bellissima preghiera per l’anno che termina e il nuovo anno scritta da un contadino sudamericano

Signore,
alla fine di questo anno voglio ringraziarti
per tutto quello che ho ricevuto da te,
grazie per la vita e l’amore,
per i fiori, l’aria e il sole,
per l’allegria e il dolore,
per quello che è stato possibile
e per quello che non ha potuto esserlo.

Ti regalo quanto ho fatto quest’anno:
il lavoro che ho potuto compiere,
le cose che sono passate per le mie mani
e quello che con queste ho potuto costruire.

Ti offro le persone che ho sempre amato,
le nuove amicizie, quelli a me più vicini,
quelli che sono più lontani,
quelli che se ne sono andati,
quelli che mi hanno chiesto una mano
e quelli che ho potuto aiutare,
quelli con cui ho condiviso la vita,
il lavoro, il dolore e l’allegria.

Oggi, Signore, voglio anche chiedere perdono
per il tempo sprecato, per i soldi spesi male,
per le parole inutili e per l’amore disprezzato,
perdono per le opere vuote,
per il lavoro mal fatto,
per il vivere senza entusiasmo
e per la preghiera sempre rimandata,
per tutte le mie dimenticanze e i miei silenzi,
semplicemente… ti chiedo perdono.

Signore Dio, Signore del tempo e dell’eternità,
tuo è l’oggi e il domani, il passato e il futuro, e, all’inizio di un nuovo anno,
io fermo la mia vita davanti al calendario
ancora da inaugurare
e ti offro quei giorni che solo tu sai se arriverò a vivere.

Oggi ti chiedo per me e per i miei la pace e l’allegria,
la forza e la prudenza,
la carità e la saggezza.

Voglio vivere ogni giorno con ottimismo e bontà,
chiudi le mie orecchie a ogni falsità,
le mie labbra alle parole bugiarde ed egoiste
o in grado di ferire,
apri invece il mio essere a tutto quello che è buono,
così che il mio spirito si riempia solo di benedizioni
e le sparga a ogni mio passo.

Riempimi di bontà e allegria
perché quelli che convivono con me
trovino nella mia vita un po’ di te.

Signore, dammi un anno felice
e insegnami e diffondere felicità.

Nel nome di Gesù, amen.

Arley Tuberqui

image_pdfimage_print

l’entusiasmo di L. Boff per papa Francesco continua

Leonardo Boff

“papa Francesco è uno di noi”

intervista a Leonardo Boff

a cura di Joachim Frank
in “www.ksta.de”

Il brasiliano Leonardo Boff, nato nel 1938, è discendente di immigrati italiani. Nel 1959 è entrato nell’ordine francescano e per cinque anni ha studiato in Germania. Negli anni 80 Boff, come principale rappresentante della teologia della liberazione e a causa delle sue critiche alla Chiesa ufficiale, entrò in conflitto con il Vaticano e con il suo massimo “guardiano della fede”. Dopo aver avuto per due volte un divieto di esprimersi pubblicamente, Boff uscì dall’ordine e abbandonò il presbiterato.

Signor Boff, le piacciono i canti di Natale? Che cosa crede?

(canta): “Stille Nacht, heilige Nacht…”. Viene cantata in ogni famiglia che celebra il Natale. È tradizione da noi in Brasile come da voi in Germania. Questo tipo di Natale non le pare kitsch e commerciale? La cosa è diversa da paese a paese. Certo Natale è diventato un grande business. Ma con tutto ciò, è rimasta comunque viva la gioia, il riunirsi della famiglia, per molti anche un momento di fede. E da come io ha vissuto il Natale in Germania, è una festa del cuore, molto suggestiva, meravigliosa.

Come si accorda una fede che a Natale parla di un “Dio della pace”, con la discordia che viviamo ovunque?

La fede è soprattutto promessa. Ernst Bloch dice: “La vera genesi non è all’inizio, ma alla fine, ed essa inizia a cominciare solo quando la società e l’esistenza diventano radicali, cioè mettono radici”. La gioia del Natale sta in questa promessa: la Terra e gli uomini non sono condannati a continuare sempre così come sperimentano ora – con tutte le guerre, la violenza, il fondamentalismo. Nella fede ci è promesso che alla fine tutto sarà buono; che nonostante tutti gli errori, le strade sbagliate, le sconfitte, ci avviciniamo ad una fine buona. L’autentico significato del Natale non è che “Dio si è fatto uomo”, ma che è venuto per dirci: “Voi uomini mi appartenete, e quando morirete tornerete a casa”.

Il Natale significa che Dio viene a prenderci?

Sì. L’incarnazione significa che qualcosa di noi è già divino, è diventato eterno. Il divino sta in noi stessi. In Gesù si è mostrato nel modo più evidente. Ma è in tutti gli uomini. In una visione evolutiva, Gesù non viene dall’esterno nel mondo, ma cresce dal mondo. Gesù è l’apparizione del divino nell’evoluzione – ma non è l’unica. Il divino compare anche in Buddha, nel Mahatma Gandhi e in altre grandi figure di fede.

Non mi sembra un pensiero molto cattolico.

Non dica così. Tutta la teologia francescana del Medio Evo ha inteso Cristo come parte della Creazione – non solo come il redentore da colpa e peccato che scende nel mondo. Certo, incarnazione è anche redenzione. Ma prima di tutto e soprattutto è una esaltazione, una divinizzazione della Creazione. E nel Natale è importante anche un’altra cosa. Dio appare nella figura di un bambino. Non come un vecchio con capelli bianchi e lunga barba bianca…

Come Lei…

Appunto, io assomiglio piuttosto a Karl Marx. Quello che ritengo importante è questo: quando alla fine della nostra vita dovremo rispondere davanti al divino giudice, saremo davanti a un bambino. Ma un bambino non condanna nessuno. Bisogna mettere in rilievo questo lato della fede.

La teologia della liberazione latinoamericana, di cui Lei è uno dei più importanti rappresentanti, è tornata in auge con papa Francesco. Ci sarà una riabilitazione per Lei personalmente dopo le lunghe battaglie con papa Giovanni Paolo II e il massimo guardiano della fede Joseph Ratzinger, divenuto poi papa Benedetto XVI?

