunità, non era retta da alcun “vescovo”, ma da un “collegio di presbiteri”;

– godeva tra tutte le Chiese di prestigio e di autorità morale particolari, a causa del fatto che lì si conservavano la tomba e la memoria di Pietro e di Paolo (morti a Roma probabilmente durante la persecuzione di Nerone dell’anno 64) e della generosità di cui dava prova nel sostenere economicamente altre Chiese più povere (…), oltre, senza dubbio, al fatto che Roma era la capitale dell’Impero  (“città eterna” e “caput mundi”);

– verso la fine del II secolo, Ireneo di Lione (…) riconosceva alla Chiesa di Roma il “primato”, ma non la potestà di intervenire in altre Chiese e la stessa cosa insegnerà San Cipriano, vescovo di Cartagine, alla fine del III secolo;

– dalla fine del II secolo, i vescovi di Roma cominciarono a intervenire, ma risulta che tale intervento spesso non venisse accettato (…);

– a partire dal III secolo, si scatenò una grande lotta per il potere tra le grandi metropoli dell’impero (…);

– il prestigio e l’autorità di Roma aumentarono sensibilmente con la cristianizzazione dell’intera città, e ancora di più allorché il vescovo, dopo l’abbandono di Roma da parte dell’imperatore e il suo trasferimento a Ravenna, assunse in qualche modo il ruolo e gli attributi dell’imperatore, come pontifex maximus; (…) benché vescovi come San Basilio e Sant’Ambrogio non ammettessero la volontà di controllo di Roma sui vescovi;

– il Concilio di Calcedonia (451), lo stesso che definì la dottrina di Cristo come una persona con due nature, riconobbe al vescovo di Costantinopoli l’uguaglianza di diritti con il vescovo di Roma, ma tale canone non venne riconosciuto da Leone Magno, vescovo di Roma tra il 440 e il 461, che può essere definito come il “primo papa”: il primo a chiamarsi “vicario di Pietro”, a elaborare la dottrina della “successione di Pietro” e a rivendicare la “pienezza del potere” per intervenire in tutte le Chiese e in tutte le questioni  (…).

Il problema è che la UUS si appella alla storia, ma questa non avalla le affermazioni generiche sull’esistenza, fin dal principio, di una struttura di comunione di tutte le Chiese intorno al vescovo di Roma. (…).

Richiama l’attenzione, inoltre, e ci mette in guardia, il fatto che UUS 55, che si riferisce esplicitamente a Unitatis redintegratio n. 14, non citi la frase iniziale di questo paragrafo: «Le Chiese d’Oriente e d’Occidente hanno seguito per molti secoli una propria via, unite però dalla fraterna comunione nella fede e nella vita sacramentale, sotto la direzione della Sede romana di comune consenso accettata, qualora fra loro fossero sorti dissensi circa la fede o la disciplina». Una frase che menziona due degli elementi storici indiscutibili della relazione tra le diverse Chiese: la loro diversità («hanno seguito per molti secoli una propria via») e il «comune consenso» nel ricorrere all’arbitrato della Chiesa di Roma. Ut unum sint fa un passo indietro rispetto all’Unitatis redintegratio.

Ma (…) anche nell’ipotetico caso in cui il vescovo di Roma avesse esercitato fin dal principio una reale potestà su tutte le altre Chiese e questa fosse stata effettivamente riconosciuta da tutte, saremmo per questo obbligati a riprodurre oggi le strutture di un passato remoto? Non possiamo ignorare o relegare il passato al momento di ricostruire la comunione delle Chiese nel presente, ma la fedeltà al passato non consiste nel riprodurlo servilmente, bensì nel lasciarsene ispirare per avanzare creativamente verso un’altra Chiesa, altri ministeri, un altro modello di comunione.

(…). Essere fedeli allo Spirito che ha guidato le Chiese dell’antichità significa continuare ad andare avanti, aprendo cammini inediti come hanno fatto quelle.

3. E cosa dire della «volontà di Cristo»?

Noi cristiani torniamo a Gesù – a ciò che egli ha detto, fatto, voluto – per orientare le nostre vite, per costruire il futuro giusto e libero da lui atteso, annunciato, anticipato. La storia di Gesù, trasformatrice della storia, è il criterio della nostra prassi personale ed ecclesiale. Ci riferiamo alla sua storia per costruire la nostra. Dove, per “storia di Gesù”, intendo la sua vita umana mossa dallo Spirito trasformatore, creatore di nuova storia, di un nuovo mondo. (…).

Ut unum sint rimanda a Gesù per porre le basi di un nuovo modo di esercitare il primato di Pietro. Al numero 95, troviamo l’affermazione che «la funzione del Vescovo di Roma risponde alla volontà di Cristo»: «è per il desiderio di obbedire veramente alla volontà di Cristo che io mi riconosco chiamato, come Vescovo di Roma, a esercitare tale ministero». Al numero 96 il papa si chiede: «La comunione reale, sebbene imperfetta, che esiste tra tutti noi, non potrebbe indurre i responsabili ecclesiali e i loro teologi ad instaurare con me e su questo argomento un dialogo fraterno, paziente, nel quale potremmo ascoltarci al di là di sterili polemiche, avendo a mente soltanto la volontà di Cristo per la sua Chiesa, lasciandoci trafiggere dal suo grido “siano anch’essi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17,21)?».

E al numero 90 afferma: «Nel Nuovo Testamento, la persona di Pietro ha un posto eminente. (…) Il posto assegnato a Pietro è fondato sulle parole stesse di Cristo, così come esse sono ricordate nelle tradizioni evangeliche». (…).

L’enciclica non dice “volontà di Gesù”, ma “volontà di Cristo”, come è abituale nei documenti del magistero gerarchico. Ci rimanda non tanto al Gesù storico, ma alla figura di “Cristo” reinterpretata e “ricostruita” dalle comunità cristiane ed espressa nei testi evangelici. Ebbene, il Gesù della storia è il primo criterio al momento di riformare la Chiesa e i suoi ministeri o di ridefinire le relazioni ecumeniche nella “nuova situazione” che viviamo, se non vogliamo correre il rischio di fondarci, senza esserne consapevoli, sui nostri stessi pregiudizi proiettati su Gesù o il rischio di definire “volontà di Cristo” quelle che sono mere credenze e di utilizzare come argomento teologico quelle che sono mere convinzioni. (…).

