il commento di p. Maggi al vangelo della domenica

CON LA VOSTRA PERSEVERANZA SALVERETE LA VOSTRA VITA

commento al vangelo della trentatreesima domenica del tempo ordinario (13 novembre 2016) di p. Alberto Maggi:p. Maggi

Lc 21,5-19

In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta».
Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». Rispose: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro! Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine».
Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo.
Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere.
Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita».

Il vangelo di questa domenica è abbastanza complesso e rischia di essere travisato. Per questo dobbiamo situarlo nel suo contesto storico. Il vangelo è di Luca, cap. 21 versetti 5-19. Per comprenderlo dobbiamo fare un passo indietro, di ben sette secoli, situarci nel 701, quando Sennacherib, il potente re d’Assiria, iniziò la sua marcia verso la Palestina e nel suo percorso aveva già assediato e devastato ben 46 città e aveva posto d’assedio la piccola Gerusalemme. Re Ezechia e tutto il popolo si videro perduti perché tutta Gerusalemme era circondata dal potente esercito degli assiri. Ebbene, quale sorpresa al mattino quando sarebbe dovuto scattare l’attacco, videro che l’accampamento era vuoto, era stato abbandonato.
Per quale motivo? La spiegazione religiosa, ufficiale che viene data: un intervento di Dio. Infatti troviamo nel secondo libro dei Re, al capitolo 19, versetto 23, che questa stessa notte, l’angelo del Signore, l’angelo di Javeh uscì e colpì nel campo assiro 185.000 uomini, quindi lasciò un deserto di cadaveri, e Sennacherib, il re d’Assiria, tolse le tende, partì per far ritorno a Ninive.
Questa la spiegazione religiosa. In realtà negli scritti di Sennacherib si dice che il re Ezechia ha pagato un pesantissimo tributo. Fatto sta che questo avvenimento aveva dato origine alla credenza che, nel momento di massimo pericolo per Gerusalemme, Dio sarebbe intervenuto. C’è un salmo che celebra tutto questo, il salmo 46 al versetto 6 dove dice Dio è in mezzo a essa, non potrà vacillare.
Quindi nel momento di massimo pericolo interviene Dio. Allora leggiamo il vangelo.
Mentre alcuni parlavano del tempio, questi alcuni sono i discepoli, che era ornato di belle pietre e di doni votivi… Il tempio di Gerusalemme era uno splendore.  Gesù disse: “Verranno giorni nei quali, di quello che vedete…” Il verbo significa letteralmente ammirate. Ed è strano questo. Gesù aveva parlato del tempio come di una spelonca di ladri e di bandini. I suoi discepoli, invece, continuano a sentirne il fascino, l’ammirazione. “…Non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta”.
Perché questo? L’episodio precedente era stato quello della vedova che si dissanguava, offriva tutta la sua vita per mantenere in piedi questa istituzione. Era l’istituzione che con i proventi doveva mantenere i deboli della società. Ma l’istituzione religiosa aveva stravolto tutto questo. Erano i deboli che mantenevano quest’istituzione. Allora, per Gesù, un’istituzione religiosa che, anziché aiutare gli ultimi, i deboli, li sfrutta per il proprio mantenimento, non ha ragione di esistere. Ecco perché Gesù dice: non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta. E ancora oggi a Gerusalemme si possono vedere le pietre gettate giù dai romani nell’assedio nel 70.
Gli domandarono: “Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?”. I discepoli non sono preoccupati né allarmati, vogliono solo sapere quando. Perché? Come abbiamo detto prima si credeva che nel momento di massimo pericolo per Gerusalemme Dio sarebbe intervenuto. Questo è quello che sperano i discepoli. Loro sperano ancora che il Signore venga a restaurare il defunto regno di Israele. Ma Gesù rispose: “Badate…” Ed è un imperativo “Di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Io sono”” Io sono è il nome divino. “E: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro!
Gesù è categorico. Sempre nella storia ci saranno persone che penseranno di avere questo mandato divino di restaurare, di riformare, Gesù chiede di non seguirli. Storicamente sappiamo che dopo Gesù si presentarono diversi altri presunti messia, l’ultimo dei quali fu Bar Kochba, detto il figlio della stella, che alcuni rabbini avevano riconosciuto addirittura come il messia inviato da Dio, e che causò sotto l’imperatore Adriano, la rivolta contro i romani e, da parte dei romani, la distruzione completa di Gerusalemme. 
“Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine”. Gesù dice di non eccitarsi con questa attesa, perché loro pensano che sia il momento per inaugurare il regno di Israele. Gesù dice che non sarà così.
Poi diceva loro… E qui per comprendere queste espressioni bisogna rifarsi al linguaggio dei profeti con i quali i profeti descrivono grandi sconvolgimenti sociali.  “Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze…” Sono le immagini che i profeti usano per indicare i grandi cambiamenti sociali.
 “Vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo.” Tutto questo è un’immagine per atterrire. Vedremo alla fine di questo episodio come Gesù parlerà di segni di liberazione per i suoi. Ma questo sconvolgimento, cambiamento, purtroppo non sarà indolore per i suoi discepoli. Questo messaggio che scrive Luca è di incoraggiamento alle comunità cristiane che si vedono perseguitate, emarginate.
“Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno…” E qui Gesù presenta i tre valori sacri sui quali si regge la società che sono Dio, patria e famiglia, tutti uniti sotto l’insegna del potere sugli uomini. Ebbene questi tre valori sacri … – per valore sacro si intende un valore per il quale è lecito sacrificare la propria vita e togliere la vita all’altro – si rivolteranno contro i discepoli di Gesù.
“… Consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere.”
L’evangelista sta anticipando la scena che poi presenterà negli Atti degli Apostoli, del martirio di Stefano, che avrà parole verso le quali i suoi avversari non sapranno resistere. E anche Stefano ha toccato il tempio di Gerusalemme, l’istituto nevralgico di questa istituzione religiosa. Perché tutta questa avversione verso Gesù e i suoi? Perché il messaggio universale – annunziato da Gesù – del regno di Dio, annulla il privilegio di Israele di essere la prima tra le nazioni e il sogno del suo regno. Tutto questo non sarà indolore.
E addirittura, dice Gesù… quindi abbiamo visto Dio, la religione, la patria, i governati, ma “Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi”; qui il riferimento è al libro del Deuteronomio dove si prescrive che è lecito uccidere anche il parente idolatra. Quindi l’adesione a Gesù, agli occhi della società, è una idolatria che merita la morte.
L’adesione a Gesù, col radicale sovvertimento dei valori, è un crimine così grande da riuscire ad annullare persino i legami più stretti. “Sarete odiati da tutti a causa del mio nome”. Quindi la persecuzione non è un imprevisto nella vita del credente, ma è la conferma che si sta seguendo Gesù.
Ed ecco la rassicurazione di Gesù: “Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita”. Quindi Gesù assicura che da parte di Dio ci sarà la sua protezione e che questo non sia un messaggio che mette paura o dona angoscia, ma anzi la toglie. E troviamo in fondo al capitolo, al versetto 28, quando Gesù dice: “E quando cominceranno ad accadere queste cose alzatevi e levate il capo perché la vostra liberazione è vicina”. Quindi tutto questo che abbiamo detto non è un messaggio che mette paura, ma che la toglie.
Gesù ci assicura che la liberazione è vicina. Certo questa liberazione non sarà indolore, ci sarà da soffrire, ma Gesù sta sempre dalla parte dei perseguitati, mai da quella di chi perseguita, anche se chi perseguita pretende di farlo in nome suo.

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la profezia forse a stento ritrova il suo spazio nlla chiesa

così torna a parlare la Chiesa dei poveri una profezia rinnegata

di Alberto Mellonimelloni

La profezia, nella tradizione biblica, non è applicare la vista al futuro, nel tentativo di indovinarne la cifra. La profezia è tutt’altro: è un gesto verbale o non verbale, che mostra il collocarsi di Dio nel dilemma della storia fra oppresso e oppressore. Era profetica in questo senso una frase pronunciata da papa Giovanni l’11 settembre 1962, a un mese dall’inizio del Vaticano II: diceva che la chiesa vuole essere «la chiesa di tutti, ma soprattutto la chiesa dei poveri». Non la chiesa povera, non la chiesa che si occupa di poveri: ma la chiesa «dei poveri», quella che viene adunata dal collocarsi di Dio nel mistero della storia

Quel gesto profetico appariva l’eco di una ricerca spirituale molto marginale: quella dei teologi francesi della “Chiesa serva e povera” o quella dell’immedesimazione con i “minimi” di don Milani. Non appariva come un programma ecclesiale. Tant’è che quando, in concilio, l’arcivescovo Giacomo Lercaro propose di dare come cardine ai lavori e alla riscrittura del Vaticano II il mistero del Cristo povero, la cosa cadde nel vuoto: quel discorso era un gesto profetico in una chiesa immatura. Poi il silenzio. L’episcopato latinoamericano e la teologia della liberazione posero la questione della chiesa nei poveri. Ma il tema sparì dal magistero, dalla teologia, dalla predicazione. Al posto della chiesa dei poveri ci fu una “mobilitazione” che, con una singolare torsione del linguaggio, anche la chiesa accettò di chiamare “volontariato”: come se l’immedesimazione della chiesa nel destino del povero non fosse il solo modo per collocarsi sull’asse teologico della storia, ma una cosa che si può fare o no; un irritante “civismo religioso” analogo a quello di raccoglie le cartacce. Poi papa Francesco. E il prepotente ritorno della chiesa dei poveri e della povertà della chiesa dopo mezzo secolo di rimozione. Ritorno lessicale fatto con una (gesuitica) circospezione. Ritorno di governo fatto con la scelta di vescovi capaci di interpretare questa dimensione nelle chiese locali, quelle nelle quali e dalle quali origina la chiesa universale. Una decisione che non solo ha irritato e spaventato alcuni ambienti ecclesiastici, che vedevano frantumarsi strategie per insediare sodali e debitori di cordate “nelle quali e dalle quali” nasce quel nulla in formato spray che trasforma la vita cristiana in una inconsapevole ostentazione superba della propria mediocrità. La scelta di vescovi capaci di esprimere la chiesa come “chiesa dei poveri” ha spiazzato anche osservatori distanti: dai quali è venuta l’espressione sui “preti di strada”. Dire che uno studioso provato come Corrado Lorefice a Palermo o che un uomo dell’esperienza internazionale di Matteo Zuppi a Bologna siano preti “di strada”, è paradossale. In questo tentativo di ridurre le scelte di Francesco ad un casting spicca la figura del cardinale Luis Antonio Tagle, arcivescovo di Manila, definito anche lui come un “prete di strada”, ignorandone il profilo e lo spessore. Che adesso sono più accessibili grazie al libro-intervista Ho imparato dagli ultimi. La mia vita, le mie speranze curato da Lorenzo e Gerolamo Fazzini (Emi). Nel racconto della sua vita Tagle non fa particolari rivelazioni: l’esempio di un prete santo, un seminario reso fervoroso da un vescovo audace, che lo fa rettore a 25 anni; alcune esperienze impreviste come la partecipazione alla Storia del concilio Vaticano II diretta da Giuseppe Alberigo e poi soprattutto la chiamata nella Commissione teologica internazionale presieduta da Ratzinger che gli apre le porte di una carriera apparentemente senza ostacoli (e da ecclesiastico di razza, Tagle non racconta di essere stato chiamato all’ex sant’Ufficio a discolparsi dall’accusa di aver collaborato con Alberigo, che qualche sitarello conservatore agitava come fosse una colpa). Ma la “rivelazione” è l’intero racconto: quello di un uomo che in un lavoro di studio e con responsabilità importanti non smette di avere un rapporto immediato e costante con la povera gente. Nella diocesi dove cresce e anche adesso da cardinale arcivescovo, in una semplicità di relazione che lo porta ad essere non un “volontario” che “si occupa” di povericristi, ma un discepolo che nel poverocristo incontra il Cristo povero. La profezia della chiesa dei poveri era questa: la “forma” di santa romana chiesa tutto questo se lo rimangerà. Ma la profezia non cessa, perché l’asse della storia rimane quella e qualcuno che lo dice o c’è o tornerà.