Francesco è uno di noi. Ha reso la teologia della liberazione un bene di tutti nella Chiesa. E l’ha estesa. Chi parla dei poveri, oggi deve parlare anche della Terra, perché anch’essa è saccheggiata e profanata. “Ascoltare il grido dei poveri” significa ascoltare il grido degli animali, dei boschi, dell’intera Creazione maltrattata. La Terra intera grida. Quindi, dice il papa, e così facendo nomina il titolo di uno dei miei libri, oggi dobbiamo ascoltare insieme il grido dei poveri e della Terra. Ed entrambi devono essere liberati. Io stesso mi sono molto occupato un tempo di questa estensione della teologia della liberazione. Che è anche ciò che è fondamentalmente nuovo nella “Laudato si’”… Cioè nell’Enciclica ecologica del papa del 2015.

E quanto Leonardo Boff c’è in Jorge Maria Bergoglio?

L’enciclica è del papa. Ma ha consultato molti esperti.

Ha letto i suoi libri?

Ancor di più: per la Laudato si’ mi ha chiesto del materiale. Gli ho dato i miei consigli e gli ho mandato qualcosa che ho scritto. E che lui ha usato. Alcuni mi hanno detto che, leggendo, si erano detti: “Ma questo è Boff!”. Del resto, papa Francesco mi ha detto: “Boff, per favore, non mandare i documenti a me direttamente”.

Perché no?

Ha detto: “Se no, i sottosegretari li intercettano e a me non arrivano. Manda il tutto piuttosto all’ambasciatore argentino, con cui sono in buoni rapporti, così arrivano sicuramente nelle mie mani”. Deve sapere che l’attuale ambasciatore in Vaticano è un vecchio conoscente del papa fin dai tempi in cui era a Buenos Aires. Hanno spesso bevuto mate insieme. Un giorno prima della pubblicazione dell’enciclica, il papa mi ha fatto telefonare per esprimermi i suoi ringraziamenti per il mio aiuto.

Un incontro con il papa però non è ancora in vista?

Ha cercato la riconciliazione con i più importanti rappresentanti della teologia della liberazione, con Gustavo Gutierrez, Jon Sobrino e anche con me. Io gli ho detto, in riferimento a papa Benedetto: “Ma l’altro è ancora in vita!”. Questo non l’ha accettato. “No”, ha detto, “il papa sono io”.

Possiamo star tranquilli.

Lì vede il suo coraggio e la sua fermezza.

Allora perché non è ancora riuscito a fargli visita?

Avevo un invito ed ero anche già atterrato a Roma. Ma proprio quel giorno, subito prima dell’inizio del Sinodo sulla famiglia del 2015, 13 cardinali – tra cui anche il cardinale tedesco Gerhard Müller, prefetto della Congregazione della fede – avevano provato a fare un’insurrezione contro il papa con una lettera indirizzata a lui, ma che poi – miracolo! – è apparsa anche sui giornali. Il papa era furente e mi ha detto: “Boff, non ho tempo. Devo metter pace nel Sinodo. Ci vediamo un’altra volta”.

E la faccenda del metter pace non è che gli sia riuscita…

Il papa sente la durezza del vento contrario nelle sua fila, specialmente dagli USA. Il cardinal Burke, Leo Burke che ora – con il vostro cardinale emerito di Colonia Meisner – ha di nuovo scritto una lettera, è il Donald Trump della Chiesa cattolica. (ride) Ma, a differenza di Trump, ora Burke nella curia non ha più potere. Grazie a Dio. Queste persone pensano effettivamente di dover correggere il papa. Come se stessero al di sopra del papa. È qualcosa di inusuale, anzi senza precedenti nella storia della Chiesa. Si può criticare il papa, discutere con lui. Io l’ho fatto spesso. Ma che dei cardinali accusino pubblicamente il papa di diffusione di errori teologici o di eresie – questo, a mio avviso, è troppo. È un affronto, che il papa non può accettare. Il papa non può essere condannato, è dottrina della Chiesa.

Nonostante tutto il suo entusiasmo per il papa, non si vedono le riforme della Chiesa che molti cattolici avevano sperato da Francesco.

Concretamente non è successo molto… Vede, a mio avviso, il centro del suo interesse non è più la Chiesa, non è più il funzionamento interno, ma la sopravvivenza dell’umanità, il futuro della Terra. Entrambi sono in pericolo, e dobbiamo chiederci se il cristianesimo può dare un suo contributo per superare questa grande crisi, che minaccia di distruggere l’umanità.

Francesco si preoccupa per l’ambiente e lascia che la sua Chiesa vada a sbattere conto un muro?

Credo che per lui ci sia una gerarchia tra i problemi. Se la Terra si distrugge, anche tutti gli altri problemi sono sistemati.

Ma per quanto riguarda le questioni interne alla Chiesa, aspetti! Poco tempo fa il cardinal Water Kasper, che è una persona di fiducia del papa, ha detto che ci saranno presto grandi sorprese. Lei cosa si aspetta?

Chissà! Forse il diaconato femminile. O la possibilità che preti sposati possano essere riammessi nella pastorale. Questa è una espressa richiesta dei vescovi brasiliani al papa, specialmente del suo amico, il cardinale brasiliano Claudio Hummes. Ho sentito che il papa aveva intenzione – inizialmente in una fase sperimentale in Brasile – di dar corso a questa richiesta. Quel paese, con i suoi 140 milioni di cattolici dovrebbe avere almeno 100 000 preti. Ce ne sono invece solo 18 000. Dal punto di vista istituzionale, è una catastrofe. Non meraviglia che i fedeli vadano a frotte dagli evangelicali e dai pentecostali, che non hanno mancanza di personale. Se solo le molte migliaia di preti sposati potessero svolgere ancora il loro compito, sarebbe un grande passo per il miglioramento della situazione – e al contempo un impulso affinché la Chiesa cattolica tolga l’obbligo del celibato.