È necessario, allora, (…) tenere conto dei dati che, in relazione alla figura di Pietro molti bravi esegeti considerano storicamente sicuri. Eccone un breve riassunto:

– benché non tutte le notizie che il Nuovo Testamento offre su Pietro siano storiche, nessuno mette in dubbio il fatto che egli occupasse un ruolo rilevante tra i discepoli, che Gesù gli avesse conferito un ruolo speciale nel compito di annunciare il Regno e di riunire il disperso Israele, e che la sua figura fosse  legata in particolate ad alcune Chiese, come la Chiesa di Matteo (Antiochia?) o di Roma, dove egli morì;

– è assai probabile che, dopo la morte di Gesù e la dispersione (se ci fu) dei discepoli/e, Pietro abbia guidato la loro riunificazione intorno alla confessione che egli era stato risuscitato o esaltato da Dio; così bisognerebbe intendere il fatto che sia stato “il primo” a cui Gesù risorto era apparso (1 Cor 15,5; Lc 24,34), per quanto abbia ben potuto condividere tale ruolo con Maria di Magdala, sempre che non sia a lei che spetti il protagonismo della confessione pasquale;

– c’è un ampio consenso sul fatto che il testo di Mt 16,17-19 sia una creazione postpasquale propria di Matteo o della tradizione che egli raccoglie; potrebbe avere come scopo quello di rivendicare il posto o l’autorità della stessa Chiesa (forse Antiochia, dove probabilmente scrive Matteo, o un’altra vicina) in quanto fondata da Pietro, rispetto ad altre Chiese che si richiamavano a Paolo o al “Discepolo Amato”; il potere di “legare e sciogliere”, che qui si attribuisce a Pietro, si applicò prima ai discepoli in generale (Mt 18,18) o ai Dodici (Gv 20,23) (…);

– vale la pena segnalare il fatto che anche Paolo riconobbe la preminenza di Pietro (Gal 1,18; 2,1-10), ma che ciò non gli impedì di scontrarsi con lui duramente in Antiochia (Gal 2,11-14), e persino di rompere con lui definitivamente, poiché a partire da questo episodio (anno 49?) non abbiamo notizia che abbiano avuto altri contatti. (…);

– per il resto, le Chiese neotestamentarie si organizzarono internamente in modi molto diversi; basta guardare alle comunità di Gerusalemme, Antiochia, Corinto e Roma.

In conclusione, secondo i dati esegetici di cui disponiamo, Gesù non pensava a una Chiesa futura provvista di determinate strutture organizzative (annunciò piuttosto l’arrivo di una trasformazione profonda del mondo che chiamava “Regno di Dio”, e comportava l’eliminazione di tutte le malattie e le ingiustizie, e la cui realizzazione era imminente).

Non affidò a Pietro nessuna missione da lasciare in eredità, per il futuro, a un “successore”, né costituì il gruppo dei Dodici perché guidassero la Chiesa o le Chiese, bensì per simboleggiare e promuovere la riunificazione finale degli ebrei della Diaspora. Di fatto, sembra certo che la maggior parte dei Dodici non guidò alcuna Chiesa e che, al contrario, alcuni che non rientravano tra i Dodici lo fecero: è il caso di Giacomo, il fratello di Gesù, a Gerusalemme, e il caso del Discepolo Amato che fu la figura di riferimento di importanti comunità; è il caso, in particolare, di Paolo, che fondò e “governò” numerose Chiese. Né nella mente di Gesù né nelle comunità del Nuovo Testamento incontriamo qualcosa che assomigli a un vescovo di Roma come “successore di Pietro”, e tanto meno a un “primato di giurisdizione” nel senso che sembra attribuirgli la Ut unum sint.

Ma (…) anche nel caso in cui il Gesù storico avesse conferito espressamente a Pietro la potestà di presiedere alla Chiesa in generale, per essere il fondamento e la garanzia della sua comunione, per pronunciare l’ultima parola in tutte le questioni di dottrina e di morale, saremmo per questo oggi, duemila anni dopo, vincolati a tale pratica e obbligati a mantenerla in quanto tale? Non significherebbe questo negare (…) l’“incarnazione” umana e storica di Dio in lui? Non ci condanneremmo a bloccare così l’azione dello Spirito e la trasformazione della nostra Chiesa e della storia?

4. Che modello di unità, di comunione e di ecumenismo?

“Che tutti siano uno”. Il titolo dell’enciclica riprende la preghiera di Gesù, citata sei volte nel testo (…). I termini “unità” o “unione” si ripetono circa 200 volte e altre 130 il termine “comunione”.

La domanda cruciale è: che modello di unione? È necessaria un’unità istituzionale organica e centralizzata? Un solo gregge sotto un solo pastore? Ut unum sint riconosce la necessità di superare il modello ecumenico impostosi durante il secondo millennio, centrato sulla figura di un papa plenipotenziario, ma resta legata a un modello eccessivamente romanocentrico e papista. (…).

La Chiesa romana continua a considerarsi il centro e la base. Seguendo la Lumen gentium e l’Unitatis redintegratio del Concilio Vaticano II, l’enciclica afferma che la Chiesa cattolica romana è quella in cui è custodita la pienezza della verità e, pertanto, la garanzia della piena comunione: «La Costituzione Lumen gentium in una sua affermazione fondamentale che il Decreto Unitatis redintegratio riecheggia, scrive che l’unica Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica. Il Decreto sull’ecumenismo sottolinea la presenza in essa della pienezza (plenitudo) degli strumenti di salvezza. La piena unità si realizzerà quando tutti parteciperanno alla pienezza dei mezzi di salvezza che Cristo ha affidato alla sua Chiesa (UUS 86).

Sono note le discussioni conciliari sfociate nella scelta del termine subsistit invece di est, volendo evitare la mera identificazione dell’unica Chiesa con la Chiesa cattolica romana. Lo fa anche la Ut unum sint, ma insistendo sul fatto che solo in essa si trova presente la pienezza salvifica. (…). Di più: «La Chiesa cattolica (…) sostiene che la comunione delle Chiese particolari con la Chiesa di Roma, e dei loro Vescovi con il Vescovo di Roma, è un requisito essenziale – nel disegno di Dio – della comunione piena e visibile» (UUS 97). Il Decreto Unitatis redintegratio non si esprimeva in questi termini così netti; lo avrebbe fatto di lì a poco la Dominus Jesus (2000).

(…). L’enciclica invita a rivedere il modo di esercitare il ministero papale, ma non contempla alcun cambiamento di modello di tale ministero né alcuna riduzione sostanziale dei poteri che i dogmi cattolici gli hanno attribuito nel secondo millennio: il primato e l’infallibilità. (…).

È così allora che il vescovo di Roma mantiene l’ultima parola: «L’autorità docente ha la responsabilità di esprimere il giudizio definitivo» (UUS 81). E rimane ben chiaro che il “Successore di Pietro” è l’unico abilitato, in ultima istanza, a «dichiarare ex cathedra che una dottrina appartiene al deposito della fede», per insegnare la verità.

(…). È un’enciclica sulla vera unità, sull’unione nella verità. Ma qui (…) le questioni si complicano. Che cos’è la verità? Chi la conosce? Può essere espressa una volta per tutte? Si afferma che «l’espressione della verità può essere multiforme», ma si aggiunge subito dopo che le nuove forme di espresssione devono presentare «il messaggio evangelico nel suo immutabile significato» (UUS 19). Un significato immutabile? Si tratta di una grave contraddizione, se, come è giusto, chiamiamo “significato” il senso (sempre parziale, culturale, storico) espresso in una o in tutte le parole. L’immutabile – ma esiste? È Dio stesso immutabile nel senso che diamo a questo termine? – sarebbe piuttosto, in ogni caso, il “referente”, il “senso sconosciuto e inesprimibile” a cui si riferiscono tutte le parole e che sempre le trascende. Il significato è ciò che dice la parola; il referente è ciò che la parola non riesce mai a dire del tutto. Il referente è la “verità”, il Mistero indicibile che nessuna parola umana è in grado di esprimere.