* IL LIBRO Luis Antonio Tagle, Ho imparato dagli ultimi. La mia vita, le mie speranze ( a cura di Gerolamo e Lorenzo Fazzini, Emi, pagg. 160, euro 15)

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riflessioni amare su un voto dettato dall’insicurezza dell’intero occidente e dalla paura dei poveri

non piaceva a nessuno, è stato votato da tutti

 

 di Massimo Marnetto

 

Quando c’è paura, scegli chi ti toglie di meno e non chi ti dà di più. La domanda di giustizia sociale può attendere


donaltrump

E’ presto. Mi bevo un caffè amaro, vedendo il contatore dei voti di Trump scavalcare quello della Clinton. L’uomo che non piaceva a nessuno, è stato votato da tutti. Penso che  molto dipenda dall’insicurezza globale dell’Occidente e in particolar modo degli Usa. Quando c’è paura, scegli chi ti toglie di meno e non chi ti dà di più. La domanda di giustizia sociale può attendere. Quando le vacche torneranno grasse e i confini sicuri. Ora sono tempi incerti, la massa vede la globalizzazione unicamente come invasione. Di prodotti e di persone.

I poveri fanno più paura dei ricchi. Allora si votano i miliardari per fermarli, per riportare l’ordine. L’antidoto che si cerca quando c’è l’epidemia della paura. Non è necessario che la società sia giusta, dicono gli spaventati, purché ci sia ordine. E i poveri tornino al loro posto, in fondo alla società, senza pretendere diritti; le donne tornino dietro agli uomini, senza disturbare con la loro domanda di uguaglianza e di avere finalmente una presidente donna; gli stranieri stiano fuori, senza portarci anche i loro problemi. La zattera è piccola. Dobbiamo prendere a remate in testa chi ci si attacca per salire, perché può farla rovesciare.
 
La Clinton non ha rassicurato chi soffre le disuguaglianze, per una distanza di status abissale tra sé e la classe media, per non parlare di afro-americani e latinos. Non solo. Poco credibile per la sua appartenenza a una dinastia, non ha raccolto i voti dei sostenitori Bernie Sanders, l’unico che poteva sfidare Trump mobilitando i defraudati in una lotta di classe. Hilary è una minestra riscaldata, non l’elemento di rottura che attendevano i tanti che hanno sempre meno, per contrastare i pochi che hanno sempre di più.
 
Non so come andrà a finire. Se Trump vincerà, inaugurerà l’inizio del declino americano.
Ma avrà almeno il vantaggio di mostrare il volto violento e ingiusto del capitalismo, troppo a lungo camuffato.
In America e in Europa.

Fonte: www.articolo21.org

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il discorso di p. E. Bianchi per il premio del suo ecumenismo

l’orizzonte della condivisione

di Enzo Bianchi

 
l’intervento del priore di Bose in occasione del conferimento del Premio intitolato a Emmanuel Heufelder (1898-1982) per l’impegno ecumenico

Icona dello Spirito Santo,

il monachesimo è una vivente epiclesi ecumenica.

(Paul Evdokimov)

 
Introduzione
 
Vorrei innanzitutto esprimere il ringraziamento più vivo per questo premio che viene oggi conferito a me e alla comunità monastica di Bose, di cui davvero non siamo degni, e la mia profonda gioia di essere qui in mezzo a voi!
 
Mi sono chiesto a lungo quale argomento trattare in questa felice occasione, mi sono consultato con alcuni di voi, amici da anni del Monastero di Bose, e penserei di proporvi, con umiltà, alcune riflessioni sul rapporto tra monachesimo e dialogo ecumenico.
 
Per analizzare il rapporto tra monachesimo e dialogo ecumenico, è necessario innanzitutto riconoscere che proprio il monachesimo – questa via radicale di sequela di Cristo per ducatum evangelii (Regula Benedicti Prologo 21), «sotto la guida del Vangelo», questa via che è stata definita «di perfetta carità» – in verità fino ai tempi recenti è stato spesso una contraddizione a ogni possibile rappacificazione tra cristiani e tra chiese.
Solo dalla fine del XIX e soprattutto dall’inizio del XX secolo, da quando cioè l’ecumenismo è apparso come una possibile via di comunicazione e riconciliazione tra le chiese, anche i monaci hanno iniziato ad assumerlo come un segno dei tempi, lasciando che la prospettiva ecumenica ispirasse la struttura, la preghiera e la vita spirituale delle loro comunità. Oggi, a distanza di oltre un secolo da questi inizi, c’è la chiara coscienza che monachesimo e dialogo ecumenico non possono essere letti e compresi l’uno senza l’altro: si fa dunque sempre più evidente che nel cammino di riconciliazione tra chiese proprio il monachesimo costituisce una via privilegiata, perché consente addirittura una vita comune in cui è possibile non solo la conoscenza ma il vivere insieme riconciliati, in attesa e nella ricerca paziente dell’unità piena in una chiesa plurale, una chiesa di chiese capaci di riconoscersi in un’unica confessione di fede.
 Bianchi
1. La vita monastica come luogo ecumenico
 
Una premessa si impone: il monachesimo costituisce un fenomeno umano prima ancora che cristiano. Presente in tutte le grandi religioni, anche in quelle come l’islam che hanno cercato di negarlo di fatto, si nutre di un’antropologia propria: il celibato, la vita interiore in comune o nella solitudine, la ricerca dell’assoluto, l’ascesi nelle differenti forme sono tutti elementi di una vita così segnata nella carne, nel corpo, in tutta la persona, che di fatto inducono alla consapevolezza di una somiglianza, di una «monotropia» (cf. Sal 67 [68],7 LXX) tra quelli che li vivono pur in contesti religiosi differenti.
 
Proprio per questo il dialogo interreligioso è praticato soprattutto nei monasteri, e a partire dalla seconda metà degli anni ’60 del secolo scorso cresce e si intensifica in modo poco appariscente ma intenso e profondo, soprattutto attraverso la pratica dell’accoglienza reciproca e delle soste nei monasteri, fino alla condivisione della vita quotidiana e di alcune pratiche ascetiche. Questa qualità di fenomeno antropologico non andrebbe dunque minimizzata o tralasciata, perché è anche grazie ad essa che il monachesimo appare un fenomeno pan-cristiano: essendo nuovamente presente in tutte le chiese, costituisce già di per sé una realtà condivisa, dotata di una vocazione a unire e non a dividere.
 
Ma ci sono anche altre ragioni che rendono il monachesimo un eminente luogo ecumenico.
 
a) Innanzitutto il monachesimo risale a monte delle divisioni della chiesa …
 Di conseguenza nel monachesimo restano come impressi indelebilmente i caratteri della chiesa indivisa, caratteri teologico-patristici, liturgici ed ecclesiologici. Come dimenticare che la testimonianza carismatica del monachesimo nei tempi della chiesa indivisa era inserita nella koinonía della chiesa locale, il cui cuore era l’eucaristia presieduta dal vescovo? E come dimenticare che la vita monastica era vita di semplici battezzati, vita laicale, nient’altro che una diaconia tra le numerose presenti in una determinata chiesa, una diaconia i cui membri si professavano impegnati semplicemente a vivere e sviluppare in modo «altro» la vocazione battesimale? Finché c’è stata unità delle chiese, uno è stato il monachesimo, e la sua espressione occidentale ha sempre riconosciuto la propria fonte nel monachesimo orientale dei padri del deserto, di Pacomio, di Basilio, percependolo come sua radice e come «orientale lumen» (cf. Guglielmo di Saint-Thierry, Lettera d’oro 1,1).
 
Esiste dunque questa prima ragione per fare del monachesimo un luogo ecumenico, ed è una ragione inscritta nella sua origine, una ragione che porta ogni comunità a dire alla chiesa unita: «In te le nostre fonti!» (Sal 87,7). …
b) In secondo luogo, il monachesimo è sorto in vista di una radicale sequela di Cristo, dunque come via di santità, ed è certo che la santità perseguita nella vita monastica, anche se in confessioni diverse, è azione di unità; anzi, usando l’espressione coniata da san Bonaventura nel suo Itinerarium mentis in Deum, è «sursum actio» (I,1,14), è l’azione per eccellenza, quella più efficace in vista dell’unità. …
La coscienza che la santità unisce al di là delle barriere confessionali è condivisa da tutte le chiese, e tutti sottoscriverebbero le parole del metropolita ortodosso Evloghij (Georgevskij, 1868-1946): «Uomini come san Francesco d’Assisi e san Serafim di Sarov nella loro vita hanno già realizzato l’unità della chiesa», o di p. Porfyrios di Kafsokalìvia: «Raggiungeremo certamente l’unità dei cristiani quando avremo vinto l’egoismo dentro di noi, per non amare altri che il Signore Gesù, e in lui i nostri fratelli». Di fronte alla santità ci si accorge che i muri confessionali non salgono fino al cielo e che la parádosis del carisma monastico, vera trasmissione dello Spirito santo, è passata nelle diverse chiese. Oggi poi, dopo l’esperienza del XX secolo, siamo consapevoli della santità manifestata dai martiri – non pochi dei quali erano monaci – che sotto i regimi totalitari hanno dato la vita per Cristo e per i fratelli perseverando nella fede. Sì, è stata vissuta nel martirio una comunione più profonda di quella visibile!
 Bianchi
L’“ecumenismo del sangue” (laddove sono oggetto di persecuzione, i cristiani lo sono insieme!) non è un ecumenismo minimalista (come alcuni suoi critici ritengono), poiché l’esperienza del martirio è l’esperienza suprema che esprime il cuore della fede cristiana, che impone ai cristiani di convertire il proprio modo di pensare l’ecumenismo e l’unità (all’ecumenismo del sangue, come ha ricordato il patriarca Yuhanna di Antiochia, deve essere associato un ecumenismo del pentimento e della conversione: conversione che significa orientamento della mente e del cuore a ciò che Dio fa e vuole fare). Nel martirio infatti vediamo come l’unità non sia qualcosa che costruiamo noi, con le nostre forze: è Dio che l’ha già realizzata nei martiri per mezzo del suo Spirito; riconoscere il martirio dell’altro (dell’altra chiesa) significa de facto riconoscere lo Spirito “che soffia dove vuole”, al di là dei confini visibili della propria chiesa. Di questo occorre essere maggiormente consapevoli e trarne le conseguenze per il cammino ecumenico. Si tratta di convertirsi da un ecumenismo che pretende di costruire l’unità a partire dalle divisioni, a un ecumenismo che accoglie l’unità dal futuro di Dio per superare le divisioni che noi uomini abbiamo realizzato nel passato!
 
Santità dunque come forza di convergenza, di comunione e testimonianza comune: chi può dimenticare, per es., ciò che rappresenta oggi in occidente – nell’occidente cattolico e riformato – un santo come il monaco ortodosso Silvano dell’Athos? E come dimenticare che nella chiesa ortodossa della Panaghìa di Kritsa a Creta si può ammirare un antico affresco raffigurante Francesco d’Assisi con la scritta Ho Haghios Frankìskos? Se i monaci e le monache rispondono davvero alla loro vocazione di unificazione interiore, di comunione vissuta, di riconciliazione sempre rinnovata, di misericordia continua – solo di questo infatti si dovrebbe nutrire la loro vita quotidiana! –, allora saranno servitori di unità, ministri e servi della comunione anche ecclesiale. «I santi – diceva ancora il metropolita Evloghij – sono cittadini della chiesa una e universale e abbattono i muri di separazione eretti da cristiani non fedeli al comandamento nuovo»…
 
c) Un’altra ragione che fa del monachesimo un luogo ecumenico, è il dato che la vita monastica si vuole in ogni tempo vita di conversione, di ritorno alle fonti, al Vangelo. Non è un caso che si attribuisca al padre dei monaci, Antonio, ormai anziano di anni e di vita monastica, un apoftegma in cui egli afferma: «Oggi stesso io ricomincio!», cioè: «Anche oggi provo nuovamente a convertirmi, a ritornare al Signore!». Proprio per questa dinamica la vita monastica, in oriente come in occidente, è caratterizzata dal sopraggiungere di «riforme», come se la sua profonda dinamica consistesse in una successione di riforme senza fine. Conversione e riforma fanno parte del cammino personale e comunitario del monachesimo, sicché questo deve essere costantemente rinnovato. È vero che l’adagio suona «ecclesia semper reformanda», ma questo si è concretizzato poche volte nella storia della chiesa, e talora con una lentezza tale da vanificare gli sforzi. Nella vita monastica invece si può dire che ogni secolo – e a volte addirittura ogni generazione – ha conosciuto una riforma in cui si è cercato di ripartire da capo, di ricominciare in un’obbedienza e in una fedeltà al Vangelo più profonde.
 