Se il papa dovesse decidere in questo senso – anche lei, ex frate francescano, potrebbe riprendere la sua funzione di presbitero?

Personalmente non ho bisogno di tale decisione. Per me non cambierebbe niente, perché io fino ad ora faccio ciò che ho sempre fatto: battezzo, celebro funerali e se arrivo in una parrocchia senza prete, celebro la messa con le persone.

È una cosa molto “tedesca” che le chiedo: le è permesso farlo?

Finora, nessun vescovo che io conosca lo ha contestato o proibito. I vescovi ne sono anzi contenti e mi dicono: “Il popolo ha diritto all’eucaristia. Continua tranquillamente così!”. Il mio professore di teologia, il cardinale Paulo Evaristo Arns, purtroppo morto alcuni giorni fa, era ad esempio di grande apertura su questo. Arrivava al punto chiamare all’altare accanto a sé dei preti sposati che vedeva nei banchi e celebrava con loro l’eucaristia. Lo ha fatto spesso e ha detto: “Sono pur sempre preti – e tali rimangono!”.

image_pdfimage_print

il vangelo della domenica commentato da p. Maggi

I PASTORI TROVARONO MARIA E GIUSEPPE E IL BAMBINO

DOPO OTTO GIORNI GLI FU MESSO NOME GESÙ

commento al vangelo della solennità di Maria Santissima Madre di Dio (1 gennaio 2017) di p. Alberto Maggi:

 

Lc 2,16-21

In quel tempo, [i pastori] andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro. Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo.

Il primo giorno del nuovo anno si apre con un augurio, con una buona notizia. E qual è questa notizia, quella che ci porta l’evangelista Luca ? Che quelli che la religione ritiene e considera i più lontani da Dio, in realtà, per Gesù, sono i più vicini al Signore. Sentiamo quello che ci scrive l’evangelista nel capitolo 2 del suo vangelo Luca, nei versetti 16-21. Per comprendere quello che l’evangelista ci sta dicendo, bisogna fare un passo indietro, quando i pastori, i pastori erano considerate persone impure per la loro attività, erano considerati emarginati, erano esclusi come peccatori dalla religione, perché vivevano in una maniera al di fuori della legge, non potevano certo partecipare alle funzioni del tempio o della sinagoga. Si credeva che quando il messia sarebbe arrivato, li avrebbe castigati, li avrebbe puniti. Ebbene quando l’Angelo del Signore, che è Dio stesso quando entra in contatto con gli uomini, si presenta loro, non li incenerisce nella sua ira, ma li avvolge della sua luce, cioè del suo amore. L’evangelista smentisce la dottrina tradizionale di un Dio che premia i buoni e castiga i malvagi. Quando Dio si incontra con i peccatori, non li rimprovera, non li punisce, non li castiga, ma li circonda del suo amore, questo è il fatto che precede. Allora “andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia”. Il figlio di Dio che è stato loro annunciato, non è nato in una reggia, neanche in un tempio, ma nella loro condizione, che loro conoscono. “E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro”. Che cos’era stato detto loro dall’Angelo del Signore ? L’Angelo del Signore aveva comunicato loro una grande gioia per la nascita del salvatore, quindi non l’arrivo del giustiziere, quello che premiava i buoni e castigava i malvagi, ma del salvatore, e questa buona notizia sarebbe stata per tutto il popolo. È strano che, da parte di quelli che ascoltano, non c’è nessuna reazione di gioia di fronte questa notizia, ma soltanto sconcerto. Scrive Luca: “Tutti quelli che udivano si stupirono”, cioè si sconcertano, c’è qualcosa che non quadra, perché, nella dottrina tradizionale, Dio castiga i peccatori. Come fanno a dire queste persone che sono peccatori, impure, che Dio li ha circondati, li ha  avvolti del suo amore ?  Quindi sono sconvolti dalle cose dette loro dai pastori. Crolla quello che la religione insegnava loro di Dio: è la novità, è lo scandalo della misericordia, che sarà il filo conduttore di tutto il vangelo di Luca. “Maria, da parte sua”, quindi anche Maria si è stupita, si è sconcertata di questa novità, “Maria, da
parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole”, esattamente esaminandole, interpretandole, il verbo adoperato dall’evangelista indica cercare il vero senso di qualcosa, “nel suo cuore”. Maria anche è sconcertata da questa novità, perché non corrisponde a quello che la religione ha sempre insegnato, ma lei non lo rifiuta, incomincia a pensarci, incomincia a rifletterci. E l’evangelista dà l’avvio alla crescita grande di Maria, che poi la porterà fino presso la croce del figlio. Maria è grande non tanto per aver dato alla luce Gesù, per esserne la madre, ma per aver avuto il coraggio di seguirlo e diventarne la discepola. “I pastori se ne tornarono”, per comprendere quello che l’evangelista ora ci dice, che è clamoroso straordinario, sensazionale, bisogna rifarsi nella cultura dell’epoca, dove in un libro, il primo libro di Enoch, si presenta Dio nell’alto dei cieli, separato dagli uomini, attorno a lui ci sono sette angeli, chiamati gli angeli del servizio. Che cosa fanno questi sette angeli privilegiati che sono i più vicini a Dio ? Hanno il privilegio di glorificare e lodare Dio in continuazione. Ebbene l’evangelista ci dice che i pastori “se ne tornarono, glorificando e lodando Dio”. Quelli che la religione e la società considerava i più lontani, i più esclusi da Dio, una volta che hanno sperimentato l’amore di Dio, sono i più vicini a Dio, esattamente come i sette angeli del servizio, “per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro”. Ma questo piano divino incontra però la resistenza degli uomini: la novità portata da Gesù farà fatica ad essere accolta. Allora l’evangelista ci scrive che “quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione”, vanno a circoncidere Gesù. Intendono fare figlio di Abramo quello che era stato annunziato come il figlio dell’Altissimo. Quindi c’è ancora l’attaccamento alla legge, alla tradizione e farà fatica lo Spirito ad entrare, a far fiorire, ma senz’altro ce la farà. “gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo”, e poi vedremo come Gesù metterà in crisi questa coppia di genitori, perché loro si aspettano che Gesù segua le orme dei padri, invece Gesù seguirà il Padre.

image_pdfimage_print

la felicità secondo papa Francesco

i commoventi auguri di papa Francesco

 

“Mi piacerebbe che ricordassi che essere felice, non è avere un cielo senza tempeste, una strada senza incidenti stradali, lavoro senza fatica, relazioni senza delusioni.