Qui tocchiamo il decisivo punto debole dell’enciclica sulla comunione. La quale dà per scontato che il significato immutabile possa identificarsi con la verità in sé, immutabile, e che il vescovo di Roma, e solo lui, possieda la facoltà di esprimerla in maniera piena. (…).

L’enciclica mantiene intatto il paradigma tradizionale, piramidale, gerarchico. Il potere sacro proviene dall’alto e si trasmette per successione gerarchica. È questo paradigma di fondo (…) a rendere il papato  – e, al di là di esso, ogni sistema ministeriale e ogni modello istituzionale cattolico e cristiano nel suo insieme – anacronistico e insostenibile. Non si tratta di applicare alcuni aggiustamenti e attualizzazioni al modo di esercitare il ministero, ma di concepirlo secondo un modello radicalmente distinto. (…).

5. Immaginiamo che papa Francesco…

Quattro anni e mezzo fa è stato eletto papa un vescovo “venuto da lontano”, argentino e gesuita, che ha voluto chiamarsi Francesco, che cammina con un altro portamento, parla con un altro garbo e un’altra freschezza, diffonde nel mondo di oggi un messaggio dagli accenti assai diversi da quelli a cui ci avevano abituato i due ultimi papi.

Certamente, muove passi nella giusta direzione con la sua freschezza e la sua libertà francescana, con il suo invito a essere «Chiesa in uscita», in esodo e in pellegrinaggio, in cammino di liberazione, «Chiesa che incontra cammini nuovi», «Chiesa povera, per i poveri e a partire dai poveri», «ospedale da campo» per qualunque ferito si presenti e non dogana religiosa, dottrinale o morale («chi sono io per giudicare?»); con la sua denuncia di un’«economia assassina» e il suo appello a una «rivoluzione della tenerezza» e al tempo stesso a una «coraggiosa rivoluzione culturale» (…); con la sua rinuncia al palazzo vaticano, al protocollo e al fasto; con la sua voluta autodenominazione come “vescovo di Roma” e la sua affermazione che non «si debba attendere dal magistero papale una parola definitiva o completa su tutte le questioni che riguardano la Chiesa e il mondo» e che «non è opportuno che il Papa sostituisca gli Episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori» (Evangelii gaudium 16).

Non si è ancora concretizzata, tuttavia, alcuna riforma del ministero papale e di tutti i ministeri, del vecchio paradigma che li sostiene. Non sappiamo dove egli arriverà. Neppure sappiamo se realmente vorrà avanzare molto più in là di una reforma della Curia e del suo funzionamento, fino alla riforma effettiva e radicale del “ministero petrino”, fino a partorire un altro papato conforme all’attuale società democratica e alla Chiesa che sogniamo, profetica e vicina. E, nel caso volesse arrivare fin dove è necessario, non sappiamo se glielo permetterebbero i poteri e i timori, gli interessi inconfessati, le congiure occulte, i fronti di resistenza.

Il mio sogno è che un giorno, durante l’eucarestia quotidiana a Santa Marta, dopo aver proclamato il vangelo dell’invio dei dodici apostoli (Mt 10,5-13), papa Francesco si alzi e parli così:

“Che la pace sia con voi, sorelle, fratelli della Chiesa cattolica e di tutte le Chiese! Gesù ci ha inviato ad annunciare la pace e a curare, come pellegrini del mondo, senza bisaccia né bastone. Ci ha chiamato a essere Chiesa di sorelle e fratelli, Chiesa fraterna e compagna di tutti i poveri e i feriti lungo la strada.

Io non sono che il più piccolo dei vostri fratelli, ma la grazia del caso ha voluto pormi qui, come vescovo di Roma e come papa, carico di indumenti e di poteri eccessivi. È arrivato il momento di prendere una grossa decisione, arrischiata e tranquilla. Ci anima lo Spirito di Gesù, di Maria di Magdala e di Simon Pietro, di Francesco e di Chiara di Assisi. Siamo chiamati a essere semplici e coraggiosi, a muovere un passo che avremmo già dovuto compiere da secoli. È arrivato il momento di sciogliere la zavorra storica che ci impedisce di essere discepole/i di Gesù, profeti sognatori e sovversivi come lo è stato lui. Non voglio più parlarvi come un personaggio infallibile investito di poteri sacri, creazioni umane spurie. Prendete le mie parole come volete. Vi propongo, insieme e in pace, di reinventare o di ribaltare tutte le strutture che impediscono alla Chiesa di essere povera, libera e fraterna, senza dimenticare il passato né legarci ad esso, senza legarci neppure alle nostre sacre Scritture, bensì lasciandoci ispirare e spingere da queste. È il momento che la Chiesa sia totalmente democratica, attui la separazione dei poteri e sia governata da un sistema più rappresentativo della volontà della gente dei sistemi democratici vigenti, ostaggi del sistema finanziario.

E voglio che cominciamo dal papato, come sognò Giovanni Paolo I, come chiese Giovanni Paolo II in una frase dimenticata di un’enciclica, come rivendicò Benedetto XVI quando era un semplice teologo. Ritengo che i dogmi del primato giurisdizionale e dell’infallibilità papale, definiti dal Concilio Vaticano I, oggi non abbiano più senso e che non dobbiamo perderci in sottili disquisizioni per far loro dire il contrario di ciò che dicono alle orecchie di chiunque; ritengo che neppure sia necessario derogarli solennemente, ma riconoscerli semplicemente come schemi linguistici e produzioni umane di altri tempi, oggi inservibili, e lasciarli da parte con la stessa facilità con cui lo facciamo con immagini e idee che hanno smessi di esserci utili. E andare avanti.

E per andare avanti per una nuova strada, voglio rinunciare e rinuncio a tutti i titoli che il sogno di grandezza è andato attribuendo al vescovo di Roma: Sommo Pontefice, Vicario di Cristo, Successore di Pietro, Santo Padre, Papa. Voglio spogliarmi di ogni fasto e orpello vaticano, povere spoglie umane della storia, la nostra storia istituzionale spesso così poco evangelica. E in nessun modo voglio più essere il presidente di uno Stato con tutto l’apparato di nunzi e ambasciatori e relazioni di potere.

Voglio che nessuno sia vescovo per designazione del vescovo di Roma, e che ogni vescovo o vescova non sia altro che il o la rappresentante della sua comunità cristiana, e che questa lo o la scelga in un modo che dobbiamo concretizzare e definire tutti insieme e che lo sia solo per un certo tempo.

Voglio che il vescovo o la vescova di Roma sia, come il vescovo di qualunque altra diocesi, scelto/a dai cristiani e dalle cristiane di Roma, e che non torni più ad avere potere sugli altri vescovi della Chiesa che chiamiamo cattolica, e tanto meno sulle altre Chiese che chiamiamo “sorelle separate” e che dobbiamo chiamare “sorelle” e basta.

Voglio che si dia un grande passo avanti nel cammino verso l’ecumenismo in cui ci troviamo incagliati da un secolo. È un piccolo semplice passo. Basta che tutte le Chiese, a cominciare dalla “Chiesa cattolica”, si riconoscano reciprocamente come vere Chiese di Gesù, senza esigere che cambino le particolarità di ciascuna. Che si riconoscano in profonda comunione spirituale ed evangelica benché siano diverse le loro dottrine e le loro istituzioni. E che preghino tutti i giorni per chiedere, alimentare, accogliere tra loro la massima unità nella maggiore diversità. E che, dal mutuo riconoscimento fraterno e sororale, le Chiese creino le nuove strutture di “comunione”, di rappresentanza e di coordinamento che sembrino loro più convenienti. E con questo basta, sorelle, fratelli. Torniamo a Gesù. Cominciamo da capo. Nel nome di Gesù. Amen”.