Davvero nel monachesimo, nonostante le contraddizioni dei suoi membri, lavora il fermento della parola di Dio, e così, di riforma in riforma, la diaconia della vita monastica accompagna la chiesa. …
 
d) Infine, scorgo un’altra ragione che fa del monachesimo un luogo ecumenico, ed è quella dell’essere un’epiclesi, un’invocazione continua dello Spirito, vissuta nelle chiese. Questa definizione di monachesimo come «epiclesi» è propria di Paul Evdokimov, ma sovente la si ritrova sotto la penna di Olivier Clément: vita assunta per ispirazione dello Spirito santo, è vita che può essere vissuta solo con il suo continuo aiuto e nel suo incessante dinamismo. Per questo la vita del monaco è ritmata dal ruminare la parola di Dio durante il giorno e la notte, e la comunità monastica appare innanzitutto come un luogo di ascolto: la stessa Regula Benedicti non si apre forse con «Obsculta, o fili…» e con l’invito all’ascolto della voce di Dio e di ciò che lo Spirito dice alle chiese (Prol. 1-13; cf. Sal 95,8; Ap 2,7.11.17.29; 3,6.13.22)? La vita monastica è veramente epiclesi in atto, invocazione della discesa dello Spirito santo che nella Pentecoste è stato forza di unità plurale, comunione nella distinzione dei doni e nella differenza delle energie (cf. At 2,1-13).
 
In questa epiclesi – che è anche invocazione perché tutti i fratelli e le sorelle ricevano lo Spirito per essere più fedeli a Cristo e raggiungere la statura del cristiano maturo (cf. Ef 4,13) – l’anelito, il desiderio di comunione non può essere assente. E se il monachesimo è «accoglienza di Cristo che viene» (Olivier Clément), questa non si esaurisce in una dimensione soltanto escatologica, ma si invera nell’accoglienza di colui che viene: «ero forestiero e mi avete ospitato» (Mt 25,35). Accoglienza di chi giunge anche inaspettato, non annunciato, accoglienza di chi diventa fratello anche se per la sua provenienza fosse ostile, accoglienza che non chiede la confessione di appartenenza… I monasteri dovrebbero avere impresse sulle loro porte e nei cuori dei loro membri le parole scritte da Angelo Roncalli nel 1934, quando era nunzio in Bulgaria: «Se qualcuno passa dinanzi alla mia casa di notte, costui troverà alla mia finestra un lume acceso: bussa, bussa! Non ti domanderò se sei cattolico o ortodosso, fratello: entra! Due braccia fraterne ti accoglieranno, un cuore caldo di amico ti farà festa». In quegli anni di inizio secolo pochissimi erano sentinelle vigilanti, ma Dio preparava un’ora, quella del Concilio, in cui li avrebbe svegliati e invitati a scorgere i nuovi segni dei tempi attraverso papa Giovanni!
 
Accoglienza dell’altro, del diverso, dello sconosciuto, e riconoscimento della sua qualità di fratello nella fede quando è cristiano sono attestati ovunque oggi nella vita monastica. …
 
Davvero quando dei monaci di diverse confessioni si incontrano in fraternità, sovente accade l’evento della comunione, anzi dell’intercomunione vera, profonda, non sacramentale ma nello Spirito santo: ci si sente uno, non esistono più barriere confessionali, ci si sente monaci fratelli che condividono la stessa esperienza e si riconoscono, nel senso forte del termine, in una stessa grazia, in uno stesso spirito, in una stessa ricerca con un unico fine: l’acquisizione dello Spirito santo per essere trasfigurati in Cristo e prendere parte al Regno di Dio.
 
2. La profezia dell’ecumenismo nel monachesimo
 
Sovente oggi si parla con estrema facilità di ecumenismo come profezia della vita monastica. Su questo tema voglio restare discreto e usare poche parole, perché con troppa enfasi in questi ultimi decenni si invoca tale qualità profetica per ritrovare un’identità in molti casi smarrita. I monaci non hanno qualità profetica ex officio, ma la loro testimonianza può diventare profetica se è radicale obbedienza al Vangelo e ai segni dei tempi. Quando i monaci non pretendono di camminare alla luce della visione ma sanno vivere nella fede (cf. 2Cor 5,7); quando riguadagnano la consapevolezza della provvisorietà e dell’incompletezza di ogni forma vitae; quando hanno l’audacia di far prevalere sempre l’agape e la riconciliazione nei conflitti in cui sono coinvolti; quando accettano la loro marginalità e la loro debolezza come un dono e non come una perdita da colmare al più presto, allora appare anche in loro la profezia.
 
Paolo VI nella Evangelii nuntiandi (nr. 69) indicava nell’incarnazione radicale delle beatitudini il carattere profetico della vita monastica e religiosa, ma questo significa vita povera, umile, mite, affamata di giustizia, operatrice di pace, financo perseguitata e osteggiata a causa di Cristo (cf. Mt 5,3-12)… E Giovanni Paolo II ha chiesto come profezia ai religiosi «l’esplorazione di vie nuove per mettere in pratica il Vangelo nella storia in vista del regno di Dio» (Vita consecrata 84), arrivando ad affermare che la stessa vita fraterna, la vita comune vissuta in un unico intento «è profezia in atto» (ibid. 85). Occorre essere chiari: la vita monastica può ricevere e vivere il dono della profezia come tutte le altre vocazioni ecclesiali: sta a ciascuno dei suoi membri accoglierlo e viverlo attraverso la conversione quotidiana. Certo, una vita contrassegnata dal radicalismo evangelico, dal celibato che annuncia che questo mondo passa e dalla vita comune che dà un segno della comunione del Regno può avere qualità escatologica e dunque profetica: ma il dono della profezia è grande e fragile!
 
Anziché vantare una qualità della vita monastica, preferisco mettere in evidenza un dato di fatto: nel XX secolo l’ecumenismo è certamente stato profezia in alcune forme di vita monastica nate per la risposta obbediente a Dio e ai segni dei tempi da parte di alcuni uomini e donne che, da vere sentinelle, hanno atteso, spiato, destato l’aurora. Non posso far altro che pronunciare nomi e nulla più, ma il semplice nominare questi testimoni significa renderli presenti in mezzo a noi: essi sono nella comunione dei santi e con essi noi viviamo l’ecumenismo. Senza di loro il dialogo ecumenico praticato oggi tra le chiese sarebbe certamente meno audace e più povero. Ascoltiamo pertanto i loro nomi … sì, noi siamo «avvolti da una grande nube di testimoni» (Eb 12,1) ecumenici che hanno rinnovato la vita monastica, semper reformanda, ascoltando i segni dei tempi che chiedevano riconciliazione.
 
Conclusione
 
A conclusione di questo breve intervento, non posso non indicare un orizzonte profetico per la vita monastica, un orizzonte tanto più urgente quanto più «invernale» si è fatta la situazione ecumenica: è l’orizzonte della condivisione di vita da parte di appartenenti a confessioni cristiane diverse non ancora riconciliate. Per questo sono necessari sì tanto coraggio, audacia evangelica, parrhesia, ma anche tanta capacità di spogliarsi delle ricchezze confessionali non essenziali alla sequela Christi, molta sottomissione reciproca, capacità di fare due miglia con chi ci chiede di farne uno (cf. Mt 5,41); ci vuole il fuoco interiore, la passione della comunione che cerca l’unità plurale, indicando in avanti un’unità che va raggiunta insieme.
 
In ambito cattolico, qua e là questa vita monastica interconfessionale inizia a mostrare un volto in cui l’ecumenismo ridiventa profezia del monachesimo in una nuova forma: vivere insieme la stessa vocazione, lo stesso ministero, anche se le chiese cui si appartiene non vivono ancora la comunione visibile… Per lo Pseudo-Dionigi, il monaco «è colui che è unificato o in via di unificazione». Cercando di ritrovare in sé l’unità perduta a causa del peccato, il monaco è predisposto a cercare l’unità con gli altri. Non c’è infatti possibilità di unità tra fratelli e tra chiese se non c’è unità interiore.
 
Che lo Spirito santo, lui che è la comunione (cf. 2Cor 13,13), susciti questa nuova Pentecoste per il monachesimo: allora ci sarà realmente profezia per la chiesa e per il mondo!
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la religiosità integrista e crudele presente anche tra i cattolici reazionari

quel Dio crudele dei cattolici reazionari

di Alberto Mellonimelloni

La volgarità di un frate domenicano — che dai microfoni di Radio Maria ha letto il terremoto come una punizione ed è stato licenziato dopo una presa di posizione vaticana — ha aperto un piccolo squarcio su una religiosità integrista, solitamente invisibile. È un sottosuolo cattolico opaco e apprensivo, fatto di sentimenti reazionari: nell’era-Francesco è spesso antipapale, da sempre è teologicamente approssimativo.

cavalcoli

Riprende il ritornello dell’intransigentismo dell’Otto-Novecento: per cui la modernità produce ribellioni contro le quali un Dio crudele, irriconoscibile alla fede biblica, reagisce mandando flagelli pedagogici. Quel pensiero antimoderno s’è sempre dotato di media “moderni” come i giornali, i movimenti, la radio, la tv. Nel mondo dell’iper-comunicazione questo pulviscolo integrista è diventato più invisibile. Siti e antenne, blog e social, somministrano paure su misura: le paure su quel che si insegna a scuola per i movimenti pro-vita, quelle dei preti tradizionalisti che danno alla xenofobia leghista profumo d’incenso, quelle del radicalismo familista che manifestano verso l’amore omosessuale il risentimento degli irrisolti. Basta ascoltare Radio Maria: che inculca in dosi quotidiane sospetti e inimicizie, con il suo leader, padre Livio Fanzaga che ogni giorno spiega leggendo i giornali dove sono i pericoli, chi sono gli avversari e soprattutto “smaschera” i traditori. Il tutto inframmezzato da momenti spirituali — per chi guida la notte o aspetta l’alba in ospedale, il rosario o l’ufficio divino sono meglio di Isoradio — dietro ai quali traluce la pretesa di essere gli unici battaglieri in una chiesa molle, gli unici fedeli in una chiesa di codardi, gli unici cattolici in una chiesa di apostati. Livio FanzagaLe fantasticherie antibergogliane di Antonio Socci lì non suscitano compassione, ma ammirazione: la tesi del giornalista, nelle ore del terremoto, era che un vero pontefice avrebbe consacrato l’Italia alla Vergine Maria; e che Francesco non l’aveva fatto perché era un gesto “troppo cattolico” per un papa che egli ritiene grosso modo un usurpatore. È un mondo agli antipodi della autentica pietà popolare: essa è il modo in cui una comunità espropriata della liturgia dal protagonismo clericale trova spazi e linguaggi che nascono da quell’intuito credente che la dottrina cristiana chiama “sensus fidei”. In questo mondo di mezzo, invece, la partita è molto politica. Anche se non sono ancora diventati la variante cattolica delle chiese televisive americane — il cui peso elettorale sul voto americano di oggi è stato ben stimato dal Pew Center — i fans dei blog e delle radio integriste esprimono, sono una potenzialità politica perché nel mondo delle disaffezioni politiche rappresentano una fidelizzazione. La minaccia contro Renzi del raduno familista di Adinolfi — che giurava la vendetta della legge sulle unioni nelle urne del referendum — era solo una di queste possibili declinazioni. Che però potrebbero domani trovare inattese convergenze nel grillismo, la cui cultura, tutta e solo di destra, non ignora che c’è sempre un cattolicesimo opportunista, pronto a “dialogare” con ogni potere disposto a farsene patrono. SocciChe ad una voce onestamente minore come quella del padre Cavalcoli abbia reagito la Santa Sede in persona (non è usuale che il regista della politica italiana, il Sostituto, prenda la parola in modo così netto e categorico) dice che la chiesa di Bergoglio non sottovaluta quel che c’era di “politico” in quelle parole. Che il disastro naturale possa dar adito a questioni filosofiche l’Europa lo sa dal 1755, quando il terremoto di Lisbona permise a Voltaire di polemizzare con i virtuosismi della “teodicea”, che giustificava Dio davanti alle catastrofi del mondo: ma onestamente padre Cavalcoli non è in quell’alveo… Appartiene piuttosto alla deriva che agitando temi reazionari ha fatto scivolare le chiese verso posizioni pericolose: come quelle della omonima Radio Maria polacca, che allarmò
perfino Benedetto XVI nel 2006, quando i deliri antisemiti di quella emittente furono sanzionati, anche se senza grande successo. Oggi con la casa natale di san Benedetto patrono d’Europa che si sbriciola mentre si sbriciola l’Europa, la Santa Sede ha dato un segnale molto cristiano e molto politico. Là dove viene meno il buonsenso umano e il buoncuore cattolico, si annida un bisogno di odio: che è l’aria che si respira in questo paese lacerato e vulnerabile. Che ha pensato per molto tempo di potersi scegliere i suoi grandi problemi — la disoccupazione, la denatalità, le migrazioni, il terrorismo, la crisi economica — e l’ordine in cui affrontarli. Anziché chiedersi quanta umiltà e quanta coesione servono per essere pronti quando ciò che incombeva accade, presentando al domani il conto di molti ieri.