Essere felici è trovare forza nel perdono, speranza nelle battaglie, sicurezza sul palcoscenico della paura, amore nei disaccordi.

Essere felici non è solo apprezzare il sorriso, ma anche riflettere sulla tristezza. Non è solo celebrare i successi, ma apprendere lezioni dai fallimenti. Non è solo sentirsi allegri con gli applausi, ma essere allegri nell’anonimato.

Essere felici è riconoscere che vale la pena vivere la vita, nonostante tutte le sfide, incomprensioni e periodi di crisi.

Essere felici non è una fatalità del destino, ma una conquista per coloro che sono in grado viaggiare dentro il proprio essere.

Essere felici è smettere di sentirsi vittima dei problemi e diventare attore della propria storia. È attraversare deserti fuori di sé, ma essere in grado di trovare un’oasi nei recessi della nostra anima. È ringraziare Dio ogni mattina per il miracolo della vita.

Essere felici non è avere paura dei propri sentimenti. È saper parlare di sé. È aver coraggio per ascoltare un “No”. È sentirsi sicuri nel ricevere una critica, anche se ingiusta. È baciare i figli, coccolare i genitori, vivere momenti poetici con gli amici, anche se ci feriscono.

Essere felici è lasciar vivere la creatura che vive in ognuno di noi, libera, gioiosa e semplice.

È aver la maturità per poter dire: “Mi sono sbagliato”. È avere il coraggio di dire: “Perdonami”. È avere la sensibilità per esprimere: “Ho bisogno di te”. È avere la capacità di dire: “Ti amo”.

Che la tua vita diventi un giardino di opportunità per essere felice … Che nelle tue primavere sii amante della gioia. Che nei tuoi inverni sii amico della saggezza. E che quando sbagli strada, inizi tutto daccapo. Poiché così sarai più appassionato per la vita …


E scoprirai che essere felice non è avere una vita perfetta. Ma usare le lacrime per irrigare la tolleranza. Utilizzare le perdite per affinare la pazienza. Utilizzare gli errori per scolpire la serenità. Utilizzare il dolore per lapidare il piacere. Utilizzare gli ostacoli per aprire le finestre dell’intelligenza. Non mollare mai …. Non rinunciare mai alle persone che ami. Non rinunciare mai alla felicità, poiché la vita è uno spettacolo incredibile!”

image_pdfimage_print

il natale dà le vertigini …

la vertigine di Betlemme

l’Onnipotente in un neonato

di Ermes Ronchi
in “Avvenire”

Questo per voi il segno: troverete un bambino: «Tutti vogliono crescere nel mondo, ogni bambino vuole essere uomo. Ogni uomo vuole essere re. Ogni re vuole essere “dio”. Solo Dio vuole essere bambino» (Leonardo Boff).

Dio nella piccolezza: è questa la forza dirompente del Natale. L’uomo vuole salire, comandare, prendere. Dio invece vuole scendere, servire, dare. È il nuovo ordinamento delle cose e del cuore. C’erano là alcuni pastori. Una nuvola di ali, di canto e di parole felici li avvolge: Non temete! Dio non deve fare paura, mai. Se fa paura non è Dio colui che bussa alla tua vita. Dio si disarma in un neonato. Natale è il corteggiamento di Dio che ci seduce con un bambino. Chi è Dio? «Dio è un bacio», caduto sulla terra a Natale (Benedetto Calati). Vi annuncio una grande gioia: la felicità non è un miraggio, è possibile e vicina. E sarà per tutto il popolo: una gioia possibile a tutti, ma proprio tutti, anche per la persona più ferita e piena di difetti, non solo per i più bravi o i più seri. Ed ecco la chiave e la sorgente delle felicità: Oggi vi è nato un salvatore. Dio venuto a portare non tanto il perdono, ma molto di più; venuto a portare se stesso, luce nel buio, fiamma nel freddo, amore dentro il disamore. Venuto a portare il cromosoma divino nel respiro di ogni uomo e di ogni donna. La vita stessa di Dio in me. Sintesi ultima del Natale. Vertigine.

E sulla terra pace agli uomini: ci può essere pace, anzi ci sarà di sicuro. I violenti la distruggono, ma la pace tornerà, come una primavera che non si lascia sgomentare dagli inverni della storia. Agli uomini che egli ama: tutti, così come siamo, per quello che siamo, buoni e meno buoni, amati per sempre; a uno a uno, teneramente, senza rimpianti amati (Marina Marcolini). È così bello che Luca prenda nota di questa unica visita, un gruppo di pastori, odorosi di lana e di latte. È bello per tutti i poveri, gli ultimi, gli anonimi, i dimenticati. Dio ricomincia da loro. Natale è anche una festa drammatica: per loro non c’era posto nell’alloggio. Dio entra nel mondo dal punto più basso, in fila con tutti gli esclusi. Come scrive padre Turoldo, Dio si è fatto uomo per imparare a piangere. Per navigare con noi in questo fiume di lacrime, fino a che la sua e nostra vita siano un fiume solo. Gesù è il pianto di Dio fatto carne. Allora prego: Mio Dio, mio Dio bambino, povero come l’amore, piccolo come un piccolo d’uomo, umile come la paglia dove sei nato, mio piccolo Dio che impari a vivere questa nostra stessa vita. Mio Dio incapace di aggredire e di fare del male, che vivi soltanto se sei amato, insegnami che non c’è altro senso per noi, non c’è altro destino che diventare come Te.

image_pdfimage_print

auguri come bastonate di papa Francesco ai cardinali della curia romana

«menti distorte», il papa striglia la Curia romana

di Luca Kocci
in “il manifesto”