Cristo in maestà tra gli evangelisti, Presbiterio della Chiesa di Santa Maria del Castello (Giornico – CH), immagine originale e licenza

a 500 anni dalla Riforma di Lutero – dichiarazione comune della chiesa protestante e cattolica italiane

protestanti e cattolici, sempre più vicini

di Gian Mario Gillio
in “www.riforma.it” del 2 novembre 2017

L’Ufficio filatelico e numismatico dello Stato della Città del Vaticano ha mandato alle stampe un francobollo commemorativo della Riforma protestante che ritrae il dipinto del timpano della chiesa di Wittenberg con in primo piano Gesù crocifisso e, sullo sfondo, la città di Wittenberg (il luogo in cui il riformatore tedesco, e frate agostiniano, il 31 ottobre 1517 affisse le sue 95 tesi sulla porta della chiesa del castello della città sassone per contrastare il mercimonio delle indulgenze). La raffigurazione «pittorica» del francobollo fotografa, in atteggiamento di penitenza e inginocchiati, rispettivamente a sinistra e destra della Croce, Martin Lutero che sostiene la Bibbia, fonte e meta della sua dottrina e Filippo Melantone, teologo e amico di Martin Lutero – uno dei maggiori protagonisti della riforma – che, invece, tiene in mano la prima esposizione ufficiale dei principi del protestantesimo da lui redatta: la Confessione di Augusta «Confessio Augustuana». «È la prima volta – dice a Riforma.it il pastore Heiner Bludau, decano della Chiesa evangelica luterana in Italia (Celi) – che il Vaticano decide di dare alle stampe un francobollo celebrativo dedicato a Lutero e alla Riforma protestante. Proprio a Wittenberg abbiamo festeggiato ufficialmente il 31 ottobre, alla presenza delle più alte cariche dello Stato e religiose, la ricorrenza del Cinquecentenario della riforma. Nella città di Lutero è giunta notizia della riproduzione su carta filigranata delle immagini di Lutero e Melantone ritratti accanto a Gesù con lo sfondo della città sassone. Una notizia, per noi luterani, lieta, inaspettata e importante. Devo ammettere che non ancora avuto modo di vedere il francobollo, ma reputo questa iniziativa importante. Proprio come sono state le dichiarazioni congiunte tra luterani e cattolici; in questo caso, il Vaticano, o meglio il suo Ufficio filatelico e numismatico, ha deciso in autonomia di lanciare un segnale importante e di vicinanza, utilizzando un’immagine molto chiara, eloquente e esaustiva, e che ben spiega e raffigura il significato, direi il senso della Riforma innescata da Lutero». A Wittenberg (la città di Lutero e sfondo del francobollo) ricorda ancora Bludau, si sono tenute le celebrazioni per la «Festa della Riforma» con un culto solenne nella chiesa del castello di Wittenberg curato dal presidente della Ekd, Heinrich Bedford-Strohm ed anche un ricevimento ufficiale al quale ha partecipato, tra agli altri, anche la cancelliera Angela Merkel; tutti eventi promossi dalla Chiesa evangelica luterana tedesca – Evangelische Kirche in Deutschland (Ekd) martedì scorso– «occasioni importanti – prosegue Bludau –, nelle quali è emersa, e con forza, la necessità di proseguire il lavoro ecumenico e interreligioso. Un tema dirimente è quello della libertà religiosa. Bedford-Strohm nel suo prezioso sermone ha parlato anche dell’attualità della Riforma e guardando al futuro, un futuro all’insegna della responsabilità, sia collettiva sia personale; la cancelliera Merkel, poi, accostando la libertà religiosa alla Riforma protestante ha ribadito che le libertà non possono però prescindere dai doveri; segnalando altresì l’importanza della presenza religiosa e interreligiosa nel tessuto istituzionale, sociale, politico e comunitario della Germania». Il presidente del Consiglio della Chiesa evangelica tedesca, il vescovo Heinrich Bedford-Strohm, di fronte al presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier, alla cancelliera Angela Merkel, al presidente del Bundestag Wolfgang Schäuble, oltre a numerosi altri ospiti del mondo politico ed ecumenico e a centinaia di fedeli, ha voluto ricordare: «Siamo seduti qui, 500 anni dopo» e poi ha indirizzato un messaggio a papa Francesco: «Fratello in Cristo, ringraziamo Dio per la tua testimonianza di amore e misericordia, che per noi protestanti significa anche testimonianza a Cristo». Parole importanti di riconoscenza dirette al papa, prosegue Bludau «perché, anche se è vero che il percorso di vicinanza e di aperture ecumeniche iniziò grazie al Concilio Vaticano II, è altrettanto vero che l’impulso più significativo al dialogo e alla riconciliazione in questi ultimi anni è partito
dalle mosse di papa Francesco. Un avvicinamento verso tutte le chiese protestanti ed evangeliche. Certamente, importanti sono le dichiarazioni firmate in passato, come quella cattolico-luterana sulla dottrina della giustificazione nel 1999, o quella del 2103 “Dal conflitto alla comunione”, tutti documenti dogmatici importanti. Credo, però, che la visita di papa Francesco a Lund – per aprire le commemorazioni per il Cinquecentenario della Riforma – sia stata la vera scintilla che ha tatto cambiare radicalmente l’atmosfera e la percezione comune: una mossa visibile a tutti, in particolar modo in Italia, dove l’informazione generalista e secolare racconta spesso e spasmodicamente la vita del papa, le sue opere, i suoi viaggi e i suoi pensieri. Il papa aprendo le celebrazioni della Riforma ha mostrato a tutti che non siamo delle “sette”, ma chiese cristiane. Un messaggio che ha saputo entrare anche negli interstizi più irraggiungibili della stessa chiesa cattolica». Dopo i convegni condivisi tra le chiese protestanti ed evangeliche e i vertici della chiesa cattolica, come ad esempio quello realizzato qualche mese fa a Trento insieme all’Ufficio nazionale per l’ecumenismo e il dialogo (Unedi) della Cei e dal titolo «Cattolici e protestanti a 500 anni dalla Riforma, è possibile avere uno sguardo comune, così come è avvenuto in occasione della «Festa della riforma» a Roma lo scorso 28 ottobre grazie alla presenza del cardinale Ravasi e alla diretta di Rai Due trasmessa per più di un’ora. Insieme alla Cei – Unedi, ricorda infine Bludau, «è nata l’dea di promuovere anche la dichiarazione congiunta uscita solo lo scorso 31 ottobre. I rapporti che intercorrono tra la chiesa luterana e la chiesa cattolica sono parte, certamente significativa, di un percorso ecumenico ben più ampio. Un percorso intrapreso da molto tempo insieme alla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) della quale siamo federati, e con la quale, grazie al loro impegno, abbiamo potuto condividere lo scorso 28 ottobre una giornata davvero ricca e importante che, amplificata dalla Rai, ha permesso di poter far vivere l’evento non come una cosa “intra-protestante” ma di tutti e per tutti gli italiani. Questi rapporti ecumenici e queste attenzioni sono il segnale importante di un percorso in continua evoluzione».