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botte al marito perché ha la moglie zingara e per di più va in televisione – intervista ai due coniugi

“tua moglie è la zingara che va in televisione”

e scatta l’aggressione

timpano lesionato per Paolo Cagna Ninchi, marito di Dijana Pavlovic, nota attivista rom. Violenza venerdì sera nella zona di viale Ungheria a Milano

di Marianna Vazzana

Dijana Pavlovic ospite a una trasmissione televisiva
Dijana Pavlovic ospite a una trasmissione televisiva

 Aggredito sotto casa da uno sconosciuto che l’ha insultato perché “tua moglie è la zingara che va in televisione”. Lo rende noto l’associazione Upre Roma (impegnata in progetti contro la discriminazione e per l’inclusione della comunità rom). Vittima del pestaggio, il suo presidente Paolo Cagna Ninchi, marito di Dijana Pavlovic, rappresentante della Consulta rom e sinti milanese “da tempo minacciata sia sui social network che nel quartiere in cui abita”, si precisa nella nota. L’episodio violento sarebbe avvenuto venerdì sera nella zona di viale Ungheria.

Il presidente Upre – si legge nella nota – ha riportato una lesione al timpano dell’orecchio sinistro che ha reso necessario un intervento chirurgico. “Si tratta di un crimine d’odio come tanti altri, che i rom e i non rom che “li difendono” (che nella classifica della mentalità razzista sono peggio dei rom stessi) subiscono. Una famiglia normale con un bimbo di 7 anni che abita in una periferia di Milano è costretta  da tempo a vivere nella paura di scendere sotto casa per portare fuori il cane o fare la spesa al supermercato per il solo fatto che è classificata come famiglia zingara”. L’associazione denuncia “questo crimine a palese sfondo razziale attuato in un clima d’odio e insofferenza che sfoga il proprio malessere sulla fragilità altrui”. Chiede a Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazione razziale) di intervenire con decisione nel condannare i crimini d’odio e all’amministrazione di Milano, “a passare ai fatti. La zona di viale Ungheria è abbandonata a se stessa. C’è bisogno non di costosi progetti di riqualificazione urbana, intesi come interventi immobiliari, ma di meno costosi, più rapidi ed efficaci interventi sulla vivibilità”.
Solidarietà da Milano in Comune, che “condanna con fermezza questa aggressione, ritenendola frutto anche del clima di incitamento all’odio razziale a cui abbiamo assistito nelle scorse settimane”, e da Sinistra X Milano, la quale “richiama i valori di accoglienza, solidarietà e inclusione di tantissimi cittadini e cittadine milanesi riconfermati anche dalla grande festa di popolo che l’1 novembre ha accolto l’arrivo dei primi profughi alla Montello”.

 

Intervista a Dijana Pavlovic e Paolo Cagna Ninchi

a cura di Antonio Chiocchi

(dal Rapporto sui Diritti Globali 2014)

La persecuzione dei rom ha una storia antica: nasce con la loro venuta in Europa nel Quattrocento. Con Dijana Pavlovic e Paolo Cagna Ninchi, fondatori dell’associazione UPRE ROMA, seguiamo questa storia dagli inizi fino agli approdi della contemporaneità. Viaggiamo con loro tra le costanti e le varianti di questa persecuzione: mai smentita, sempre confermata e sempre modificatasi. Volendo usare una espressione sintetica, ma efficace, possiamo dire che i rom e i sinti sono i condannati dal potere, per il loro essere ed esistere. L’inaccettabilità dei rom e dei sinti da parte dei sistemi di potere che hanno governato il mondo corrisponde all’accettazione incondizionata da parte dei rom e dei sinti dei linguaggi della libertà del mondo e della libertà come mondo. Come ci ricordano Dijana e Paolo, la patria dei rom e dei sinti è più grande di tutte le piccole patrie: è la terra di cui non si può essere nemici e che tutti ci riconosce.

Agli occhi del potere, il problema di fondo sollevato dai rom e dai sinti nasce da qui. Costituiscono l’inaccettabile e l’intollerabile, perché non si appropriano della terra, ma la solcano; non la usano, ma la attraversano; non la occupano, ma la abitano. Più i rom e i sinti ci ricordano queste verità primordiali, più le società oppressive che li perseguitano devono toglier loro la parola. Contro di loro la voce dell’oppressione risuona proprio per renderli muti e invisibili. Il loro abitare il mondo non solo è deriso e offeso, ma è soprattutto interdetto. Anche per questo l’architettura e l’estetica dei campi in cui sono segregati sono così misere, estraneanti e vuote di senso dell’umanità.

Il razzismo sotto traccia, di cui parlano Dijana Pavlovic e Paolo Cagna Ninchi, dà impulso, vita e sostanze alle pratiche di esclusione contro cui da sempre i rom e i sinti hanno dovuto combattere. Ed è vero: proprio questa secolare oppressione che non è stata capace di distruggerli dimostra tutto il loro coraggio e la loro determinazione. Da condannati dal potere, si trasformano in indomabile resistenza all’odio, alla violenza e alla discriminazione.

 

Redazione Diritti Globali:

Contro i rom e i sinti si è sedimentato e diffuso nel tempo un’inestinguibile avversione che, non di rado, è sfociata nell’odio, nella persecuzione e nella violazione di tutti i più elementari diritti umani. V’è in ciò qualcosa di antico e continuamente risorgente? Cosa, invece, di specifico è stato partorito nella contemporaneità delle società neoliberali e, più ancora, nella crisi globale che sta impoverendo il mondo?

Dijana Pavlovich e Paolo Cagna Ninchi:

Nelle prime cronache del 1400 giunte sino a noi si parla di questi gruppi stravaganti per abbigliamento e usi che si fermavano ai bordi delle città e che, ben presto, divennero oggetto di attenzione delle autorità per la loro estraneità. Quindi il pregiudizio è antico e di conseguenza la discriminazione e poi la persecuzione sono antichi e hanno conservato intatti i loro segni che si sono impressi in modo indelebile su questo popolo, fino alle estreme conseguenze dello sterminio su base razziale del nazifascismo. Gli effetti della crisi globale che sta impoverendo il mondo, più che sul piano delle condizioni materiali di un popolo che ha fatto della capacità di sopravvivere in qualunque condizione un proprio modo di essere, agiscono sul rapporto con la popolazione maggioritaria che, anche senza l’aiuto degli imprenditori della paura e dello sfruttamento politico, ne fa il capro espiatorio preferito, insieme con gli immigrati, del proprio malessere non solo economico, ma diremmo anche di perdita di senso nella società neoliberale.

 

RDG:

Volendo fare il punto, secondo quanto suggeritovi dalla vostra esperienza, quali sono le problematiche più preoccupanti della situazione dei rom e dei sinti in Italia e in Europa? L’Unione Europea, con i suoi continui appelli al rispetto dei loro diritti, quanto è conseguente nella salvaguardia dell’integrità culturale dei rom e dei sinti? I suoi programmi di integrazione e inclusione accolgono e rispettano effettivamente la loro diversità costitutiva?

DP e PCN:

Osservando la situazione dal punto di vista di quello che fanno le istituzioni nazionali ed europee si possono cogliere segnali di consapevolezza che le politiche sinora attuate per rom e sinti non hanno prodotto i risultati sperati, nonostante i rilevanti investimenti disponibili. Sono importanti le direttive anche recenti per favorire processi di inclusione sociale e di contrasto alla discriminazione, ma vale la pena di sottolineare un punto di criticità che pare finalmente affrontato anche se non risolto. Per dirla con uno slogan: passare dall’assistenza all’autonomia. Da questo punto di vista anche i recenti programmi del Consiglio d’Europa e della Commissione Europea partono dall’investire sulle comunità e sulla loro capacità di organizzare progetti per sé. La possibilità che questo si realizzi, poi, è tutta legata alle condizioni dei singoli Paesi e rimanda quindi al rapporto tra istituzioni le comunità locali.

 

RDG:

Passiamo a un esempio concreto. In attuazione della Comunicazione della Commissione Europea n. 173/2011, in Italia, la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha elaborato la strategia nazionale 2012-2020 di inclusione dei rom, dei sinti e dei camminanti. Che giudizio date di quella strategia in sé? Qual è il suo stato attuale di realizzazione? Quali i suoi nodi irrisolti?

DP e PCN:

La strategia nazionale coglie questo mutamento di prospettiva: la sua stessa elaborazione è stata frutto di confronto con le comunità rom e sinte, sino al punto che nodi cruciali come l’abitare sono stati declinati non più in base ai paradigmi della società maggioritaria, ma in base alle diverse culture ed esigenze delle comunità. Ma il punto fondamentale della strategia è l’impegno per le amministrazioni a far partecipare rom e sinti alle decisioni che li riguardano. E questo ovviamente è il punto critico di una strategia che deve essere realizzata a livello locale e quindi si scontra con la “politica”, tant’è che i tavoli regionali di applicazione previsti sono stati a oggi realizzati solo in quattro regioni e questo definisce la difficoltà della sua applicazione.

 

RDG:

Esiste un localismo anti-rom che è una coerente filiazione del globalismo anti-rom. Ma tra localismo e globalismo vi sono pure delle contraddizioni, a volte positive. Come agevolare una trasformazione delle politiche locali a favore dei rom? Come fare in modo che le politiche globali sostengano attivamente la libertà e i diritti dei i rom?

DP e PCN:

La dimensione locale è molto importante, basti vedere la diversa condizione di rom e sinti in Sud Italia rispetto al Nord Italia. Su queste differenze non agiscono solo la politica e il generale atteggiamento discriminatorio, ma anche tradizioni e culture che, per esempio nel caso del nostro Meridione, hanno punti di contatto che rendono più facile l’incontro e la tolleranza. Viceversa, per generalizzare, l’egoismo leghista coglie un’evoluzione culturale di una società malata che ha trovato la sua espressione più drammatica nella tragedia familiare di Pietro Maso che uccide i genitori per soldi. Per questo è decisiva la capacità anche da parte delle comunità rom e sinte di trovare punti di relazione a livello locale, sia usando gli strumenti istituzionali disponibili, sia sviluppando una propria capacità di relazione.