Gattopardi, «menti distorte», «cuori impietriti»: se ne sono sentiti dire di tutti i colori i cardinali della Curia romana, convocati ieri da papa Francesco nel Palazzo apostolico vaticano per i tradizionali auguri natalizi. Ma invece delle parole soavi che solitamente si accompagnano al «buon Natale», Francesco ha impugnato la clava e ha colto l’occasione per denunciare e bastonare le resistenze – e i resistenti – alla riforma della Curia

«La logica del Natale è il capovolgimento della logica mondana, della logica del potere, del comando, della logica fariseistica», pertanto «ho scelto come argomento di questo nostro incontro annuale la riforma della Curia romana»

Non è la prima volta che Bergoglio utilizza l’appuntamento degli auguri alla Curia per parlare chiaro ai cardinali. Fece scalpore – anche perché fu il primo – il discorso del Natale 2014 sulle «quindici malattie» della Curia: potere, accumulazione di beni materiali, rivalità, carrierismo, opportunismo, ipocrisia, adulazione, indifferenza e via elencando. Il discorso di ieri non è stato meno forte. «La riforma sarà efficace solo se si attua con uomini “rinnovati” e non semplicemente con “nuovi” uomini», ha detto Francesco, non solo «con il cambiamento delle persone, che senz’altro avviene e avverrà, ma con la conversione nelle persone», perché «senza un mutamento di mentalità lo sforzo funzionale risulterebbe vano». Che in questo percorso vi siano delle «resistenze» è «normale, anzi salutare», ha aggiunto Francesco, che usa il bastone ma non rinuncia allo zuccherino. Quali resistenze? Le più sane sono «le resistenze aperte, che nascono spesso dalla buona volontà e dal dialogo sincero». Poi però ci sono quelle più diffuse nei sacri palazzi, «le resistenze nascoste, che nascono dai cuori impauriti o impietriti che si alimentano dalle parole vuote del “gattopardismo” spirituale di chi a parole si dice pronto al cambiamento, ma vuole che tutto resti come prima»; e «le resistenze malevole, che germogliano in menti distorte e si presentano quando il demonio ispira intenzioni cattive (spesso “in veste di agnelli”)». Facile pensare ad eventi recenti: i “corvi”, la fuga di documenti riservati dalle stanze vaticane (il Vatileaks), le false notizie lanciate a mezzo stampa (Bergoglio malato di tumore al cervello, quindi “fuori di testa”). Ci sarebbe da discutere su quanto siano state incisive e profonde le riforme di papa Francesco, che hanno ristrutturato ma non ricostruito l’edificio curiale: Ior più trasparente (ma ben saldo al proprio posto); maggior controllo sulle strutture finanziare vaticane; accorpamento e creazione di nuovi dicasteri (come la Segreteria per l’economia, affidata però al controverso cardinale Pell, e la Segreteria per la Comunicazione, per centralizzare i media vaticani); norme più severe contro i vescovi che coprono i preti pedofili; alcuni aggiornamenti pastorali e disciplinari, come la semplificazione delle procedure per la dichiarazione di nullità dei matrimoni, la possibilità di accesso ai sacramenti per i divorziati risposati distinguendo i singoli casi, la facoltà a tutti i preti di assolvere dal peccato di aborto. Anche se la cautela potrebbe essere imputata proprio alle resistenze incontrate, che evidentemente Francesco non vuole “asfaltare”. La prospettiva sembra chiara, perlomeno nelle dichiarazioni: la riforma non è un «lifting» o «un’operazione di chirurgia plastica per togliere le rughe», ha detto il papa ai cardinali, «non sono le rughe che nella Chiesa si devono temere, ma le macchie!». Dopo questo discorso, si vedrà come Francesco andrà avanti.

image_pdfimage_print

il commento di p. Maggi al vangelo di natale

IL VERBO SI FECE CARNE E VENNE AD ABITARE IN MEZZO A NOI

commento al vangelo del giorno di natale (25 dicembre 2016) di p. Alberto Maggi:

Gv 1,1-18

In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità. Giovanni gli dà testimonianza e proclama:  «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me». Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.