 

500° dalla Riforma di Lutero

dichiarazione comune Chiesa Luterana e C.E.I.

Il testo integrale della Dichiarazione comune della Conferenza episcopale italiana e della Chiesa evangelica luterana in Italia per il 500° anniversario dell’inizio della Riforma

Pubblichiamo il testo integrale della Dichiarazione comune della Conferenza episcopale italiana e della Chiesa evangelica luterana in Italia per il 500° anniversario dell’inizio della Riforma. “Riconciliarsi per annunciare il Vangelo”, questo il titolo del documento che porta la firma di mons. Ambrogio Spreafico, presidente della Commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei, e del pastore Heiner Bludau, decano della Chiesa evangelica luterana in Italia. “A inizio ottobre – spiegano Bludau e don Cristiano Bettega, direttore dell’Ufficio Cei per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso – si è svolto a Trento un breve ma significativo convegno, di cui sul sito dell’Ufficio Cei per l’ecumenismo e il dialogo ci sono le relazioni e che ha visto ugualmente coinvolti la Chiesa evangelica luterana in Italia e l’Ufficio nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei. A conclusione di quel convegno abbiamo pensato a questa comune dichiarazione. Si tratta di un comune impegno a prendere sul serio ciò che in quest’anno anniversario abbiamo più volte detto e scritto: che il cammino ecumenico ci riguarda e ci impegna tutti, che la passione ecumenica, alla fine, è passione per il Vangelo di Gesù Cristo, per la sua Chiesa, per le donne e gli uomini di oggi. È una dichiarazione che coinvolge tutti, non soltanto cattolici e luterani: perché il cammino di reciproca conoscenza, accoglienza, collaborazione e testimonianza dell’Evangelo è cosa di tutti noi”. Ecco il testo della dichiarazione:

«Piuttosto che i conflitti del passato, il dono divino dell’unità tra di noi guiderà la collaborazione e approfondirà la nostra solidarietà. Stringendoci nella fede a Cristo, pregando insieme, ascoltandoci a vicenda, vivendo l’amore di Cristo nelle nostre relazioni, noi, cattolici e luterani, ci apriamo alla potenza di Dio Uno e Trino. Radicati in Cristo e rendendo a Lui testimonianza, rinnoviamo la nostra determinazione ad essere fedeli araldi dell’amore infinito di Dio per tutta l’umanità» (Dichiarazione congiunta in occasione della Commemorazione cattolico-luterana della Riforma, Lund 31 ottobre 2016). Queste parole hanno guidato il cammino di riconciliazione e di condivisione che ha coinvolto cattolici e luterani in tanti luoghi, in questo anno, per vivere l’esperienza di una commemorazione comune del 500° anniversario dell’inizio della Riforma, nella linea indicata dal documento Dal conflitto alla comunione della Commissione luterano-cattolica per l’unità.

In Italia numerose sono state le iniziative, a vario livello, alle quali hanno preso parte cristiani e cristiane per commemorare la Riforma del XVI secolo in un spirito che, se non può essere considerato una novità alla luce dei passi compiuti negli ultimi decenni, ha sicuramente aperto una nuova stagione nel cammino per la costruzione dell’unità visibile della Chiesa con la quale mettere fine allo scandalo delle divisioni.

Proprio alla luce di queste iniziative, cattolici e luterani auspicano che sia possibile proseguire nell’approfondimento della conoscenza dell’opera e della figura di Martin Lutero per una migliore comprensione delle ricchezze spirituali, teologiche e liturgiche del XVI secolo per una riforma della Chiesa, radicata sulle Sacre Scritture e arricchita dalla tradizione dei concili ecumenici, in grado di rimuovere quei pregiudizi che ancora impediscono una lettura condivisa delle vicende storiche della Riforma in tutte le sue articolazioni.

Nella lettura congiunta delle Sacre Scritture, che costituisce un passaggio fondamentale, da anni, nella scoperta quotidiana di cosa unisce i cristiani, cattolici e luterani invitano a trovare nuove fonti per sviluppare il cammino ecumenico, anche grazie a un rinnovato rapporto con il popolo ebraico proprio a partire dalla comune radice biblica. Leggere insieme le Sacre Scritture illumina l’esperienza di fede con percorsi ecumenici di ascolto e commento della Parola di Dio in modo da condividere tradizioni esegetiche e formulazioni dottrinali, affidando al Signore i tempi e i modi della realizzazione dell’unità visibile della Chiesa.

Cattolici e luterani ritengono che questi percorsi vanno sostenuti e incoraggiati nella prospettiva di favorire un ripensamento della catechesi in chiave ecumenica, soprattutto in relazione alla celebrazione del battesimo e del matrimonio e, più in generale, alle liturgie ecumeniche di riconciliazione, così da aiutare a vivere questi momenti della vita delle comunità locali come opportunità per riaffermare che per cattolici e luterani l’ecumenismo costituisce una scelta irreversibile, quotidiana, non emergenziale, in grado di aiutare una migliore comprensione delle proprie identità, rendendo più vivace e pregnante la missione della Chiesa. Cattolici e luterani vogliono rendere sempre più dinamico il proprio impegno nella cura del creato, proponendo un modello di sviluppo economico che non sia interessato alla logica del profitto, che tanti danni ha fatto anche nel nostro paese con l’inquinamento dell’aria, delle acque e della terra, ma, superando gli interessi individuali o di gruppo, sappia utilizzare le risorse del creato nel rispetto dell’ambiente e avendo sempre di mira il bene comune e quello stesso della terra di cui siamo custodi e non padroni.

Per cattolici e luterani, le peculiarità del cammino ecumenico devono portare a moltiplicare le occasioni per testimoniare l’amicizia e l’aiuto verso i poveri, in particolare oggi verso i migranti che fuggono da guerre e calamità naturali. Davanti al bisogno loro e anche di un numero crescente di nostri concittadini, ci impegniamo a coinvolgere le nostre comunità in uno sforzo maggiore di solidarietà, avendo sempre come modello il Buon Samaritano, quel Gesù che si china sulle ferite dell’umanità sofferente. Siamo aperti a collaborare con tutti i nostri fratelli e sorelle a cui ci accomuna la fede nel Signore Gesù, ed anche con le donne e gli uomini di altre religioni e con tutti coloro che hanno a cuore il futuro del nostro paese e del mondo.

Rafforzare l’amicizia nella fraternità, ai piedi della croce di Cristo, ci aiuterà a favorire una riconciliazione delle memorie in grado di sostenere cattolici e luterani nell’annuncio e nella testimonianza della Parola di Dio nella società contemporanea, per promuovere una riforma sempre più evangelica della vita quotidiana delle comunità locali.