 

RDG:

Sicuramente, contro i rom si è scatenato da sempre un atteggiamento di razzismo puro. Ma la loro marginalità sociale e la loro povertà, in questi anni di crisi globale, si sono molto accentuate. Prendiamo due dimensioni geopolitiche dello stesso problema: l’Ungheria neoliberale del dopo-URSS e tre importanti metropoli italiane come Roma, Milano e Napoli. Ci sembra che, dal pregiudizio razziale e culturale, si sia passati a pratiche di espulsione e confinamento a raggio sempre più ampio. Il vocabolario dei diritti è stato definitivamente espulso dal vissuto dei rom e dei sinti? Le istituzioni democratiche si sono trasformate in istituzioni attivamente segregative?

DP e PCN:

Come sempre, anche per rom e sinti non si può generalizzare ed è giusto osservare la situazione da più punti di vista. La crescita a livello globale delle diseguaglianze, del distacco tra ricchi e poveri, dello sfruttamento politico della crisi con la crescita dei movimenti ultranazionalisti e fascisti in Paesi come l’Ungheria, ha portato a veri e propri pogrom in molti villaggi rom. Eppure, in Ungheria le comunità sono numericamente forti, organizzate e persino riconosciute dalla Stato. Nelle grandi città italiane rimane la concezione dell’emarginazione anche fisica delle comunità rom e sinte e la cosa da segnalare è che tutte e tre le città, Roma, Napoli e Milano, sono governate da giunte di centro sinistra, segno che al di là della convenienza politica – a sinistra meno si parla di rom meglio è – esiste un razzismo sotto traccia che è parte di una cultura che pervade tutta la società. Le scelte, comunque presentate, sono sempre scelte culturalmente segregative sia quelle istituzionali, sia quelle dell’assistenza caritatevole. Questo ha portato le comunità rom e sinte a introiettare il senso di un’ineluttabile esclusione e a una profonda sfiducia nei confronti delle une e delle altre.

 

RDG:

Sovente, rom e sinti sono stati definiti “cittadini senza patria”. Non ritenete che questa definizione sia una negazione politica, culturale e sociale della loro esistenza? Un’espressione di etnocentrismo differenziale e razzista? E ancora: avere la lingua per patria non significa, forse, avere il mondo come patria? Nasce da qui il pacifismo assoluto dei rom, unico popolo a non aver mai condotto una guerra?

DP e PCN:

«Nostra patria è il mondo intero, nostra legge la libertà», questo verso di una canzone anarchica è da sempre l’essenza del popolo rom e insieme la sua condanna all’emarginazione nel mondo delle troppe patrie e delle troppe bandiere, ma è, nello stesso tempo, l’affermazione della sua esistenza politica, culturale, sociale. Il popolo delle cento tribù e dei cento dialetti e delle cento religioni è unito da questa profonda, istintiva certezza di essere ovunque a casa sua e questo gli impedisce di riconoscere i confini, di avere pretese territoriali e di fare la guerra per una patria perché la sua patria è più grande di tutte le patrie.

RDG:

I diritti dei rom e dei sinti all’abitazione, al lavoro, all’istruzione e alla salute sono quelli più violati, in Europa come in Italia. Non credete che queste violazioni siano forme avanzate e radicali di negazione del diritto all’esistenza? La crisi globale nega questi diritti perfino a fasce crescenti di cittadini autoctoni. Ai rom e ai sinti è applicata una strategia ancora più dura: l’elusione completa del riconoscimento giuridico. Sta nascendo contro i rom e i sinti un diritto-contro, esteso a livello globale e capillarizzato nei territori locali? Un diritto-contro che trasforma le cittadinanze imperfette in cittadinanze da cancellare?

DP e PCN:

È difficile rispondere a questa domanda con un sì o con un no. Si potrebbe dire che per rom e sinti non c’è niente di nuovo sotto il sole, a differenza delle altre minoranze che pur vittime di emarginazione sociale e culturale non subiscono le stesse forme di esclusione. Basti pensare che i rom italiani, che risiedono in Italia dal 1400, nelle statistiche scolastiche si trovano assimilati agli stranieri e che per loro solo in questi ultimi anni si pensa che possano abitare in case e non unicamente nei cosiddetti “campi nomadi”. Come sempre, la situazione è articolata e vista dall’Europa la contraddizione di fondo è tra le politiche generali proposte per l’inclusione e la realtà locale in peggioramento, di fronte all’asprezza della crisi che induce anche culture politiche come quella francese a espellere i rom dal Paese. L’unica cosa positiva è la capacità del popolo rom di sopravvivere, una capacità costruita nei secoli. Il problema da affrontare oggi è invece quello di vivere, di essere cioè una cittadinanza da riconoscere.

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il terrorismo del denaro che governa il mondo secondo papa Francesco – il discorso ai ‘movimenti popolari’

papa Francesco

‘uno scandalo salvare le banche e non la gente’

‘su migranti situazione obbrobriosa, una vergogna’

c’è “una bancarotta” dell’umanità al quale non si vuole porre riparo. Lo ha detto il Papa nell’udienza ai movimenti popolari. “Cosa succede al mondo di oggi che, quando avviene la bancarotta di una banca, immediatamente appaiono somme scandalose per salvarla, ma quando avviene questa bancarotta dell’umanità non c’è quasi una millesima parte per salvare quei fratelli che soffrono tanto? E così il Mediterraneo è diventato un cimitero, e non solo il Mediterraneo… molti cimiteri vicino ai muri, muri macchiati di sangue innocente”
la situazione dei migranti e dei rifugiati è “obbrobriosa, che posso solo descrivere con una parola che mi venne fuori spontaneamente a Lampedusa: vergogna”. Per il Papa il terrorismo è legato al denaro che governa il mondo con “la frusta della paura”movimiento-indigena-en-al1

 

DISCORSO DI PAPA FRANCESCO
AI PARTECIPANTI AL 3° INCONTRO MONDIALE DEI MOVIMENTI POPOLARI

Aula Paolo VI
Sabato, 5 novembre 2016

 

Fratelli e sorelle buon pomeriggio!

In questo nostro terzo incontro esprimiamo la stessa sete, la sete di giustizia, lo stesso grido: terra, casa e lavoro per tutti.

Ringrazio i delegati che sono venuti dalle periferie urbane, rurali e industriali dei cinque continenti, più di 60 Paesi, che sono venuti per discutere ancora una volta su come difendere questi diritti che radunano. Grazie ai Vescovi che sono venuti ad accompagnarvi. Grazie alle migliaia di italiani ed europei che si sono uniti oggi al termine di questo incontro. Grazie agli osservatori e ai giovani impegnati nella vita pubblica che sono venuti con umiltà ad ascoltare ed imparare. Quanta speranza ho nei giovani! Ringrazio anche Lei, Cardinale Turkson, per il lavoro che avete fatto nel Dicastero; e vorrei anche ricordare il contributo dell’ex Presidente uruguaiano José Mujica che è presente.

Nel nostro ultimo incontro, in Bolivia, con maggioranza di latinoamericani, abbiamo parlato della necessità di un cambiamento perché la vita sia degna, un cambiamento di strutture; inoltre di come voi, i movimenti popolari, siete seminatori di cambiamento, promotori di un processo in cui convergono milioni di piccole e grandi azioni concatenate in modo creativo, come in una poesia; per questo ho voluto chiamarvi “poeti sociali”; e abbiamo anche elencato alcuni compiti imprescindibili per camminare verso un’alternativa umana di fronte alla globalizzazione dell’indifferenza: 1. mettere l’economia al servizio dei popoli; 2. costruire la pace e la giustizia; 3. difendere la Madre Terra.movimenti-popolari

Quel giorno, con la voce di una “cartonera” e di un contadino, vennero letti, alla conclusione, i dieci punti di Santa Cruz de la Sierra, dove la parola cambiamento era carica di gran contenuto, era legata alle cose fondamentali che voi rivendicate: lavoro dignitoso per quanti sono esclusi dal mercato del lavoro; terra per i contadini e le popolazioni indigene; abitazioni per le famiglie senza tetto; integrazione urbana per i quartieri popolari; eliminazione della discriminazione, della violenza contro le donne e delle nuove forme di schiavitù; la fine di tutte le guerre, del crimine organizzato e della repressione; libertà di espressione e di comunicazione democratica; scienza e tecnologia al servizio dei popoli. Abbiamo ascoltato anche come vi siete impegnati ad abbracciare un progetto di vita che respinga il consumismo e recuperi la solidarietà, l’amore tra di noi e il rispetto per la natura come valori essenziali. È la felicità di “vivere bene” ciò che voi reclamate, la “vita buona”, e non quell’ideale egoista che ingannevolmente inverte le parole e propone la “bella vita”.

Noi che oggi siamo qui, di origini, credenze e idee diverse, potremmo non essere d’accordo su tutto, sicuramente la pensiamo diversamente su molte cose, ma certamente siamo d’accordo su questi punti.

Ho saputo anche di incontri e laboratori tenuti in diversi Paesi, dove si sono moltiplicati i dibattiti alla luce della realtà di ogni comunità. Questo è molto importante perché le soluzioni reali alle problematiche attuali non verranno fuori da una, tre o mille conferenze: devono essere frutto di un discernimento collettivo che maturi nei territori insieme con i fratelli, un discernimento che diventa azione trasformatrice “secondo i luoghi, i tempi e le persone”, come diceva sant’Ignazio. Altrimenti, corriamo il rischio delle astrazioni, di «certi nominalismi dichiarazionisti (slogans) che sono belle frasi ma che non riescono a sostenere la vita delle nostre comunità» (Lettera al Presidente della Pontificia Commissione per l’America Latina, 19 marzo 2016). Sono slogan! Il colonialismo ideologico globalizzante cerca di imporre ricette sovraculturali che non rispettano l’identità dei popoli. Voi andate su un’altra strada che è, allo stesso tempo, locale e universale. Una strada che mi ricorda come Gesù chiese di organizzare la folla in gruppi di cinquanta per distribuire il pane (cfr Omelia nella Solennità del Corpus Domini, Buenos Aires, 12 giugno 2004).movimenti-popolari1

Poco fa abbiamo potuto vedere il video che avete presentato come conclusione di questo terzo incontro. Abbiamo visto i vostri volti nelle discussioni su come affrontare “la disuguaglianza che genera violenza”. Tante proposte, tanta creatività, tanta speranza nella vostra voce che forse avrebbe più motivi per lamentarsi, rimanere bloccata nei conflitti, cadere nella tentazione del negativo. Eppure guardate avanti, pensate, discutete, proponete e agite. Mi congratulo con voi, vi accompagno e vi chiedo di continuare ad aprire strade e a lottare. Questo mi dà forza, questo ci dà forza. Credo che questo nostro dialogo, che si aggiunge agli sforzi di tanti milioni di persone che lavorano quotidianamente per la giustizia in tutto il mondo, sta mettendo radici.

Vorrei toccare alcuni temi più specifici, che sono quelli che ho ricevuto da voi e che mi hanno fatto riflettere e che ora vi riporto, in questo momento.

1. Il terrore e i muri

Tuttavia, questa germinazione, che è lenta – quella alla quale mi riferivo -, che ha i suoi tempi come tutte le gestazioni, è minacciata dalla velocità di un meccanismo distruttivo che opera in senso contrario. Ci sono forze potenti che possono neutralizzare questo processo di maturazione di un cambiamento che sia in grado di spostare il primato del denaro e mettere nuovamente al centro l’essere umano, l’uomo e la donna. Quel “filo invisibile” di cui abbiamo parlato in Bolivia, quella struttura ingiusta che collega tutte le esclusioni che voi soffrite, può consolidarsi e trasformarsi in una frusta, una frusta esistenziale che, come nell’Egitto dell’Antico Testamento, rende schiavi, ruba la libertà, colpisce senza misericordia alcuni e minaccia costantemente altri, per abbattere tutti come bestiame fin dove vuole il denaro divinizzato.