La liturgia di questa domenica ci presenta il prologo al vangelo di Giovanni. Il prologo sono i primi 18 versetti del suo vangelo, nei quali l’evangelista riassume ed anticipa tutto il suo vangelo, ogni singola parola di questo prologo poi sarà sviluppata. Ebbene l’evangelista inizia correggendo la scrittura, e termina smentendo. Infatti inizia il suo vangelo scrivendo: “In principio era il Verbo”, il verbo significa la parola, è una parola creatrice, che realizza il progetto di Dio nella creazione, “era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”. L’evangelista corregge l’interpretazione biblica nel libro della Genesi, il primo libro con il quale si apre la Bibbia, dove c’è scritto: “In principio Dio creò il cielo e la terra”. Per l’evangelista Dio, prima ancora di creare il cielo e la terra, aveva questo progetto, che ha voluto che si realizzasse. Ma non solo: usando la parola, il termine “Verbo”, cioè parola, l’evangelista contrappone alla tradizione biblica, che diceva che il mondo era stato creato in vista delle dieci parole, cioè il decalogo, no, c’è un’unica parola che si manifesterà in questo vangelo, in un unico comandamento, quello di Gesù: “amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amato”. Se l’evangelista inizia correggendo la scrittura, conclude il suo prologo smentendola. Infatti scrive al versetto 18, in maniera perentoria: “Dio, nessuno lo ha mai visto”. Ma come può l’evangelista affermare una cosa del genere ? Eppure nella Bibbia si legge che Mosè, Aronne e altri 70 anziani hanno visto Dio. L’evangelista non è d’accordo: hanno avuto esperienze parziali, e pertanto la legge che esprimono, che esprime Mosè, non può manifestare la pienezza della volontà di Dio. Quindi l’evangelista è lapidario: “Dio, nessuno l’ha mai visto”. “Il figlio unigenito che è Dio ed è nel seno”, nel seno significa nella piena intimità, “del Padre, è lui che lo ha rivelato”. È importante questa affermazione: per l’evangelista Gesù non è come Dio, ma Dio è come Gesù. Tutto quello che noi credevamo di sapere, che c’è stato insegnato su Dio, ora va verificato con quello che vediamo in Gesù in questo vangelo. Tutto quello che corrisponde, coincide, va mantenuto, ma tutto quello che si distanzia o addirittura gli è contraddittorio, va eliminato. Quando, in questo vangelo, nel capitolo 14, uno dei discepoli, Filippo, chiederà a Gesù: “mostraci il Padre e ci basta”, Gesù risponderà: “chi ha visto me ha visto il Padre”. Quindi Gesù non è come Dio, ma Dio è come Gesù. Quindi l’evangelista conclude il suo prologo con un invito a centrare tutta l’attenzione sulla figura di Gesù. Ebbene, andando a ritroso, in questo prologo, l’evangelista afferma: “Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità”, un’espressione che indica l’amore generoso, l’amore fedele che si fa dono, “vennero per mezzo di Gesù”. Gesù, che è l’unica vera manifestazione di Dio, inaugura una nuova relazione con Dio: mentre Mosè, il servo di Dio, aveva imposto una legge tra dei servi e il loro signore, basata sull’obbedienza della legge, Gesù, che non è il servo di Dio, Lui è il figlio di Dio, propone un’alleanza tra dei figli e il loro padre, non più basata sull’obbedienza della
legge, ma sull’accoglienza e la pratica del suo amore. E, andando sempre a ritroso in questo prologo per comprenderlo, “Dalla sua pienezza”, dalla realizzazione di questa parola in Gesù, “noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia”. Ecco la dinamica della vita del credente, della comunità cristiana: è un amore che alimenta amore, amore comunicato, che si trasforma poi in amore donato. E il versetto più importante, posto proprio al centro di questo prologo, è il versetto 12, dove prima l’evangelista aveva  scritto: “Venne tra i suoi” questo progetto, questa realtà, “e i suoi non l’hanno accolto”, non è una polemica con un mondo dal quale la comunità cristiana si è ormai allontanata, ma è un monito di stare attenti di non commettere gli stessi errori, che, quando Dio si presenta, e si presenta sempre in forme nuove, in nome del Dio del passato non si riconosce il Dio che viene. Ma ecco il versetto più importante posto al centro: “A quanti però lo hanno accolto”, questo progetto di Dio che si manifesta in Gesù, “ha dato il potere di diventare figli di Dio”. Figli di Dio non si nasce, ma lo si diventa, si diventa accogliendo Gesù nella propria esistenza, e imitandolo nel suo amore. Con Gesù, Dio non è più da cercare, ma da accogliere. Con Gesù l’uomo non vive più per Dio, ma vive di Dio, e con Lui e come Lui va verso gli altri. E al versetto 14 l’evangelista afferma, e questo progetto “si è fatto carne”, si è realizzato nella debolezza della umanità, “e venne ad abitare in noi”, non significa soltanto venne ad abitare in mezzo a noi, ma in noi. Con Gesù, Dio chiede ad ogni persona di essere accolto nella sua vita, per fondersi con Lui, dilatare la sua capacità d’amare e renderlo l’unico vero santuario nel quale s’irradia il suo amore e la sua misericordia. Mentre nell’antico santuario erano le persone che dovevano andare, e non tutti avevano l’accesso, nel nuovo santuario è questo santuario che va verso gli ultimi, che va verso gli esclusi. Il fatto che questo progetto di Dio si manifesta nella carne, nella debolezza della carne, indica che non esiste dono di Dio che non passi attraverso l’umanità: più si è umani, e più si manifesta il divino che è in noi. Allora ritornando all’inizio del prologo, abbiamo fatto un po’ un zig-zag perché è molto lungo, ma per comprenderne il significato, ecco che comprendiamo quello che l’evangelista voleva dire: fin dall’inizio c’era questo progetto, questo progetto di Dio, una parola che s’incarna, si manifesta la condizione divina, e, in questo progetto, scrive l’evangelista, “era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno vinta”. Ecco il grande incoraggiamento che l’evangelista ci dà: bisogna accogliere questo amore di Dio e manifestarlo. Non bisogna combattere le tenebre, non bisogna sprecare energie per combattere, ma la luce si deve espandere. Nella misura che la luce si espande, ecco che le tenebre se ne vanno. Questa  idea che poi girerà in tutto il vangelo, poi verrà formulata da Gesù, pochi istanti prima di essere arrestato, quando Gesù dirà: “Coraggio io ho vinto il mondo”. Coloro che si pongono a fianco della verità della luce, dell’amore, saranno sempre i vincitori sulla tenebra, sull’odio e sulla morte.

image_pdfimage_print

per l’ONU l’Italia discrimina i rom

ora lo dice anche l’Onu

‘le comunità rom in Italia sono discriminate’

Ora lo dice anche l’Onu: ‘Le comunità rom in Italia sono discriminate’
Profilo blogger

Presidente Associazione 21 luglio
In Italia continua le segregazione abitativa dei rom: non solo si registrano sgomberi illegali, ma le autorità proseguono nella costruzione di aree isolate e realizzate su base etnica. Insomma, la Strategia nazionale per l’inclusione dei Rom è solo un elenco di belle intenzioni. A dirlo non sono organizzazioni di settore, centri sociali o attivisti vicini alla sinistra. Lo certifica piuttosto il più antico e autorevole Comitato della Nazioni unite quando, “tirando le orecchie” al governo denuncia a chiare lettere: le comunità rom in Italia sono discriminate.E’ proprio in materia di discriminazione verso le comunità rom che il Palazzo di Vetro esprime la sua più profonda preoccupazione e condanna nei confronti delle azioni promosse dal governo italiano e dalle amministrazioni locali chiedendo con urgenza interventi concreti volti a ricondurle all’interno dei valori fondamentali riportati nella Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale redatta il 21 dicembre 1965.