Mons. Ambrogio Spreafico,

presidente della Commissione Episcopale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Conferenza Episcopale Italiana

Pastore Heiner Bludau,

Decano della Chiesa Evangelica Luterana in Italia

Roma, 31 ottobre 2017, nel quinto centenario dall’inizio della Riforma di Martin Lutero.

i 500 anni della ‘riforma’ di Lutero meritano una preparazione adeguata

I 5 ‘SOLA’ della RIFORMA



Conferenze sui ‘CiNQUE SOLA’ in vista del 500° anniversario della Riforma


Sabato 5 marzo 2016 ore 17,30: ►SOLA SCRITTURA
Relatore prof Paolo Ricca, docente emerito di storia del cristianesimo alla Facolta’ valdese

Venerdì 22 aprile 2016 ore 17,30: SOLA GRAZIA
Relatore prof Fulvio Ferrario, docente di teologia sistematica alla Facolta’ valdese


Venerdì 24 giugno 2016 ore 18,00: SOLA FEDE
Relatore past William Jourdan responsabile della chiesa metodista di Vicenza


Giovedì 3 novembre 2016 
ore 17,30: ►SOLO CRISTO
Relatore dott Pawel Gajewski professore incaricato alla Facolta’ valdese


Venerdì 2 dicembre 2016 ore 17.30: SOLI DEO GLORIA
Relatore past Paolo Ribet della chiesa valdese di Torino


Fonte: Piacenzachiesavaldese 

la conferenza di Paolo Ricca anche su youtube

nonostante papa Francesco …

“Riforma della Curia senza riforma. Non siamo sulla strada giusta”

La Curia ai tempi di papa Francesco
la Curia ai tempi di papa Francesco

da: Adista Segni Nuovi n° 25 del 09/07/2016

“Riforma della Curia senza riforma. Non siamo sulla strada giusta” è il titolo della riflessione di Noi Siamo Chiesa, diffusa dal suo coordinatore nazionale Vittorio Bellavite lo scorso 14 giugno. La riforma della Curia vaticana rappresentava uno dei punti più dirompenti della proposta francescana all’inizio del nuovo pontificato e anche quello che suscitava maggiori speranze tra i cattolici conciliari. A distanza di oltre tre anni però, di quel progetto non si ha più notizia.


Tra i propositi ben noti e largamente condivisi fin dall’inizio del pontificato di papa Francesco vi è la riforma della Curia vaticana. Di ciò si parla poco. La forte immagine e la linea pastorale di questo papa nascondono o lasciano in secondo piano il funzionamento della struttura centrale della Chiesa e il problema urgente di come modificarla. Per ragionare sulla questione bisogna essere informati sugli organi centrali, cosa non difficile almeno in prima approssimazione. Notizie si trovano online e sull’Annuario Pontificio. Nell’opinione cattolica spesso non si ha consapevolezza delle dimensioni della Curia. Le Congregazioni sono nove, i Pontifici Consigli sono dodici, le Pontificie Commissioni sono sei, le Accademie pontificie sono undici, i Tribunali sono tre oltre alle quattordici istituzioni collegate  (tra le quali tutto il sistema della comunicazione). Poi c’è il Sinodo dei vescovi e la Segreteria di Stato, dalla quale dipendono le rappresentanze pontificie presso gli Stati che sono 178 mentre 35 sono le organizzazioni internazionali nelle quali la S. Sede è presente a vario titolo.

In controtendenza rispetto allo spirito del Concilio, le strutture della Curia negli ultimi 50 anni sono diventate più numerose e consistenti, soprattutto con l’istituzione di nuovi Pontifici Consigli (tra questi, il più recente e il più inutile è quello sulla Nuova Evangelizzazione, voluto da papa Benedetto XVI e diretto da mons. Fisichella). È opinione comune che esse gestiscano in modo centralizzato e autoritario, come prima del Concilio ma forse più di prima, la vita delle Chiese locali. Il settimanale statunitense National Catholic Reporter sostiene – ci sembra a ragione – che c’è una continua emanazione di direttive, di documenti, di esortazioni, di prescrizioni che inondano le strutture ecclesiastiche nel mondo. Con papa Francesco però – sostiene il prestigioso settimanale nordamericano – i documenti sono meno numerosi e il ruolo della Congregazione per la Dottrina della Fede sarebbe stato ridotto. Essa è guidata dal numero uno dei vescovi ostili alla linea di papa Francesco, il card. Gerhard Müller, che è stato nominato nell’estate del 2012 quando Benedetto XVI probabilmente aveva già deciso di dimettersi e, si suppone, volesse lasciare suoi uomini di fiducia nei posti chiave.

Papa Francesco ha voluto circondarsi del C9, il gruppo dei nove cardinali  scelti da ogni continente per progettare la riforma della Curia. Dopo tre anni e quindici lunghi incontri i risultati sono del tutto inferiori alle attese, non solo per la lentezza delle decisioni, ma anche per le caratteristiche di quelle fino ad ora adottate. La forte presenza della Parola di Gesù nei messaggi di papa Francesco ci sembra piuttosto debole o addirittura assente nei casi, poco frequenti, in cui egli parla della riforma della Curia. In assenza di una spinta di papa Francesco rimangono sul tappeto questioni di fondo da definire: anzitutto se la Curia debba essere un servizio evangelico alle Chiese locali e ai vescovi oppure una struttura burocratica dove i vescovi si sentono spesso non capiti da supponenti monsignori di Curia (cosa di cui si lamentano molti e che capitò più volte a mons. Romero). Si tratta di sapere se ha ragione, per esempio, un vescovo della estrema periferia della Chiesa che ha detto: «Noi siamo trattati come filiali di una multinazionale» (mons. Bonino di Tacuarembò, Uruguay). Di queste grandi questioni non si parla.

La linea che si sta tacitamente affermando è invece quella della riorganizzazione, degli accorpamenti, delle semplificazioni. Tutto qui! È la logica che vuole evitare conflitti di competenza, che vuole stabilire meglio le gerarchie ed evitare la dispersione di energie. Dapprima tutti i nove servizi di informazione sono stati aggregati sotto la nuova Segreteria per la comunicazione. Ora, lo scorso 4 giugno, è stato costituito il “Dicastero (nuova terminologia) per i Laici, la Famiglia e la Vita”, che unifica due Pontifici Consigli e allarga le sue competenze alla “vita” (senza che ciò significhi l’assorbimento della Pontificia Accademia per la Vita, in cui, sia detto per inciso, tra i venticinque membri italiani le donne sono solo tre!). Lo Statuto di questo Dicastero prevede tre sezioni per le tre competenze e dice che avrà tra i propri membri “fedeli laici, uomini e donne, celibi e coniugati, impegnati nei diversi campi di attività e provenienti dalle diverse parti del mondo”. Staremo a vedere. Per ora il Consiglio dei Laici ha meno di un terzo di donne tra i propri membri. Non condividiamo la volontà di continuare a organizzare i “laici” come categoria separata, accettata ed organizzata dall’esterno e mai protagonista, per di più con una particolare sottocategoria costituita dalle donne. Un altro grande accorpamento è in dirittura d’arrivo, quello del nuovo Dicastero “Carità, Giustizia e Pace” per unificare quattro Pontifici Consigli (Giustizia e Pace, Cor Unum, Pastorale della salute, Migranti e Itineranti). La riforma di tutte le strutture di gestione delle risorse (IOR, APSA ecc… che pure fanno parte della Curia), per quello che si riesce a capire, è quella dove invece è possibile aspettarsi risultati positivi dall’azione di riforma e di pulizia di papa Francesco.