Chi governa allora? Il denaro. Come governa? Con la frusta della paura, della disuguaglianza, della violenza economica, sociale, culturale e militare che genera sempre più violenza in una spirale discendente che sembra non finire mai. Quanto dolore e quanta paura! C’è – l’ho detto di recente – c’è un terrorismo di base che deriva dal controllo globale del denaro sulla terra e minaccia l’intera umanità. Di questo terrorismo di base si alimentano i terrorismi derivati come il narco-terrorismo, il terrorismo di stato e quello che alcuni erroneamente chiamano terrorismo etnico o religioso. Ma nessun popolo, nessuna religione è terrorista! È vero, ci sono piccoli gruppi fondamentalisti da ogni parte. Ma il terrorismo inizia quando «hai cacciato via la meraviglia del creato, l’uomo e la donna, e hai messo lì il denaro» (Conferenza stampa nel volo di ritorno del Viaggio Apostolico in Polonia, 31 luglio 2016). Tale sistema è terroristico.

Quasi cent’anni fa, Pio XI prevedeva l’affermarsi di una dittatura economica globale che chiamò «imperialismo internazionale del denaro» (Lett. enc. Quadragesimo anno, 15 maggio 1931, 109). Sto parlando dell’anno 1931! L’aula in cui ora ci troviamo si chiama “Paolo VI”, e fu Paolo VI che denunciò quasi cinquant’anni fa, la «nuova forma abusiva di dominio economico sul piano sociale, culturale e anche politico» (Lett. ap. Octogesima adveniens, 14 maggio 1971, 44). Anno 1971. Sono parole dure ma giuste dei miei predecessori che scrutarono il futuro. La Chiesa e i profeti dicono, da millenni, quello che tanto scandalizza che lo ripeta il Papa in questo tempo in cui tutto ciò raggiunge espressioni inedite. Tutta la dottrina sociale della Chiesa e il magistero dei miei predecessori si ribella contro l’idolo denaro che regna invece di servire, tiranneggia e terrorizza l’umanità.movimenti-popolari2

Nessuna tirannia si sostiene senza sfruttare le nostre paure. Questo è una chiave! Da qui il fatto che ogni tirannia sia terroristica. E quando questo terrore, che è stato seminato nelle periferie con massacri, saccheggi, oppressione e ingiustizia, esplode nei centri con diverse forme di violenza, persino con attentati odiosi e vili, i cittadini che ancora conservano alcuni diritti sono tentati dalla falsa sicurezza dei muri fisici o sociali. Muri che rinchiudono alcuni ed esiliano altri. Cittadini murati, terrorizzati, da un lato; esclusi, esiliati, ancora più terrorizzati, dall’altro. È questa la vita che Dio nostro Padre vuole per i suoi figli?

La paura viene alimentata, manipolata… Perché la paura, oltre ad essere un buon affare per i mercanti di armi e di morte, ci indebolisce, ci destabilizza, distrugge le nostre difese psicologiche e spirituali, ci anestetizza di fronte alla sofferenza degli altri e alla fine ci rende crudeli. Quando sentiamo che si festeggia la morte di un giovane che forse ha sbagliato strada, quando vediamo che si preferisce la guerra alla pace, quando vediamo che si diffonde la xenofobia, quando constatiamo che guadagnano terreno le proposte intolleranti; dietro questa crudeltà che sembra massificarsi c’è il freddo soffio della paura. Vi chiedo di pregare per tutti coloro che hanno paura, preghiamo che Dio dia loro coraggio e che in questo anno della misericordia possa ammorbidire i nostri cuori. La misericordia non è facile, non è facile… richiede coraggio. Per questo Gesù ci dice: «Non abbiate paura» (Mt 14,27), perché la misericordia è il miglior antidoto contro la paura. E’ molto meglio degli antidepressivi e degli ansiolitici. Molto più efficace dei muri, delle inferriate, degli allarmi e delle armi. Ed è gratis: è un dono di Dio.

Cari fratelli e sorelle, tutti i muri cadono. Tutti. Non lasciamoci ingannare. Come avete detto voi: «Continuiamo a lavorare per costruire ponti tra i popoli, ponti che ci permettano di abbattere i muri dell’esclusione e dello sfruttamento» (Documento Conclusivo del II Incontro mondiale dei movimenti popolari, 11 luglio 2015, Santa Cruz de la Sierra, Bolivia). Affrontiamo il terrore con l’amore.

Il secondo punto che voglio toccare è: l’Amore e i ponti.

Un giorno come questo, un sabato, Gesù fece due cose che, ci dice il Vangelo, affrettarono il complotto per ucciderlo. Passava con i suoi discepoli per un campo da semina. I discepoli avevano fame e mangiarono le spighe. Niente si dice del “padrone” di quel campo… soggiacente è la destinazione universale dei beni. Quello che è certo è che, di fronte alla fame, Gesù ha dato priorità alla dignità dei figli di Dio su un’interpretazione formalistica, accomodante e interessata dalla norma. Quando i dottori della legge lamentarono con indignazione ipocrita, Gesù ricordò loro che Dio vuole amore e non sacrifici, e spiegò che il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato (cfr Mc 2,27). Affrontò il pensiero ipocrita e presuntuoso con l’intelligenza umile del cuore (cfr Omelia, I Congreso de Evangelización de la Cultura, Buenos Aires, 3 novembre 2006), che dà sempre la priorità all’uomo e non accetta che determinate logiche impediscano la sua libertà di vivere, amare e servire il prossimo.

E dopo, in quello stesso giorno, Gesù fece qualcosa di “peggiore”, qualcosa che irritò ancora di più gli ipocriti e i superbi che lo stavano osservando perché cercavano una scusa per catturarlo. Guarì la mano atrofizzata di un uomo. La mano, questo segno tanto forte dell’operare, del lavoro. Gesù restituì a quell’uomo la capacità di lavorare e con questo gli restituì la dignità. Quante mani atrofizzate, quante persone private della dignità del lavoro! Perché gli ipocriti, per difendere sistemi ingiusti, si oppongono a che siano guariti. A volte penso che quando voi, i poveri organizzati, vi inventate il vostro lavoro, creando una cooperativa, recuperando una fabbrica fallita, riciclando gli scarti della società dei consumi, affrontando l’inclemenza del tempo per vendere in una piazza, rivendicando un pezzetto di terra da coltivare per nutrire chi ha fame, quando fate questo state imitando Gesù, perché cercate di risanare, anche se solo un pochino, anche se precariamente, questa atrofia del sistema socio-economico imperante che è la disoccupazione. Non mi stupisce che anche voi a volte siate sorvegliati o perseguitati, né mi stupisce che ai superbi non interessi quello che voi dite.

Gesù che quel sabato rischiò la vita, perché, dopo che guarì quella mano, farisei ed erodiani (cfr Mc 3,6), due partiti opposti tra loro, che temevano il popolo e anche l’impero, fecero i loro calcoli e complottarono per ucciderlo. So che molti di voi rischiano la vita. So – e lo voglio ricordare, e la voglio ricordare – che alcuni non sono qui oggi perché si sono giocati la vita… Per questo non c’è amore più grande che dare la vita. Questo ci insegna Gesù.

Le 3-T, il vostro grido che faccio mio, ha qualcosa di quella intelligenza umile ma al tempo stesso forte e risanatrice. Un progetto-ponte dei popoli di fronte al progetto-muro del denaro. Un progetto che mira allo sviluppo umano integrale. Alcuni sanno che il nostro amico il Cardinale Turkson presiede adesso il Dicastero che porta questo nome: Sviluppo Umano Integrale. Il contrario dello sviluppo, si potrebbe dire, è l’atrofia, la paralisi. Dobbiamo aiutare a guarire il mondo dalla sua atrofia morale. Questo sistema atrofizzato è in grado di fornire alcune “protesi” cosmetiche che non sono vero sviluppo: crescita economica, progressi tecnologici, maggiore “efficienza” per produrre cose che si comprano, si usano e si buttano inglobandoci tutti in una vertiginosa dinamica dello scarto… Ma questo mondo non consente lo sviluppo dell’essere umano nella sua integralità, lo sviluppo che non si riduce al consumo, che non si riduce al benessere di pochi, che include tutti i popoli e le persone nella pienezza della loro dignità, godendo fraternamente la meraviglia del creato. Questo è lo sviluppo di cui abbiamo bisogno: umano, integrale, rispettoso del creato, di questa casa comune.

Un altro punto è: Bancarotta e salvataggio.

Cari fratelli, voglio condividere con voi alcune riflessioni su altri due temi che, insieme alle “3-T” e all’ecologia integrale, sono stati al centro dei vostri dibattiti degli ultimi giorni e sono centrali in questo periodo storico.

So che avete dedicato una giornata al dramma dei migranti, dei rifugiati e degli sfollati. Cosa fare di fronte a questa tragedia? Nel Dicastero di cui è responsabile il Cardinale Turkson c’è una sezione che si occupa di queste situazioni. Ho deciso che, almeno per un certo tempo, quella sezione dipenda direttamente dal Pontefice, perché questa è una situazione obbrobriosa, che posso solo descrivere con una parola che mi venne fuori spontaneamente a Lampedusa: vergogna.

Lì, come anche a Lesbo, ho potuto ascoltare da vicino la sofferenza di tante famiglie espulse dalla loro terra per motivi economici o violenze di ogni genere, folle esiliate – l’ho detto di fronte alle autorità di tutto il mondo – a causa di un sistema socio-economico ingiusto e delle guerre che non hanno cercato, che non hanno creato coloro che oggi soffrono il doloroso sradicamento dalla loro patria, ma piuttosto molti di coloro che si rifiutano di riceverli.

Faccio mie le parole di mio fratello l’Arcivescovo Hieronymos di Grecia: «Chi vede gli occhi dei bambini che incontriamo nei campi profughi è in grado di riconoscere immediatamente, nella sua interezza, la “bancarotta” dell’umanità» (Discorso nel Campo profughi di Moria, Lesbos, 16 aprile 2016). Cosa succede al mondo di oggi che, quando avviene la bancarotta di una banca, immediatamente appaiono somme scandalose per salvarla, ma quando avviene questa bancarotta dell’umanità non c’è quasi una millesima parte per salvare quei fratelli che soffrono tanto? E così il Mediterraneo è diventato un cimitero, e non solo il Mediterraneo… molti cimiteri vicino ai muri, muri macchiati di sangue innocente. Nei giorni di questo incontro – lo dite nel video – quanti sono i morti nel Mediterraneo?

La paura indurisce il cuore e si trasforma in crudeltà cieca che si rifiuta di vedere il sangue, il dolore, il volto dell’altro. Lo ha detto il mio fratello il Patriarca Bartolomeo: «Chi ha paura di voi non vi ha guardato negli occhi. Chi ha paura di voi non ha visto i vostri volti. Chi ha paura non vede i vostri figli. Dimentica che la dignità e la libertà trascendono la paura e trascendono la divisione. Dimentica che la migrazione non è un problema del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale, dell’Europa e della Grecia. È un problema del mondo» (Discorso nel Campo profughi di Moria, Lesbos, 16 aprile 2016).

E’, veramente, un problema del mondo. Nessuno dovrebbe vedersi costretto a fuggire dalla propria patria. Ma il male è doppio quando, davanti a quelle terribili circostanze, il migrante si vede gettato nelle grinfie dei trafficanti di persone per attraversare le frontiere, ed è triplo se arrivando nella terra in cui si pensava di trovare un futuro migliore, si viene disprezzati, sfruttati, addirittura schiavizzati. Questo si può vedere in qualunque angolo di centinaia di città. O semplicemente non si lasciano entrare.