 

Gli Stati che hanno sottoscritto la Convenzione, 177 tra i quali l’Italia, si sono infatti formalmente impegnati a perseguire con tutti i mezzi adeguati una politica nazionale tesa a eliminare ogni forma di discriminazione fondata sull’etnia e, come organismo di sorveglianza, le Nazioni unite hanno creato il Cerd, il Comitato per l’eliminazione della discriminazione razziale (Committee on the elimination of racial discrimination) che da quasi 40 anni vigila sull’osservanza della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale.

Periodicamente gli Stati firmatari devono rendere conto ai loro cittadini e all’opinione pubblica mondiale in merito alla concretizzazione, all’interno del proprio Paese, dei valori fondamentali della Convenzione e sottoporsi a un esame critico. Ogni Stato è tenuto a presentare rapporti all’interno dei quali dettagliare i provvedimenti legislativi, giudiziari, amministrativi presi illustrando la situazione del Paese in materia di discriminazione. Il Comitato esamina periodicamente i rapporti presentati accogliendo anche i “rapporti ombra” di organizzazioni indipendenti che spesso presentano quadri e descrivono scenari sensibilmente difformi da quelli illustrati dai governi nazionali.

 

Quest’anno è stata la volta dell’Italia e il Comitato, riguardo la cosiddetta “questione rom” non ha fatto sconti, recependo buona parte delle informazioni inviate dalle diverse organizzazioni, in primis quelle di Associazione 21 luglio.

Le preoccupazioni del Comitato investono tre ambiti fondamentali: la pratica degli sgomberi forzati che ha un impatto particolarmente negativo sulla continuità scolastica dei bambini; il fatto che molte comunità rom continuino a vivere in baraccopoli segreganti e in spazi abitativi distanti dai servizi essenziali e al di sotto degli standard; la volontà espressa da alcune amministrazioni locali interessate a progettare e creare nuovi insediamenti per soli rom.

Non è una novità che gli sgomberi forzati registrati negli ultimi tre anni nelle città di Milano e Roma – azioni di “bonifica” preparatorie ai grandi eventi di Expo e del Giubileo della Misericordia – abbiano raggiunto, per intensità e modalità operative gli stessi picchi segnalati durante il triennio della cosiddetta “emergenza nomadi”.

Non lo è neanche che in Italia siano almeno 20.000 i rom presenti negli insediamenti istituzionali, realizzati e gestiti con denaro pubblico. Stupisce invece come, anche dopo le inchieste di Mafia Capitale, alcune città, prima fra tutte la Capitale, continuino a perseverare nella costruzione di nuovi ghetti etnici (chiamati nelle forme più bucoliche e soft), ormai certificati come “buchi neri” dove le risorse economiche, così come i diritti fondamentali, vengono inghiottiti nella vergognosa macchina messa su dalle amministrazioni.

Ma il Cerd non si limita a formulare preoccupazioni. Questa volta va oltre indicando precise linee guida alle quali il governo italiano dovrà dare conto fra 12 mesi: fermare subito gli sgomberi forzati, arrestare ogni costruzione di nuovi “campi per soli rom”, assicurare ai minori rom un’istruzione di qualità e un’accessibilità all’istituzione scolastica, rivitalizzare la Strategia nazionale per l’inclusione dei rom.

La strada è tracciata. Si tratta solo di seguirla. Del resto si sa, volenti o nolenti il trattamento che le istituzioni riservano alle comunità rom in condizione di povertà, rappresenta – insieme ad altri – il termometro che misura il nostro livello di democrazia e civiltà.

image_pdfimage_print

a Venezia si vorrebbe creare un ghetto dei poveri per nasconderli dal resto della città

Venezia vuole nascondere i poveri

“Spostiamo le mense dal centro”

di Lorenzo Padovan
in “La Stampa”

Il Chilometro della cultura da una parte, la «Cittadella della povertà» dall’altra. In mezzo, una città, Mestre, da sempre sorellastra di Venezia, che si interroga sul proprio futuro e assiste allo scontro tra il sindaco Luigi Brugnaro e il Patriarca Francesco Moraglia sulla collocazione delle mense per gli indigenti, ora a due passi dalla zona dello strùscio.

A Mestre una serie di iniziative promozionali sta faticosamente cercando di garantire nuova linfa e opportunità socio-culturali ad un centro perennemente offuscato dalla Perla della laguna. È stato il vulcanico primo cittadino Brugnaro a lanciare la provocazione: «Spostiamo le tre mense che sono ricettacolo di disperazione: dobbiamo armonizzare la presenza di queste persone, liberando quell’area, comunque centrale, da un assembramento ormai insostenibile. Non solo refettori, ma ipotizziamo anche altri servizi complementari. Insomma, una “Cittadella della povertà” che concentri le opportunità per i senza tetto e offra solidarietà, non a scapito dei residenti». Un esercito di clochard che conta su almeno 200 unità: italiani e stranieri, con contaminazioni della delinquenza comune, che nel degrado sguazza e camuffa meglio i propri affari loschi.

Nessuna indicazione sull’ubicazione del «Quartiere dei poveri», ma numerosi indizi lo collocherebbero nei pressi del nuovo ospedale dell’Angelo. Peccato che le strutture in odore di trasloco siano di proprietà della Diocesi, che ha subito intimato l’altolà al progetto: «Sono rimasto un po’ sorpreso da questa iniziativa che immagino abbia buone intenzioni – è il pensiero del Patriarca di Venezia Moraglia -. Portare tutto in un luogo deputato alla carità, quasi come se ci fossero barriere divisive all’interno della comunità civica-sociale, non è solo nascondere la verità, è creare una disparità tra una società che crede di aver eliminato la sofferenza e una realtà che, per i suoi bisogni primari, vive ai suoi margini e la vede come un mondo proibito».
C’è apertura al dialogo, ma nessun preludio ad accordi che possano anche solo minimamente portare al rischio di ghettizzazione dei senzatetto: «Una riorganizzazione delle mense ci vede favorevoli, per scongiurare difficoltà anche a chi vive nel quotidiano», ha sottolineato il presule. Ma ha aggiunto: «Nello stesso tempo, dobbiamo prendere atto che la società è un corpo che comunica tra i suoi membri. Ci sono ricchezza, povertà, bambini, nonni, adulti, sani e malati e bisogna cercare, nel rispetto, di offrire servizi migliori a tutti, rimanendo attenti all’uomo concreto, alle sue stagioni e sofferenze».