Ci pare che, con un centro romano della Chiesa ostile al cambiamento e convinto, nella sua maggioranza, di essere da solo il portavoce dello Spirito Santo, manchi un progetto generale per la riforma della Curia che sia coerente con lo spirito e la lettera del Concilio Vaticano II sul Popolo di Dio. La stessa volontà di Francesco di andare nella direzione della sinodalità è agli inizi e merita un salto di qualità urgente se pensiamo alla non condivisibile composizione degli ultimi due sinodi, con i laici e le donne ridotti a fare da comparse. Secondo noi, la riforma della Curia dovrebbe fondarsi su due pilastri: ridurre le strutture del Vaticano e decentrare le competenze alla periferia della Chiesa. Del decentramento alle Conferenze episcopali pare si sia parlato, a quanto ha riferito il portavoce vaticano p. Federico Lombardi, ma, per ora, non vi è niente né di chiaro né di definito. Questa del decentramento è la questione centrale. Alcune proposte, elaborate “dal basso”, ci sono già, anche noi cercheremo di fare proposte concrete. Per ora ci sembra che non si stia andando nella direzione giusta, c’è anzi la concreta possibilità di “cambiare tutto perché nulla cambi”. Non pensiamo che la riforma sia una cosa facile, ma pensiamo che essa sia necessaria e urgente se la nostra Chiesa vuole mantenere le sue caratteristiche di universalità condivisa e plurale, garantite per quanto riguarda la sua unità dal ministero del Vescovo di Roma.

* Immagine di Gabriel Andrés Trujillo Escobedo

i maggiori esperti di costituzione criticano la riforma

cinque critiche alla riforma

il documento di 56 costituzionalisti

non è che non ci siano aspetti positivi nella riforma costituzionale, tuttavia questi «non sono tali da compensare gli aspetti critici», «per cui l’orientamento resta contrario, nel merito, a questo testo di riforma». Si conclude con queste parole il documento in cui 56 costituzionalisti rivolgono cinque critiche di fondo alla nuova Costituzione fatta approvare dal governo. Interessante è che le firme appartengano a 17 ex giudici della Consulta, ben 11 presidenti emeriti della Corte e 5 vicepresidenti. Tra i firmatari – i nomi di Francesco Amirante (magistrato), Lorenza Carlassare (Università di Padova), Francesco Paolo Casavola (Università di Napoli Federico II), Gianmaria Flick (Università LUISS di Roma), Paolo Maddalena (magistrato) –  ci sono giudici noti per le loro tendenze di centrosinistra come di centrodestra

costituzione

da: Adista Documenti n° 18 del 14/05/2016

 

Di fronte alla prospettiva che la legge costituzionale di riforma della Costituzione sia sottoposta a referendum nel prossimo autunno, i sottoscritti, docenti, studiosi e studiose di diritto costituzionale, ritengono doveroso esprimere alcune valutazioni critiche. Non siamo fra coloro che indicano questa riforma come l’anticamera di uno stravolgimento totale dei principi della nostra Costituzione e di una sorta di nuovo autoritarismo. Siamo però preoccupati che un processo di riforma, pur originato da condivisibili intenti di miglioramento della funzionalità delle nostre istituzioni, si sia tradotto infine, per i contenuti ad esso dati e per le modalità del suo esame e della sua approvazione parlamentare, nonché della sua presentazione al pubblico in vista del voto popolare, in una potenziale fonte di nuove disfunzioni del sistema istituzionale e nell’appannamento di alcuni dei criteri portanti dell’impianto e dello spirito della Costituzione.

1. Siamo anzitutto preoccupati per il fatto che il testo della riforma – ascritto a una iniziativa del governo – si presenti ora come risultato raggiunto da una maggioranza (peraltro variabile e ondeggiante) prevalsa nel voto parlamentare (“abbiamo i numeri”) anziché come frutto di un consenso maturato fra le forze politiche; e che ora addirittura la sua approvazione referendaria sia presentata agli elettori come decisione determinante ai fini della permanenza o meno in carica di un governo. La Costituzione, e così la sua riforma, sono e debbono essere patrimonio comune il più possibile condiviso, non espressione di un indirizzo di governo e risultato del prevalere contingente di alcune forze politiche su altre. La Costituzione non è una legge qualsiasi, che persegue obiettivi politici contingenti, legittimamente voluti dalla maggioranza del momento, ma esprime le basi comuni della convivenza civile e politica. È indubbiamente un prodotto “politico”, ma non della politica contingente, basata sullo scontro senza quartiere fra maggioranza e opposizioni del momento. Ecco perché anche il modo in cui si giunge a una riforma investe la stessa “credibilità” della Carta costituzionale e quindi la sua efficacia. Già nel 2001 la riforma del titolo V, approvata in Parlamento con una ristretta maggioranza, e pur avallata dal successivo referendum, è stata un errore da molte parti riconosciuto, e si è dimostrata più fonte di conflitti che di reale miglioramento delle istituzioni.

2. Nel merito, riteniamo che l’obiettivo, pur largamente condiviso e condivisibile, di un superamento del cosiddetto bicameralismo perfetto (al quale peraltro sarebbe improprio addebitare la causa principale delle disfunzioni osservate nel nostro sistema istituzionale), e dell’attribuzione alla sola Camera dei deputati del compito di dare o revocare la fiducia al governo, sia stato perseguito in modo incoerente e sbagliato. Invece di dare vita a una seconda Camera che sia reale espressione delle istituzioni regionali, dotata dei poteri necessari per realizzare un vero dialogo e confronto fra rappresentanza nazionale e rappresentanze regionali sui temi che le coinvolgono, si è configurato un Senato estremamente indebolito, privo delle funzioni essenziali per realizzare un vero regionalismo cooperativo: esso non avrebbe infatti poteri effettivi nell’approvazione di molte delle leggi più rilevanti per l’assetto regionalistico, né funzioni che ne facciano un valido strumento di concertazione fra Stato e Regioni. In esso non si esprimerebbero le Regioni in quanto tali, ma rappresentanze locali inevitabilmente articolate in base ad appartenenze politico-partitiche (alcuni consiglieri regionali eletti anche come senatori, che sommerebbero i due ruoli, e in Senato voterebbero ciascuno secondo scelte individuali). Ciò peraltro senza nemmeno riequilibrare dal punto di vista numerico le componenti del Parlamento in seduta comune, che è chiamato a eleggere organi di garanzia come il Presidente della Repubblica e una parte dell’organo di governo della magistratura: così che queste delicate scelte rischierebbero di ricadere anch’esse nella sfera di influenza dominante del governo attraverso il controllo della propria maggioranza, specie se il sistema di elezione della Camera fosse improntato (come lo è secondo la legge da poco approvata) a un forte effetto maggioritario.

3. Ulteriore effetto secondario negativo di questa riforma del bicameralismo appare la configurazione di una pluralità di procedimenti legislativi differenziati a seconda delle diverse modalità di intervento del nuovo Senato (leggi bicamerali, leggi monocamerali ma con possibilità di emendamenti da parte del Senato, differenziate a seconda che tali emendamenti possano essere respinti dalla Camera a maggioranza semplice o a maggioranza assoluta), con rischi di incertezze e conflitti.