Chiedo a voi di fare tutto il possibile; di non dimenticare mai che anche Gesù, Maria e Giuseppe sperimentarono la condizione drammatica dei rifugiati. Vi chiedo di esercitare quella solidarietà così speciale che esiste tra coloro che hanno sofferto. Voi sapete recuperare fabbriche dai fallimenti, riciclare ciò che altri gettano, creare posti di lavoro, coltivare la terra, costruire abitazioni, integrare quartieri segregati e reclamare senza sosta come la vedova del Vangelo che chiede giustizia insistentemente (cfr Lc 18,1-8). Forse con il vostro esempio e la vostra insistenza, alcuni Stati e Organizzazioni internazionali apriranno gli occhi e adotteranno le misure adeguate per accogliere e integrare pienamente tutti coloro che, per un motivo o per un altro, cercano rifugio lontano da casa. E anche per affrontare le cause profonde per cui migliaia di uomini, donne e bambini vengono espulsi ogni giorno dalla loro terra natale.

Dare l’esempio e reclamare è un modo di fare politica, e questo mi porta al secondo tema che avete dibattuto nel vostro incontro: il rapporto tra popolo e democrazia. Un rapporto che dovrebbe essere naturale e fluido, ma che corre il pericolo di offuscarsi fino a diventare irriconoscibile. Il divario tra i popoli e le nostre attuali forme di democrazia si allarga sempre più come conseguenza dell’enorme potere dei gruppi economici e mediatici che sembrano dominarle. I movimenti popolari, lo so, non sono partiti politici e lasciate che vi dica che, in gran parte, qui sta la vostra ricchezza, perché esprimete una forma diversa, dinamica e vitale di partecipazione sociale alla vita pubblica. Ma non abbiate paura di entrare nelle grandi discussioni, nella Politica con la maiuscola, e cito di nuovo Paolo VI: «La politica è una maniera esigente – ma non è la sola – di vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri» (Lett. ap. Octogesima adveniens, 14 maggio 1971, 46). O questa frase che ripeto tante volte, e sempre mi confondo, non so se è di Paolo VI o di Pio XII: “La politica è una delle forme più alte della carità, dell’amore”.

Vorrei sottolineare due rischi che ruotano attorno al rapporto tra i movimenti popolari e politica: il rischio di lasciarsi incasellare e il rischio di lasciarsi corrompere.

Primo, non lasciarsi imbrigliare, perché alcuni dicono: la cooperativa, la mensa, l’orto agroecologico, le microimprese, il progetto dei piani assistenziali… fin qui tutto bene. Finché vi mantenete nella casella delle “politiche sociali”, finché non mettete in discussione la politica economica o la politica con la maiuscola, vi si tollera. Quell’idea delle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei i poveri e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i popoli, mi sembra a volte una specie di carro mascherato per contenere gli scarti del sistema. Quando voi, dal vostro attaccamento al territorio, dalla vostra realtà quotidiana, dal quartiere, dal locale, dalla organizzazione del lavoro comunitario, dai rapporti da persona a persona, osate mettere in discussione le “macrorelazioni”, quando strillate, quando gridate, quando pretendete di indicare al potere una impostazione più integrale, allora non ci si tollera, non ci si tollera più tanto perché state uscendo dalla casella, vi state mettendo sul terreno delle grandi decisioni che alcuni pretendono di monopolizzare in piccole caste. Così la democrazia si atrofizza, diventa un nominalismo, una formalità, perde rappresentatività, va disincarnandosi perché lascia fuori il popolo nella sua lotta quotidiana per la dignità, nella costruzione del suo destino.

Voi, organizzazioni degli esclusi e tante organizzazioni di altri settori della società, siete chiamati a rivitalizzare, a rifondare le democrazie che stanno attraversando una vera crisi. Non cadete nella tentazione della casella che vi riduce ad attori secondari o, peggio, a meri amministratori della miseria esistente. In questi tempi di paralisi, disorientamento e proposte distruttive, la partecipazione da protagonisti dei popoli che cercano il bene comune può vincere, con l’aiuto di Dio, i falsi profeti che sfruttano la paura e la disperazione, che vendono formule magiche di odio e crudeltà o di un benessere egoistico e una sicurezza illusoria.

Sappiamo che «finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri, rinunciando all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause strutturali della inequità, non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun problema. L’inequità è la radice dei mali sociali» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 202). Per questo, l’ho detto e lo ripeto, «il futuro dell’umanità non è solo nelle mani dei grandi leader, delle grandi potenze e delle élite. E’ soprattutto nelle mani dei popoli; nella loro capacità di organizzarsi ed anche nelle loro mani che irrigano, con umiltà e convinzione, questo processo di cambiamento» (Discorso al II incontro mondiale dei movimenti popolari, Santa Cruz de la Sierra, 9 luglio 2015). Anche la Chiesa può e deve, senza pretendere di avere il monopolio della verità, pronunciarsi e agire specialmente davanti a «situazioni in cui si toccano le piaghe e le sofferenze drammatiche, e nelle quali sono coinvolti i valori, l’etica, le scienze sociali e la fede» (Intervento al vertice di giudici e magistrati contro il traffico di persone e il crimine organizzato, Vaticano, 3 giugno 2016). Questo è il primo rischio: il rischio di lasciarsi incasellare e l’invito a mettersi nella grande politica.

Il secondo rischio, vi dicevo, è lasciarsi corrompere. Come la politica non è una questione dei “politici”, la corruzione non è un vizio esclusivo della politica. C’è corruzione nella politica, c’è corruzione nelle imprese, c’è corruzione nei mezzi di comunicazione, c’è corruzione nelle chiese e c’è corruzione anche nelle organizzazioni sociali e nei movimenti popolari. E’ giusto dire che c’è una corruzione radicata in alcuni ambiti della vita economica, in particolare nell’attività finanziaria, e che fa meno notizia della corruzione direttamente legata all’ambito politico e sociale. E’ giusto dire che tante volte si utilizzano i casi corruzione con cattive intenzioni. Ma è anche giusto chiarire che quanti hanno scelto una vita di servizio hanno un obbligo ulteriore che si aggiunge all’onestà con cui qualunque persona deve agire nella vita. La misura è molto alta: bisogna vivere la vocazione di servire con un forte senso di austerità e di umiltà. Questo vale per i politici ma vale anche per i dirigenti sociali e per noi pastori. Ho detto “austerità” e vorrei chiarire a cosa mi riferisco con la parola austerità, perché può essere una parola equivoca. Intendo austerità morale, austerità nel modo di vivere, austerità nel modo in cui porto avanti la mia vita, la mia famiglia. Austerità morale e umana. Perché in campo più scientifico, scientifico-economico, se volete, o delle scienze del mercato, austerità è sinonimo di aggiustamento… Non mi riferisco a questo, non sto parlando di questo.

A qualsiasi persona che sia troppo attaccata alle cose materiali o allo specchio, a chi ama il denaro, i banchetti esuberanti, le case sontuose, gli abiti raffinati, le auto di lusso, consiglierei di capire che cosa sta succedendo nel suo cuore e di pregare Dio di liberarlo da questi lacci. Ma, parafrasando l’ex-presidente latinoamericano che si trova qui, colui che sia affezionato a tutte queste cose, per favore, che non si metta in politica, che non si metta in un’organizzazione sociale o in un movimento popolare, perché farebbe molto danno a sé stesso, al prossimo e sporcherebbe la nobile causa che ha intrapreso. E che neanche si metta nel seminario!

Davanti alla tentazione della corruzione, non c’è miglior rimedio dell’austerità, questa austerità morale, personale; e praticare l’austerità è, in più, predicare con l’esempio. Vi chiedo di non sottovalutare il valore dell’esempio perché ha più forza di mille parole, di mille volantini, di mille “mi piace”, di mille retweets, di mille video su youtube. L’esempio di una vita austera al servizio del prossimo è il modo migliore per promuovere il bene comune e il progetto-ponte delle “3-T”. Chiedo a voi dirigenti di non stancarvi di praticare questa austerità morale, personale, e chiedo a tutti di esigere dai dirigenti questa austerità, che – del resto – li farà essere molto felici.

Care sorelle e cari fratelli,

la corruzione, la superbia e l’esibizionismo dei dirigenti aumenta il discredito collettivo, la sensazione di abbandono e alimenta il meccanismo della paura che sostiene questo sistema iniquo.

Vorrei, per concludere, chiedervi di continuare a contrastare la paura con una vita di servizio, solidarietà e umiltà in favore dei popoli e specialmente di quelli che soffrono. Potrete sbagliare tante volte, tutti sbagliamo, ma se perseveriamo in questo cammino, presto o tardi, vedremo i frutti. E insisto: contro il terrore, il miglior rimedio è l’amore. L’amore guarisce tutto. Alcuni sanno che dopo il Sinodo sulla famiglia ho scritto un documento che ha per titolo “Amoris laetitia” – la “gioia dell’amore” – un documento sull’amore nelle singole famiglie, ma anche in quell’altra famiglia che è il quartiere, la comunità, il popolo, l’umanità. Uno di voi mi ha chiesto di distribuire un fascicolo che contiene un frammento del capitolo quarto di questo documento. Penso che ve lo consegneranno all’uscita. E quindi con la mia benedizione. Lì ci sono alcuni “consigli utili” per praticare il più importante dei comandamenti di Gesù.

In Amoris laetitia cito un compianto leader afroamericano, Martin Luther King, il quale sapeva sempre scegliere l’amore fraterno persino in mezzo alle peggiori persecuzioni e umiliazioni. Voglio ricordarlo oggi con voi; diceva: «Quando ti elevi al livello dell’amore, della sua grande bellezza e potere, l’unica cosa che cerchi di sconfiggere sono i sistemi maligni. Le persone che sono intrappolate da quel sistema le ami, però cerchi di sconfiggere quel sistema […] Odio per odio intensifica solo l’esistenza dell’odio e del male nell’universo. Se io ti colpisco e tu mi colpisci, e ti restituisco il colpo e tu mi restituisci il colpo, e così di seguito, è evidente che si continua all’infinito. Semplicemente non finisce mai. Da qualche parte, qualcuno deve avere un po’ di buon senso, e quella è la persona forte. La persona forte è la persona che è capace di spezzare la catena dell’odio, la catena del male» (n. 118; Sermone nella chiesa Battista di Dexter Avenue, Montgomery, Alabama, 17 novembre 1957). Questo lo ha detto nel 1957.

Vi ringrazio nuovamente per il vostro lavoro, per la vostra presenza. Desidero chiedere a Dio nostro Padre che vi accompagni e vi benedica, che vi riempia del suo amore e vi difenda nel cammino dandovi in abbondanza la forza che ci mantiene in piedi e ci dà il coraggio per rompere la catena dell’odio: quella forza è la speranza. Vi chiedo per favore di pregare per me, e quelli che non possono pregare, lo sapete, pensatemi bene e mandatemi una buona onda. Grazie.