Se la Chiesa stoppa il Comune, l’idea di Brugnaro – che a Mestre ha il suo feudo elettorale – è stata accolta dai residenti come un principio rivoluzionario: «Abito in zona da 50 anni – fa sapere Luciano Niero, portavoce del Comitato di via Querini, che già dieci anni fa chiese, invano, un intervento all’allora sindaco Massimo Cacciari -, ma adesso siamo al limite. Non si può uscire di casa senza imbattersi in chi urina sulla soglia, defeca sullo zerbino, bivacca per ore avvolto in qualche straccio. Nessuno più investe nel quartiere e le attività commerciali stanno scomparendo. Le parole del Patriarca mi sorprendono perché nel nobile sentimento della carità cristiana non ci sentiamo ricompresi: tutti protesi a stare vicini agli ultimi, ci si scorda dei cittadini invisibili che vivono una sofferenza silenziosa, in un’area che di fatto non è più casa loro».

image_pdfimage_print

i bambini siriani nati sotto le bombe invidiano Gesù Bambino che ha la fortuna di nascere in una grotta

il grido di Samir Nassar arcivescovo maronita di Damasco:

“il bambino Gesù ha molti compagni in Siria”

di Paolo Affatato
in “La Stampa-Vatican Insider”

«Il rumore infernale della guerra soffoca il canto di Gloria degli angeli. La sinfonia angelica del Natale lascia il posto all’odio, a crudeli atrocità compiute nell’indifferenza globale. Oggi chiediamo all’Emmanuele, al Dio-con-noi, di portare, con la sua grazia, i doni di cui la Siria ha urgente bisogno: la pace, il perdono e la compassione»

è l’appello di Samir Nassar, arcivescovo di maronita di Damasco che, in vista del Natale, torna a chiedere a tutti gli attori sul campo e alla comunità internazionale un serio impegno per pacificare la nazione siriana. Di fronte all’ondata di attacchi terroristici che hanno colpito nuovamente anche l’Europa e la Turchia, il vescovo Nassar ricorda a Vatican Insider che

«dopo cinque anni di guerra, la popolazione in Siria condivide il destino di tutti coloro che soffrono e vivrà un altro Natale in preda al disagio, all’assenza di cibo, al freddo, in condizione di indigenza e povertà, tra lutto e sofferenza, mentre il paese è ancora devastato dalla violenza».

«Il bambino Gesù ha molti compagni in Siria. Milioni di bambini non hanno più casa e vivono senza riparo, in tende o in alloggi di fortuna, proprio come la stalla di Betlemme. Gesù non è solo nella sua miseria. I bambini siriani, abbandonati, orfani e psicologicamente devastati dalle scene di violenza che hanno provato e visto, vorrebbero tanto essere al posto di Gesù, perché il Cristo almeno ha sempre i suoi genitori. Questa amarezza si vede nei loro occhi, nello loro lacrime e nel loro mortificante silenzio»

racconta con parole accorate il vescovo maronita.

«Molti bambini siriani invidiano Gesù  perché Lui ha trovato almeno un posto umile per nascere e un riparo, mentre alcuni di loro sono nati sotto le bombe o durante un esodo che li ha portati lontano dalla loro patria».

Anche le donne siriane si identificano con la Vergine Maria:

«Ci sono in Siria tante madri in difficoltà: madri sfortunate che vivono in condizioni di estrema povertà, costrette ad assolvere ai doveri familiari da sole, senza i loro mariti, morti o dispersi. Donne che cercano in Cristo un po’ di consolazione. Quando guardano alla Sacra Famiglia e vedono la presenza rassicurante di Giuseppe, queste madri piangono per le loro famiglie prive di un padre: questa assenza alimenta paura, ansia e preoccupazione».
«Allo stesso modo gli uomini, disoccupati o stremati dalla fatica di cercare il sostentamento per i loro cari, vedono in san Giuseppe un uomo che ha saputo prendersi cura della sua famiglia, nel momento del bisogno, della fame e del pericolo, anche fuggendo, in un viaggio da profughi, in Egitto», rileva Nassar, continuando nell’immagine di un moderno «presepe siriano».

Anche i pastori e le loro greggi

«parlano dei pastori siriani che hanno perso il loro bestiame in questa guerra» e «perfino i cani dei pastori simpatizzano per la sorte degli animali domestici in Siria, che vagano tra le rovine e si nutrono di brandelli di cadaveri o di spazzatura».

Lo scorso anno la comunità cattolica maronita ha ricevuto il dono di una nuova chiesa, sorta nel quartiere di Kachkoul, alla periferia est di Damasco, e intitolata ai Beati Fratelli Massabki, martiri della capitale siriana, uccisi nel 1860. Quello è stato «un autentico dono del Natale: un’oasi di preghiera e un segno di gioia e di speranza in mezzo a un mondo di violenza, di intolleranza e di paura», ricorda il vescovo. Oggi per la popolazione provata dal conflitto, dalla precarietà e dalla violenza «la luce di Cristo è l’unica che porta consolazione e speranza. La sua vicinanza all’umanità, espressa nel mistero dell’Incarnazione, infonde il coraggio di vincere la morte e la fiducia in un futuro fatto di pace, perdono e compassione», nota.
Quella pace che i battezzati siriani, nelle loro celebrazioni natalizie, in chiese che saranno affollate nonostante i pericoli e i bombardamenti, invocano e auspicano anche per il Medio Oriente e per l’Europa, oggi segnata da nuovi atti di tragica violenza sui civili inermi: «La nostra comunità, ferita dalla sofferenza, sta imparando, con l’azione della grazia di Dio, a trarre il bene anche dal male, sperimentando ogni giorno compassione e solidarietà verso il prossimo». Uno spirito che può essere di esempio per tutti i cristiani, a tutte le latitudini.

image_pdfimage_print
image_pdfimage_print

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fonire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o clicchi su "Accetta" permetti al loro utilizzo.

Chiudi