4. L’assetto regionale della Repubblica uscirebbe da questa riforma fortemente indebolito attraverso un riparto di competenze che alle Regioni toglierebbe quasi ogni spazio di competenza legislativa, facendone organismi privi di reale autonomia, e senza garantire adeguatamente i loro poteri e le loro responsabilità anche sul piano finanziario e fiscale (mentre si lascia intatto l’ordinamento delle sole Regioni speciali). Il dichiarato intento di ridurre il contenzioso fra Stato e Regioni viene contraddetto perché non si è preso atto che le radici del contenzioso medesimo non si trovano nei criteri di ripartizione delle competenze per materia – che non possono mai essere separate con un taglio netto – ma piuttosto nella mancanza di una coerente legislazione statale di attuazione: senza dire che il progetto da un lato pretende di eliminare le competenze concorrenti, dall’altro definisce in molte materie una competenza “esclusiva” dello Stato riferita però, ambiguamente, alle sole “disposizioni generali e comuni”. Si è rinunciato a costruire strumenti efficienti di cooperazione fra centro e periferia. Invece di limitarsi a correggere alcuni specifici errori della riforma del 2001, promuovendone una migliore attuazione, il nuovo progetto tende sostanzialmente, a soli 15 anni di distanza, a rovesciarne l’impostazione, assumendo obiettivi non solo diversi ma opposti a quelli allora perseguiti di rafforzamento del sistema delle autonomie.

5. Il progetto è mosso anche dal dichiarato intento (espresso addirittura nel titolo della legge) di contenere i costi di funzionamento delle istituzioni. Ma il buon funzionamento delle istituzioni non è prima di tutto un problema di costi legati al numero di persone investite di cariche pubbliche (costi sui quali invece è giusto intervenire, come solo in parte si è fatto finora, attraverso la legislazione ordinaria), bensì di equilibrio fra organi diversi, e di potenziamento, non di indebolimento, delle rappresentanze elettive. Limitare il numero di senatori a meno di un sesto di quello dei deputati; sopprimere tutte le Province, anche nelle Regioni più grandi, e costruire le Città metropolitane come enti eletti in secondo grado, anziché rivedere e razionalizzare le dimensioni territoriali di tutti gli enti in cui si articola la Repubblica; non prevedere i modi in cui garantire sedi di necessario confronto fra istituzioni politiche e rappresentanze sociali dopo la soppressione del CNEL: questi non sono modi adeguati per garantire la ricchezza e la vitalità del tessuto democratico del Paese, e sembrano invece un modo per strizzare l’occhio alle posizioni tese a sfiduciare le forme della politica intesa come luogo di partecipazione dei cittadini all’esercizio dei poteri.

6. Sarebbe ingiusto disconoscere che nel progetto vi siano anche previsioni normative che meritano di essere guardate con favore: tali la restrizione del potere del governo di adottare decreti legge, e la contestuale previsione di tempi certi per il voto della Camera sui progetti del governo che ne caratterizzano l’indirizzo politico; la previsione (che peraltro in alcuni di noi suscita perplessità) della possibilità di sottoporre in via preventiva alla Corte costituzionale le leggi elettorali, così che non si rischi di andare a votare (come è successo nel 2008 e nel 2013) sulla base di una legge incostituzionale; la promessa di una nuova legge costituzionale (rinviata peraltro a un indeterminato futuro) che preveda referendum propositivi e di indirizzo e altre forme di consultazione popolare.

7. Tuttavia questi aspetti positivi non sono tali da compensare gli aspetti critici di cui si è detto. Inoltre, se il referendum fosse indetto – come oggi si prevede – su un unico quesito, di approvazione o no dell’intera riforma, l’elettore sarebbe costretto a un voto unico, su un testo non omogeneo, facendo prevalere, in un senso o nell’altro, ragioni “politiche” estranee al merito della legge. Diversamente avverrebbe se si desse la possibilità di votare separatamente sui singoli grandi temi in esso affrontati (…). Per tutti i motivi esposti, pur essendo noi convinti dell’opportunità di interventi riformatori che investano l’attuale bicameralismo e i rapporti fra Stato e Regioni, l’orientamento che esprimiamo è contrario, nel merito, a questo testo di riforma.

 

pulizia nella curia vaticana: niente più sfarzo in Vaticano

papa Francesco cambia la curia

addio auto blu, ristoranti di lusso e vita mondana

la ‘cura Bergoglio’ ai vizi della chiesa

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POPE FRANCIS

Con Francesco l’austerità è arrivata anche in Vaticano: addio alle croci tempestate di lapislazzuli dei cardinali, alle tuniche dispendiose, ai sarti romani che vestono abitualmente i papi e tutta la curia romana. Il pontefice argentino con la sua croce in argento del valore di una cinquantina di euro, la sua tunica low cost (si tratta di una veste in terital che vale 120 euro, mentre quella dei cardinali costa in media tra i 600 e gli 800 euro) e la sua Ford Focus al posto delle dispendiose Bmw e Mercedes del parco-auto vaticano ha cambiato le abitudini della curia.

“Se Francesco va in giro con una “casuletta” che costa come una camicia, 65-70 euro al massimo, è naturale che tutto, intorno a lui, si fa più sobrio. Vescovi e cardinali hanno paura che il Papa li sorprenda”   

Lo afferma Luciano Ghezzi al Corriere. E lui deve saperne davvero, possiede uno storico negozio in via dei Cestari, ha vestito numerosi prelati: adesso però anche lui, navigato commerciante di arredi sacri, deve adeguarsi alla nuova tendenza. Per i saldi propone un’offerta “low cost”, quattro casule a 140 euro.

Finisce anche la storia dei pranzi luculliani nei storici ristoranti tra Borgo Santo Spirito e via Traspontina: pochissimi i cardinali che ancora si fanno vedere a tavola in questi posti, e altrettanto pochi quelli che gradiscono ancora regali particolarmente lussuosi. Il Papa, che usa mangiare al refettorio di Santa Marta, non approverebbe per certo. C’è chi sostiene di averlo visto in giro per la residenza-seminario a vegliare sui suoi preti.

Ma per i cardinali, abituati ad intrattenere ottime relazioni con le case più potenti della capitale, potrebbe trattarsi anche solo di una questione di facciata:

“I cardinali continuano come un tempo a frequentare le case dei nobili, ma sono cene che non finiscono sui giornali”    

Lo dice Sandra Carrara, moglie del senatore di Forza Italia, una delle più famose regine dei salotti romani: solo un po’ di discrezione in più per evitare i paparazzi, dunque?

Forse i cardinali non sono ancora del tutto convinti della virata austera implementata dal loro pontefice, ma Francesco non sembra aver intenzione di lasciare nulla di quel che è in suo potere al caso: del parco-macchine del Vaticano, le due ammiraglie, una Bmw e una Mercedes, risalenti ai tempi di Papa Ratzinger, sono tornate in Germania “per riparazioni”. La sera della sua elezione il cerimoniere aveva già fissato l’appuntamento col sarto e il Papa preferì andare a pregare la Madonna. Non c’è niente da fare, il Pontefice è irremovibile.

Tutti sono colti di sorpresa, ma dopo poco più di due anni dall’elezione di Papa Bergoglio, non c’è più dubbio che l’aria è cambiata: niente più sfarzo in Vaticano.

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