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la prudenza a cui richiama papa Francesco non è rinuncia all’accoglienza e chiusura

prudenza non è chiusura precauzionale

di Dominique Greiner
in “La Croix” del 3 novembre 2016 papa8

L’afflusso dei rifugiati provenienti dall’Iraq e dalla Siria non è una minaccia per la cultura cristiana del continente europeo? La risposta di papa Francesco alla domanda che gli è stata rivolta durante la conferenza stampa nel volo che lo riportava a Roma martedì pomeriggio, fa dei distinguo e merita di essere letta integralmente. Ha riaffermato la necessità di mantenere la distinzione tra rifugiati e migranti, ha ridetto che l’emigrazione è un diritto, ma un “diritto che deve essere regolato”, e ha ricordato che “l’Europa si è fatta di migrazioni”, con un’integrazione permanente di molte culture. “Credo che in teoria non si possa chiudere il cuore a un rifugiato. Ma c’è anche la prudenza dei governanti, che devono essere molto aperti a riceverli ma anche a fare il calcolo di come poterli sistemare, perché non solo un rifugiato lo si deve ricevere, ma lo si deve integrare», ha proseguito il papa. Affermazioni che sono state subito interpretate da alcuni come un’inflessione salutare di una posizione giudicata fino ad ora poco realistica e perfino ingenua. Ma sulle labbra di papa Francesco, prudenza non è sinonimo di chiusura precauzionale… Il governo prudente non è quello che decide di chiudere le frontiere, per paura, per egoismo, per convenienza, senza considerazione per le persone, ma quello che sa unire, da un lato, “rettitudine e severità” e dall’altro “bontà e dolcezza”, e soprattutto è quello che “calcola”, cioè accetta di guardare al di là del presente immediato per preparare il futuro. La prudenza non è una virtù che si può invocare per giustificare il ripiegamento in se stessi. È un principio di azione esigente.
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le bestemmie di Radio Maria sul terremoto

il Vaticano condanna Radio Maria:

“parole offensive e scandalose, i terremotati ci perdonino”

Il Vaticano ha duramente condannato le dichiarazioni pubbliche di padre Giovanni Cavalcoli, che il 30 ottobre scorso sostenne che il terremoto fosse un castigo divino per punire l’approvazione della legge sulle unioni civili

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di Charlotte Matteini

Il Vaticano si dissocia pubblicamente e condanna le dichiarazioni di Padre Giovanni Cavalcoli di Radio Maria, che lo scorso 30 ottobre definì il terremoto del Centro Italia un castigo divino destinato all’Italia per aver approvato la legge sulle unioni civili. “Sono affermazioni offensive per i credenti e scandalose per chi non crede, datate al periodo precristiano e non rispondono alla teologia della Chiesa perché contrarie alla visione di Dio offertaci da Cristo. I terremotati ci perdonino, a loro va la solidarietà del Papa”, ha dichiarato monsignor Angelo Becciu, sostituto alla Segreteria di Stato e tra i più stretti collaboratori di Papa Francesco. “Cristo ci ha rivelato il volto di Dio amore non di un Dio capriccioso e vendicativo. Questa è una visione pagana, non cristiana”, ha sottolineato il Vaticano, sostenendo che “chi evoca il castigo divino ai microfoni di Radio Maria offende lo stesso nome della Madonna che dai credenti è vista come la Madre misericordiosa che si china sui figli piangenti e terge le loro lacrime soprattutto in momenti terribili come quelli del terremoto”.  faciata

“Radio Maria deve correggere i toni del suo linguaggio e conformarsi di più al Vangelo e al messaggio della misericordia e della solidarietà propugnato con passione da papa Francesco specie nell’anno giubilare. Non possiamo non chiedere perdono ai nostri fratelli colpiti dalla tragedia del terremoto per essere stati additati come vittime dell’ira di Dio. Sappiano invece che hanno la simpatia, la solidarietà e il sostegno del Papa, della Chiesa, di chi ha un briciolo di cuore”, ha concluso monsignor Becciu.
continua su: http://www.fanpage.it/vaticano-condanna-radio-maria-parole-offensive-e-scandalose-i-terremotati-ci-perdonino/
http://www.fanpage.it/
 
 
  

Radio Maria insiste:

“Sisma provocato da unioni civili, il Vaticano ripassi il catechismo”

Padre Giovanni Cavalcoli, lo speaker che lo scorso 30 ottobre definì il terremoto un castigo di Dio per le unioni civili, non indietreggia di un passo e ribadisce la sua posizione, nonostante la dura condanna espressa dal Vaticanocavalcoli

http://video.corriere.it/padre-cavalcoli-la-zanzara-confermo-tutto-terremoti-provocati-peccati-dell-uomo/1ae0fcb4-a2c8-11e6-9bbc-76e0a0d7325e

A nulla è servita la dura condanna espressa dal Vaticano, che si è pubblicamente dissociato dalle affermazioni andate in onda lo scorso 30 ottobre, a poche ore dal tremendo sisma che ha colpito il Centro Italia. Nel corso della puntata da lui condotta, padre Giovanni Cavalcoli definì il terremoto un castigo divino voluto dal Signore per punire l’Italia e l’approvazione delle unioni civili. Ovviamente, le parole hanno infiammato la polemica e provocato le reazioni sdegnate di ascoltatori, Vescovi e perfino del Vaticano, che ha definito le affermazioni di Cavalcoli offensive e scandalose e chiesto perdono ai terremotati, sottolineando che quella visione espressa dallo speaker di Radio Maria non è affatto quella della moderna teologia della Chiesa, ma che risale al periodo precristiano e lontana dalla visione offerta da Cristo.

Nonostante la dura condanna del Vaticano, però, come anticipato, l’autore delle tanto conteste affermazioni, contattato dal programma radiofonico di Radio 24 “La Zanzara”, condotto da Giuseppe Cruciani, ha ribadito le sue posizioni, non arretrando di un millimetro: “Confermo tutto, terremoti provocati da peccati dell’uomo come le unioni civili. Il Vaticano? Che ripassi il catechismo”, ha commentato padre Cavalcoli.
continua su: http://www.fanpage.it/radio-maria-padre-cavalcoli-insiste-terremoto-provocato-dalle-unioni-civili/
http://www.fanpage.it/
http://video.repubblica.it/dossier/terremoto-30-ottobre/radio-maria-padre-cavalcoli-dopo-il-terremoto-arriveranno-altri-castighi/258081/258362

di fronte a tanta tracotante spietatezza e crudeltà ‘religiosa’ ben si addicono le parole dell”Amaca’ odierna di M. Serra:Serra

NO, il terremoto non è un castigo divino: lo rende noto anche la Santa Sede, invitando quelli di Radio Maria a chiudere il becco. Nel loro piccolo anche geologi e sismologi lo avevano già spiegato piuttosto chiaramente, che si tratta di assestamenti della crosta terrestre e non di rappresaglie celesti. Ma al netto di una verità che non richiedeva ulteriori conferme, un mistero rimane, ed è un mistero di molto superiore alle possibilità di interpretazione della scienza (che infatti, dinnanzi a Radio Maria, arretra): come fa l’essere umano a essere così meschino, e al tempo stesso così cretino, da attribuire un cataclisma naturale ai propri piccoli miserabili conticini con un Bene e un Male comunque relativi, così opinabili da mutare di Paese in Paese, di catechismo in catechismo e di faglia in faglia, così relativi che un terremotato giapponese e uno peruviano e uno marchigiano, anche qualora volessero pentirsi di qualcosa, non si pentirebbero per la stessa cosa. Le morali (e ancora di più i moralismi) sono minutaglie, appena briciole, appena scampoli di fronte alla grandiosità — lei sì religiosa, nel senso che tiene tutto insieme — della natura. Leggere un terremoto con un libriccino di regolette igienico-sessuali tra le mani è come guardare il Sole e chiedersi chi paga la bolletta. C’è una grettezza, nei bigotti, una piccolezza di sguardo, che spaventa perfino più del fanatismo. Esistesse il loro Dio, è a loro che riserverebbe le sue pene
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il vangelo della domenica commentato da p. Maggi

“DIO NON E’ DEI MORTI, MA DEI VIVENTI”

commento al vangelo della trentaduesima domenica del tempo ordinario ( novembre 201) di p. Alberto Maggi:

maggi20

Lc 20,27-38

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie».
Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

I sadducei hanno congegnato bene la trappola in cui far cadere Gesù. Non osano affrontarlo sul piano dottrinale e politico perché sanno che potrebbero avere la peggio. Gesù infatti ha già zittito con le sue risposte i sommi sacerdoti, gli scribi, gli anziani, ed è riuscito a lasciare senza parole anche i pur agguerriti farisei.
Scrive l’evangelista che “Costoro”, i farisei, “meravigliati della sua risposta, tacquero”. D’altro canto Gesù non possono eliminarlo perché Gesù ha un gran seguito tra la gente, ne farebbero un martire. E così i sadducei decidono di attirarlo in un terreno scivoloso da dove, una volta caduto, l’aspirante messia avrebbe avuto difficoltà a rialzarsi, il ridicolo e il discredito.
L’aristocratica casta sacerdotale dei sadducei, il cui nome deriva da sadoc, il sacerdote che consacrò come re Salomone, il figlio dell’amante di Davide e Betsabea, al posto del legittimo re Adonia. Questa

casta sacerdotale dei sadducei deteneva non soltanto il potere politico, ma anche il potere economico, erano molto ricchi.
Loro accettavano come parola di Dio soltanto i primi cinque libri della Bibbia e rifiutavano i libri dei profeti. Per quale motivo? Perché nei profeti è costante la denuncia di Dio contro l’ingiustizia che crea grandi ricchezze, ma anche tanta povertà. Quindi loro lo rifiutavano perché per loro andava bene la situazione così com’era.
Si rivolgono a Gesù con un titolo ossequioso, Maestro, ma in realtà non vanno a prendere da lui, vogliono soltanto screditarlo. E si rifanno a una questione che ha le sue basi nella legge di Mosè, nel libro del Levitico, dove Mosè prescrive: Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello.
Qual è il significato di questa legge? La legge del levirato prevedeva che il cognato di una donna rimasta vedova e senza figli avesse l’obbligo di metterla incinta, perché era importante che il nome del marito continuasse. Era una maniera per diventare eterni, per perpetuare il proprio nome; ogni figlio portava il nome del padre.
Quindi quando una donna rimaneva vedova e, senza aver avuto un figlio maschio, il cognato aveva l’obbligo di metterla incinta e il bambino nato avrebbe portato il nome del defunto. La legge prescrive: In modo da assicurargli la perpetuità, come c’è scritto nel libro del Deuteronomio: Perché il nome di questi non si estingua da Israele.
Secondo la cultura dell’epoca – e questo va compreso per una migliore comprensione del brano – il matrimonio aveva il solo scopo di assicurare una discendenza all’uomo, la donna serviva unicamente per mettere al mondo figli, figli maschi.
Quindi qui non si tratta di uno scrupolo sull’amore, ma su una realtà del figlio maschio. Allora, ispirandosi alla popolare storia di Sara, la sfortunata sposa alla quale morirono ben sette mariti la sera stessa delle nozze, i sadducei spacciano – come se fosse vera – la macabra vicenda di questi sette fratelli tutti morti senza essere riusciti ad avere un figlio da quella che è stata la moglie di tutti e sette.
Della donna ai sadducei non interessa nulla, non desiderano conoscere la sorte della donna, desiderano solo sapere a quale dei defunti, una volta risuscitati, spetterà poi averla per immortalare con un figlio maschio il proprio nome. Quindi non si tratta di un problema affettivo (di chi sarà la moglie?), ma chi da questa donna riuscirà ad avere un figlio maschio.
Quindi i sadducei cercano di ridicolizzare Gesù e di burlarsi di lui. Ebbene nella sua risposta Gesù si distanzia dall’interpretazione popolare della risurrezione, intesa come un ritorno alla vita fisica dei morti, e Gesù risponde che la vita dei risorti non dipende dalla procreazione, dal rapporto tra marito e moglie, ma proviene direttamente dalla potenza di Dio.
E Gesù cita gli angeli? Perché Gesù cita gli angeli? Perché i sadducei non credevano all’esistenza degli angeli. Come gli angeli ricevono la vita non certo dal padre e dalla madre, ma direttamente da Dio, così con la risurrezione la vita rimane eterna perché proviene da Dio. 
Ai sadducei, che si sono fatti forza dell’autorità di Mosè per opporsi a Gesù, Gesù ribatte a sua volta, riconducendosi proprio a Mosè, a quello che ha scritto, mostrando quanto sia miope e limitata la loro lettura della scrittura e si rifà alla risposta che Dio diede a Mosè nel famoso episodio del roveto ardente, quando disse: “Il Signore è il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”.
Quando si dice che il Signore è il Dio di … non si intende tanto il Dio creduto da … Abramo, Isacco o Giacobbe, ma il Dio che protegge Abramo, Isacco e Giacobbe. E come protegge? Protegge con la sua vita, tenendoli lontani dalla morte.
Quindi essere sotto la protezione di Dio significa avere la sua stessa vita e il Dio fedele non permette che muoiano quelli che lui ha amato. E il perché ce lo dice la frase più importante di tutto questo brano, che getta nuova luce sull’immagine della vita, della morte e delle risurrezione, “Dio non è il Dio dei morti, ma dei viventi, perché vivono tutti per lui”.
Il Dio di Gesù non risuscita i morti, ma comunica ai vivi, ai viventi, la sua stessa vita, una vita di una qualità tale che è capace di superare la morte.

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